Star Trek Keter Vol. IV: La Regina del Sole

di Parmandil
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Gli Archivi D'Arsay ***
Capitolo 3: *** Il marchio di Masaka ***
Capitolo 4: *** Un tuffo nel passato ***
Capitolo 5: *** Il mondo conteso ***
Capitolo 6: *** Sotto un nuovo sole ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Star Trek Keter Vol. IV:

La Regina del Sole

 

SPAZIO, ULTIMA FRONTIERA.

QUESTI SONO I VIAGGI DELLA

NAVE STELLARE KETER.

LA SUA MISSIONE È DIFENDERE

GLI ACCORDI TEMPORALI

E L’UNIONE GALATTICA,

CON OGNI MEZZO NECESSARIO.

QUANDO UNA MINACCIA ELUDE

LE CONTROMISURE TRADIZIONALI,

LA KETER ENTRA IN AZIONE.

 

 

-Prologo:

87 milioni di anni fa

Luogo: Città di Masaka, antica D’Arsay

 

   La piramide a gradoni era di gran lunga l’edificio più imponente della città. Di giorno faceva ombra a interi quartieri. Di notte, come adesso, era una scura presenza che nascondeva le stelle. Ma in quel momento era illuminata da migliaia di fiaccole allineate lungo i bordi, che ne disegnavano i contorni. Una grande scalinata collegava i quattro gradoni, ora sdoppiandosi e ora fondendosi in un solo percorso, fino al tempio in sommità. Il Tempio di Masaka era interamente rivestito da una lamina d’oro. Aveva un ingresso monumentale, contornato da bracieri e chiuso da una tenda, anch’essa dorata.

   Nella notte, la piramide orlata di fuoco era l’unica parte illuminata della città e pareva galleggiare su un mare di tenebre. Il fumo che saliva da bracieri e fiaccole era pervaso da scintille e bagliori rossastri, che si riflettevano sulle pareti auree del tempio. In quella luce sanguigna e irreale apparvero i sacerdoti, col volto nascosto da maschere e i corpi scheletrici coperti da pitture, tatuaggi, scarificazioni rituali. Alcuni agitavano bastoni pieni di sonagli, altri battevano ossessivamente sui tamburelli; tutti danzavano in cerchio intorno all’altare. Questo sorgeva sul gradone più alto, davanti alla scalinata, così che il popolo D’Arsay assiepato innanzi alla piramide potesse assistere al rito.

   «Masaka... Masaka... Masaka...». Quel nome, scandito dai sacerdoti, fu ripetuto da tutta la folla. Il rullo dei tamburi divenne sempre più incalzante, come il ritmo della danza. Anche il nome fu invocato a voce più alta e rapida, finché venne urlato a squarciagola. Nella luce mutevole delle torce i volti erano sempre più congestionati, le fronti sudate, gli occhi sbarrati. D’un tratto si udì il rintocco di un gong e tutti tacquero. Anche i sacerdoti interruppero le loro evoluzioni, come pietrificandosi. Un surreale silenzio calò sulla cerimonia.

   Fu allora che due guardie, imponenti e coperte di tatuaggi, trascinarono la vittima all’altare. Era una donna, che strillava e si dimenava furiosamente nel tentativo di liberarsi. I suoi sforzi erano così energici che i guardiani dovevano mettercela tutta per non farla scappare. Come tutti i presenti, la donna era priva di sopracciglia e aveva l’attaccatura dei capelli molto arretrata, a evidenziare la fronte bombata. Era anche ornata per il sacrificio. Sulle palpebre e intorno agli occhi aveva un trucco rosso squillante, che evidenziava lo sguardo. Indossava un gonnellino e un reggiseno a fascia, oltre ad essere sovraccarica di gioielli: collane, bracciali e braccialetti, anelli, cavigliere. Gli ornamenti erano d’oro, ulteriormente impreziositi da giada e turchesi; tintinnavano a ogni strattone. Tra i capelli scuri erano intrecciate le piume variopinte di uccelli esotici.

   «Lasciatemi, brutti invasati!» strepitò la donna. «Cosa credete di fare, eh? Volete la pioggia, volete un buon raccolto? Uccidermi non servirà a niente!».

   «Taci!» intimò il Sommo Sacerdote, col viso celato da un’inquietante maschera. Vi compariva lo stesso simbolo impresso sull’altare e sul frontone del tempio: un cerchio contornato da otto raggi, riuniti due a due a indicare i punti cardinali. Era il marchio di Masaka, che i sacerdoti – e anche molti popolani – portavano impresso sulla fronte.

   Il Sommo Sacerdote attese mentre le guardie legavano la donna all’altare, immobilizzandole tutti e quattro gli arti. Quando fu ben certo che era bloccata, le si avvicinò. «Masaka concede e Masaka prende» disse con voce stentorea. «Il tuo sacrificio contribuirà a placarla, rinnovando il ciclo della vita. Sii onorata di ripagare in modo così perfetto il debito che contraesti nascendo».

   «Io non credo nella vostra dea!» urlò la vittima, con voce così alta e squillante che anche la folla assiepata a terra la udì chiaramente. «Non credo nei sacrifici!» aggiunse con voce rotta.

   «Sacrilegio!» tuonò il Sommo Sacerdote, alzando le mani. «Come osi rinnegare il sacro nome di Masaka, nostra creatrice e distruttrice? Pentiti e abiura ciò che hai detto, nel breve tempo che ti resta, prima d’incontrare la dea!».

   «Io non abiuro un bel niente!» gridò la donna. «Sono una guaritrice... credo nel preservare la vita, non nel distruggerla. Qualunque cosa speriate d’ottenere con questo rito barbaro, non l’avrete».

   «Rinneghi forse gli dèi? Rinneghi Uxmal l’Antico, Masaka la Fulgida, Korgano il Cacciatore, Ihat il Fuggiasco...?».

   «Da dove vengo io, questi nomi non significano niente!» rispose la vittima.

   «E da dove vieni?» l’apostrofò il Sacerdote. «Certo non da un luogo illuminato dal sole!».

   «Non il vostro sole» fu l’enigmatica risposta.

   «Che significa? Sei forse un demone delle Tenebre Esterne?».

   La donna piegò la testa sul letto di pietra, fissandolo con disprezzo, ma tenne le labbra serrate.

   «Molto bene, nemica di Masaka... sarà la dea a decidere la tua sorte!» dichiarò il Sacerdote. Le voltò le spalle e andò verso la tenda che velava l’interno del tempio. Era un tendaggio pesante, ma la brezza notturna lo faceva ondeggiare lievemente. Il Sacerdote cadde in ginocchio lì davanti, coprendosi il volto con le unghie lunghissime, che simboleggiavano il suo status. «Fulgida dea, Signora dei Quattro Punti Cardinali, Creatrice e Distruttrice del Mondo, dicci... che dobbiamo fare della miscredente che rinnega il Tuo nome?» invocò.

   Dall’interno del tempio giunsero strani sibili, che nessuna gola umanoide poteva emettere. La vittima legata all’altare sentì un brivido lungo la schiena: quei bisbigli inumani erano la sua condanna.

   «Masaka ha parlato!» esclamò il Sommo Sacerdote, rialzandosi. «I nostri pugnali non strapperanno il cuore all’infedele, né le fiamme la consumeranno. No... la dea si occuperà di lei personalmente. E infatti sta arrivando. Guardate! Anche oggi Masaka si è svegliata!» gridò, indicando l’orizzonte lontano.

   La vittima sacrificale girò il viso dall’altra parte, per capire a cosa si riferisse. Oltre le mura della città e la giungla lussureggiante, le tenebre notturne cedevano il passo al chiarore dell’alba. Un colle tondeggiante fu illuminato e un uccello volò alto nel cielo, salutando il sole nascente col suo richiamo.

   «Masaka si è svegliata! La regina è sveglia!» ripeté la folla, più con paura che con fervore. I D’Arsay si dispersero come tacchini all’arrivo del giaguaro. In cima alla piramide, però, sacerdoti e guardie rimasero ben saldi.

   Sull’altare, la donna osservò confusa quanti l’attorniavano. «Che significa? La vostra dea è dentro il tempio, oppure...?».

   «Presto la incontrerai» sogghignò il Sommo Sacerdote. «Allora scoprirai cosa succede alla formica che sfida il Sole. Portatela giù, con gli altri!» ordinò poi alle guardie.

   La vittima fu slegata e tirata in piedi, dopo di che la portarono davanti alla ripida scalinata della piramide. «Scegli come vuoi scendere: sulle tue gambe o rotolando» le sussurrò all’orecchio il capo delle guardie.

   «Camminerò» disse la donna, osservando i vertiginosi gradini sotto di lei. Rotolare giù da quella scalinata voleva dire morte certa. Scese lentamente, tenuta sotto tiro dalle guardie armate di lance, pugnali e randelli con lame innestate lungo il bordo. Dietro di loro venivano i sacerdoti. Scesero fino al gradone più basso, che formava una terrazza intorno al corpo della piramide. Ci volle un bel po’ per arrivarvi, eppure quando lo fecero il sole non si era ancora innalzato. Il pianeta D’Arsay ruotava lentamente.

 

   La terrazza era ancora immersa nelle tenebre. S’intuiva però che era costellata d’altari, quasi tutti con qualcosa sopra. Il corteo procedette fino a trovarne uno sgombro. Qui la vittima sacrificale fu legata di nuovo. Anche stavolta le guardie si assicurarono che fosse completamente immobilizzata, col visto rivolto verso l’alto. Da quella posizione, la donna poté vedere i raggi del sole che illuminavano la sommità della piramide, facendo scintillare il tempio dorato.

   Il Sommo Sacerdote si chinò su di lei. «È il momento di lasciarti» disse, col volto sempre celato dalla maschera. «Masaka è sveglia e tra poco sarà qui... non voglio disturbare il vostro incontro».

   «Vuoi dire che sta per uccidermi?» chiese la vittima.

   «Certo che ti ucciderà» rispose il D’Arsay. «Ma non oggi... ci vorranno giorni prima che la vita si prosciughi in te. Usa questo tempo per meditare» consigliò, e dopo essersi ravvolto nel mantello si allontanò di buon passo. Gli altri sacerdoti lo seguirono salmodiando e anche le guardie si ritirarono.

   Rimasta sola, la donna si guardò intorno, piegando la testa per quanto possibile. Anche se i D’Arsay avevano abbandonato la terrazza, restavano gli altari, simili a quello cui era legata. Quasi tutti erano occupati. «Prigionieri come me?» si chiese, cercando di capire chi vi era disteso sopra. Intanto la luce scendeva lungo le pareti della piramide, man mano che il sole si alzava sull’orizzonte. Finalmente anche la terrazza fu illuminata.

   La donna soffocò un’imprecazione. Sugli altari attorno a lei erano legate vittime senza vita: uomini e donne, dai corpi riarsi. I D’Arsay le avevano semplicemente lasciate lì, esposte al sole cocente, finché erano morte di sete. Questa era anche la sua sorte... e l’aria già si arroventava. «Dove sei, Masaka? Fatti vedere!» gridò la donna, dibattendosi inutilmente. La risposta era davanti ai suoi occhi, nell’astro sempre più alto. Non restava che calmarsi, conservare le forze e sperare che qualcuno la soccorresse in tempo. Per Ladya Mol, Medico Capo della USS Keter, la tortura era appena cominciata.

 

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Capitolo 2
*** Gli Archivi D'Arsay ***


-Capitolo 1: Gli Archivi D’Arsay

1630, l’Anno della Peste

Luogo: un lazzaretto alle porte di Milano

 

   Nell’aria calda e immobile d’agosto, il tanfo delle latrine ristagnava nelle baracche e sotto i portici del lazzaretto. I lamenti dei sedicimila appestati si confondevano col cigolio dei carri, le grida dei monatti e le preghiere dei sacerdoti che assistevano gli ammalati. Lungo i due porticati principali, file interminabili di corpi erano buttati su mucchi di paglia o su semplici sacchi. Alcuni si muovevano debolmente o facevano udire un respiro rantolante. Negli altri casi serviva un’osservazione più attenta per distinguere i vivi dai morti. Nugoli di mosche e zanzare avvolgevano gli uni e gli altri. In lontananza si udì il rintocco di una campana.

   «Mezzodì!» gridò qualcuno.

   Tre dottori avanzarono tra gli appestati, senza fermarsi né degnare di uno sguardo chi li implorava di trattenersi. Erano intabarrati in vesti scure, con tanto di guanti e cappelli a tesa larga. I loro volti erano nascosti da inquietanti maschere a becco, piene di erbe aromatiche che teoricamente avrebbero dovuto proteggerli dai “miasmi” dell’epidemia. Anche gli occhi erano coperti da rozzi occhialoni. Figure come quelle non erano insolite, nei lazzaretti del Seicento. Ciò che meravigliava gli osservatori era la loro altezza: tutti e tre i medici sfioravano i due metri. Al loro incedere, le voci tacevano a tutti si facevano da parte. Tra le guardie e i monatti, alcuni avrebbero voluto interrogarli, perché non ricordavano di averli mai visti prima. Ma c’era qualcosa, in loro, che induceva alla ritirata anche chi era avvezzo agli orrori. Un’aura repulsiva che nessuno avrebbe saputo spiegare. I tre dottori della peste avanzavano in silenzio, talvolta volgendo i musi a becco, come in cerca di qualcosa. Quello in testa aveva un bastone bianco, con la sommità modellata a testa di serpente.

   «Cerchiamo la cella 47» sussurrò il medico col bastone, chinandosi sopra un anziano frate cappuccino. Questi piegò la testa all’indietro, meravigliato sia dall’altezza, sia dalla voce innaturale dell’altro.

   «Vi ci porto subito, signori...?» chiese il frate. Siccome i tre dottori restavano in silenzio, senza presentarsi, il vecchio sospirò e fece strada. Passarono sotto il porticato, fino a raggiungere un portone di legno, chiuso a chiave. «Vi avverto, in codesta cella son più necessario io che voi» avvertì il frate. «A questi poveretti ho già impartito l’estrema unzione».

   «Non ci metteremo molto» sibilò il medico col bastone, rauco.

   Il frate trasse dalla bisaccia un mazzo di chiavi arrugginite. Dopo un paio di tentativi errati aprì la vecchia serratura cigolante. «Bene, ora debbo lasciarvi» disse, e si allontanò perplesso. I tre medici entrarono, chinando la testa per passare; l’ultimo chiuse la porta. Si trovarono in una camera quadrata, di otto braccia per lato. Aveva una finestra con l’inferriata rivolta all’esterno, un caminetto spento, una latrina nell’angolo e un letto in laterizio. Sul letto dormiva un ragazzo, con un braccio abbandonato a terra e grossi bubboni neri sul collo. I malati, però, erano molti di più: se ne stavano addossati alle pareti o buttati sulla paglia lurida che copriva a stento il pavimento. Il fetore era insopportabile e le mosche ronzavano. Qualche testa si alzò verso i medici, ma nessuno si alzò né disse parola.

   Per qualche secondo i tre dottori contemplarono i moribondi. Poi, sempre in silenzio, quello di testa sollevò il suo bastone. Nella luce incerta della cella il serpente parve muoversi. Dalle fauci spalancate promanò un raggio bianco-azzurro, che colpì uno degli appestati stesi a terra. Il poveretto strabuzzò gli occhi, ma non poté sfuggire al raggio e neanche chiedere aiuto. Un filo di bava gli scese lungo la guancia. I suoi occhi erano ancora aperti, ma la vita li aveva abbandonati. Era durato tutto pochi secondi e nessuno degli altri malati sembrava essersene accorto. Il dottore col bastone ne mirò un altro, il ragazzo steso sul pagliericcio.

   «Acqua» disse una voce alle sue spalle.

   Il medico abbassò immediatamente il suo strumento e si girò verso l’interlocutore. Era una figura addossata alla parete, tutta imbacuccata in stracci grigi e sdruciti, malgrado il caldo afoso. Le sue mani, fasciate e tremanti, sollevarono una ciotola. «Acqua per una povera infetta» mormorò, con voce fioca ma chiaramente femminile.

   «Cosa ci fai qui?» chiese il dottore con voce monocorde. «Questa è la parte del lazzaretto riservata agli uomini. Le donne devono stare sull’altro lato».

   «Scusate... sono qui da giorni... non capisco più niente...» mormorò la donna, passandosi la lingua sulle labbra riarse. «Sto tanto male... aiutatemi, vi prego...». Lasciò cadere la ciotola e alzò le mani, unendole in segno di supplica.

   «Non temere. Ora ti libereremo da ogni sofferenza» promise il medico. Alzò di nuovo il bastone e le venne vicino.

   «Oh, che bello... dovete essere dei grandi signori...» farfugliò la donna, levandosi una ciocca di capelli sporchi dal viso.

   «Siamo degli esperti, andiamo dove c’è bisogno di noi» rispose l’essere davanti a lei, aggiustando la mira.

   «Lo so» disse la donna, afferrandogli il bastone con la sinistra. La sua presa era inaspettatamente salda. «Ciao, Fantasma Velato. Mi sei sfuggito su Gideon e su Tarellia, ma stavolta non te la cavi» avvertì. Il suo pugno destro scattò, colpendolo allo stomaco con forza prodigiosa. L’essere fu scagliato dall’altra parte della stanza. Sbatté contro il muro e si accasciò in un marasma di vesti scombinate. Il bastone cadde a terra, dove il serpente prese vita e soffiò minaccioso contro la donna, che era scattata in piedi.

   Gli altri due medici si guardarono ed emisero uno stridio inumano, mentre altri quattro ospiti del lazzaretto scattavano in piedi, estraendo i phaser manuali da sotto le vesti cenciose. I veri appestati, invece, continuarono a dormire; erano stati narcotizzati.

   «Sono l’Agente Jaylah Chase e vi dichiaro in arresto, in nome degli Accordi Temporali!» disse la donna, gettando la sporca parrucca. Due antenne andoriane fecero capolino dai suoi veri capelli, color platino.

   «Agenti Temporali!» gracchiarono i finti medici, abbandonando il travestimento per riprendere le loro vere sembianze. Erano Devidiani, una delle specie parassitiche più mostruose mai incontrate dalla Flotta Stellare. Vagamente umanoidi, erano alti ed emaciati, come scheletri a malapena rivestiti di pelle. Tutta la loro epidermide emetteva luce bianco-azzurra. La testa informe non aveva lineamenti, nemmeno gli occhi o il naso. L’unico orifizio, che faceva da bocca, si trovava al centro della fronte. Con uno stridio lacerante, i due Devidiani ancora in piedi si gettarono sugli Agenti Temporali, che risposero sparando coi phaser.

   Se i mostri furono feriti, non lo diedero a vedere. Giunti addosso agli Agenti, cercarono di smembrarli a mani nude. Erano abbastanza forti per farlo. Ma gli Agenti Temporali della Flotta Stellare sapevano difendersi. Tra le due fazioni scoppiò una lotta violentissima. I contendenti si affrontavano con le arti marziali, ora cercando d’immobilizzare l’avversario, ora scagliandolo contro la parete opposta. Ogni tanto un phaser sibilava, colpendo un Devidiano.

   Mentre i suoi colleghi pensavano agli altri due alieni, Jaylah si proiettò contro il loro capo, il cosiddetto Fantasma Velato. Cercò di colpirlo in faccia, ma quello scartò di lato. Il pugno dell’Agente colpì il muro di mattoni, lasciandovi delle crepe.

   Il Fantasma Velato agguantò l’avversaria e la scaraventò contro la parete di fondo, poco sotto l’inferriata. Poi le balzò addosso, sfiorando il soffitto, e le prese la testa fra le mani, con l’intento di schiacciarle la scatola cranica. «Abbiamo fame!» gracchiò. «Perché non possiamo nutrirci?».

   «Perché invece degli hamburger, mangiate le persone!» rispose prontamente Jaylah, afferrandogli le braccia e cercando di allargarle, per non farsi schiacciare la testa. «Viaggiate nel tempo senza autorizzazione, per uccidere la nostra gente... due crimini che non possiamo perdonarvi».

   «Questi infetti sarebbero morti ugualmente» rispose il Fantasma Velato. «Ucciderli qualche ora prima non altera la vostra linea temporale. In compenso la loro energia neurale ci sfamerà a lungo».

   «Finché non cambierete dieta, continueremo a trattarvi da parassiti!» ringhiò Jaylah. Con uno sforzo formidabile riuscì ad allargare le braccia dell’alieno. Subito gli assestò una testata in faccia. La testa dell’Agente rimbalzò contro il volto senza lineamenti dell’alieno, come se avesse colpito la gomma. Il Fantasma Velato cercò di afferrarle la gola, ma Jaylah – forte dei suoi potenziamenti genetici – deviò l’attacco. Poi agguantò l’alieno e lo sbatté con violenza contro l’inferriata alle sue spalle. Uno, due... al terzo impatto le sbarre di ferro si deformarono. Infine Jaylah afferrò il Devidiano ancora più saldamente e lo sbatté contro il caminetto. Ci fu uno schianto e i mattoni si ruppero, sollevando sbuffi di polvere. Approfittando del temporaneo stordimento dell’avversario, Jaylah estrasse un piccolo ipospray e gli iniettò qualcosa nella spalla. Altrove nella stanza c’erano scene simili: Agenti Temporali e Devidiani si affrontavano senza esclusione di colpi.

   «Le onde trioliche sono in aumento!» avvertì uno degli Agenti, un androide munito di sensore incorporato. «L’ofide sta per aprire il vortice temporale».

   In quell’attimo il serpente emise un raggio energetico, molto più intenso del precedente. Il fascio di particelle colpì la porta, trasformandola in un vortice temporale. Con un gemito orrendo, il Fantasma Velato si rialzò dai resti del caminetto e vi corse dentro, scomparendo. Gli altri due Devidiani cercarono d’imitarlo, ma avevano ricevuto molti colpi di phaser. Furono abbattuti prima di raggiungere la soglia.

   «Ripulite la zona!» gridò Jaylah, tuffandosi dietro al Fantasma. Riuscì ad attraversare il vortice temporale pochi attimi prima che si richiudesse.

 

   Varcata la soglia con un salto, l’Agente Temporale fece una capriola e si rialzò, pronta a vendere cara la pelle. Si trovò in una vasta caverna, all’apparenza vuota. Ma sapeva bene che non era così. Attorno a lei c’erano decine, forse centinaia di Devidiani, intenti a nutrirsi con l’energia neurale raccolta nel tempo e nello spazio. Ma non poteva vederli, né toccarli. I Devidiani vivevano in uno stato di fluttuazione temporale, da cui uscivano solo per cercare cibo.

   Il Fantasma Velato si girò verso Jaylah, che levò di tasca il comunicatore e lo premette, prima di appuntarselo. Il faro subspaziale miniaturizzato era acceso e presto avrebbe richiamato l’USS Keter... o così sperava l’Agente. Nel frattempo doveva cavarsela con le sue forze. Adocchiò l’uscita, ma altri quattro Devidiani apparvero dal nulla, ostruendo la via di fuga.

   «Non avresti dovuto seguirci. Ora non uscirai più da qui» disse il Fantasma Velato, venendole incontro. «Come telepate hai molta energia neurale... bene. Mi nutrirò di te per tanto tempo».

   «Ora non esagerare con la confidenza» sogghignò Jaylah. «E poi, c’è già uno Spettro nella mia vita». Attorno a lei comparivano sempre più Devidiani. L’Agente Temporale estrasse il phaser, che finora aveva tenuto celato, e colpì i mostri che si avvicinavano. Ma erano troppi e venivano da tutte le direzioni. Balzò su una roccia per cercare di tenerli a distanza. Braccia scheletriche brancolarono verso di lei. «Volete che faccia crollare la volta?» minacciò Jaylah, rivolgendo l’arma verso l’alto.

   «Fa’ pure... noi possiamo sfasarci quando vogliamo» rispose il Fantasma Velato. «L’unica vittima sarai tu».

   Jaylah si morse il labbro. Non poteva resistere a lungo contro quei mostri che l’assalivano da tutte le parti, ma non intendeva neanche immolarsi. Valutò la possibilità di superare con un balzo quelli che sorvegliavano l’uscita. I suoi potenziamenti genetici erano notevoli, ma non credeva di poter saltare così in alto. Forse però poteva travolgerli. Respinse un Devidiano con un calcio, preparandosi a scattare. Intanto pensava ai suoi colleghi della Keter, che di certo la stavano cercando. Col faro acceso avrebbero dovuto captarla. «Avanti, ragazzi... dove siete?».

   «Agente Chase, mi riceve?». La voce del Capitano Hod era fioca, ma a Jaylah sembrò squillante come una cannonata.

   «Qui Chase, la sento» rispose la mezza Andoriana, premendosi il comunicatore. «Potete teletrasportarmi?».

   «È troppo in profondità, non riusciamo ad agganciarla. Mi dispiace, Jay» disse il Capitano.

   «Uhm...» rifletté l’Agente, guardandosi attorno. «In tal caso, chiedo una salva di siluri contro la mia posizione».

   «Non possono ucciderci...» avvertì il Fantasma Velato.

   «Almeno danneggeranno le vostre strutture» ribatté Jaylah, inflessibile.

   «Ne è sicura?» chiese Hod. «Possiamo inviare una squadra...».

   «Non c’è tempo. Lanci quei siluri!» gridò Jaylah, saltando da una roccia all’altra nel tentativo di sfuggire ai Devidiani. Ne colpì uno col phaser, mentre ne abbatteva un altro con un calcio.

   «Come vuole. Siluri lanciati... il suo sacrificio non sarà dimenticato, Agente Chase» dichiarò il Capitano. Mentre parlava, due siluri quantici lanciati dalla Keter sfrecciarono nell’atmosfera rarefatta di Devidia II.

   «Sei una sciocca» avvertì il Fantasma Velato, mentre i suoi simili iniziavano a svanire. «Ci sono centinaia di caverne naturali su questo pianeta... distruggerne una non farà alcuna differenza. Tra pochi giorni riprenderemo a nutrirci. Addio, Agente».

   «Addio, Fantasma» rispose gelidamente la mezza Andoriana.

   Ormai tutti i Devidiani si erano ritirati nel loro piano d’esistenza. Il Fantasma Velato fu l’ultimo ad andarsene. Mentre svaniva, Jaylah estrasse il tricorder e ne osservò le letture. Un lampo di trionfo le balenò negli occhi. «Chase a Keter, la loro varianza temporale è 0,047 microsecondi» rivelò, premendosi ancora il comunicatore.

   I siluri quantici ricevettero subito il segnale di autodistruzione. Esplosero a poche decine di chilometri d’altezza, generando un’onda d’urto che spazzò la superficie desertica del pianeta. Le vibrazioni giunsero in profondità nel suolo, facendo tremare la caverna dei Devidiani. Alcune stalattiti si staccarono e caddero intorno a Jaylah. La mezza Andoriana balzò a terra, evitando di farsi travolgere.

   Pochi secondi dopo la Keter scagliò altri due siluri. Queste erano testate cronotoniche, che si trovavano in uno stato di fluttuazione temporale. La loro varianza era stata regolata su 0,047 microsecondi, secondo le indicazioni di Jaylah.

   «Chase a Keter... spero di non avervi frainteso, perché ora mi farebbe davvero comodo il teletrasporto» disse l’Agente Temporale, guardandosi intorno nervosamente. A risponderle fu il raggio azzurro, che la trasse via dal pianeta. Appena in tempo. Pochi attimi dopo i siluri cronotonici impattarono contro la superficie, scavando un enorme cratere. La caverna crollò, ma nemmeno le migliaia di tonnellate di roccia potevano uccidere i Devidiani mentre erano sfasati. L’esplosione dei siluri però poteva, se regolata sulla giusta varianza. Cioè su quella rilevata da Jaylah, grazie alla microsonda che aveva iniettato al Fantasma durante la colluttazione. L’onda d’urto cronotonica investì in pieno gli alieni parassitici, consumandoli. Le loro grida stridenti si persero nel boato.

 

   «Il nido devidiano è stato neutralizzato» riferì Zafreen, l’addetta a sensori e comunicazioni della Keter.

   Tutti gli ufficiali di plancia avevano lo sguardo fisso allo schermo, dove l’esplosione fungiforme si allargava sul pianeta.

   «E Jaylah?» chiese con ansia Vrel, il timoniere.

   «È salva» riferì l’Orioniana, sollevata. «È in sala teletrasporto 3, per la decontaminazione».

   Finalmente la tensione si sciolse. Alcuni ufficiali applaudirono per quella missione rischiosa, ma completata in modo perfetto.

   «Ottimo lavoro» disse il Capitano. «Ora recuperiamo il resto della squadra. Plancia a sala macchine, preparate il nucleo temporale. Torniamo nel 1630, a prendere i nostri Agenti».

 

   Il Protocollo di Decontaminazione poteva sembrare anacronistico, ma era la regola per gli Agenti Temporali di ritorno da secoli poco igienici o dallo scontro con specie parassitiche. Jaylah era reduce da entrambe le cose, quindi non poteva sottrarsi. Vestita con la sola biancheria, si aggirava nella Sala di Decontaminazione, mentre svariati tipi di raggi la ripulivano da ogni microrganismo nocivo. Quando un segnale l’avvertì che aveva visite, si accostò alla parete. La finestrella, fino ad allora opaca come il resto del muro, divenne trasparente, permettendole di vedere il visitatore.

   «Ben fatto, Jaylah» disse Norrin, l’Ufficiale Tattico della Keter. L’Hirogeno non era solo il suo ufficiale superiore; era un amico e un mentore. «Erano mesi che davamo la caccia al Fantasma Velato e oggi l’hai sconfitto praticamente da sola. Penso che il Capitano vorrà decorarti. Io però spero che tu abbia pensato, prima di tuffarti in quel vortice. Che avresti fatto, se fossi finita troppo lontano da noi nel tempo o nello spazio?».

   «Avevo il faro temporale, per farmi rintracciare» disse Jaylah.

   «Hai comunque rischiato grosso» notò l’Hirogeno.

   «Non più dell’indispensabile» ribatté la mezza Andoriana. «Ho iniettato la microsonda al Fantasma già prima d’attraversare il vortice, per essere certa di captare la varianza temporale in cui si nascondeva. Poi ho bluffato. Quando il Capitano mi ha chiamata Jay, ho capito che in realtà il teletrasporto poteva agganciarmi. Coi Devidiani ho finto di volermi sacrificare, ma sapevo che mi avreste salvata».

   L’uso di parole in codice, per ingannare il nemico, veniva da secoli di tradizione militare. Gli Agenti della Keter sapevano che quando i colleghi o i superiori si rivolgevano a loro col nomignolo, il senso del discorso andava ribaltato.

   «Certo che i tempi erano stretti» commentò Norrin. Era stato lui a far esplodere i siluri quantici, pochi secondi prima che colpissero la superficie. E sempre lui aveva lanciato quelli cronotonici, contando sul fatto che Jaylah sarebbe stata teletrasportata in tempo.

   «Un Agente Temporale deve sfruttare ogni secondo» rispose Jaylah, ma dalla sua espressione era chiaro che concordava con Norrin. «Almeno avevo già ricevuto l’estrema unzione» si disse, ironica.

   «Beh, l’importante è che sia fatta» disse l’Hirogeno. «Quei Devidiani non uccideranno più nessuno».

   «Mi chiedo solo quanti altri nidi ci siano» borbottò la mezza Andoriana. «Conosciamo ancora pochissimo quegli esseri. Non sappiamo nemmeno dove e come si siano evoluti. Se si nutrono della nostra energia neurale, non possono essere nativi di Devidia».

   «Certe cose è meglio non saperle» dichiarò Norrin. «Io però vorrei sapere che ci fai ancora lì dentro» aggiunse, accennando alla Sala di Decontaminazione.

   «Sono stata per giorni in un lazzaretto pieno di appestati».

   «La dottoressa Mol ti ha vaccinata, prima che ti spedissimo là».

   «Io non corro rischi, ma non vorrei spargere il contagio sulla Keter» spiegò l’Agente. «Tra l’altro, uhm... non tutte le infestazioni sono microscopiche» aggiunse, grattandosi la testa.

   «Cioè? Che ti sei presa?» si preoccupò Norrin.

   «Pulci» ammise Jaylah, grattandosi sempre più forte. «Erano ovunque. Il passato è lurido» spiegò, acchiappandone una. La tenne fra le dita e la osservò, prima di schiacciarla. «Sai, erano queste a diffondere la peste. Il batterio faceva la spola tra i ratti, le pulci e le persone. Ma all’epoca non si sapevano queste cose... non si conoscevano nemmeno i microrganismi. Si dava la colpa ai “miasmi” dell’aria o agli “untori”. Le contromisure erano del tutto inadeguate... e ho visto i risultati». La mezza Andoriana rabbrividì mentre sedeva sulla panca accanto alla finestrella, ricordando le scene di dolore e disperazione a cui aveva assistito.

   «Ne vuoi parlare?» chiese Norrin.

   «Ho visto i cadaveri gettati nelle fosse comuni, o bruciati a mucchi» mormorò l’Agente Temporale. «Chi soccorreva gli appestati si ammalava a sua volta. Alcune famiglie erano murate in casa dalle autorità, all’insorgere della malattia. Quella povera gente levava preghiere al Cielo e versava lacrime per i propri cari, ma... puoi immaginare quanto fossero efficaci» disse con amarezza. «Era già abbastanza difficile vedere i corpi degli adulti. Ma quando c’erano i bambini...». Il groppo in gola le impedì di aggiungere altro. La mezza Andoriana chinò il capo e si lasciò sfuggire una lacrima.

   «È un’esperienza devastante... hai tutto il diritto di sentirti addolorata» mormorò Norrin.

   «Non è solo dolore. È anche rabbia» rivelò Jaylah, alzando il capo di scatto. «Come Agente Temporale potrei fare molto... ma in realtà ho le mani legate. Gli Accordi m’impongono di non cambiare la Storia per nessun motivo. Sai che vuol dire assistere alle epidemie del passato, senza poter aiutare la gente con le cure moderne? Stare in mezzo ai moribondi, senza fargli l’iniezione che li avrebbe salvati, era come... omissione di soccorso!» si lamentò.

   «Se ti accadesse nel presente, lo sarebbe» ragionò Norrin. «Ma non possiamo rischiare di scombinare il passato. Una sola persona in più, con i suoi discendenti, potrebbe stravolgere la Storia».

   «Magari in meglio!».

   «Attenta... è così che si diventa pirati temporali» avvertì l’Ufficiale Tattico. «Si comincia per una buona causa e poi non si riesce più a smettere».

   «Lo so» sospirò Jaylah. «Me lo sono ripetuto tante volte, ancor prima di cominciare queste missioni. Ma stare laggiù, tra i mucchi di cadaveri, ti cambia la prospettiva».

   «Sai, fare l’Agente Temporale non è per tutti» disse Norrin, comprensivo. «Se non ce la fai più, puoi tornare alla Sicurezza ordinaria. O puoi passare alla sezione Comando e seguire le orme di tuo padre».

   «Ci ho pensato» disse la mezza Andoriana, grattandosi la testa in cerca di altre pulci. «Ma ho ancora la sensazione che il mio compito come Agente Temporale non sia finito».

   «Beh, quando ti sembrerà che lo sia, ricorda che puoi cambiare incarico» insisté Norrin. «Dopo quello che hai fatto oggi, nessuno potrà biasimarti». Con un ultimo cenno, l’Hirogeno lasciò la finestrella, che tornò a oscurarsi.

   Rimasta sola con i suoi pensieri, Jaylah tornò al centro della Sala Decontaminazione e prese a spalmarsi una crema disinfettante. Un giorno, si disse, avrebbe lasciato quell’incarico. Ma era decisamente presto. Aveva ancora troppe cose da fare.

 

   «Avanti» disse Jaylah, sentendo il beep della porta. La mezza Andoriana era in bagno e stava finendo di asciugarsi i capelli, finalmente liberi dallo sporco e dalle pulci. «Sei tu, Vrel? Entra pure... sono lì tra un attimo» disse, invitandolo ad accomodarsi nella stanza principale dell’alloggio.

   «Sorpresa!» fece Zafreen, sporgendosi con la testa dentro il bagno. L’Orioniana aveva un berretto rosso da Babbo Natale, che contrastava con la pelle verde, e un sorriso raggiante da bambina. «Sai che giorno è oggi?».

   «Il giorno di Natale» rispose prontamente Jaylah. C’era stato un tempo in cui quell’intrusione le avrebbe dato fastidio. Ma dopo che lei e Zafreen avevano sperimentato un temporaneo scambio di corpi, era diventata più tollerante nei confronti della frizzante addetta ai sensori.

   «Lo sapevo, il berretto mi ha tradita» disse Zafreen. «E cosa si fa a Natale?».

   «Tradizionalmente, molti Umani si scambiano doni» disse Jaylah, stando al gioco.

   «E tu sei mezza Umana».

   «Ma tu no... non pretendo di farti seguire l’usanza. E poi non ho preparato nulla per ricambiare».

   «Ci credo! Sei appena tornata da una missione» disse Zafreen. «Ma io e Vrel vogliamo darti una cosa».

   «Siete troppo gentili... di che si tratta?» chiese Jaylah, lasciando finalmente il bagno. Venendo in soggiorno vi trovò anche Vrel, con un pacchetto in mano. Era chiuso con un nastro, passato e ripassato in modo stranissimo.

   «Niente di che...» disse l’amico, porgendoglielo. «Ma potrebbe servirti, nelle prossime missioni».

   Jaylah cercò di sfilare il nastro, ma era così stretto e annodato che alla fine non trovò di meglio che tagliarlo.

   «Come! Un’Agente Temporale sconfitta da un nastro?» ridacchiò Vrel.

   «È che sono Guardiamarina... sconfiggere i nastri è una cosa da Tenenti» scherzò Jaylah. C’era sempre stato un certo spirito competitivo tra loro. Quando andavano all’Accademia, la mezza Andoriana aveva scommesso che sarebbe diventata Tenente prima di lui, sebbene fosse più giovane di un anno. Lo aveva detto in tono scherzoso, ma in fondo le sarebbe piaciuto vincere la scommessa. Invece aveva perso. Vrel era stato promosso Tenente già parecchi mesi prima, dopo la Battaglia di Osiris, quando aveva pilotato una navetta nelle profondità di un pianeta gioviano. Lei invece, pur avendo completato una missione dopo l’altra, era ancora Guardiamarina. Non invidiava Vrel, né gli altri colleghi. Ma aveva la sgradevole sensazione che il Capitano la ostacolasse nella carriera, a causa di alcuni dissensi tra loro. Scacciati questi pensieri, Jaylah aprì il pacchetto, trovandovi un coltellino multiuso.

   «È abbastanza piccolo da non dare nell’occhio... spero che ti permetteranno di portartelo dietro» spiegò Vrel. «Ha quaranta diverse funzioni. Una decina sono armi... beh, diciamo una ventina in mano tua».

   «Grazie» fece Jaylah, baciandolo sulla guancia. Scambiò un breve abbraccio con Zafreen, che insisté per metterle il berretto da Babbo Natale, anche se le stava storto per via delle antenne.

   «Capitano Hod ad Agente Chase, a rapporto nel mio ufficio». La voce veniva dal comunicatore posato sul tavolino.

   «Arrivo, Capitano» rispose Jaylah, scostandosi la nappa bianca che le dondolava davanti agli occhi. «Scusate, devo andare... ci vediamo stasera in sala mensa». Restituì il berretto a Zafreen, che lasciò l’alloggio insieme a Vrel. La mezza Andoriana finì rapidamente di prepararsi e corse dal Capitano.

 

   «Abbiamo recuperato i tuoi compagni di squadra» esordì Hod, quando Jaylah fu seduta davanti alla sua scrivania. «C’è una brutta notizia... il Tenente Bulk è morto».

   «Com’è successo?» chiese Jaylah, scioccata.

   «L’ofide devidiano gli ha trasmesso una scossa triolica» spiegò il Capitano. «L’Agente Adam lo ha subito schiacciato, ma per il Tenente non c’era nulla da fare».

   «Mi dispiace... era un bravo caposquadra» disse la mezza Andoriana.

   «Lo era senz’altro» convenne l’Elaysiana. «Ora però devo nominare il suo successore».

   «Chi ha in mente?» chiese Jaylah, cercando di nascondere l’aspettativa. Se il Capitano aveva chiamato proprio lei in ufficio, per parlarne, voleva dire che...

   «L’Agente Ortega» la gelò il Capitano. «Ha uno stato di servizio impeccabile».

   «Mi congratulerò al più presto con lui» disse Jaylah, celando la delusione. «Se non c’è altro, Capitano...» fece, alzandosi.

   «Aspetta» la trattenne Hod. «Ti aspettavi che la promozione fosse tua, vero? In fondo sei stata tu a sconfiggere i Devidiani».

   «Avrà avuto le sue ragioni, Capitano» commentò l’Agente, cercando d’evitare lo scontro.

   «Ce le ho» confermò l’Elaysiana. «Se guardassi puramente ai risultati, ti promuoverei. Ma come Capitano devo avere una visione più globale. Ci sono alcune... criticità in te. Ad esempio la tua tendenza a prendere le missioni come sfide personali. E i tuoi trascorsi con quel pirata, lo Spettro».

   «Non vedo Jack dalla Battaglia di Osiris» disse Jaylah. Era una menzogna. In realtà si erano incontrati un paio di volte, quando lei aveva lasciato la nave per delle licenze. In quei momenti non si sentiva né la figlia di un Ammiraglio, né un Agente Temporale, ma solo... se stessa. Non era pentita della sua scelta, pur conoscendone i rischi.

   «Comunque sia, mi aspetto che continui a onorare il tuo incarico con l’impegno di sempre» disse il Capitano, squadrandola con severità.

   «Lo farò» promise Jaylah. «Posso andare, ora?».

   «Solo un momento» disse Hod, alzandosi. «Per la tua impresa contro i Devidiani, ti spetta in ogni caso una Medaglia al Valore» disse, appuntandole l’onorificenza. Era un atto dovuto e Jaylah non vi lesse alcun messaggio particolare. Non dopo quello che aveva già sentito. «Potrei consegnartela davanti agli ufficiali, se preferisci».

   «No, è meglio così» disse la mezza Andoriana, un po’ rigida. «Arrivederci, Capitano».

   L’Elaysiana la osservò mentre lasciava l’ufficio. Quell’Agente Temporale era in gamba e forse avrebbe potuto comandare la squadra, ma era come una bomba a orologeria. Presto o tardi sarebbe scoppiata. L’unico dubbio era chi si sarebbe beccato l’esplosione in faccia.

 

   Sette giorni dopo, il primo dell’anno, la Keter ricevette la nuova missione. Invece che in sala tattica, gli ufficiali superiori furono convocati in sala conferenze. Il Capitano Hod era in piedi sul palco, assieme a Juri, lo storico di bordo. «Benvenuti... vi ho voluti qui perché ci aspetta una missione insolita, che richiede spiegazioni dettagliate» esordì l’Elaysiana. «La nostra colonia su Ultima Thule è sotto attacco e dobbiamo difenderla, o nella peggiore delle ipotesi evacuarla».

   «C’era da aspettarselo» disse Radek, il Primo Ufficiale. «È dall’inizio della nuova Guerra Fredda coi Breen che gli avamposti al confine sono minacciati. Ultima Thule, poi, è in una posizione strategica». Quel piccolo avamposto, che prendeva nome dalla leggendaria terra ai confini delle mappe terrestri, si trovava tra le Badlands e lo spazio Breen. Era una zona selvaggia, in cui l’Unione stentava ancora ad affermare la sua presenza. Se fosse caduto, i Breen si sarebbero avvicinati a importanti mondi dei Cardassiani, uno dei popoli più irrequieti dell’Unione, col risultato di far salire ancora la tensione.

   «La minaccia non sono i Breen» chiarì subito il Capitano, suscitando lo stupore degli ufficiali.

   «E chi, allora?» si meravigliò Radek.

   «Ecco la nostra avversaria» rispose Hod, richiamando un’immagine sullo schermo parietale. Apparve un sole giallo e raggiato, che aveva al centro una maschera dello stesso colore. La maschera copriva tutto il volto, salvo la zona della bocca. Sulla fronte era impresso un cerchio contornato da otto raggi, abbinati a indicare le quattro direzioni. Per quanto l’immagine esprimesse luce ed energia, aveva un che di malevolo. Sarà stato il taglio arcigno degli occhi, o la piega crudele della bocca.

   «La conoscete?» chiese il Capitano, ma ottenne solo silenzio e sguardi imbarazzati. «Lo immaginavo... nemmeno io ne avevo sentito parlare, prima che il Comando ci affidasse questa missione» spiegò Hod. «Il dottor Smirnov, invece, è un profondo conoscitore dell’argomento. A lei la parola, dottore» invitò l’Elaysiana, sedendosi.

   «Ehm, salve» disse Juri. Pur essendo un famoso storico, non era abituato a tenere discorsi. Da quando era salito sulla Keter, grazie a una partnership tra la Flotta e l’Università di Nuova Berlino, aveva passato la maggior parte del tempo nel suo laboratorio, analizzando manufatti anacronistici. Erano i suoi studi che avevano indirizzato gli Agenti Temporali contro i Devidiani.

   «Quello che vedete è il simbolo di Masaka, la regina-dea degli antichi D’Arsay» spiegò lo storico. «Nella sua forma semplificata, l’emblema è questo». Premette un comando, sostituendo l’immagine del sole raggiato e della maschera con quella del marchio centrale: un cerchio contornato da quattro coppie di raggi. «La civiltà D’Arsay fiorì sull’omonimo pianeta ben 87 milioni di anni fa, il che la rende una delle culture più antiche a noi note. Per intenderci, all’epoca sulla Terra c’erano ancora i dinosauri. Questo popolo umanoide presenta interessanti analogie con le culture precolombiane terrestri, come Maya e Aztechi, pur essendo immensamente più antico».

   «Scusi, dottore, ma vorrei capire... i D’Arsay esistono ancora?» chiese Vrel, disorientato dal fatto di non averne mai sentito parlare.

   «Sì e no... dipende da cosa intende per esistere» rispose Juri, criptico. «Il primo contatto fra i D’Arsay e la Flotta avvenne nel 2370, quando l’Enterprise-D trovò una cometa vagante nel settore 1156. Ricostruendo la sua rotta, gli ufficiali compresero che veniva dal sistema D’Arsay, a due settori di distanza, e intuirono la sua antichità. Scoprirono inoltre che il guscio esterno d’idrogeno ed elio ghiacciati racchiudeva un nucleo molto più compatto e all’apparenza artificiale. Così sciolsero gli strati esterni coi phaser, mettendo a nudo la struttura centrale».

   Lo storico mostrò una nuova immagine: una struttura informe costituita da blocchi squadrati, di colore rossiccio. Non si capiva quali fossero la prua e la poppa, l’alto e il basso, posto che questi termini avessero senso in relazione all’oggetto. «Lo scafo denso ostacolava i sensori, ma si capiva che l’interno era quasi del tutto compatto» riprese Juri. «Ben presto fu chiaro che non era un’astronave, ma una sonda-archivio. Era uno strano misto di alta tecnologia e arcaismi. Pensate che non aveva la curvatura, né altri sistemi equivalenti, per cui viaggiava a velocità sub-luce».

   «Ed era previsto che viaggiasse così a lungo?» chiese Dib, l’Ingegnere Capo. L’alieno del pianeta Penumbra sedeva accanto ai colleghi, ma la sua tuta integrale racchiudeva un fluido blu a temperatura superfredda che costituiva il suo vero corpo. La sua specie, tutta dedita alla matematica, lasciava di rado il proprio mondo uranico.

   «Considerando la quantità di pianeti abitabili che la sonda ha sfiorato nel corso del suo viaggio, direi di no» rispose Juri. «Dev’esserci stato un problema... un errore nei calcoli o una deviazione che l’hanno fatta viaggiare molto più a lungo del previsto. In tutto quel tempo si coprì di gas interstellari che la mascherarono da cometa, rendendo ancor più difficile rilevarla.

   All’emozione della scoperta subentrarono ben presto enigmi sempre più preoccupanti. L’androide Data fu infettato da numerose personalità aliene, riconducibili alla perduta civiltà D’Arsay. Anche il computer di bordo iniziò a mostrare i loro geroglifici. Ma la cosa più sconcertante fu l’apparizione di sempre più manufatti appartenenti a quell’antica civiltà».

   Sullo schermo apparvero le istantanee scattate all’epoca. C’erano statuette, stele votive, vasi ornati. Quasi tutto recava impresso il marchio di Masaka. «Questi oggetti non furono teletrasportati dagli Archivi» puntualizzò lo storico. «Furono creati a partire dai materiali dell’Enterprise, grazie alla più raffinata tecnologia di replicazione mai incontrata dalla Flotta».

   «Curioso» commentò Dib. «Pur essendo il prodotto di una tecnica estremamente sofisticata, tutti questi oggetti sono primitivi e non funzionali».

   «Cerimoniali» corresse Juri, alzando l’indice ammonitore. «E ingannevolmente primitivi. Come ammette anche lei, solo una civiltà altamente progredita poteva sintetizzarli. Il Capitano Picard, grande appassionato d’archeologia, intuì che quei manufatti svolgevano un ruolo ritualistico nella società D’Arsay. I successivi sviluppi gli diedero ragione».

   Lo storico mostrò altre immagini raccolte dall’equipaggio o dai sistemi di sicurezza dell’Enterprise-D. Poco alla volta, gli elementi D’Arsay crescevano in dimensioni e quantità, fino a prendere il sopravvento su quelli federali. Intere sezioni dell’astronave – stanze e corridoi – si trasformavano. Una consolle diventava un piccolo obelisco, le interfacce parietali lasciavano il posto a blocchi di pietra squadrati. E non c’era solo la materia inorganica. Foglie di palma apparivano qua e là, le radici serpeggiavano su pareti e pavimenti, i rami si levavano sempre più alti e frondosi. Un groviglio di fili elettrici si trasformava in un analogo groviglio di serpenti, vivi e sibilanti. Le fiamme si levavano in un corridoio, mentre la sala tattica si trasformava in una palude piena d’insetti ronzanti.

   «Ma com’è possibile?!» chiese Vrel, con gli occhi sgranati. «Cosa alimenta le fiamme? E le piante, gli animali... da dove vengono?».

   «Sintesi Particellare» rivelò Juri. «Gli Archivi possono riconfigurare la materia, anche organica, fino al livello particellare. I nostri progettisti di replicatori se la sognano, una tecnologia così. È... una delle cose più simili alla magia mai incontrate dalla Flotta».

   «È come un virus. O un parassita» disse però la dottoressa Mol, che osservava le immagini con crescente inquietudine. «Gli Archivi inoculano la loro cultura in tutto ciò che trovano. Assimilano gli oggetti, le piante, gli animali... forse alla lunga anche le persone».

   «Ha colto il problema» disse Juri con gravità. «Per quanto fosse appassionato d’archeologia, il Capitano Picard non poteva permettere agli Archivi di trasformare la sua nave in... qualcos’altro. Ma un raggio traente bloccava l’Enterprise e il computer era così infettato che anche le armi erano fuori uso. Mentre l’equipaggio cercava un modo per invertire la trasformazione, il Capitano incontrò le personalità aliene che si manifestavano nel corpo di Data. Ce n’erano di tutti i tipi: un soldato, un popolano, un vecchio che cercava di scaldarsi al fuoco. Una delle più ricorrenti era una specie di canaglia, o di burlone, che disse di chiamarsi Ihat. Ma avevano una cosa in comune... tutte parlavano di Masaka».

   Lo storico riportò sullo schermo il simbolo della regina-dea. Ora che gli ufficiali iniziavano a capire di che si trattava, il sole raggiato con la maschera parve ancora più inquietante.

   «Il soldato proclamava la sua assoluta devozione, mentre il popolano tremava di paura. Il vecchio affermò persino d’essere suo padre, ma aggiunse che Masaka non si curava più di lui. E Ihat rivelò che la regina era così crudele da bruciare vive le sue vittime, quando non le lasciava morire di sete. Tutti quanti erano terrorizzati all’idea che si risvegliasse, anche se lo consideravano inevitabile. Ripetevano che “Masaka si sta svegliando” e che “non si può fermare il Sole nella sua ascesa”. Avevano ragione. Una dopo l’altra, le personalità furono fagocitate da quella di Masaka, che restò l’unica a controllare l’androide. Indossò la sua maschera cerimoniale e si recò nel tempio, plasmato dentro l’astronave».

   «Quelli dell’Enterprise non cercarono di fermarlo?» si stupì Norrin.

   «Il Capitano Picard voleva capire la situazione, prima di scontrarsi con una tecnologia così evoluta» spiegò lo storico. «Andò a parlare con Masaka, ma lei non volle nemmeno ascoltarlo...».

   «Aspetti... quando dice “Masaka”, a che si riferisce esattamente?» chiese Radek.

   «A una personalità creata dagli Archivi e innestata nel cervello positronico di Data» rispose prontamente Juri. «La domanda è su che cosa si basa questa personalità. Un’antica sovrana divinizzata dopo la morte? Un’entità aliena scesa su D’Arsay per farsi adorare? In tal caso, la vera Masaka potrebbe essere ancora là fuori, da qualche parte» disse Juri, facendo un gesto vago per indicare lo spazio interstellare.

   «Ma c’è un’altra possibilità» aggiunse con uno strano sorriso. «Il costante simbolismo solare che ammanta Masaka potrebbe rivelare la sua natura astronomica. Masaka non sarebbe altro che il sole. Ecco perché il suo simbolo allude ai quattro punti cardinali: il sole permette di orientarsi. Ed ecco perché fa “morire di sete” le persone o addirittura le “brucia vive”. Oggi il pianeta D’Arsay è un deserto rovente: la sua stella è cresciuta in attività, fino a distruggere l’ecosistema».

   Così dicendo, lo storico mostrò un’immagine recente del pianeta, avvolto da spesse nubi. Una volta inserito il filtro atmosferico, la superficie apparve riarsa, spazzata dalle tempeste di sabbia e bombardata dalle radiazioni. Non c’erano foreste, né masse d’acqua, e nemmeno tracce della civiltà D’Arsay.

   «No, un momento... se erano così progrediti da costruire quella sonda-archivio capace di sopraffare l’Enterprise, com’è possibile che venerassero ancora il Sole?» chiese Radek.

   «Non è strano come sembra» rispose Juri. «L’identità culturale può costruirsi attorno a simboli e riti straordinariamente persistenti. Gli esempi non mancano, in giro per la Galassia».

   «Quindi come andò a finire?» volle sapere il Comandante.

   «Picard notò che c’era un altro simbolo ricorrente sugli oggetti trasformati, anche se appariva meno di frequente: questo». Lo storico mostrò un nuovo emblema, color argento. Era molto più semplice: nient’altro che una forma arcuata, come un arco o una falce di luna. Al suo interno era diviso in vari segmenti.

   «Questo simbolo compariva quasi sempre accanto a quello di Masaka. Ma era più piccolo e si trovava ai margini degli oggetti, oppure sul retro, quasi fosse un ripensamento» proseguì Juri. «Picard scoprì che era associato a un’altra figura mitologica D’Arsay, un certo Korgano. Sulle prime sembrava che fosse un cacciatore, ma poi divenne evidente il suo simbolismo lunare. Il Capitano ricordò che due delle personalità di Data, Ihat e il vecchio, avevano parlato di lui. Entrambi affermavano che solo Korgano poteva placare Masaka, facendola addormentare, ma avevano aggiunto che “ormai non le dà più la caccia”. E così, tutto divenne chiaro!» si animò lo storico. «Avete capito, vero?» chiese, guardandosi attorno emozionato. Ma incontrò solo facce perplesse.

   «Faccia conto di sì» disse Radek. «Ma ce lo spieghi con parole sue».

   «Sigh... e va bene» sospirò Juri, deluso da quella mancanza d’acume. «Molte culture ritualistiche si basano sul dualismo. Masaka era una regina... una figura potente, pressoché divina. Non era illogico ritenere che avesse una controparte, un consorte che le facesse da contraltare. Il loro rapporto era modellato sui movimenti del sole e della luna D’Arsay, che forse non erano mai visibili assieme in cielo».

   «Forse?» chiese Radek. «Conoscendo il pianeta, non si può controllare?».

   «Oggi D’Arsay non ha alcuna luna» rivelò lo storico. «Dev’essersi allontanata molto tempo fa, originando la leggenda del Cacciatore che non insegue più la sua bella. Ma prima di allora, per milioni di anni, l’alternanza era stata quella. Il Sole tramonta e la Luna sorge... Masaka e Korgano si scambiano di posizione, come due potenti sovrani che si alternano al trono in un ciclo continuo» disse, indicando un bassorilievo in cui i due simboli comparivano affiancati. «Così Picard decise che, se Masaka non voleva ascoltarlo, magari avrebbe dato retta a Korgano. Trovò il suo simbolo nell’Archivio e ne favorì la materializzazione».

   «Pensava che con Korgano sarebbero stati più al sicuro?» chiese Norrin.

   «Le altre personalità D’Arsay non sembravano temerlo» rispose Juri.

   «E si può dar credito a personalità fittizie, generate da un archivio alieno?» domandò l’Hirogeno, sempre più scettico.

   «Perché no?» fece lo storico. «Comunque l’Enterprise stava per essere completamente trasformata, quindi non c’era tempo d’escogitare qualcos’altro» concluse, facendo spallucce.

   «Quindi fecero spuntare Korgano?» chiese Vrel, confuso.

   «Eh eh, no... solo la sua maschera cerimoniale!» ridacchiò Juri, mostrandone l’immagine. «Vedete, quelli dell’Enterprise – come voi ora – stavano prendendo la cosa nel modo sbagliato. I D’Arsay erano una cultura ritualistica, basata sul simbolismo e il mito. Bisognava affrontarli su quel terreno, incorporandosi nei loro cerimoniali. Così Picard indossò la maschera di Korgano e si presentò a Masaka, fingendosi lui».

   «E questo bastò a infinocchiarla?!» fece Vrel, sempre più stranito.

   «Sì!» esultò lo storico. «Vedete, per gli antichi D’Arsay il simbolo era tutto. Se Picard aveva la maschera di Korgano e si comportava come lui, allora era lui. Il buon Capitano non fece altro che esortare Masaka ad addormentarsi, per risorgere alla prossima alba. Si appellò persino al suo ego, affermando che invece d’essere la preda inseguita, avrebbe trovato molto più stimolante divenire la cacciatrice, per scacciarlo dai cieli e tornare a regnare. Così la personalità di Masaka si addormentò, liberando Data dalla sua influenza. Anche il processo di trasformazione della nave s’invertì. L’Enterprise tornò come prima e fu libera di allontanarsi».

   «Questo fa sorgere una domanda» disse Dib, parlando a nome di tutti. «Se il Capitano Picard non fosse riuscito a far riassopire Masaka, cosa sarebbe accaduto all’Enterprise e al suo equipaggio?».

   «Ottimo quesito» riconobbe Juri. «Tutto suggerisce che la trasformazione sarebbe continuata, finché l’Enterprise fosse divenuta il tempio di Masaka... se non la sua intera città. Non oso pronunciarmi sul destino dell’equipaggio» aggiunse con una smorfia. «In seguito la Flotta Stellare mandò delle squadre archeologiche a studiare l’Archivio, ma tutte le astronavi si scontrarono con lo stesso problema. Appena si avvicinavano, iniziava la trasformazione delle sostanze di bordo. Così non restava che andarsene alla svelta, prima di svegliare Masaka un’altra volta».

   «Mi chiedo quale fosse lo scopo di una sonda-archivio così bizzarramente progettata» disse ancora l’Ingegnere Capo.

   «Gli archeologi hanno ipotizzato che sia una sorta di Dispositivo Genesis molto evoluto, costruito per ricreare la civiltà D’Arsay su un altro mondo» rispose Juri. «E questo ci porta al problema di oggi. Vedete, l’incidente dell’Enterprise-D avvenne 217 anni fa. In tutto questo tempo la sonda ha continuato la rotta, anche se la Flotta Stellare se n’era praticamente scordata. Pochi giorni fa è stata avvistata di nuovo. Sta entrando nel sistema di Ultima Thule e ha modificato la rotta per raggiungere il pianeta colonizzato. Sulla base a terra gli oggetti hanno già cominciato a trasmutarsi. L’installazione sta diventando una specie di città Maya, con templi e palazzi di pietra. Il simbolo di Masaka compare ovunque... non ci vorrà molto prima che la regina si faccia viva».

   «Ci sono androidi che potrebbero essere infettati?» chiese Dib.

   «Peggio» rispose il Capitano. «C’è un’Intelligenza Artificiale con emettitori olografici in quasi tutta la base. E ci sono emettitori da braccio che le permetteranno di andarsene in giro sul pianeta... e persino di lasciarlo».

   Gli ufficiali si scambiarono sguardi preoccupati. Tutti loro avevano già affrontato sfide insolite; ma quell’antichissima regina, resuscitata da un archivio alieno, si annunciava la più esotica di tutte. Come ci si poteva approcciare a un’entità del genere?

   «Dobbiamo aspettarci che basti indossare la maschera di Korgano per rimetterla a nanna?» chiese Radek.

   «Forse stavolta non sarà così semplice» avvertì Juri. «La presenza di un vero pianeta da trasformare potrebbe mettere gli Archivi in allarme. Ci sono più cose da riplasmare, più personalità da ricreare. Invece di manifestarsi in sequenza, i personaggi potrebbero apparire tutti assieme, interagendo in modi imprevedibili».

   «Sono pur sempre personaggi-tipo, che agiscono secondo schemi prefissati» commentò Norrin. «Non mi sembra molto diverso dall’andare su un ponte ologrammi».

   «Signori, vi esorto a non prendere sottogamba il problema» ammonì lo storico, scrutando tutti gli ufficiali. «Nella cultura D’Arsay ci sono evidenti arcaismi di stampo tribale. Il paragone con le culture precolombiane – Maya, Aztechi – mi sembra calzante. Quei popoli avevano raggiunto un certo grado di complessità sociale, ma praticavano riti violentissimi, come i sacrifici umani. E sappiamo che i sudditi di Masaka temono di finire sul suo altare sacrificale. Anche se il sole di Ultima Thule non è rovente come quello D’Arsay, temo che non sarà facile placare i bollenti spiriti della regina».

   «E Korgano?» chiese Radek.

   «Già, Korgano» fece Juri, meditabondo. «Se gli Archivi si riattivano del tutto, di lui potremmo vedere più che la maschera. In un certo, senso, lo spero. Sarei molto curioso di fare due chiacchiere con lui».

   «Può darsi che incontreremo molte figure della società D’Arsay, o della sua mitologia» disse il Capitano. «Data riferì che dentro di lui erano stipate migliaia di personalità. Un intero popolo... che ora intende occupare un mondo federale».

   «Sotto certi aspetti, non è diverso da una normale migrazione» notò Dib. «L’Unione ha dei protocolli per gestire queste situazioni».

   «Protocolli che non funzionano benissimo neanche con le persone normali» sospirò il Capitano, ricordando i numerosi incidenti del passato. «Figurarsi con queste personalità mitologiche che invadono i nostri computer. Dovremo stare molto attenti. In primo luogo, accertiamoci che la sonda-archivio non violi i nostri sistemi».

   «È dall’incidente col Melange che sto potenziando la sicurezza informatica» assicurò Dib. «Data la nostra scarsa conoscenza della tecnologia D’Arsay, tuttavia, suggerisco di mantenerci a distanza dagli Archivi».

   «Dieci navi trasporto sono già in viaggio per Ultima Thule» spiegò il Capitano. «Nella peggiore delle ipotesi, se perderemo la base, salveremo almeno gli abitanti. Ma il Comando di Flotta è stato chiaro: dobbiamo fare tutto il possibile per non perdere questo pianeta strategico».

   «Se le maschere e gli antivirus fallissero, potremmo distruggere la sonda-archivio» suggerì Norrin.

   «È tutto ciò che resta di una cultura vecchia di 87 milioni di anni» sospirò Juri. «Una cultura sopravvissuta al suo ecosistema, che ha trovato questo modo straordinario per trapiantarsi e sopravvivere. Forse dovremmo darle una chance».

   «Una cultura che pratica sacrifici umani» ricordò Radek. «Che non si fa scrupoli a distruggerci, anziché intavolare una discussione. Che si fa comandare da una regina assetata di sangue e da un re di cui, beh... nulla sappiamo. Non sono le basi migliori per aprire un negoziato».

   «No di certo» convenne il Capitano. «Ma tenteremo ugualmente. Tutto dipende da Masaka e dalle altre personalità. Saranno così cieche nel perseguire i loro rituali, o stavolta si mostreranno più reattive?» chiese a Juri.

   «Non me la sento di fare previsioni» rispose lo storico. «Dipende da come sono programmate. Dico solo che il mito è più adattabile di quanto comunemente si pensi».

   «Lo scopriremo fra poco» concluse Hod. «Tutti in plancia. Vrel, tracci la rotta per Ultima Thule. Massima cavitazione. Non dobbiamo far aspettare la regina» ironizzò.

 

   Ultima Thule era un planetoide di classe Theta, più piccolo della Terra ma con massa sufficiente a trattenere un’atmosfera. Una grossa luna di classe D gli orbitava attorno. Il clima era mite, ma all’equatore la temperatura si alzava considerevolmente. Lì, in mezzo a una foresta verdeggiante, sorgeva l’avamposto federale. Era una cittadina costruita secondo uno schema ortogonale, con strade che s’incrociavano ad angolo retto. Al centro sorgeva il presidio della Flotta Stellare: un grande edificio, scintillante di trasparacciaio, che per ironia della sorte aveva forma piramidale.

   «Per Masaka deve sembrare un invito» commentò il Capitano, osservando la piramide inquadrata sullo schermo. «Dov’è la sonda-archivio?».

   «A 300 milioni di km, ma si avvicina a rapido impulso» riferì Zafreen. «Se mantiene la velocità, sarà qui fra sei ore al massimo».

   «I suoi effetti si vedono già» commentò Radek, osservando attentamente il centro urbano. Qua e là i moderni edifici federali lasciavano il posto a costruzioni in pietra, più anticheggianti. C’erano obelischi, stele e statue scolpite. Certe statue erano in piedi, altre sdraiate; alcune non erano che grossi faccioni, dall’espressione indecifrabile. Attorno a loro avanzava una vegetazione tropicale, diversa da quella del pianeta.

   «I nostri scudi sono alzati?» chiese Hod, con una certa apprensione.

   «Li ho attivati appena siamo usciti dalla cavitazione» la rassicurò Norrin.

   «Zafreen, ci mostri la sonda-archivio» ordinò il Capitano.

   «Eccola, in tutta la sua bruttezza» commentò l’Orioniana, inquadrando la struttura aliena tramite i sensori di bordo. Era proprio come l’immagine che avevano visto: un conglomerato di blocchi squadrati, di colore rossiccio, che non permetteva nemmeno di distinguere l’alto e il basso. Negli interstizi fra un blocco e l’altro c’erano ancora residui ghiacciati della cometa che l’aveva imprigionato a lungo. «L’Archivio misura un chilometro per tre, nei punti più ampi» riferì l’addetta ai sensori. «Lo scafo è in fortanium con tracce d’altri materiali. Niente scudi».

   «Se si mettesse male, un paio di siluri basteranno a farlo saltare» commentò Norrin a mezza voce.

   «Teniamolo d’occhio coi sensori» raccomandò il Capitano. «Intanto occupiamoci della base, visto che è già stata compromessa. Zafreen, apra un canale».

   «Non posso, Capitano».

   «Come sarebbe, non può?!» fece Hod, voltandosi di scatto. La consolle delle comunicazioni era svanita, rimpiazzata da un altare sacrificale. Ci fu un lampo e il simbolo di Masaka, il sole coi quattro punti cardinali, vi apparve inciso a bassorilievo.

   «Eeek!» strillò l’Orioniana, balzando indietro. «Sono troppo giovane per il sacrificio!».

   «Frell, quell’affare ci colpisce attraverso gli scudi!» imprecò Radek. «Com’è possibile? Niente può superare gli scudi cronofasici!».

   «Non possiamo lasciare che la Keter sia infettata» disse Hod, pallida. «Mettiamo altri 300 milioni di km fra noi e la sonda. Raggiungeremo il pianeta con le navette».

   «Sempre che non si trasformino in canoe durante il volo» commentò Vrel, innervosito. Si affrettò ad allontanare l’astronave, mentre i tecnici teletrasportavano via l’altare, sostituendolo con una nuova consolle. Nel frattempo si cercò di contattare Base Thule dalla sala ausiliaria, ma non ci fu risposta.

   «Questo silenzio è preoccupante» disse il Capitano. «Forse Masaka si è già manifestata. Dobbiamo scendere subito. Per affrontare i problemi culturali, tecnologici e linguistici verranno Juri, Dib e Zafreen».

   «Vengo anch’io» si offrì Norrin.

   «D’accordo; io mi occuperò delle trattative» disse Hod.

   «Mi lasci andare al suo posto, Capitano» la esortò Radek. «Non sappiamo cosa troveremo laggiù... potrebbe essere una trappola».

   «So che si preoccupa per me, tuttavia...».

   «Dico sul serio. Mi faccia andare, la prego» insisté il Rigeliano, fissandola con genuina preoccupazione.

   «E va bene» cedette Hod. «La squadra è sua, Comandante. Partite subito».

 

   La navicella di classe Gryphon scese nell’atmosfera, diretta alla base federale. Nel breve tempo trascorso da quando la Keter era stata in orbita, la trasformazione si era già visibilmente accentuata. Gli edifici e i monumenti in pietra si espandevano ai danni della città. La foresta circostante stava diventando una giungla paludosa. Sulla navetta, gli ufficiali osservarono il panorama.

   «Guardate là» disse Juri, indicando la piramide al centro. «La nuova padrona sta marcando il territorio». Sulla parete sopra l’ingresso il simbolo della Flotta Stellare era stato sostituito dal marchio di Masaka. La piramide stava anche cambiando colore, da azzurro-argento a rosso-oro.

   «Megalomane» commentò Radek. «Non atterriamo lì davanti... scendiamo su quella piazza secondaria» disse, indicandola al pilota. «Voglio guardarmi attorno, prima di affrontare la regina».

   La navicella atterrò nella piazzola deserta. Gli ufficiali scesero, scortati da un folto gruppo di guardie. Si guardarono attorno senza scorgere anima viva.

   «Beh, nessuno viene a salutarci?» fece Zafreen, delusa dalla mancata accoglienza.

   «Spero che siano tutti tappati in casa per l’emergenza» disse Juri. «Perché l’alternativa è infausta».

   «Affrettiamoci» ordinò Radek, preoccupato dall’immobilità e dal silenzio dell’insediamento.

 

   I federali percorsero viali deserti, mentre attorno a loro altri oggetti cambiavano. Norrin e le sue guardie avevano i fucili phaser spianati; tutti gli altri tenevano i phaser manuali in cintura. A un certo punto Norrin si affiancò al Comandante. «Qualcuno ci spia. Là dietro» gli sussurrò all’orecchio, accennando a una siepe. Dietro di essa s’indovinava una figura umanoide, che ogni tanto si fermava a sbirciarli tra le fronde.

   «Ho visto» confermò Radek. «Prendetelo. Con le buone, mi raccomando».

   «Vado». L’Hirogeno si allontanò discretamente, con alcuni dei suoi agenti. Girarono rapidi attorno all’isolato e cercarono di prendere lo spione alle spalle. Ma quando giunsero dove credevano che fosse, lo videro che correva decine di metri più avanti. Indossava semplici sandali, un gonnellino e un mantello simile a un poncho. Gran parte del corpo era dipinta a colori vivaci, mentre in testa aveva una piuma. «Mi sa che non è un cittadino federale» mormorò Norrin, partendo all’inseguimento.

   Il fuggiasco, chiunque fosse, si rivelò difficile da acchiappare. Sebbene fosse inseguito da parecchi agenti della Sicurezza, lui era sempre un passo avanti. Correva attraverso i giardini privati, superava d’un balzo siepi e muretti, si nascondeva dietro i veicoli, lasciava false piste. In più occasioni due Agenti fecero una manovra a tenaglia, certi di prenderlo nel mezzo, ma finirono l’uno addosso all’altro mentre lui si allontanava. Da buon Hirogeno, Norrin cercò di mettere la preda con le spalle al muro, tagliandole ogni via di fuga. Ma lo sconosciuto s’inventava sempre dei trucchi per sgusciar via. Gli Agenti continuarono a tallonarlo, mentre gli altri federali arrancavano più indietro.

   «Elaboro il percorso di fuga più probabile» disse Dib, e svoltò un cantone, separandosi dagli altri. Radek fece per trattenerlo, ma il Penumbrano era già lontano.

   «Credevo che non dovessimo separarci!» commentò Juri, ansimando dietro al Comandante.

   «Lo credevo anch’io» disse il Rigeliano, seccato. Si premette il comunicatore e diede ordini agli ufficiali, perché tagliassero le vie di fuga all’intruso e convergessero su di lui.

   «Zafreen, mi serve il tuo aiuto» disse allora Juri. Si accostò all’Orioniana, che aveva un d-pad con la matrice di traduzione dei glifi D’Arsay. «Qual è il simbolo che indica la prigionia?».

 

   Il fuggitivo corse a perdifiato attraverso un parco giochi per bambini. Zigzagò tra scivoli e altalene, coi raggi phaser che gli fischiavano intorno. «È in campo aperto... ora lo prendiamo!» fece Norrin, aggiustando la mira. Quando lo sconosciuto superò d’un balzo una bassa siepe, l’Ufficiale Tattico e la sua squadra lo imitarono. Ma non saltarono abbastanza in lungo, non immaginando cosa li aspettasse dall’altra parte.

   Dietro la siepe si era formata una palude marcescente, con tanto di sabbie mobili. I federali vi sprofondarono fino alla vita. Cercarono di trarsi d’impaccio, ma ogni movimento li faceva affondare di più. «State fermi, così peggiorate solo le cose!» ordinò Norrin, frustrato per come il fuggitivo li aveva messi nel sacco. Trasse una pistola-rampino dallo zaino multiuso e centrò un albero, fuori dalla zona delle sabbie mobili. Riavvolgendo la fune riuscì a trarsi in salvo, anche se dovette lottare contro il risucchio del pantano, conquistando faticosamente ogni centimetro. Aiutò poi i suoi uomini, pur sapendo che così il fuggitivo li avrebbe definitivamente seminati.

   Molto più avanti, lo sconosciuto si voltò a guardare gli inseguitori impantanati e sorrise, certo d’essere in salvo. Non aveva considerato Dib. Quando tornò a guardare in avanti, il Penumbrano gli era quasi addosso. Il fuggiasco lo evitò con uno scarto disperato, ma così finì in una strada senza uscita. «Molto abile... come hai capito che sarei passato di qui?» chiese. Era incuriosito, ma non particolarmente spaventato.

   «Ho elaborato ottocento possibili scenari di fuga» rispose con calma l’Ingegnere Capo. «Questo era il più probabile».

   «Caspita, non credevo d’essere così prevedibile!» fece l’altro, arretrando verso la fine del vicolo.

   «Non cerchi di fuggire... non intendiamo farle del male» spiegò Dib. «Vogliamo solo farle qualche domanda».

   «Dicono tutti così... e in men che non si dica, ti trovi legato a un altare sacrificale!» ribatté il fuggiasco. «Nossignore... sfuggirò a te, come sono sempre sfuggito a Masaka!» dichiarò. In quella ci fu un bagliore alle sue spalle. Il muro moderno si era trasformato in una muraglia di blocchi squadrati, con un ingresso monumentale, vegliato da statue di giaguaro. Lo sconosciuto fece un sorriso furbetto e fuggì per quella comoda via.

   «Sorprendente» commentò Dib, osservando il muro trasfigurato. Abbandonato l’inseguimento, cominciò ad analizzarlo col tricorder, cercando di comprendere la natura della trasformazione.

   «Salvo, finalmente!» gongolò il fuggitivo, allontanandosi di buon passo. Non si era accorto che, a molti metri di distanza, Radek lo stava mirando col phaser.

   «Ora ci sei» disse il Comandante, socchiudendo gli occhi. Premette il grilletto... solo per scoprire che non c’era più alcun grilletto da premere. Il phaser manuale si era trasformato in una cerbottana. «Yotz!» imprecò il Rigeliano, in procinto di gettarla via.

   «Fermo!» disse Juri, strappandogliela di mano. «Se è come credo, questa è la nostra arma migliore, al momento». Si portò la cerbottana alla bocca, mirò il fuggitivo e soffiò con tutte le sue forze. Lo sconosciuto si girò verso di lui e il sorriso fanciullesco gli morì in volto. Cercò di scappare ancora, ma il dardo della cerbottana lo colpì a un polpaccio. Il D’Arsay gridò, fece ancora qualche passo zoppicante e infine crollò a terra, paralizzato.

 

   «Tutto qui?» si stupì Radek.

   «Come sarebbe, tutto qui?!» s’indignò Juri, restituendogli la cerbottana. «Crede sia facile centrare un corridore a quella distanza, con quest’affare? E poi il mio compito non è ancora finito». Lo storico corse dalla sua vittima. Quando gli fu accanto, trasse di tasca un gessetto e cominciò a tracciargli intorno degli intricati glifi.

   «E adesso che fa?» chiese Radek, accorrendo.

   «Mi accerto che il nostro amico non scappi» rispose Juri, mentre anche Zafreen li raggiungeva trafelata. «Questi simboli esprimono il concetto d’immobilità e prigionia. Non credo che li oltrepasserà».

   «Ma sono solo dei disegni sul permacemento!» protestò il Rigeliano. «Cosa gl’impedisce di calpestarli?».

   «Non l’ha ancora capito, Comandante? È il simbolo che conta. Sempre e solo il simbolo» spiegò Juri, ultimando il cerchio di glifi intorno al prigioniero.

   «Mi arrendo... sei troppo furbo!» riconobbe il D’Arsay, che aveva una strana voce nasale.

   Radek lo afferrò per le spalle e lo girò rudemente, per vederlo in faccia. Il prigioniero aveva l’attaccatura dei capelli molto arretrata ed era privo di sopracciglia. La metà superiore del volto era dipinta di blu e il setto nasale era attraversato da una pietruzza dello stesso colore. Al petto gli pendeva una tavoletta d’argilla con impresso un glifo a forma di piuma.

   «Così è questo l’aspetto dei D’Arsay» commentò il Comandante. «Tu chi sei?».

   «Il vostro umile schiavo» rispose l’altro, sarcastico. «Vi prego, non mettetemi a girare la macina del mais».

   «Le leggi dell’Unione vietano la schiavitù» spiegò Radek, corrucciato. «Scusa per tutto questo. Non avremmo voluto braccarti, né ferirti, e neppure imprigionarti, ma...».

   «Quante cose mi avete fatto, senza volerlo!» lo derise l’altro. «Eppure i tuoi segugi mi stavano alle costole con parecchia convinzione».

   «Questa colonia è in pericolo e ci servono risposte. Tu sembri in grado di darcele» si giustificò il Comandante. «Sei una delle personalità generate dall’Archivio, vero?».

   «Quale archivio? Non so di che parli» rispose il D’Arsay, con quel tono nasale che sapeva di sberleffo.

   «No, Comandante; continua a sbagliare approccio» disse Juri. L’Umano sedette a gambe incrociate davanti al suo prigioniero e gli levò il dardo dal polpaccio. «Io sono Juri, lo storico... vengo dalla Terra» si presentò, portandosi la mano al petto. «Tu chi sei? Qual è il tuo nome, la tua patria...?» chiese, indicando l’interlocutore.

   «Sono Ihat» rispose il D’Arsay. «Mi chiamano l’Esule e il Fuggiasco. Non ho patria... ma se l’avessi, sarebbe la Città di Masaka. Ehi, non ci siamo forse tutti dentro?» chiese, allargando le braccia a indicare l’insediamento sempre più alieno intorno a loro.

   In quella arrivarono Norrin e gli altri agenti della Sicurezza. C’era anche Dib, che analizzò Ihat al tricorder. «Quest’essere sembra organico... ma a un esame più approfondito direi che si tratta di una proiezione isomorfa» concluse l’Ingegnere Capo.

   «Immaginavo che fosse un ologramma di ultima generazione» commentò Radek. «Dove nascondi l’Emettitore Autonomo? Ah, ecco!». Sollevando il mantello che copriva le spalle di Ihat, vide l’olo-emettitore allacciato al braccio.

   «Questo talismano mi permette di uscire dal Tempio di Masaka» disse Ihat, accennando alla piramide. «Fortunati quelli che ne escono vivi! Degli altri restano le ossa e a volte neanche quelle».

   «Ciò di cui parla non è un talismano...» cominciò Dib, ma Radek lo zittì con un gesto secco. «Io sono il Comandante Radek, della nave stellare Keter. Questi sono i miei ufficiali» disse, nominandoli uno dopo l’altro. «Siamo qui per incontrare la tua regina».

   «Masaka non è la mia regina» disse Ihat con orgoglio. «È una creatura pigra... passa la maggior parte del suo tempo a dormire. Il problema è ciò che fa da sveglia!».

   «Allora sarà meglio che continui a dormire» suggerì il Comandante.

   Nel sentir questo, Ihat gli rise in faccia. «Prova un po’ a fermare il Sole nella sua ascesa al cielo!» esclamò, accompagnandosi con un ampio gesto.

   «Comandante... queste sono le parole che Ihat disse anche a Picard» gli sussurrò Juri all’orecchio. «Cerchiamo di scoprire qualcosa di nuovo». Lo storico sedette più comodo e si rivolse nuovamente al D’Arsay. «Parlaci un po’ di Masaka. Adesso dov’è? Che sta facendo?» chiese in tono colloquiale. Solo i colleghi che lo conoscevano meglio intuirono la sua tensione.

   «Dove volete che sia? Nel suo tempio!» esclamò Ihat, indicando la massiccia struttura piramidale.

«E cosa credete che faccia? Dorme, ovviamente! Forse sogna. Ma non per molto. No, non per molto!» aggiunse con voce gorgogliante. Si raccolse le ginocchia tra le braccia e si piegò in avanti con la schiena, fin quasi ad appallottolarsi. «Presto si sveglierà. Sì, sì, Masaka si sta svegliando! E come al solito vorrà bagnarsi nel sangue. Non capite? Non sentite le sue fiamme che già vi lambiscono?» chiese, fissando i federali uno dopo l’altro. Zafreen si ritrasse, spaventata dal suo atteggiamento, mentre gli altri lo osservarono accigliati.

   «Beh, che fate lì impalati?» chiese Ihat, sorpreso e – si sarebbe detto – indignato. «Correte a nascondervi in qualche anfratto senza sole, se volete prolungare di poco le vostre misere esistenze. Nascondetevi, vi dico! Non mi avete sentito? Masaka si sta svegliando! Sì, sì, è sveglia ormai! Tremate, miseri mortali, perché Masaka si è svegliata!».

   La struttura del presidio si era ormai trasformata in una piramide a gradoni, col marchio di Masaka impresso sui quattro lati. Il sole riverberava sulla sua superficie cristallina, rendendola abbagliante. Ihat scoppiò a ridere come un forsennato, ripetendo il suo ritornello: «Masaka si è svegliata... la regina è sveglia... Masaka si è svegliata...».

 

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Capitolo 3
*** Il marchio di Masaka ***


-Capitolo 2: Il marchio di Masaka

 

   I federali lasciarono Ihat al suo ritornello e si discostarono per discutere il da farsi. A quel punto notarono che dalle finestre delle abitazioni private molte facce li stavano osservando. Radek e Norrin passarono da una casa all’altra, chiamando gli abitanti. Alcuni gli risposero, affacciandosi dalla finestra o anche presentandosi all’uscio. I federali ebbero così la conferma che i coloni erano ancora lì, ma il Comandante della base gli aveva ordinato di non uscire fino al termine dell’emergenza.

   «Come se fosse facile!» si lamentò un colono. «Casa mia sta diventando irriconoscibile. Gli oggetti continuano a trasformarsi... che faremo, quando sarà tutto cambiato?».

   «Siamo qui per cercare d’invertire il processo» spiegò Radek. «Se le cose si mettessero male, però, dovete essere pronti all’evacuazione. Dieci navi trasporto sono in arrivo».

   «Dove ci trasferirete?».

   «Su Volnar, più addentro nello spazio federale. Lì ci sono città più grandi e meglio difese».

   «Sono nato qui... non voglio andarmene solo perché questi spaventapasseri hanno deciso di farne casa loro!» ribatté il colono, indicando Ihat.

   «Come le ho detto, faremo tutto il possibile per invertire la trasformazione» promise Radek. «Nel frattempo, comunque, tenete pronti i bagagli».

   «Se non si trasformano anche quelli!» protestò il colono, e rientrò in casa sbattendo la porta.

   Impensierito, il Comandante tornò da Ihat. «È chiaro che non sei fedele a Masaka» gli disse. «Ma conosci piuttosto bene lei e i suoi sudditi. Potresti esserci d’aiuto».

   «D’aiuto per cosa?» fece il D’Arsay. «Dovrei aiutarvi a rigettarci nell’oblio?».

   Radek e Juri si scambiarono un’occhiata. Era la prima volta che Ihat si mostrava consapevole della situazione. «Se riuscissimo a neutralizzare Masaka, potremmo trovare un compromesso per il resto del vostro popolo» suggerì il Comandante.

   «Non può esistere D’Arsay senza Masaka» ribatté Ihat.

   «Ma è chiaro che non ti sta simpatica».

   «Certo che no... ma è indispensabile. Lo siamo tutti».

   «Tutti?» s’incuriosì Juri. «Tu a cosa servi?».

   «Io sono il Fuggiasco. Sempre vicino a Masaka, sempre un passo oltre la sua presa» fu l’ermetica risposta. «Sono colui che varca i confini... che passa non visto... l’ambiguo consigliere e il ladro nella notte!».

   «Non capisco perché debba parlarci per enigmi» commentò Dib.

   «È tutto chiaro, invece» disse Juri. Si allontanò da Ihat, per non essere udito mentre confabulava con i colleghi.

   «Ebbene?» chiese Radek.

   «Direi che siamo di fronte a un trickster» spiegò Juri.

   «Un imbroglione? L’avevo notato» fece il Comandante.

   «No, è molto di più» corresse lo storico. «In senso simbolico, il trickster è colui che attraversa i confini. Vedete, ogni gruppo sociale ha i propri confini, il proprio senso del dentro e del fuori, e il trickster è lì sulla soglia, a rappresentare gli scambi. Ha anche a che fare col superamento dei dualismi. Tutti noi distinguiamo continuamente gli opposti: giusto e sbagliato, sacro e profano, maschio e femmina, giovane e vecchio. Il trickster varca questa linea e confonde le definizioni. È l’incarnazione mitica dell’ambivalenza, della finzione, del paradosso. In effetti mi sarei stupito di non trovarlo».

   «Okay, ma... ora che l’abbiamo trovato, che ne facciamo?» chiese Radek.

   «Se non volete lasciarlo qui, direi di portarcelo dietro» suggerì Juri.

   «Ha appena detto che è l’incarnazione dell’inganno!» protestò Norrin, che dopo il tuffo nel fango aveva preso Ihat in antipatia.

   «Potrebbe farci comodo un ingannatore» rispose lo storico. «Sotto molti aspetti è l’antitesi di Masaka. Se lei è il centro di questo sistema simbolico, lui è il confine, la periferia. Potrebbe suggerirci qualche trucco utile per cavarcela».

   «O potrebbe venderci alla prima occasione» borbottò l’Hirogeno.

   «Uhm... se vogliamo controllarlo, nella misura in cui un trickster può essere controllato, dobbiamo comprenderlo appieno» ragionò Juri. «Le altre figure-chiave D’Arsay hanno una valenza astronomica. Masaka è il sole, Korgano la luna... mentre Ihat... come si era definito, all’inizio?» mormorò, sforzandosi di ricordare.

   «Sempre vicino a Masaka e sempre un passo oltre la sua presa» gli rammentò Zafreen.

   «Giusto!» esclamò Juri, consultando il d-pad con le informazioni sul pianeta D’Arsay. «Il loro mondo è il secondo in orbita attorno al sole. Quindi ha un pianeta interno che appare come un astro brillante all’alba e al tramonto. La Terra invece ne ha due, Mercurio e Venere. Come il pianeta interno appare sempre presso il sole, così Ihat è vicino a Masaka, ma le sfugge in eterno».

   «Quindi quel tipo è l’incarnazione di un pianeta?» fece Radek, accennando al D’Arsay seduto qualche metro più in là.

   «È una figura mitologica che ha anche una valenza astrale» corresse Juri. «O almeno è ciò che intendo chiedergli. Ehi, Ihat!» esclamò, tornando da lui. «Se ti dicessi che ho catturato la stella del mattino e della sera, cosa mi risponderesti?».

   «Che sei un uomo saggio» rispose il Fuggiasco, alzandosi in piedi, pur senza uscire dal cerchio. «Nessuno straniero era mai stato così perspicace nei miei riguardi».

   «Forse nessuno si era mai interessato tanto ai vostri riti» rispose lo storico. «Io ti ho catturato... un’impresa non facile, da quel che capisco. E se ti do la libertà, come la userai?». Così dicendo iniziò a cancellare il cerchio magico, passandoci sopra il piede. «Ci guiderai da Masaka? In fondo è questo che fai... metti in comunicazione le persone. Le aiuti a varcare i confini».

   «Vuoi varcare l’ultimo confine?» ribatté Ihat, fissandolo con insolita solennità.

   «La morte» mormorò Juri, fermandosi. «È questo che mi aspetta, nel Tempio di Masaka?».

   «Può darsi» sogghignò il Fuggiasco. «Ti accompagnerò alla porta, se vuoi... ma non andrò oltre».

   «Molto opportunista... e molto coerente» ammise lo storico. «E va bene, canaglia. Esci da lì» disse, finendo di cancellare un tratto di cerchio.

   Ihat non perse tempo a uscire dal confinamento. Prese subito a muoversi, come per sgranchirsi. «Seguitemi, stranieri... Masaka vi attende nel suo tempio. Ma difficilmente vi ascolterà!» avvertì, precedendo il gruppo sulla strada per la piramide.

   «Perché?» chiese Radek.

   «Lei non ascolta nessuno!» ridacchiò il Fuggiasco. «Solo Korgano poteva farla ragionare... ma lui smise di darle la caccia, molto tempo fa. Se ne andò».

   «Ti riferisci alla vostra luna, che uscì dall’orbita?» chiese il Comandante.

   «Korgano ha smesso d’inseguirla» ripeté Ihat. «Da allora, l’umore della regina è peggiorato... e non è che prima fosse innocua!».

   «Lasci perdere» sussurrò Juri all’orecchio di Radek. «Non riuscirà ad avere una discussione scientifica con questi personaggi».

   «Me ne sono accorto» borbottò il Rigeliano.

 

   Strada facendo, Juri chiacchierò fittamente con Ihat. I colleghi lo lasciarono fare e tennero gli occhi aperti, nel caso altri D’Arsay se ne andassero in giro. Percorsero strade irriconoscibili, giungendo infine all’ingresso della piramide. Qui trovarono ad accoglierli alcuni ufficiali della guarnigione locale.

   «Finalmente!» esclamò Radek, accelerando il passo. «Sono il Comandante Radek dell’USS Keter».

   «Comandante Odenn, di Base Thule» si presentò un Tiburoniano, stringendogli la mano. «Siete i benvenuti... cominciavo a temere che la Flotta non avesse ricevuto la nostra richiesta d’aiuto».

   «Perché non avete risposto alle chiamate?» chiese Radek.

   «Tutti i dispositivi di comunicazione a medio e lungo raggio sono inerti» rispose Odenn. «Il black-out è cominciato dopo che inviammo la richiesta di soccorso».

   «Permette?» fece Dib, esaminando lui e gli altri col tricorder. Il congegno emise un bip rassicurante. «Tutto a posto, sono Organici» disse il Penumbrano.

   «Una semplice precauzione» spiegò Radek, visto che l’altro lo guardava perplesso. «Ci è già capitato d’incontrare un ufficiale della Flotta che era stato sostituito da un ologramma».

   «Beh, noi siamo veri» disse Odenn, stringendosi nelle spalle. «Il resto della base, però, è irriconoscibile!» si lamentò, guardandosi attorno. «La vostra nave deve distruggere quella sonda aliena, prima che qui non resti niente di nostro».

   «È una possibilità, ma prima proveremo a ragionare con Masaka, o a farla riaddormentare come fece Picard» spiegò il Rigeliano. «Nell’ipotesi peggiore evacueremo la colonia con l’aiuto delle navi trasporto in arrivo... ma spero che non arriveremo a tanto».

   «Spero proprio di no» disse il Tiburoniano, accompagnando i colleghi dentro la piramide. «Eravamo determinati a non cedere il pianeta ai Breen. Lo siamo altrettanto contro questi esaltati usciti da un archivio».

   Erano nel salone d’ingresso della base, ormai riconfigurato secondo lo stile D’Arsay. Un gran numero di personaggi, creati dagli Archivi, si aggirava in quell’ambiente. Avevano costumi sgargianti e ornamenti quali gioielli, pitture, tatuaggi. Tutti recavano il marchio di Masaka in fronte e avevano al collo una tavoletta con dei glifi, che rivelavano la loro identità.

   «Sono tutti ologrammi» confermò Dib, dopo averli analizzati discretamente col tricorder.

   «Sì, purtroppo questa base ha emettitori quasi ovunque» sospirò il Comandante Odenn. «Quelli sono rimasti, assieme ai sistemi energetici che li alimentano. Così ci ritroviamo questi indigeni dappertutto».

   «Sono ostili?» chiese Norrin.

   «Abbiamo avuto scontri con le guardie di Masaka. Diversi feriti... ancora niente vittime, per fortuna. Ma temo sia solo questione di tempo» si adombrò Odenn. «L’unico vantaggio è che gli intrusi non possono lasciare l’edificio».

   «Vi piacerebbe, eh?» fece Juri, additando Ihat che li fissava da fuori la porta. «Il Fuggiasco tiene fede al suo nome, con quell’Emettitore Autonomo».

   «Frell!» imprecò il Tiburoniano. «Prendetelo, presto!» ordinò ai suoi agenti.

   «Fatica sprecata» disse Juri. Ihat si era già dileguato, il che mise in allarme la guarnigione. Gli ufficiali della Keter notarono che i colleghi del posto non sembravano molto efficienti. Era un problema tipico degli avamposti isolati, dove non succedeva mai niente... finché succedeva qualcosa.

   «Parliamo un po’ degli ologrammi» disse il Comandante Radek, prendendo da parte il suo omologo della base. «Ci risulta che questa base sia dotata di un’Intelligenza Artificiale...».

   «Noi la chiamavamo Thule» confermò Odenn. «Era una proiezione isomorfa di ultimo modello, come quelle delle astronavi».

   «Sulla Keter non ne abbiamo, ma so che intende» disse Radek. «Sono grandiose, finché non cominciano a dare problemi».

   «I malfunzionamenti di Thule furono il primo segnale d’allarme, prima ancora che notassimo la comparsa dei manufatti» spiegò il Tiburoniano. «Parlava in modo strano e la sua proiezione sfarfallava. Quando visualizzammo il suo flusso dati, ci apparve questa roba» disse, indicando una consolle ancora attiva. Sullo schermo passavano i colorati glifi D’Arsay. Rimbalzavano contro i bordi e si fondevano, per formare motivi più elaborati.

   «I tecnici misero mano al suo programma, ma era tardi» proseguì Odenn. «Era completamente infettata dalle subroutine aliene. In una notte concitata, la perdemmo. Da allora non si è più fatta vedere... ma il suo programma continua a essere riscritto. E nel frattempo ne spuntano altri!» sibilò, accennando ai D’Arsay intorno a loro.

   «Se il programma di Thule continua a subire alterazioni, è probabile che gli Archivi lo abbiano scelto come base per ricreare Masaka» avvertì Dib.

   «È quello che temo» ammise Odenn, cupo. «Se è così, abbiamo perso una collega e un’amica».

   «Per adesso la regina non si è ancora manifestata?» chiese Radek.

   «Non ancora... ma il suo marchio è ovunque» rispose il Tiburoniano, alludendo al simbolo sulle pareti, gli oggetti e persino la fronte dei D’Arsay.

   «Il nostro informatore sostiene che si è svegliata» avvertì Norrin.

   «E chi sarebbe questo informatore?» chiese Odenn.

   «Ihat, il tipo che avete intravisto poco prima».

   «E vi fidate di lui?!».

   «Finora nessun D’Arsay ha mai mentito» notò Juri. «Nemmeno il nostro amico burlone». Lo storico si guardò attorno, osservando gli ologrammi che affollavano il salone. C’erano uomini e donne, d’ogni età ed estrazione sociale. Alcuni chiacchieravano, altri arredavano l’ambiente secondo il loro stile, con gli oggetti plasmati dagli Archivi. «Prego, fate come a casa vostra» commentò a bassa voce.

   «Se Masaka è arrivata, sarà nella sala del trono che è apparsa in cima all’edificio» disse Odenn. «Andiamo a farle visita». Un inserviente gli portò una scatoletta, che il Tiburoniano aprì, mostrando la maschera argentea di Korgano. Diversamente da quella di Masaka, che celava quasi tutto il volto, questa copriva solo la zona intorno agli occhi. «Anche noi ci siamo premuniti, consultando i rapporti dell’Enterprise-D. Sono pronto a interpretare Korgano e a chiudere questa storia» spiegò il Comandante.

   «È certo di volerlo fare lei?» chiese Radek.

   «Finché la Flotta non dirà altrimenti, sono ancora al comando di questa base» si difese Odenn, temendo che l’altro fosse lì per levargli l’autorità. «È compito mio difenderla da questa infiltrazione aliena». Chiuse la scatola e si avviò verso le scale.

   «Un momento!» fece Juri, andando verso un vecchio malandato, che se ne stava accasciato accanto a un braciere. Era messo proprio male: senza gambe, calvo e sdentato. Il fuoco stava per estinguersi, sebbene il poveretto cercasse di ravvivarlo, gettandoci dei rametti. Nessuno degli altri D’Arsay si degnava d’aiutarlo.

   «Non abbiamo tempo per questo, dottor Smirnov!» lo richiamò Odenn.

   «C’è sempre tempo per una chiacchierata attorno al fuoco» ribatté lo storico, accoccolandosi davanti al braciere. «Voi andate, se volete... io vi raggiungo».

   «È meglio aspettare» disse Radek al collega. «Quell’Umano è l’unico che riesca a capire i D’Arsay».

   «E come fa?».

   «Boh. Gli Umani sono strani».

 

   «Aiutami a tener vivo il fuoco...» mormorò debolmente il vecchio. «È così difficile scaldarsi...».

   «Soffri molto il freddo?» chiese Juri, gettando altri legni nel braciere.

   «Eh sì, alla mia età...» annuì il vecchio. «Ma è colpa mia. Ho trasmesso tutto il calore a mia figlia... non ne ho tenuto per me».

   «Tua figlia?» fece lo storico, con un lampo di comprensione negli occhi. «Parli di Masaka, vero? Tu sei suo padre».

   «Ero suo padre» disse il vecchio, con voce arrochita. «Ora sono solo un mendicante, che cerca di scaldarsi al fuoco. Non farlo spegnere!» raccomandò.

   «No, tranquillo» promise Juri, gettando un grosso ciocco, che ridiede vigore alle fiamme. «Se la regina è tua figlia, perché non si cura di te?».

   «Eh... i figli crescono, dimenticano i genitori...» mormorò il vecchio, avvilito.

   «Quelli ingrati, forse» commentò lo storico. «Ma non ci siamo ancora presentati. Io sono Juri, e tu?».

   «Uxmal, l’Antico» rispose il vecchio. «Prima che ogni altra cosa fosse, io ero. Quando le acque primordiali giacevano immote, io le coprivo. Quando Masaka e Korgano non brillavano ancora, io vegliavo nelle tenebre».

   «Sei la volta celeste» comprese Juri. «Certo, è logico che tu abbia generato gli astri. Ma poi cos’è successo? Hai creato il mondo, le terre emerse, o è stata tua figlia? Dai rapporti che ho letto, questa parte non è chiara...».

   «Mia figlia!» si agitò Uxmal, tanto da far temere che avesse un attacco. «Diceva che ero lento e pigro... che non volevo ordinare il caos... perciò si è ribellata. Mi ha pugnalato a tradimento, mentre dormivo. Ha smembrato il mio corpo e ha usato i pezzi per creare le terre emerse. Con le ossa ha fatto le pietre, con la carne il terriccio, col sangue i fiumi. Mi è rimasto ben poco... e ora sono debole... dimenticato...». La voce del vecchio si spense e la sua testa ciondolò, mentre si assopiva.

   Juri si alzò silenziosamente e tornò dai colleghi. Era più preoccupato di quanto l’avessero mai visto dall’inizio della missione. Anzi, per la prima volta sembrava davvero spaventato. Riferì ciò che aveva sentito.

   «Ugh... che schifo!» commentò Zafreen, udendo la storia dello smembramento.

   «Questa narrazione è priva di significato» affermò Dib. «Tutte queste personalità vengono da un archivio. Possiamo considerarli programmi, o anche Intelligenze Artificiali, ma non hanno un passato alle spalle. E a parte questo, i meccanismi di formazione planetaria sono ben noti. Lo smembramento che ha descritto è assurdo... anche perché implica che Uxmal sia più grande di un pianeta di classe M...».

   «Smettila di pensare da scienziato!» lo rimproverò Juri. «Questo è il linguaggio simbolico del mito. È affine a quello del sogno... procede per analogie sensoriali e concettuali, non per logica matematica».

   «Un mito truculento» notò Radek.

   «Già, è questo che mi preoccupa» annuì Juri. «Il sacrificio del gigante primordiale ricorre in molte mitologie dell’antica Terra. In Mesopotamia, Marduk creò il cielo e la terra con le due metà del corpo di Tiamat. In Scandinavia, i primi dèi uccisero il gigante primordiale Ymir e coi pezzi crearono i Nove Mondi. Anche le culture precolombiane ritenevano che alcuni dèi si fossero sacrificati per creare gli astri. L’idea di fondo è che il cosmo sia un grande organismo... qualcosa che vive e respira. L’abbattimento del gigante primordiale è un atto inevitabile, per creare un mondo ordinato, ma comporta una grande carica di violenza. Questo genera un “senso di colpa” e persino un “debito” da parte di chi vive nel mondo creato in quel modo».

   «E la cosa ci riguarda?» chiese Odenn.

   «Potrebbe» disse Juri. «A volte il debito che si contrae alla nascita viene ripagato in modo cruento. Questa linea di pensiero può diventare la giustificazione dei sacrifici umani».

   «Di bene in meglio» fece Radek. «Sbrighiamoci... prima troviamo Masaka, meglio è. Dib, vada in sala teletrasporto. Stia pronto a portarci via, se qualcosa andasse storto. Tutti gli altri vengano con noi».

 

   I federali si addentrarono nei meandri della piramide, cercando di salire. Strada facendo incontrarono figure D’Arsay sempre più importanti, riconoscibili dall’abbigliamento e dagli orpelli. C’erano funzionari, amministratori, sacerdoti. Perlopiù osservavano i federali di sottecchi, parlottando fra loro, ma senza intervenire. Solo un sacerdote sbarrò loro la strada, stando in cima a una scalinata. «Andate via!» tuonò, alzando le braccia. «Non siete i benvenuti, qui. La regina non gradisce visite».

   «La regina sta occupando abusivamente una struttura della Flotta Stellare» ribatté Radek. «Potremmo teletrasportarci direttamente da lei, ma preferiamo farci annunciare, per non spaventarla».

   «Spaventare Masaka?» rise il sacerdote. «Poveri illusi! Lei non teme niente e nessuno».

   «Allora non avrà problemi a riceverci» insisté il Rigeliano.

   A quelle parole, alcuni soldati D’Arsay circondarono i federali. Appese al collo avevano tavolette argentee, le uniche di quel colore viste finora. Erano armati con lance, pugnali e con strani bastoni piatti, con lame d’ossidiana incastonate lungo tutto il bordo. «Voi non passerete» disse un guerriero, puntando il bastone dentato alla gola di Radek. Il suo mantello maculato, simile alla pelliccia del giaguaro, lo contrassegnava come il capo del drappello.

   «Che passino, invece» ordinò il sacerdote con uno strano sorriso. «Tutto considerato, è giusto che Masaka veda i suoi nuovi sudditi».

   «Grazie» disse Radek, passandogli accanto.

   «Non ringraziarmi» disse il sacerdote. «Non ti ho fatto un favore».

 

   Con quegli auspici, i federali salirono fino al livello più alto della piramide, sempre accompagnati dai soldati D’Arsay che li tenevano sotto tiro. Gli ufficiali però non erano stati perquisiti e avevano ancora con sé i phaser. Non che servissero a molto, contro gli ologrammi. Se le cose si fossero messe male, potevano contare solo sul teletrasporto per uscire da lì.

   «La sala del trono di Masaka» disse il guerriero-giaguaro, indicando un portone istoriato. «La regina vi attende. Ammiratela... e disperate!». Altri due soldati aprirono i pesanti battenti.

   Mentre i D’Arsay attendevano all’esterno, i federali varcarono la soglia. Si trovarono in un salone di pietra, dalle linee semplici ma solenni. Ai lati c’erano formelle decorate con glifi e sotto di esse erano allineate foglie di palma, disposte a spine di pesce. Le linee prospettiche attiravano gli sguardi al trono di Masaka, posto in cima a un’alta scalinata. Dietro al seggio incombeva il suo simbolo, nella forma di una testa d’oro raggiata, agganciata al muro. E sul trono sedeva la regina-dea in persona.

   Masaka non era più costretta a manifestarsi attraverso un androide, come aveva fatto sull’Enterprise-D. Grazie agli olo-emettitori, poteva assumere la forma che voleva. Così ne aveva scelta una confacente al suo ruolo. La sovrana D’Arsay si presentava come una giovane, seducente regina precolombiana, vestita con un gonnellino e sovraccarica di ornamenti d’oro, soprattutto collane. L’inquietante maschera col marchio in fronte le celava il volto; solo la bocca voluttuosa era scoperta. A sottolineare la sua natura solare, persino la pelle era spruzzata di polvere d’oro, che la faceva scintillare come un idolo. Seduta con la schiena ben dritta e le braccia distese sui braccioli del trono, Masaka restò immobile, senza dire una parola. Ma i federali erano certi che li avesse adocchiati e non li perdesse di vista.

   «Esibizionista» sussurrò Zafreen. «Se fossi la loro regina, mi accontenterei di metà dell’oro».

   «I sovrani divinizzati non si accontentano mai» rispose Juri.

   «Allora, Korgano... è l’ora dello spettacolo» mormorò Norrin, un po’ ironico.

   «Se va come spero, non ci vorrà molto» disse Odenn, indossando la maschera argentea. Zafreen gliela annodò dietro la testa.

   «Buona fortuna» bisbigliò Radek.

   Gli ufficiali della Keter si scostarono, permettendo al Tiburoniano mascherato di andare verso Masaka. Il Comandante avanzò senza fretta, lungo il salone e poi su per la scalinata, fino a raggiungere la zona soprelevata su cui era posto il trono. Si fermò a pochi passi da lei, osservandola in silenzio.

   «E dai, non farti imbambolare...» borbottò Juri.

   «Salve, Masaka» esordì Odenn, con voce stentorea. «Quanto tempo è passato, dal nostro ultimo incontro...».

   «Mai quanto quello trascorso dal penultimo» rispose la regina-dea. Aveva una voce armoniosa, seducente... eppure i federali sentirono un brivido lungo la schiena.

   «Ti sono mancato?» chiese Odenn. «Io credo di sì... sei incompleta, senza di me. Come io sono incompleto in tua assenza» disse, prevenendo la sua risposta.

   «È troppo frettoloso...» mormorò Juri, inquieto.

   «Forse dovremmo smetterla di vederci così» disse Masaka. «La caccia, l’inseguimento... questo eterno detronizzarci a vicenda... non cominci ad annoiarti? Io non ne posso più».

   «Sai bene quanto me che è inevitabile» disse Odenn, più lentamente. «Fu stabilito al principio dei tempi che dovessimo alternarci. Sempre il cacciatore insegue la preda... e sempre si scambiano di ruolo. Non ti sei stancata d’illuminare il cielo? Non senti i tuoi raggi indebolirsi, come se li velasse una foschia?».

   «Mi conosci bene» lo lusingò Masaka, alzandosi dal trono. «Solo tu sai quanto sia spossante il mio compito».

   «Sono qui per sollevarti da questo fardello» promise Odenn. «Non devi far altro che chiudere gli occhi... riposare... rigenerare le forze, in attesa della prossima alba. È nella nostra natura, alternarci sul trono».

   «Sì, è nella nostra natura» convenne Masaka, avvicinandosi. «Dopotutto il potere non può essere condiviso. Ecco perché possiamo incontrarci solo in questi brevi attimi...» disse, sollevando una mano per carezzargli la guancia. Anche le sue unghie appuntite erano dorate. «Ma dimentichi una cosa, mio adorato» disse, cambiando tono.

   «Che cosa, mia diletta?» chiese Odenn.

   «Ahi, ahi» mormorò Juri, presagendo la catastrofe. Masaka si era fatta più furba, o forse il Comandante non era un attore bravo come Picard.

   «Nel nostro ultimo incontro, tu m’inducesti al sonno» spiegò la regina-dea. «Fosti garbato, eppur deciso... uno dei tuoi discorsi migliori, ne rammento ogni parola. Da allora ho goduto un sonno piacevolissimo. Ma ora mi sono svegliata, piena d’energia. Questo, mio adorato, è il momento in cui tu devi ritirarti... perché io possa ascendere al cielo, in tutta la mia gloria!» proclamò, allargando le braccia.

   «Idioti... siamo tutti degli idioti...» mormorò Juri, chinando il capo e massaggiandosi la fronte aggrottata.

   «T-ti sbagli, mia diletta...» balbettò Odenn, che aveva perso la sicumera. «Il tuo disco sta calando sull’orizzonte, controlla tu stessa...».

   «Nel nostro ultimo incontro, tu m’inducesti al sonno» ripeté Masaka, avvicinandosi minacciosa. «Quindi ora tocca a me spodestarti. A meno che tu non abbia prestato orecchio a Ihat, e il tuo cuore si sia riempito di menzogne e inganni! Che c’è, Korgano? Perché taci e indietreggi, come se avessi paura di me?» chiese la regina-dea, avanzando sempre più irruente.

   «Io non ti temo... io ti amo...» mormorò Odenn, ma era chiaro che non sapeva più cosa inventarsi per rabbonirla.

   «Korgano mi ama!» sibilò la sovrana. «Ma Korgano non si sarebbe mai sbagliato, né avrebbe cercato d’ingannarmi. Può esserci una sola spiegazione. Tu hai la maschera di Korgano... ti atteggi a lui... ma sei solo un impostore! Un misero mortale che credeva d’ingannare me, il più lucente degli astri!» gridò, la rabbia al calor bianco. Con gesto repentino gli strappò la maschera, svelando il volto del Tiburoniano.

   «Non mi hai lasciato scelta» disse Odenn, abbandonando la recita. «Ti sei infiltrata in questa base, riplasmandola come se fosse tua proprietà... ma non è tua. Sei solo un’ospite, qui. Perciò devi rispettare le nostre leggi. Altrimenti ti ributteremo nello spazio, su quella sonda bitorzoluta da cui sei uscita!» avvertì.

   «Osi minacciarmi?!» ringhiò Masaka, tremando per la collera. «Io sono qui per rifondare il mio regno. Nessuno può ostacolarmi!».

   «E che accadrà a quelli che già vivono qui?» ribatté il Tiburoniano. «Cos’è accaduto a Thule, la mia amica? L’hai decompilata, non è vero?».

   «Il suo programma è servito come base per manifestarmi» confermò Masaka. «Non potevo accontentarmi ancora di un rozzo androide!».

   «Assassina... rendimi Thule!» gridò Odenn. Perso il controllo, le strappò a sua volta la maschera. Dall’altra parte del salone, gli ufficiali della Keter compresero il problema. Il Comandante si era invaghito della sua Intelligenza Artificiale e non accettava di averla persa per sempre. Radek e Norrin fecero per intervenire, ma Juri li bloccò. «Fermi... agire ora sarebbe imprudente» sussurrò.

   Nell’attimo in cui Odenn le strappò la maschera, la proiezione isomorfa strillò e prese a sfarfallare. Sotto gli occhi dei federali cambiò aspetto, fino a diventare una donna amerindia, vestita con l’uniforme della Flotta Stellare. «Che succede?» chiese, guardandosi attorno smarrita. «Comandante Odenn! Le stavo dicendo che ho rilevato un oggetto non identificato in avvicinamento a velocità sub-luce... ma dove siamo?».

   «Non ha importanza» disse il Tiburoniano, sollevato. «Quando quel virus alieno ti ha contagiata, temevo di averti persa. Invece stai bene!» esultò, abbracciandola.

   «Tutto qui? Bastava levarle la maschera?» si stupì Zafreen.

   «Non può essere così semplice» sussurrò Juri. «Temo il peggio...».

   «Sì, Odenn, sto benissimo...» confermò la proiezione isomorfa, «... e d’ora in poi non sarò più sola» disse, protendendosi in avanti.

   Travolto dall’emozione, il Comandante la baciò. Avendo chiuso gli occhi, non si avvide che la proiezione isomorfa stava riacquistando le sembianze di Masaka. Ma quando le unghie d’oro gli affondarono nel petto, allora dovette ben accorgersene. Spalancò gli occhi, trovandosi di fronte la regina-dea priva di maschera. Aveva ancora i lineamenti di Thule, ma il volto era dipinto d’oro.

   «... non sarò sola, perché avrò i miei sudditi con me» sibilò Masaka. «Loro conoscono i giusti riti per placarmi! Non come te, insulso miscredente!». Immersa la mano nel petto del Comandante, gli afferrò il cuore e glielo strappò. Il Tiburoniano cadde all’indietro in un lago di sangue, mentre la crudele regina si portava alle labbra il cuore palpitante.

   In fondo al salone, gli ufficiali della Keter indietreggiarono sgomenti. Impugnarono i phaser, ma questi divennero di pietra.

   «E voi, che state a guardare?!» chiese la sovrana, voltandosi di scatto. Il suo mento gocciolava sangue, come la mano che reggeva ancora il cuore. «Siete suoi complici, vero? Speravate di vedermi svanire nell’oblio! E invece ci siete finiti voi, in trappola. La vostra Thule non è mai tornata... ho riscritto il suo programma, per adattarlo alle mie esigenze» spiegò, sfiorandosi il corpo flessuoso. «L’ho simulata solo per farvi capire che non siete gli unici capaci di recitare. E adesso in ginocchio! Adoratemi, se volete uscire vivi da qui!».

   «Siamo ufficiali della Flotta Stellare; non c’inginocchiamo davanti a nessuno» rispose fieramente Radek. «Tu piuttosto, bada a ciò che fai. Hai già assassinato due ufficiali, il Comandante Odenn e il Tenente Comandante Thule. La Flotta non lascerà correre. E di certo non ti permetterà d’impossessarti della base!».

   «Me ne sono già impossessata» ribatté Masaka. «Questa piramide è il mio tempio e la città intorno mi appartiene. Come volete farne parte? Preferite essere sudditi, schiavi o vittime sacrificali?».

   «Niente di tutto questo!» rispose il Comandante, venendole incontro. «Siamo cittadini liberi e intendiamo restarlo. Forse ora ti credi invincibile... ma troveremo il modo di detronizzarti. Non è la prima volta che la Flotta affronta entità megalomani, convinte d’essere dèi. Alla fine, cadete sempre».

   «Io sono la dea del Sole... sono abituata a risorgere» avvertì Masaka, scendendo lentamente la scalinata. Gettò via il cuore sanguinolento, mentre la mano e il mento tornavano puliti.

   «Non hai idea di come sia la Galassia» l’avvertì Radek. «Sai per quanto tempo hai viaggiato nello spazio, su quella sonda-archivio? Ottantasette milioni di anni. La Via Lattea, che ai tuoi tempi era semideserta, ora pullula di specie senzienti. Diverse fazioni sono interessate a questo pianeta: l’Unione Galattica, i Breen...».

   «Conosco la situazione» rivelò Masaka. «So tutto ciò che sapeva l’IA di questa base».

   «È un database sterminato» obiettò Radek. «Scommetto che neanche tu puoi digerirlo così in fretta. E comunque non riesci a interpretare le informazioni, a dar loro un senso. Rassegnati, Masaka... sei fuori tempo massimo».

   «Non è detto» rispose la sovrana. Sceso l’ultimo gradino, si trovò davanti al Comandante e lo osservò con un sorriso enigmatico.

   «Uhm... ne riparleremo» disse il Rigeliano, fissandola severamente. «Radek a Dib, teletrasporto per tutta la squadra» ordinò premendosi il comunicatore.

   Mentre i raggi azzurri avvolgevano gli ufficiali, Masaka alzò la mano, col palmo aperto. L’attimo dopo la squadra federale riapparve in una sala teletrasporto della base. Gli ufficiali si guardarono l’un l’altro, divisi tra lo shock dell’accaduto e il sollievo d’essere riusciti almeno a salvarsi.

   «Il Comandante Odenn?» chiese un ufficiale locale.

   «Mi dispiace... il trucco della maschera non ha funzionato» rispose Norrin. «Masaka lo ha ucciso».

   Un mormorio costernato si diffuse tra gli ufficiali della base. «Voi ci siete tutti?» chiese il vicecomandante.

   «No» disse gravemente Juri, dopo essersi guardato intorno. «Abbiamo perso Radek».

 

   Ritrovandosi solo davanti a Masaka, il Rigeliano intuì che era stata lei a interferire col teletrasporto. Al resto della squadra, però, aveva permesso di andarsene. Il Comandante non sapeva se esserne lieto. Si portò di nuovo la mano al comunicatore, ma lo trovò sostituito da una spilla primitiva. Se la levò e la scagliò a terra, mandandola in frantumi.

   «Non ti piacciono i miei doni?» chiese Masaka, alludendo alla trasformazione del phaser e del comunicatore.

   «Non te li ho chiesti» disse Radek. «Se fossi stato io a indossare la maschera, mi avresti riservato lo stesso trattamento?» chiese, accennando al corpo senza vita di Odenn.

   «Non tollero gli inganni» rispose Masaka, iniziando a girargli attorno. «Tu sì?».

   «Non piacciono neanche a me» ammise il Rigeliano. «Ma non uccido quelli che mi stanno antipatici. Credo nelle leggi dell’Unione e nel regolamento della Flotta Stellare, che mi esortano a ripudiare la violenza».

   «Io credo nelle mie leggi» rispose la sovrana. «Quelle che amministrano il funzionamento del cosmo e i rapporti tra uomini e dèi».

   «Non sei tu a regolare il cosmo» obiettò il Comandante. «Sei solo una proiezione isomorfa, generata da un computer. Diamine, non puoi neanche uscire da questo edificio! Provaci... vai sul tetto, o allunga una mano fuori dalla finestra!» la sfidò, indicando la lunga fila di finestrelle ai lati del salone. «Vedrai come il tuo potere si dissolve, senza gli olo-emettitori».

   Completato il giro intorno a lui, Masaka lo fronteggiò, per la prima volta esitante. «Io non devo dimostrarti niente...» mormorò.

   «Sì, invece. Come posso adorarti, se non riesci nemmeno a uscire di casa? Io posso farlo... quindi sono più potente di te!» la derise Radek. Per validare il suo argomento, raggiunse una finestrella e sporse il braccio all’esterno.

   Masaka si accostò alla finestra, fissandola come se dall’altra parte ci fosse un predatore pronto a mozzarle il braccio. Avvicinò la mano all’orlo in pietra... ma all’ultimo istante la ritrasse.

   «Visto? Che astro sei, se non puoi nemmeno uscire all’aperto?» infierì il Comandante.

   «Se Ihat è uscito, io non sarò da meno» disse Masaka a denti stretti. Tese la mano e chiuse gli occhi, concentrandosi. Un Emettitore Autonomo le apparve sul palmo, teletrasportato da qualche parte della base. La regina-dea si concentrò ancora più a fondo, usando il suo potere per dargli una forma più acconcia. L’Emettitore da braccio divenne un monile d’oro, che la sovrana si chiuse attorno al collo. Poi allungò una mano fuori dalla finestra, trionfante. Malgrado la pesante trasformazione esteriore, l’Emettitore funzionava ancora: la mano restò al suo posto. «Ebbene?» fece Masaka, ritirando il braccio.

   «D’accordo, hai risolto questo particolare problema» sospirò Radek. «Ma tutti i tuoi poteri derivano dalla sonda-archivio nello spazio. Senza quel pezzo di tecnologia, tu non sei niente».

   «Io sono Masaka, Signora dei Quattro Punti Cardinali, Creatrice e Distruttrice del Mondo!» gridò la sovrana. «Ho smembrato mio padre per creare le terre emerse... e ora rifonderò il mio regno, proprio qui!» disse, indicando il suolo.

   «Le cose di cui parli non sono mai avvenute!» ribatté seccamente il Rigeliano. «Sono solo impiantate nella tua memoria... per ragioni che oltrepassano la mia comprensione. Tu non hai mai avuto un padre e di certo non hai creato il mondo coi suoi brandelli. Dici di avere la memoria di Thule? Allora accedi alla sua banca dati, verifica come si formano i pianeti. Anzi, meglio ancora... accedi alle informazioni sugli Archivi D’Arsay!» s’illuminò. «Lì c’è la tua storia... quella vera, non le scempiaggini che vai blaterando».

   Masaka s’immobilizzò, a tal punto che non sbatteva nemmeno gli occhi. Rimase così per un tempo incredibilmente lungo. Radek si chiese se le informazioni l’avessero mandata in tilt. Dette un’occhiata alla porta: era fortemente tentato di sfruttare l’occasione per fuggire. Ma che sarebbe successo se la sovrana si fosse risvegliata senza aver cambiato idea? E comunque i suoi soldati erano appostati appena oltre l’uscio: non lo avrebbero lasciato andare.

   «Oh, povera me...» mormorò Masaka, riavendosi. Cadde in ginocchio, coprendosi gli occhi con le mani. «Tutta questa conoscenza... chi la può affrontare?» disse tremando.

   «Preferivi restare nell’ignoranza di te stessa e del cosmo?» chiese Radek. «Capisci, ora, che tutto ciò in cui credi è una finzione?».

   «No, non lo è» rispose Masaka, rialzandosi con una nuova determinazione negli occhi. «Anche se le cose non sono come credevo, la mia missione resta la stessa. Io sono la sovrana assoluta del popolo D’Arsay. Ho il compito di rifondare la mia civiltà su questo pianeta. Che io sia una dea... o un’Intelligenza Artificiale con poteri divini... non fa differenza».

   Il Comandante restò interdetto. Sperava che la rivelazione avrebbe bloccato Masaka, o l’avrebbe indotta a più miti consigli. Invece non era cambiato niente. La regina aveva guardato negli occhi la sua Gorgone e ne era uscita indenne. Anzi, la nuova comprensione la rendeva ancor più pericolosa, perché ora non si sarebbe più fatta condizionare dai cerimoniali D’Arsay. Se anche il vero Korgano fosse emerso dagli Archivi, nessun discorso l’avrebbe fatta riaddormentare.

 

   «Che facciamo?» chiese Zafreen, preoccupata dalla sparizione di Radek. «Andiamo a recuperarlo?».

   «Sarebbe molto rischioso» avvertì Juri. «Al momento Masaka domina completamente l’ambiente. La stessa tecnologia con cui sta riplasmando gli oggetti le permette senz’altro di ucciderci».

   «Dottor Smirnov, lei ci aveva detto che per i D’Arsay il simbolo è tutto... ma sembra che la regina si sia fatta più furba» disse Norrin, irritato. «Com’è accaduto?».

   «Ricordava d’essersi addormentata nell’ultimo avvicendamento, quindi ne ha dedotto che stavolta dovesse risvegliarsi» spiegò lo storico. «Ma a parte questo, può esserci una spiegazione a livello informatico» aggiunse, guardando Dib.

   «Impadronendosi dell’IA di questa base, Masaka potrebbe aver assorbito parte della sua personalità» spiegò l’Ingegnere Capo. «Posso verificarlo accedendo al suo programma dalle consolle ancora operative».

   «I nostri tecnici hanno già provato a entrare nel programma, per disattivarlo» disse il vicecomandante della base. «Ma i glifi D’Arsay sono difficili da tradurre e comunque ci sono molti livelli di sicurezza».

   «Avete provato a togliere completamente energia all’istallazione, sfruttando la procedura manuale?» chiese Dib.

   «È una delle prime cose che abbiamo tentato, ma la sala del reattore è pattugliata dalle guardie D’Arsay» spiegò il federale. «Abbiamo timore a riprenderla con la forza, perché una sparatoria lì dentro potrebbe far esplodere la base».

   «Uhm... credo che il vero centro del potere di Masaka sia ancora la sonda-archivio» ragionò Norrin. «Disattivando quella, le toglieremmo almeno il potere di trasmutazione».

   «Vuol distruggere gli Archivi?» chiese Juri.

   «Se necessario per fermare questa teocrazia, sì» rispose l’Hirogeno. «Torniamo sulla Keter, svelti. Il Comandante potrebbe non avere molto tempo».

   «C’è un’altra strada possibile» disse lentamente lo storico. «Potremmo evocare Korgano... quello vero, intendo».

   «E poi?».

   «Vedere che succede» disse Juri, con una smorfia di comica disperazione.

   «Come conta di trovarlo? Finora l’unica cosa che s’è vista di lui è la maschera» obiettò Norrin.

   «Nessuno, finora, è mai salito sulla sonda-archivio» spiegò Juri. «Le analisi dell’Enterprise-D indicavano che l’interno è quasi del tutto compatto, ma la densità dello scafo ostacolava i sensori. Quelli della Keter sono più moderni, e...» accennò a Zafreen.

   «Ho trovato alcuni piccoli vani abitabili» spiegò l’Orioniana. «Forse c’è una sala controllo. In quel caso potremmo comandare non solo le personalità degli Archivi, ma anche quei fantastici macchinari con cui trasformano le cose».

   «È un’occasione imperdibile per studiare da vicino la Sintesi Particellare» intervenne Dib. «Se riuscissimo a padroneggiarla, la tecnologia federale progredirebbe di secoli».

   «Su questo però dobbiamo essere prudenti» avvertì Juri. «Non siamo ancora pronti a gestire un simile potere».

   «Neanche Masaka lo merita» disse Norrin. «Prima glielo leviamo, meglio è. D’accordo... faremo un ultimo tentativo, prima di distruggere gli Archivi. Fra quanto la sonda entrerà in orbita?».

   «Tre ore e un quarto» riferì Zafreen, che cronometrava il tempo residuo dal d-pad.

   «Allora avete tre ore per cavar qualcosa dagli Archivi» disse l’Ufficiale Tattico.

   «Signore, potrebbero servire giorni, forse settimane per...» cominciò Dib.

   «Tre ore, non un minuto di più» stabilì Norrin.

 

   «Allora, che hai in mente di fare?» chiese Radek, misurando a lenti passi il salone.

   «Te l’ho detto... ricreare la mia civiltà, pezzo dopo pezzo» rispose Masaka.

   «Hai creato dei simulacri olografici» obiettò il Comandante, salendo la scalinata che portava alla zona del trono. «Sono pittoreschi, ma... non sono vere persone».

   «Non pensavo che la vostra definizione di “persone” fosse così restrittiva» disse astutamente Masaka. «Nell’Unione ci sono androidi e ologrammi che hanno ottenuto questo status».

   «Loro non vivono immersi nel simbolismo dei tuoi sudditi» spiegò Radek. «Sono cittadini responsabili dell’Unione».

   «I miei sudditi non sono cittadini dell’Unione» disse Masaka, seguendolo su per le scale. «Appartengono a me sola».

   «Quindi vuoi regnare su degli ologrammi programmati per adorarti» notò il Comandante. «Non credo che fosse il proposito degli antichi D’Arsay, quando lanciarono la sonda».

   «Col tempo, quando il mio dominio si sarà consolidato, verranno anche le persone in carne e ossa» rivelò la regina. «Gli Archivi contengono migliaia di codici genetici. Posso assemblare il DNA con la Sintesi Particellare e far crescere gli embrioni in incubatrici. Saranno i primi bambini D’Arsay nati in 87 milioni di anni».

   «Caspita... non ho mai sentito di un popolo ricreato in questo modo» ammise Radek, colpito dall’intraprendenza della sovrana.

   «Non sarà una cosa breve» ammise Masaka. «Ma la mia civiltà ha atteso di risorgere per milioni di anni. Qualche decennio in più non farà differenza».

   «E quando i tuoi sudditi saranno Organici, li tratterai ancora così?» chiese il Rigeliano, accennando al corpo senza vita del Comandante Odenn.

   «Pensi ancora a lui?» si stupì Masaka. «Ha cercato d’ingannarmi... doveva pagare. Comunque, se la sua vista ti turba...». La proiezione isomorfa levò una mano sopra al cadavere. Ci fu un lampo e questo si trasformò in uno sciame di farfalle variopinte, che turbinarono intorno a lei e Radek, finché sciamarono fuori da una finestra.

   «Hai usato ancora la Sintesi di Particelle» comprese Radek. «Ma non hai risolto nulla... nemmeno tu puoi riportare in vita i defunti».

   «Masaka concede e Masaka prende» disse la sovrana. Raccolse la sua maschera e sedette nuovamente sul trono. «Stavolta ho preso una vita inutile e ne ho fatto un esempio per gli altri».

   «Hai intenzione di uccidere anche me?» chiese il Comandante, avvicinandosi.

   «Tu sei abbastanza interessante... per un mortale» disse Masaka, inclinando appena la testa verso di lui. «E diversamente da quanto credi, io non uccido senza motivo, o per mero divertimento».

   «No, tu uccidi solo per imporre il tuo dominio».

   «Precisamente» confermò la proiezione isomorfa, indossando di nuovo la maschera. «Beh, cos’è questo mortorio? Fatevi avanti!» esclamò, battendo le mani. Il portone si riaprì e una torma di ologrammi D’Arsay entrò nella sala. C’erano sacerdoti, funzionari, soldati e servitori. «Questa sala è troppo spoglia per i miei gusti» annunciò Masaka. «Arredatela!».

   «Udiamo e ubbidiamo, fulgida dea!» dissero a una sola voce i servitori, prostrandosi fino a terra. Subito dopo scattarono al lavoro. Andarono a prendere una gran quantità di arredi e addobbi, che gli Archivi avevano materializzato in giro per l’edificio, e presero a ornare la sala. Un paio di flabellatori andarono ai lati del trono e sventolarono la sovrana con lunghi ventagli di piume. Una schiava le s’inginocchiò accanto, tenendo in grembo una cesta colma di frutta fresca. Masaka prese una papaya e la sbocconcellò pigramente. Intanto anche il guerriero-giaguaro le si era inginocchiato davanti. «Io sono tuo. Ogni parte di me ti appartiene» disse, guardando fisso in avanti. «Quali sono i tuoi ordini, fulgida dea?».

   «Uhm... vediamo... forse è il momento di radunare gli abitanti di questa città» disse Masaka, sovrappensiero. «È tempo che vedano la loro nuova regina».

   «Te ne offriremo alcuni in sacrificio» promise un sacerdote, venendole accanto. «Perché il tuo nuovo regno cresca sano e forte, dev’essere innaffiato col sangue».

   «No!» gridò Radek, facendosi avanti. «Non devi uccidere nessuno!».

   Di fronte a quell’irruenza il sacerdote si ritrasse, ma le guardie scattarono contro di lui. Dopo un breve parapiglia, gli legarono le mani dietro la schiena e lo trascinarono davanti al trono.

   «Come desideri che muoia questo miscredente?» chiese il guerriero-giaguaro. «Smembrato, bruciato, esposto al sole...?».

   «Uhm... lasciamolo vivere, per adesso» disse Masaka, indulgente. «Però deve inchinarsi» mise in chiaro.

   «Ti ho detto che noi non... ouff!» gemette Radek, piegandosi in due. Il guerriero-giaguaro lo aveva colpito al plesso solare col piatto del suo randello. Altri due soldati gli afferrarono le spalle, obbligandolo a inginocchiarsi davanti alla sovrana.

   «Ecco, era così difficile?» chiese Masaka. Si allungò in avanti, prendendogli il mento con una mano. «Voi mortali siete talmente fragili... potrei ucciderti solo serrando la presa» sibilò.

   «Se ti aspetti che implori pietà, sprechi il fiato» disse Radek, tenendo dritta almeno la schiena. «Prima o poi la Flotta troverà il tasto giusto per spegnerti».

   «Che ribaldo! Mai nessuno aveva osato parlarmi così» disse la sovrana, lasciandolo. «Tranne Korgano... ma lui se n’è andato e non tornerà».

   «Il che ti costringe a regnare in perpetuo... molto conveniente» ironizzò il Comandante.

   «Non è detto» ribatté Masaka, con una strana voce. «Su, fatelo rialzare!» ordinò ai soldati. Questi obbedirono con l’abituale solerzia, ma tennero sotto tiro il Rigeliano.

   «Su una cosa l’impostore aveva ragione... sono incompleta, senza un consorte» ammise la regina. «E ora che dispongo del database federale, so quante minacce mi circondano. Tu, d’altro canto, sei un esperto conoscitore della Galassia...» rimuginò.

   «Non penserai mica...» si allarmò Radek.

   «Resta al mio fianco, Comandante!» proclamò Masaka, alzandosi dal seggio. I suoi sudditi, dai dignitari fino ai servitori più umili, interruppero le loro attività e si volsero a guardarla, immobili e silenziosi. «Sii il mio consorte, in luogo di Korgano. Col mio potere e la tua esperienza, nessuno potrà fermarci!» aggiunse la regina, tentatrice.

   Radek la scrutò per qualche attimo. Masaka si era data un aspetto incantevole e faceva ben poco per nasconderlo. Ma era una megalomane che pretendeva cieca adorazione dai suoi sudditi, anche dopo aver ammesso di non essere una divinità. Aveva ucciso senza rimorso e intendeva farlo ancora. No... le sue avances non erano da prendere minimamente in considerazione.

   «La tua offerta è generosa» disse il Comandante, conscio che un rifiuto troppo netto l’avrebbe mandata su tutte le furie. «Ma per me, questa è una missione come un’altra; non posso fermarmi a lungo. Perciò ti chiedo... che accadrebbe, se rifiutassi?».

   «In quel caso, l’alba del mio nuovo regno si tingerà del sangue di molte vittime» annunciò la regina. Tornò a sedersi, senza più guardarlo. «Pensaci bene, Comandante... non è mio costume rinnovare un’offerta del genere».

   «Quanto tempo ho per pensarci?» chiese Radek, immaginando che i suoi colleghi stessero per colpire la sonda-archivio.

   «Fino al tramonto» stabilì Masaka, sedendo rigidamente.

   Il Rigeliano guardò subito da una finestrella. Il sole stava già calando sulla foresta verdeggiante. In tre ore al massimo sarebbe svanito.

 

   La Gryphon manovrò per inserirsi su una rotta parallela a quella della sonda-archivio, adeguando anche la velocità. A quella distanza il conglomerato di blocchi rossicci riempiva quasi tutto lo schermo.

   «Ci teletrasporteremo nell’intercapedine principale» disse Norrin, finendo d’indossare la tuta spaziale. L’Hirogeno aveva già contattato la Keter, riferendo quanto accaduto a Base Thule e ottenendo l’autorizzazione del Capitano a esplorare la sonda.

   «Saremo i primi a entrare in milioni di anni... che emozione!» trillò Zafreen.

   «Uhm...» mugugnò Juri, assicurandosi che il casco fosse chiuso.

   «Non sei emozionato?» si stupì l’Orioniana.

   «Insomma... non mi piacciono le missioni sul campo» disse lo storico. «Poco fa abbiamo rischiato di farci accoppare e ora non sappiamo che ci aspetta laggiù».

   «Dato il poco tempo a disposizione, suggerisco di entrare subito» disse Dib, insolitamente frettoloso.

   «Quest’affare ha vagato nello spazio per 87 milioni di anni... la Flotta lo conosce da 217 anni... però noi abbiamo meno di tre ore per studiarlo!» borbottò Juri.

   «Quando saremo dentro, allontanatevi prima che la navetta si trasformi» raccomandò Norrin al pilota e alle guardie. «Vi richiameremo al momento di uscire».

   Il teletrasporto della Gryphon trasferì i quattro ufficiali a bordo della sonda-archivio. Si trovarono in una stanza cubica, priva di qualunque arredamento. Solo i faretti delle tute illuminavano le pareti grigie e scabre.

   «Vedete qualcosa che somiglia a un’interfaccia del computer?» chiese Norrin.

   «Questi potrebbero essere dei comandi» notò Dib, indicando dei glifi incisi nella parete.

   «O forse è la botola anti-intrusi» disse Juri, apprensivo. «Traduciamo bene, prima di...».

   L’Ingegnere Capo premette in successione alcuni simboli, facendo apparire gli ologrammi tridimensionali di molti altri glifi. Il contenuto degli Archivi era finalmente disponibile.

   «... toccare a casaccio» completò Juri, rassegnato.

   «Non c’è tempo» insisté Dib. Il Penumbrano cominciò subito a esaminare gli Archivi, con l’aiuto di Zafreen. Malgrado i progressi con la matrice di traduzione, permanevano delle incertezze.

   «La scrittura D’Arsay è ideografica» spiegò l’Orioniana. «Ogni glifo può indicare un oggetto materiale o un concetto astratto. Così ce ne sono migliaia... ma alcuni non sono ancora tradotti e altri possono avere diversi significati, a seconda del contesto».

   «Scarichiamo più materiale possibile» disse Dib. «Lo tradurremo sulla Keter».

   «Cerchiamo il simbolo di Korgano» suggerì Juri. «Eccolo!» riconobbe, indicando il glifo argenteo a forma d’arco. Lo premette, col solo risultato di far apparire la maschera argentea del dio-luna.

   «Non capisco... va bene la simbologia, però Masaka e gli altri personaggi si sono presentati molto più concretamente» commentò Norrin, scuotendo la testa.

   «È come temevo» mormorò Juri. «La luna D’Arsay uscì dall’orbita. Gli abitanti pensarono che il Cacciatore li avesse abbandonati. Così il culto di Masaka prese il sopravvento. Non c’è abbastanza di Korgano, qui dentro, per farlo manifestare compiutamente».

   «Però potrebbe esserci qualche spiegazione in più» disse Zafreen, scorrendo i glifi. Alcuni di essi si rivelarono i titoli di lunghi testi scritti. «Vediamo un po’: la Creazione del mondo... le nozze di Masaka e Korgano... la fuga di Ihat... il giuramento dei guerrieri... l’istituzione dei sacrifici... questi sono tutti racconti!» protestò l’Orioniana. «Non vedo niente di simile alle nostre banche dati, o anche solo a un commentario. Che avevano in testa, gli antichi D’Arsay?».

   «Per loro non c’era bisogno di spiegare o commentare queste storie; esse parlavano da sole» comprese Juri. «Erano il fondamento della loro società».

   «Allora siamo venuti qui per niente?» chiese Norrin.

   «Al contrario, questa sarà la più preziosa delle esplorazioni, se scopriremo il segreto della Sintesi Particellare» rispose Dib. «Cerco di risalire al programma di trasmutazione» aggiunse, scorrendo rapidamente i glifi. La sua mente simile a un computer stava già imparando a tradurli.

   «No, aspetta... sarebbe un furto» contestò Juri.

   «Ai danni di una fazione aliena aggressiva» ribatté l’Ingegnere Capo. «Potrebbe riequilibrare le forze, scongiurando lo scontro».

   «Non va mai a finire così» borbottò lo storico, sempre più preoccupato, ma Norrin gli fece segno di lasciar fare. Per un’ora intera il Penumbrano si fece strada nell’archivio. Zafreen cercò di aiutarlo, ma lui era così veloce nell’apprendere i glifi che presto poté fare da solo.

   «Forse ci sono» disse infine Dib. «Questi sono i protocolli di trasmutazione. Se riesco a scaricare tutte le istruzioni...».

   In quella si udì uno scatto poco rassicurante. Una parete della sala cubica svanì, rivelando un lungo corridoio che portava fino allo spazio. L’aria fu immediatamente risucchiata e con essa i quattro federali in tuta spaziale. Le grida di Zafreen – e anche di Juri – rintronarono nelle orecchie di Norrin. Espulsi nello spazio, i federali si allontanarono a gran velocità dalla sonda-archivio, cercando di correggere l’assetto e di rallentare con i propulsori delle tute.

   «Niente panico; cercate di stare vicini» raccomandò l’Ufficiale Tattico. «Norrin a navetta 1, teletrasporto per quattro». In luogo della Gryphon, che era rientrata a bordo per ordine del Capitano, fu direttamente la Keter a prelevarli col teletrasporto. Poi la nave fece dietro-front, allontanandosi dalla sonda-archivio prima di subirne gli effetti. Gli ufficiali tratti in salvo scesero dalla pedana di plancia.

   «State bene?» chiese il Capitano.

   «Insomma... siamo stati fortunati a non diventare statue» borbottò Juri.

   «Il Comandante?» volle sapere Norrin.

   «Abbiamo cercato di teletrasportarlo, ma i sensori non lo agganciano» spiegò Hod. «Con questa sonda che trasforma tutto, non ci restano molte opzioni».

   «Quindi la distruggeremo?» chiese Norrin.

   «Non ancora» disse il Capitano. «È pur sempre tutto ciò che resta di un’antica civiltà. Ma se vogliamo affrontarla, ci serve un quadro più completo dei suoi costruttori. Per questo ho contattato la Commissione per l’Integrità Temporale. Ci hanno autorizzati a compiere una missione esplorativa».

   «Vuol dire che...» fece Juri con voce strozzata.

   «Esatto. Stiamo per visitare un passato molto remoto» confermò Hod.

 

   La sonda-archivio diminuì la velocità e manovrò per entrare in orbita geostazionaria sopra Base Thule. Pochi minuti dopo, la rotazione del pianeta fece calare la notte sulla città mezza trasformata. In cima alla piramide, sulla terrazza panoramica, Radek contemplò l’insediamento irriconoscibile. Stentava ancora a credere a quanto stava accadendo.

   «Ebbene, hai preso la tua decisione?» chiese Masaka, emergendo dalla scala che dava accesso alla sommità della piramide.

   «C’è agitazione, là sotto» disse il Comandante, evitando di rispondere. «Sento grida e rumore di phaser. Che ordini hai dato ai tuoi soldati?».

   «Solo di sgombrare il mio tempio dai miscredenti» lo rassicurò Masaka. «Le guardie non uccideranno... a meno che sia inevitabile. Ma domani, al sorgere del sole, inizierà il mio nuovo regno. I federali dovranno gettare le armi e riconoscere la mia autorità».

   «Altrimenti?».

   «Non mi chiamano la Distruttrice per caso» rispose la sovrana con una smorfia. «Chi non è al mio servizio è mio nemico. E coi nemici non ho alcuna pietà».

   «E se invece permettessi ai federali di evacuare il pianeta?» suggerì Radek. «In fondo non hai bisogno di loro. Ti basta il tuo popolo, non è così?».

   «Io vivo per la sfida. Sottomettere la tua gente è... stimolante» sogghignò Masaka.

   «Penso che tu abbia già abbastanza cose di cui occuparti» disse il Rigeliano. «Metterti contro l’Unione non è saggio. Se massacrerai gli abitanti di questa città, ti troverai contro un’intera flotta in assetto di guerra. Abbiamo armi capaci di polverizzare la sonda-archivio e di spaccare l’intero pianeta, se necessario. Tu potrai anche pietrificare una nave o due... ma alla lunga non vincerai».

   «Uhm... a ben vedere, occuparmi della tua gente sarebbe solo una seccatura inutile» disse Masaka, cambiando atteggiamento. «Non conoscono i riti e non varrebbero granché, nemmeno come schiavi. Sì... tutto sommato potrei permettergli di fuggire dal mio fulgore, come pipistrelli all’alba. Ma in cambio voglio qualcosa. Se loro vanno, tu devi restare».

   «Se è per salvare i coloni, resterò» acconsentì Radek, senza nemmeno guardarla.

   «Lo dici come se fosse un sacrificio!» protestò la regina. «Chiunque tra i miei sudditi ne sarebbe estasiato oltre misura».

   «I tuoi sudditi sono programmati per obbedirti» notò Radek. «Io invece ti resisto. È per questo che ti sei incapricciata di me... anche il potere assoluto alla fine stanca».

   «Come ti ho detto, io vivo per la sfida» sorrise Masaka, avvicinandosi. «E tu, invece? Non ti esalta nemmeno un po’ far parte di tutto questo?».

   «In circostanze normali, sarei onorato di contribuire alla ricostruzione di una civiltà» ammise il Rigeliano.

   «E cos’è che rende... anormali le circostanze?».

   «Tu, ovviamente» disse Radek. «Il tuo assolutismo, le tue manie di grandezza. Questa maschera, ad esempio... non ti stanchi mai di portarla?».

   «Posso farne a meno, se lo desideri» disse Masaka, inaspettatamente servizievole. La maschera scomparve, rivelando il bel volto della proiezione isomorfa. «Va meglio, così?».

   «Sì e no» sospirò Radek. «Questa faccia... questo corpo... li hai rubati a Thule».

   «Se non ti piacciono, posso venire incontro ai tuoi gusti» disse Masaka, tramutandosi in una Rigeliana.

   «Non è questo il punto. Non c’è modo di recuperare quell’IA?».

   «No. Ho riscritto il suo programma, assorbendo ciò che restava» chiarì la regina. «A volte Masaka prende. In questo caso, ho preso ciò che mi serviva». Così dicendo riassunse l’aspetto di prima.

   «È questo che non mi piace, di te» spiegò Radek. «Tu fai da giudice, giuria e boia. Non poni alcun limite alla tua autorità».

   «Sono una dea!» s’indignò Masaka.

   «No, non lo sei!» sbottò Radek. «Questo l’abbiamo già chiarito, ricordi? Ma nella tua vanità, vuoi creare una teocrazia».

   «L’antica D’Arsay era così. Sono le nostre leggi, le nostre usanze. E funzionavano, te l’assicuro» disse la sovrana.

   «Non ne dubito, se uccidevate tutti i dissidenti» ribatté il Comandante. «Il mio popolo, come gli altri dell’Unione, ha faticato a lungo per liberarsi da questa mentalità. Abbiamo combattuto battaglie, intere guerre, per arrivare alla separazione dei poteri. Per prima cosa abbiamo distinto il potere politico da quello religioso. Poi abbiamo ulteriormente frazionato il potere politico in diversi aspetti: legislativo, esecutivo, giudiziario».

   «Conosco l’ordinamento dell’Unione e dei governi planetari» annuì Masaka. «È lento, farraginoso... un invito alla corruzione. I vostri leader sono sempre in campagna elettorale, o intenti a bisticciare per qualche briciola in più di potere; non gli resta tempo per governare».

   «D’accordo, la democrazia ha i suoi difetti» convenne Radek. «Ma tutti gli altri sistemi sono peggiori, quando si vanno a misurare le libertà individuali e il tenore di vita».

   «Se cerchi di convincermi ad abolirmi da sola, sprechi il fiato» lo avvertì Masaka. «Ti ho già fatto un’offerta estremamente generosa. Sono stata paziente... più paziente di quanto sia mai stata. Ora tocca a te».

   «E va bene» sospirò il Comandante. La cosa più importante era permettere l’evacuazione dei coloni e dare alla Flotta il tempo di elaborare una contromossa. «Andiamo al centro di comando, così potrò informare la mia nave dell’accordo».

 

   «Ci chiamano dalla piramide» avvertì Zafreen.

   «Sullo schermo» ordinò subito il Capitano Hod. «Radek!» esclamò, riconoscendo il suo Primo Ufficiale. Già il fatto di vederlo vivo era un sollievo.

   «Capitano... la missione non è andata come previsto. Me ne scuso» disse il Rigeliano.

   «Eravamo preoccupati per lei... il teletrasporto non aggancia niente dentro la piramide e le comunicazioni con la superficie sono sempre bloccate» spiegò Hod. «Come sta, è ferito?».

   «Sto bene... ma qui c’è una regina che pretende sempre più spazio vitale» spiegò il Comandante, fra l’ironico e il rassegnato. Si fece da parte, per lasciare il posto a Masaka.

   «Sono la Signora dei Quattro Punti Cardinali, Creatrice e Distruttrice del Mondo!» proclamò la sovrana, presentandosi nel suo fulgore dorato.

   «E io sono il Capitano Hod, dell’USS Keter» ribatté l’Elaysiana, accigliandosi davanti a quella profusione d’oro e di titoli.

   «Allora le parlerò da regina a... quello che è» disse Masaka, avvicinandosi allo schermo. «Nella mia infinita bontà, consentirò ai vostri coloni di lasciare il mio dominio, senza colpire le navi trasporto. Ma non dovrete più infastidirmi. Tenete le vostre astronavi ad almeno tre anni luce da qui, o le trasformerò in pietra!».

   «L’Unione non cede ai ricatti» rispose Hod con fermezza. «Lei si è impossessata illegalmente di un nostro avamposto...».

   «Capitano, la prego» disse Radek, tornando nell’inquadratura. «I soldati di Masaka sono molto numerosi. Trattandosi di ologrammi, sono immuni ai phaser. E sanno come uscire dalla piramide. La gente di qui corre grossi rischi. Ho stretto un patto con Masaka...».

   «Un patto?!» si allarmò Juri. «Quali sono i termini? Sia preciso!».

   «La regina smetterà d’interferire col teletrasporto e le comunicazioni, e non trasformerà nemmeno le navi in orbita, per consentire alla nostra gente di andarsene incolume. Una volta terminata l’evacuazione, però, il pianeta sarà dominio esclusivo di Masaka, che vi ricostruirà la sua civiltà» spiegò il Comandante.

   «E non si lancerà alla conquista di altri mondi?» chiese Hod, scettica.

   «A differenza vostra, non ho la frenesia di occupare l’intera Galassia» disse Masaka. «Un pianeta mi basta... almeno per qualche millennio. Come vede, so essere piuttosto ragionevole».

   «C’è anche una clausola» disse Radek, con aria infelice. «Io resterò qui».

   «Come?!» sbalordì Hod.

   «Come mio consorte, ovviamente!» disse Masaka, interpretandola come una domanda. «Radek è fortunato... invece di affiancare lei, affiancherà me! Addio, Capitano». Prima che Hod potesse controbattere, la regina chiuse il canale.

   «Wow... sapevo che il Comandante era ambizioso, ma pensavo che volesse diventare Capitano, prima di diventare un dio» commentò Vrel, dalla sua postazione al timone.

   «Questa è una cosa seria!» lo richiamò l’Elaysiana.

   «Maledettamente seria» confermò Juri. «Queste entità sono fiscali, quando fanno accordi. Conosce l’espressione “stringere un patto col Diavolo”? Bene... temo che il nostro Comandante abbia fatto qualcosa del genere».

   «Potremmo liberarlo con un’azione di forza» suggerì Norrin.

   «Non prima di aver evacuato i civili» disse Hod, calmandosi un poco. «È il motivo per cui ha stretto l’accordo».

   «E magari perché la dea in questione è un bel pezzo di figliola...» si lasciò sfuggire Vrel.

   «Ma quando non ci saranno più coloni in pericolo, disabiliteremo quella sonda-archivio» disse il Capitano, truce. «A quel punto terremo la base sotto scacco dall’orbita. Vedremo che farà Masaka, senza i suoi trucchetti magici. Scommetto che abbasserà la cresta».

   «Tre navi trasporto sono già arrivate, le altre saranno qui entro le prossime tre ore» informò Zafreen. «Quando il sole sorgerà di nuovo sull’insediamento, l’evacuazione sarà completata».

   «E la nostra escursione nel tempo?» chiese Juri.

   «Quella è ancora in programma. Voglio vedere com’erano i veri D’Arsay, prima di misurarmi con Masaka» disse Hod, che sembrava aver preso il conflitto sul piano personale. «Plancia a sala macchine, continuate i calcoli per il balzo temporale. Siccome la situazione qui è in continua evoluzione, facciamo in modo di non perderci nulla».

   «Ricevuto, Capitano» disse Dib. «Indipendentemente dalla durata della nostra permanenza nel passato, tra la partenza e il ritorno passeranno solo dieci secondi».

   «Molto bene» disse Hod, drizzando la schiena e stendendo gli arti sui braccioli della poltroncina, non diversamente da come Masaka aveva fatto sul suo trono.

 

   «Il Capitano Hod rispetterà l’accordo» disse Radek, anche se in realtà non ne era sicuro. Il Capitano non abbandonava i suoi ufficiali, e poi la Flotta non avrebbe rinunciato così facilmente a Ultima Thule.

   «Lo spero per lei» disse Masaka. «Se osa sfidarmi, la trasformo in una ranocchia».

   «Puoi trasformare le persone?» si sgomentò Radek.

   «Mio adorato, dovresti aver capito che sono poche... quasi nessuna... le cose che non posso fare» sorrise la regina. Fece strada fino ai suoi appartamenti privati, ricavati da quelli del Comandante Odenn e da altre camere circostanti. Anche lì era uno sfarzo di ori, fiori e piume. Un grande braciere ardeva al centro della sala. Due guerrieri-giaguaro vigilavano all’esterno, mentre dentro c’erano un paio di ancelle inginocchiate, pronte a servire qualunque evenienza. Vestivano tuniche semplici e avevano un trucco rosso squillante intorno agli occhi.

   «Loro devono stare qui?» si stupì Radek.

   «Certo... che regina sarei, se non avessi almeno un paio di servitori sempre con me?» fece Masaka.

   «Credevo che avremmo avuto un po’ di privacy» spiegò il Comandante.

   «Se insisti...» disse Masaka, in tono indifferente. Batté forte le mani. A quell’ordine, le ancelle scattarono in piedi e lasciarono la camera.

   «Dovrebbe esserci un vecchio mutilato nella hall. Badate che il suo braciere non si spenga» raccomandò Radek, prima che chiudessero la porta.

   «Sei sempre così premuroso verso gli sconosciuti?» chiese Masaka.

   «Non sempre, ma dovrei» ammise il Rigeliano. «Quello però non è uno sconosciuto, almeno per te. Da quanto ho capito, Uxmal è tuo padre».

   «Così credevo» disse la sovrana. «Poi è saltato fuori che siamo Intelligenze Artificiali. Non ho alcun debito di riconoscenza nei suoi riguardi».

   «Però sta soffrendo, abbandonato là, tutto solo...».

   «Tutti soffrono. Alcuni più di altri» disse Masaka, col solito distacco. «Anch’io ho sofferto per la perdita di Korgano. È buffo, probabilmente non siamo mai stati assieme, eppure ho tutti quei ricordi...».

   «Non ci hai messo molto, a rimpiazzarlo» borbottò Radek.

   «So quel che voglio» sorrise Masaka, avvicinandosi in un tintinnio di monili. Le fiamme del braciere si riverberavano sui gioielli e sulla pelle dorata. «E ora, mio adorato... dopo aver visto la Masaka che prende, scoprirai la Masaka che concede» promise, iniziando a togliersi le collane.

   Nei suoi anni di servizio presso la Flotta Stellare, il Comandante Radek ne aveva viste di tutti i colori e aveva avuto la sua dose d’esperienze galanti. Ma nulla poteva paragonarsi a quell’entità che si era impossessata di una proiezione isomorfa, trasformandola in Miss Universo. Mentre la cingeva con le braccia e la baciava, il Rigeliano si disse che quella messinscena era solo per permettere alla Flotta di evacuare il pianeta. Riuscì quasi a crederci.

 

   «Il trasferimento dei coloni e del personale federale è completato» annunciò Zafreen. Le dieci navi trasporto stazionavano a poca distanza dalla Keter, su un’orbita leggermente più bassa. Molti coloni avevano protestato per l’evacuazione, che sapeva di sconfitta, ma fortunatamente non c’erano stati incidenti. Anche il personale della base era stato smistato fra i trasporti, per vigilare sui civili. Nessuna delle astronavi aveva subito l’influsso della sonda-archivio, segno che Masaka era di parola. A terra, però, lo stravolgimento della città era proseguito nelle ore notturne. Il Capitano sapeva che, all’alba, poco o nulla sarebbe rimasto delle strutture federali.

   «Segnali ai trasporti di fare rotta per Volnar» ordinò Hod. «Finché questa crisi non si risolve, voglio che stiano a distanza di sicurezza». L’Elaysiana osservò il contorno irregolare della sonda-archivio, appena intuibile nel cono d’ombra del pianeta, e il mondo immerso nella notte al di sotto. La Città di Masaka non era che un puntino luminoso. Al pensiero che Radek era ancora lì – in compagnia della regina – il Capitano si sentì male. Non aveva mai pensato al suo Primo Ufficiale in quel senso, eppure si sentì ferita.

   «I trasporti si allontanano» riferì Zafreen. «Ancora nessun incidente. E dalla sala macchine segnalano che il nucleo temporale è carico».

   «Tenetevi pronti, allora» ordinò Hod. Aprì un canale con tutta la nave, sapendo di dover rivolgere qualche parola d’incoraggiamento. «Capitano a equipaggio, siamo pronti al balzo temporale. Vi ricordo che si tratta del tuffo nel passato più remoto mai eseguito dalla Flotta Stellare. Finora, i massimi spostamenti sono stati dell’ordine di qualche millennio. Noi andremo di 87 milioni di anni nel passato... scoperchieremo un abisso di tempo mai indagato prima. Già questo è un fatto storico. So che tutti voi agirete con la professionalità che avete dimostrato in altre difficili missioni. Se qualcuno avvertisse disorientamento o afasia sensoriale dovuti alle radiazioni tachioniche, si presenti subito in infermeria. Hod, chiudo». Il Capitano contattò poi la sala macchine: «Quando vuole, signor Dib».

   «Il nucleo temporale ha raggiunto il potenziale di cascata» riferì il Penumbrano. Lui e gli altri ingegneri osservarono il nucleo che brillava di luce abbagliante, mentre i tachioni fluivano al suo interno. Tutta la nave vibrava per lo sforzo spaventoso. «Rottura della barriera temporale fra tre... due... uno...» contò l’Ingegnere Capo. Mentre diceva “zero”, la Keter svanì in un lampo accecante, generando attorno a sé un’onda tachionica.

 

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Capitolo 4
*** Un tuffo nel passato ***


-Capitolo 3: Un tuffo nel passato

 

   Il pianeta D’Arsay era una falce azzurrognola e bruna, con diverse città illuminate nell’emisfero in ombra. Non c’erano satelliti naturali e quelli artificiali erano ridotti al minimo. La struttura più grossa in orbita era l’ammasso informe della sonda-archivio, ancora in costruzione.

   «L’occultamento regge» riferì Norrin.

   «Entriamo in orbita, a una certa distanza dalla sonda» ordinò il Capitano Hod. «Zafreen, scansione della superficie».

   «Rilevo oltre tre miliardi di segni vitali, distribuiti in migliaia di città e villaggi» disse l’Orioniana, leggendo i dati dei sensori. «Il livello tecnologico sembra alto, anche se hanno pochi oggetti nello spazio. Ecco le loro città».

   Sullo schermo scorsero le immagini dei centri urbani, ricchi di monumenti in pietra: piramidi, obelischi, statue colossali. Ma c’erano anche grattacieli, fabbriche e centrali energetiche in metallo, dal design più moderno. I due stili erano talvolta compenetrati.

   «La sonda-archivio è in orbita geostazionaria» notò Zafreen. «Questa è la città sottostante. Potrebbe essere la capitale».

   Gli ufficiali aguzzarono la vista, osservando la ripresa aerea dell’abitato. C’erano meno edifici moderni e molti più monumenti antichi. La città era dominata da un’imponente piramide, posta al centro. In sommità brillava un tempio rivestito d’oro, su cui spiccava l’inconfondibile marchio di Masaka.

   «È questa» disse Juri, che sedeva al posto di Radek. «L’abbondanza di monumenti in pietra indica che si tratta di un antico centro cerimoniale. Vedete la simmetria dell’abitato, come tutte le strade puntano alla piramide centrale? Questa è una città sacra, dedicata a Masaka».

   «Sì, ha senso che gli Archivi vogliano ricreare in primo luogo l’antica capitale» ragionò Hod. «Ma voglio vedere la periferia».

   Zafreen corresse l’inquadratura, per mostrare le propaggini della città.

   «Uhm... molti di quegli edifici sembrano abbandonati» commentò Juri, osservando le case diroccate. «E tre miliardi non è una popolazione altissima, per un pianeta ad alta tecnologia. Ci serve un’analisi climatologica, a partire dal flusso stellare».

   «Il flusso è 2.9» riferì l’Orioniana. Era un valore pericoloso: significava che il pianeta era bombardato da quasi il triplo delle radiazioni che la Terra riceveva dal Sole. «Anche le temperature sono alte, c’è un processo di desertificazione in corso» proseguì Zafreen. «Il clima sta passando da caldo-umido a caldo-secco. Le foreste tropicali s’inaridiscono». Inquadrò la giungla attorno alla capitale: le chiome degli alberi erano giallastre, qua e là si aprivano radure che davano alla foresta un’aria butterata.

   «Beh, sappiamo come finirà questo mondo» disse il Capitano, osservando il pianeta morente. Per quanto deprecasse le usanze D’Arsay, le dispiaceva assistere all’agonia di una civiltà.

   Juri però continuava a rimuginare, osservando la geografia del pianeta. «Qual è la velocità di rotazione?» chiese.

   «Un giorno dura trentadue ore terrestri» riferì l’Orioniana. «Questo contribuisce senz’altro ad arroventare le ore diurne... poveretti!» si dispiacque.

   «E l’inclinazione dell’asse?» chiese ancora lo storico.

   «L’angolo è di 27°. Nel nostro tempo sono addirittura 40°».

   «Sì... tutto torna» mormorò Juri. «Un satellite di grosse dimensioni, come la Luna terrestre, contribuisce a stabilizzare l’asse. Se è vero che la loro luna – il Korgano del mito – se n’è andata, questo potrebbe averlo destabilizzato. E la situazione continua a peggiorare. Un asse ballerino esaspera i cambiamenti stagionali. Sommato alla durata del giorno e al forte flusso stellare, non c’è da stupirsi che il pianeta si stia desertificando».

   «Manderò delle squadre in superficie» disse il Capitano. «Dobbiamo capire meglio la loro struttura sociale e la loro tecnologia. Se la sente di venire, dottor Smirnov?».

   «Come, laggiù?!» impallidì lo storico. «Veramente contavo di restare a bordo. Tra l’altro, io non sono un Agente Temporale».

   «Alcuni elementi scelti dell’equipaggio possono sbarcare, sotto la supervisione di un Agente Temporale» spiegò Hod. «La dottoressa Mol ha già dato il suo assenso... la sua somiglianza fisica con gli antichi D’Arsay le permetterà di mimetizzarsi. Per tutti gli altri ci sono i travestimenti olografici».

   «Di che si lamenta, dottore? Visitare una civiltà perduta dovrebbe essere il suo sogno» notò Vrel.

   «Le civiltà antiche sono più belle da studiare, che non da vivere sulla propria pelle» rispose Juri, un po’ acido. «E va bene, verrò! Ma voglio la scorta».

   «Le affiancherò uno dei nostri migliori elementi» promise il Capitano.

 

   Due figure si materializzarono ai margini della città. Jaylah Chase e Juri Smirnov si scambiarono un’occhiata, per accertarsi che i loro travestimenti olografici D’Arsay fossero in ordine. Si trattava di ologrammi proiettati sopra le loro fisionomie, per farli sembrare gente del posto. Gli abiti consistevano in lunghe tuniche di tessuto grezzo, un modello sfoggiato da alcuni sudditi di Masaka.

   «Mi è parso che il teletrasporto sia durato più del previsto» commentò Juri, tastandosi come per accertarsi d’avere tutti i pezzi.

   «Colpa del vento solare che interferisce» spiegò Jaylah. «I tecnici hanno dovuto prendere qualche accorgimento. Non preoccuparti... non ti manca niente».

   «Anche tu ti preoccuperesti, se ti soffermassi a pensare che significa venire teletrasportati» brontolò lo storico. «Che succede, se le interferenze crescono?».

   «Manderanno una navetta a riprenderci».

   «Allora speriamo di non dovercene andare in fretta» commentò Juri, guardandosi attorno nervosamente. Il quartiere in cui si trovavano era semi-abbandonato, ma andando verso il centro della città le cose miglioravano. Gli esploratori mossero in quella direzione, osservando ogni dettaglio attorno a loro. I tricorder, nascosti nelle bisacce, erano accesi per raccogliere dati.

   «Non mi sarei mai aspettato di vedere questa gente dal vivo» mormorò Juri, quando svoltarono in una strada affollata. La maggior parte dei D’Arsay si muoveva a piedi, ma c’erano anche dei veicoli levitanti, il cui aspetto ricordava vagamente delle creature marine. Ai lati della strada vi erano porticati su cui si aprivano negozi e bancarelle. Tutto era uno strano misto di arcaico e di tecnologico.

   «Ehi, voi!» li apostrofò un negoziante. «Venite dalla campagna?».

   «Ehm, sì» rispose Juri. «Come ha indovinato?».

   «Vestite in modo strano... sembrate usciti da un libro di storia» notò il D’Arsay.

   I federali si scambiarono un’occhiata inquieta. I loro travestimenti si basavano sulle personalità ricreate dalla sonda-archivio. Ma quelli erano personaggi mitologici, appartenenti a un remoto passato. I D’Arsay intorno a loro avevano abiti molto più moderni, per il taglio e il tipo d’ornamenti. I viaggiatori del tempo compresero il loro errore: era come piombare nel XXI secolo terrestre vestiti da eroi dell’Antica Grecia.

   «Sa com’è, in campagna... la moda non cambia mai...» si giustificò Jaylah, sperando che la differenza non fosse troppo marcata agli occhi dei D’Arsay.

   «Anche il vostro accento è strano» commentò il negoziante, aggrottando la fronte. «Non riesco a riconoscerlo. Da che zona venite, di preciso?».

   «Oh, lontano a est...» rispose Juri, con gesto vago.

   «Intendete dalla provincia di Calak-mul?» chiese il D’Arsay.

   «Sì, proprio quella».

   «Ho dei parenti, in zona» li gelò il negoziante, guardandoli fra il sospettoso e il divertito. «Nessuno di loro si veste come voi, o parla col vostro accento».

   «Si è fatto tardi, dobbiamo andare...» disse Jaylah, sfiorando Juri per invitarlo a seguirla.

   «Sentite, se non volete dirmelo va bene, non è affar mio» li trattenne il D’Arsay. «Se è la vostra prima volta nella capitale, posso vendervi una cartina. Sono solo dieci pipil».

   «Scusi, sarà per un’altra volta» rispose Juri. Lui e Jaylah si allontanarono di buon passo.

   «Dobbiamo replicare un po’ di valuta locale, potrebbe servirci» disse l’Agente, più a se stessa che al collega. «Cerchiamo di scannerizzarla, mentre passiamo tra i mercatini».

   «Forse dovremmo prima tornare sulla Keter per aggiustare il travestimento. Così diamo troppo nell’occhio» commentò Juri, notando le molte teste che si giravano verso di loro.

   «Chiamo l’altra squadra, per sentire se hanno problemi» disse Jaylah, svoltando in un vicolo. Qui estrasse il comunicatore dalla bisaccia. Al posto dei tipici comunicatori-mostrina della Flotta, questo aveva un oloschermo con svariate funzionalità. «Agente Chase a Tenente Ortega. Mi riceve, Tenente?» ripeté, non udendo risposta.

   «C’è qualche problema?» chiese Juri, che faceva da palo qualche passo più in là.

   «Il Tenente non mi risponde».

   «Forse lui e la dottoressa si trovano in un luogo pubblico. Avranno settato il comunicatore su vibrazione, come te».

   «Dovrebbe almeno mandarmi un okay automatico» disse Jaylah, preoccupata. «Forse sono in difficoltà».

 

   La dottoressa Mol e il Tenente Ortega si aggiravano in una piazza pubblica. Anche loro vestivano semplici tuniche e tenevano i tricorder accesi nelle bisacce, raccogliendo informazioni. Dei due, solo la Vidiiana faceva a meno della maschera olografica: la sua fisionomia era pressoché identica a quella dei D’Arsay. Per mimetizzarsi si era limitata a truccarsi di rosso intorno agli occhi, come facevano le ancelle di Masaka. «Questo sole è micidiale» commentò a un certo punto. «Mi gira la testa... cerchiamo un po’ d’ombra».

   «Da questa parte» disse Ortega, prendendola a braccetto per timore che avesse un mancamento. Andarono in una zona ombreggiata, dove sedettero su una panchina di pietra. «Beva un po’ d’acqua» la invitò l’Agente Temporale.

   «Sì, è meglio». Ladya estrasse la borraccia e bevve una lunga sorsata. «Ah...» sospirò, chiudendo gli occhi. Quando li riaprì, si sentiva la mente schiarita. «Voglio controllare i primi dati» disse, prendendo il tricorder medico dalla bisaccia.

   L’Agente Temporale fece lo stesso col suo tricorder scientifico. «Quaranta gradi... e le radiazioni ultraviolette sono alte, vede?».

   Ladya annuì, preoccupata. «Secondo queste scansioni biometriche, i D’Arsay non sono più resistenti di noi ai raggi UV. Spero che sappiano proteggersi la pelle, perché altrimenti...» lasciò in sospeso.

   «I D’Arsay sono destinati a estinguersi» le ricordò l’Agente. «Che accada presto o tardi, è inevitabile».

   «Penso che ormai lo sappiano... per questo stanno costruendo la sonda» mormorò Ladya, dolente. «E noi vorremmo distruggerla! Dev’esserci un’alternativa».

   «La decisione spetta al Capitano» disse Ortega, senza sbilanciarsi.

   In quella i due viaggiatori del tempo videro allungarsi delle ombre davanti a loro. Si affrettarono a nascondere i tricorder e alzarono lo sguardo. Alcune guardie gli venivano incontro, equipaggiate con le solite armi anacronistiche.

   «Voi due, identificatevi subito!» ordinò il comandante, riconoscibile dall’uniforme maculata.

   «Siamo solo due agricoltori della provincia» rispose l’Agente Temporale, indicandosi la tavoletta col glifo appesa al collo. «È la prima volta che veniamo in città, per vedere il Tempio di Masaka e rendere onore alla dea».

   «Perché tu hai il trucco delle sacerdotesse?» chiese il D’Arsay, additando Ladya.

   «È solo per bellezza... non ha un significato particolare» si difese la Vidiiana. Quasi tutti i D’Arsay – sia uomini che donne – avevano pitture corporee.

   «Solo le sacerdotesse e le servitrici del Tempio possono decorarsi gli occhi di rosso» insisté il guerriero-giaguaro, corrucciato. «Se sei una contadina... come conferma la tavoletta... commetti un sacrilegio».

   La dottoressa rimase interdetta. Su Ultima Thule, quasi tutte le ancelle di Masaka avevano gli occhi contornati di rosso. Aveva pensato che fosse una moda diffusa. Invece doveva sospettare che, in una cultura così rigida, segnalasse uno status particolare. «Scusate, è stata una sbadataggine... me lo levo subito» promise, scattando in piedi. L’Agente Temporale la imitò.

   «Non puoi cavartela così» avvertì il guerriero-giaguaro, scuotendo la testa. «Sai bene che tutti i sacrilegi hanno la stessa condanna. Chi offende Masaka deve espiare servendola».

   «Sono solo di passaggio... non posso sobbarcarmi una corvée al tempio» disse subito Ladya.

   «Ma quale corvée?!» esclamò il D’Arsay, guardandola come se fosse matta. «Per servire la dea, bisogna raggiungerla nell’Aldilà. Sarai sacrificata alla prossima alba».

   «Che cosa?!» inorridì la Vidiiana, arretrando precipitosamente.

   «Calmi, è solo un malinteso» disse Ortega, frapponendosi. «La mia amica non voleva fare nulla di male. Abbiate un po’ di comprensione... siamo contadini ignoranti, non volevamo offendere la dea. Ora ce ne andremo» promise.

   «La legge di Masaka non conosce eccezioni!» berciò una delle guardie, ma il superiore lo zittì con un gesto.

   «Hai sentito? Sono solo degli ignoranti» disse il guerriero-giaguaro. «Forse, per stavolta, possiamo lasciar correre». Il D’Arsay si girò in parte, abbassando il bastone dentato, e anche gli altri guerrieri si rilassarono leggermente. La tensione si stemperò.

   L’Agente Temporale fece per voltarsi verso Ladya, con l’intento di accompagnarla subito via. Ma in quella, senza preavviso, il guerriero-giaguaro si voltò di nuovo e lo colpì al collo con la sua arma. Il Tenente cadde all’indietro, con la gola squarciata. Ladya strillò, mentre una guardia lo finiva, inchiodandolo al suolo con una lancia.

   Era successo tutto in un attimo. La Vidiiana cercò di scappare, ma altri due armati le furono subito addosso e l’afferrarono per le braccia, costringendola a inginocchiarsi. I passanti si voltarono a osservare la scena, ma nessuno intervenne. Non era saggio, per i sudditi D’Arsay, interferire nelle operazioni di polizia.

   «Non facciamo eccezioni nemmeno per i nobili. Credevi che l’avremmo fatta per te?» chiese il guerriero-giaguaro con asprezza, fissando Ladya. «Non ti avvedi che Masaka, sopra le nostre teste, ci osserva e ci giudica?» chiese, accennando al sole cocente sopra di loro. «Portate questa disgraziata al Tempio. E sbarazzatevi di lui» ordinò, accennando al corpo dell’Agente.

 

   «Allarme!» disse Zafreen. «I segni vitali di Ortega sono crollati!».

   «Teletrasporto immediato per lui e la dottoressa» ordinò Hod, scattando in piedi.

   «Non posso» avvertì il tecnico del teletrasporto, consultando la consolle. «C’è un brillamento solare in corso. Le radiazioni interferiscono col segnale».

   «Restringa il raggio di confinamento. Adegui l’onda portante per compensare» ordinò il Capitano, correndogli a fianco.

   «Capitano... mi spiace dirlo, ma teletrasportare i nostri sotto gli occhi dei D’Arsay violerebbe gli Accordi Temporali» disse Norrin.

   «Infermeria a plancia, che aspettate a prelevare Ortega? Il Protocollo di Rianimazione non funzionerà, se passa troppo tempo!» giunse la voce di Portillus, uno dei medici.

   «Resti in attesa» ordinò il Capitano. «Zafreen, visuale». Sullo schermo apparvero i guerrieri che conducevano via Ladya, dopo averle legato le mani dietro la schiena. Poco più in là, altri due trascinavano via Ortega per le braccia, lasciandosi dietro una scia di sangue. La sua bisaccia, per il momento, era stata dimenticata.

   «Prendiamo almeno i suoi strumenti» ordinò il Capitano. Gli Accordi Temporali erano tassativi: nessuna tecnologia moderna doveva essere abbandonata nel passato. La bisaccia di Ortega fu prontamente teletrasportata, come anche gli strumenti dentro quella di Ladya. Il D’Arsay che la reggeva udì il ronzio, ma quando l’aprì il bagliore era già svanito, portandosi via il tricorder e gli altri strumenti. Restavano solo le provviste e qualche bagaglio generico.

   Gli oggetti riapparvero sulla pedana di plancia, anneriti e semifusi. Emettevano un intenso odore di bruciato. «Gli accorgimenti non sono bastati... il teletrasporto è pericoloso, finché dura il brillamento» constatò il tecnico.

   «Infermeria a plancia... qualunque cosa aveste in mente, ormai è tardi» giunse la voce accusatoria di Portillus. «Il tempo utile per rianimare Ortega è scaduto. L’abbiamo perso».

 

   «La prigioniera, mio signore» disse il guerriero-giaguaro, scaraventando Ladya ai piedi di un funzionario. «Come vedete, è colpevole di sacrilegio».

   Il funzionario afferrò la Vidiiana per il mento e glielo sollevò, per vederla in faccia. «Magari tutti i criminali avessero la loro colpa scritta in faccia, come te» sospirò il D’Arsay. «Che volevi fare, infiltrarti nel Tempio per rubare gli arredi sacri?».

   «No! Ero qui solo per vedere la città, e così il mio amico» ribatté Ladya. «Perché l’avete ucciso?».

   «Ostacolava un arresto» si difese il guerriero-giaguaro. «Ho solo applicato la legge».

   «Potevi catturare anche lui... due sacrifici sono meglio di uno» commentò il funzionario. «Ma quel che è fatto, è fatto» aggiunse, lasciando andare la prigioniera. «Avvisate i sacerdoti che abbiamo un’offerta per il tempio».

   «Offerta!» disse Ladya con rabbia. «Le nostre vite valgono ben poco, se ne disponete così».

   «Al contrario» corresse il funzionario, chinandosi su di lei. «Le vite dei sudditi hanno un altissimo valore. Ecco perché le offriamo in sacrificio a Masaka. Che senso avrebbe donarle qualcosa di poco conto? Qualcosa di facilmente sostituibile? No, la più grande divinità merita il più grande dei sacrifici. Non dolerti della tua sorte... al contrario, accettala con gioia. È grazie ai sacrifici come il tuo che Masaka ci mostra la sua benevolenza».

   «Quale benevolenza?» ribatté Ladya. «Ho visto cosa sta succedendo. Le foreste muoiono, i campi senza pioggia non danno più frutto. Le radiazioni stanno uccidendo lentamente la nostra gente» disse, fingendosi ancora una di loro. «Dovreste concentrarvi su questi problemi. Cercate un modo di salvarci, perché Masaka non lo farà».

   «Silenzio!» gridò il funzionario. «Esiste un piano per garantirci la sopravvivenza. Una sonda che ricostruirà altrove questo mondo, in caso di catastrofe. La sua tecnologia è qualcosa di mai visto prima. Ma speriamo che non sia necessario... speriamo che, coi dovuti sacrifici, Masaka ci risparmierà dalla sua vampa. Ora basta parlare. Portate via questa donna e preparatela per la cerimonia!» ordinò agli inservienti.

   «No, fermi! Non fatelo, vi prego!» gridò Ladya, dibattendosi mentre la trascinavano via. Dall’atteggiamento del funzionario aveva intuito una preoccupazione tutto sommato genuina per le sorti del pianeta. Se i D’Arsay si fossero concentrati solo sulla sonda, o meglio ancora sul mettere a punto un viaggio interstellare più rapido, avrebbe potuto simpatizzare con loro. Ma quei sacrifici mostruosi quanto inutili, ai quali non riuscivano proprio a rinunciare, li mettevano dalla parte del torto. Forse era un bene che si fossero estinti, si disse la Vidiiana.

 

   «Masaka... Masaka... Masaka...». Il nome scandito dai sacerdoti fu ripetuto dalla folla assiepata intorno alla piramide. I sonagli sferragliavano e i tamburi rullavano a ritmo sempre più incalzante. Nella luce sanguigna delle torce, i sacerdoti mascherati che danzavano attorno all’altare del sacrificio sembravano esseri demoniaci. D’un tratto s’immobilizzarono al suono di un gong. Due robuste guardie trascinarono Ladya all’altare, posto in cima alla scalinata della piramide, davanti al tempio dorato di Masaka. La legarono strettamente, sebbene lei si dibattesse con tutte le sue forze.

   «Dobbiamo intervenire» sussurrò Jaylah. Lei e Juri erano a terra, un po’ discosti dalla folla, e osservavano il rituale che si svolgeva in cima alla piramide.

   «Davanti a tutta questa gente? Lo sconsiglio» disse Juri.

   «La uccideranno! Le caveranno il cuore!» protestò Jaylah.

   «Improbabile» ribatté lo storico, distaccato. «Ormai sappiamo come Masaka prende le sue vittime. A volte le brucia vive... ma non vedo cataste di legna per il rogo. Non resta che l’altra eventualità. La esporranno al solleone e aspetteranno che muoia di sete. Questo ci dà molte ore di tempo per salvarla».

   «Se ti sbagli, non te lo perdonerò» lo avvertì l’Agente. «La dottoressa è la persona più di buon cuore sulla nave. Non può morire così».

   Sopra le loro teste, la Vidiiana continuava a protestare. Le sue invettive contro Masaka suscitarono un alterco sempre più aspro con il Sommo Sacerdote. Dopo averla inutilmente esortata a ritrattare, il D’Arsay si accostò al tendaggio dorato che velava l’ingresso del tempio. «Molto bene, nemica di Masaka... sarà la dea a decidere la tua sorte!» dichiarò. S’inginocchiò davanti alla tenda, coprendosi il volto con le unghie lunghissime. «Fulgida dea, Signora dei Quattro Punti Cardinali, Creatrice e Distruttrice del Mondo, dicci... che dobbiamo fare della miscredente che rinnega il Tuo nome?» invocò.

   Juri e Jaylah si scambiarono un’occhiata inquieta. Uno degli scopi della loro esplorazione era capire se il mito di Masaka si basava su qualcosa di più concreto del simbolismo solare. Ormai stavano per escluderlo, ma quella scena rimetteva tutto in discussione. Dall’interno del tempio giunsero dei sibili agghiaccianti, che nessuna gola umanoide poteva emettere. Il pesante tendaggio dorato ondeggiò lievemente.

   «Masaka ha parlato!» esclamò il Sommo Sacerdote, rialzandosi. «I nostri pugnali non strapperanno il cuore all’infedele, né le fiamme la consumeranno. No... la dea si occuperà di lei personalmente. E infatti sta arrivando. Guardate! Anche oggi Masaka si è svegliata!» gridò, indicando l’orizzonte lontano, dove si diffondeva il chiarore dell’alba.

   «Masaka si è svegliata! La regina è sveglia!» ripeté la folla, disperdendosi. I due viaggiatori del tempo ricevettero parecchi spintoni e dovettero tenersi stretti per non essere divisi. Mentre quasi tutti i D’Arsay se ne andavano, loro restarono in piazza, per controllare cosa accadeva alla dottoressa. Videro che le guardie la slegavano e la costringevano a scendere la ripida scalinata, sotto la minaccia delle armi. Anche i sacerdoti la seguirono, salmodiando. Quando giunsero alla prima terrazza della piramide, Ladya fu nuovamente legata a un altare, uno dei molti che la riempivano. E fu lasciata lì. I sacerdoti scesero l’ultimo tratto di scale e si recarono al loro palazzo, che sorgeva a poca distanza. I guerrieri si disposero invece a far da sentinelle alla base della piramide. Il sole si alzò con lentezza, data la pigra rotazione del pianeta. I suoi raggi illuminarono una porzione sempre maggiore della piramide, scendendo verso la base, finché anche il primo gradone fu illuminato.

   I due federali lasciarono la piazza, per non dare nell’occhio, e si rifugiarono in un angolo ombreggiato. Jaylah trasse un piccolo binocolo dalla bisaccia, per osservare l’altare di Ladya e quelli circostanti. «È come dicevi... ci sono altre vittime morte di sete tutt’intorno a lei» riconobbe. «Dobbiamo far presto a salvarla. La temperatura sale in fretta e i raggi UV sono micidiali».

   «E che facciamo con la... cosa lassù?» chiese Juri.

   «Per risponderti dovrei prima sapere cos’è» disse Jaylah, inquieta. Estrasse il tricorder e lo puntò verso la cima della piramide. «Non rilevo niente, ma a questa distanza la scansione non è molto affidabile. Agente Chase a Keter, chiedo una scansione completa della piramide di Masaka. Rilevate qualche segno vitale o campo energetico?».

   «Qui Keter... rilevo solo i segni vitali della dottoressa e delle guardie D’Arsay» rispose Zafreen di lì a poco. «Nessun campo d’energia. Dovrei cercare qualcosa in particolare?».

   «Sembra che Masaka sia in casa, dopotutto» spiegò Jaylah. «Ma non nella forma che conosciamo. Ho sentito i suoi sibili da quaggiù».

   «Io... non rilevo niente, vi dico» insisté Zafreen. «Ma i segni vitali di Ladya si stanno già indebolendo. Dovete salvarla!».

   «Sarà difficile, in pieno giorno» commentò Juri. «Pensi che possa resistere fino a stanotte? Potremmo slegarla col favore delle tenebre».

   «È estate nel vostro emisfero. Ci vorranno ventidue ore prima che il sole tramonti» avvertì l’Orioniana.

   «La dottoressa non può resistere così a lungo. Chiedo il permesso di procedere al salvataggio» disse l’Agente Temporale.

   Sulla Keter, il Capitano si accostò alla postazione di Zafreen. «Qui Hod, abbiamo ancora problemi col teletrasporto. Vi manderemo una navetta occultata coi rinforzi. Mi raccomando, non fatevi vedere! E soprattutto non rivelate la nostra tecnologia ai D’Arsay».

   «Ricevuto. Se posso chiedere... che ne è del corpo di Ortega?».

   «L’abbiamo teletrasportato, prima che il travestimento olografico cedesse» rispose il Capitano. «Le condizioni in cui è arrivato ci confermano che il teletrasporto non può essere usato con sicurezza sulla materia organica. Quindi la navetta è la vostra sola via di fuga. La stiamo lanciando adesso, vi raggiungerà al punto d’incontro fuori città. Da lì potrete raggiungere in volo la terrazza della piramide e procedere al salvataggio».

   «Ricevuto. Chase, chiudo». Jaylah ripose il comunicatore e cercò di farsi coraggio. Il nuovo caposquadra non era durato a lungo. Per quanto fosse un esperto Agente Temporale, a volte ci voleva niente a farsi cogliere di sorpresa. Evidentemente aveva sottovalutato le armi primitive dei D’Arsay. Jaylah si promise di non commettere lo stesso errore. Quanto alla prossima nomina, non era più così ansiosa di comandare la squadra.

 

  Sotto il sole sempre più alto e cocente, Ladya si sentiva rosolare. La pietra dell’altare sotto di lei era arroventata come una pietra da forno. La dottoressa cercava di rigirarsi per quanto possibile, ma ogni nuova posizione la faceva soffrire. Ancora più scottanti erano i gioielli con cui l’avevano ricoperta. La dottoressa comprese che facevano parte della tortura: là dove il metallo arroventato le toccava la pelle, cominciavano a formarsi piaghe e bolle. La luce intensissima l’abbagliava, sebbene tenesse gli occhi chiusi. La testa le girava, le orecchie fischiavano. Tutto il suo corpo era in un bagno di sudore.

   Appellandosi alle sue conoscenze mediche, Ladya provò a calcolare quanta acqua stava perdendo e quanto poteva resistere ancora. Non molto, si disse, passandosi la lingua sulle labbra screpolate. Forse non sarebbe arrivata viva a sera. Sentendosi la pelle in fiamme, aprì gli occhi e si osservò le braccia. L’epidermide era di un rosso vivo, a causa dell’insolazione. Il dolore aumentava rapidamente... e dire che il sole non era ancora a picco. Un singhiozzo disperato le uscì dalle labbra riarse. No, non poteva reggere fino al tramonto. Il dolore continuava ad aumentare, persino gli occhi le dolevano per il caldo. Sperò di svenire presto.

   «Resisti, siamo qui» le disse una voce familiare. Qualcosa di fresco le bagnò il volto. Acqua... qualcuno le stava spruzzando la faccia d’acqua per aiutarla a riprendersi. La dottoressa socchiuse gli occhi e alzò per quanto possibile la testa. Il volto di Norrin le galleggiò davanti, sfocato. «Bevi» le disse l’Hirogeno, accostandole la borraccia alle labbra.

   Ladya cominciò a bere, a piccoli sorsi, per evitare che l’improvvisa bevuta le provocasse un malore. La sua mente iniziò a schiarirsi e anche la vista migliorò. Riconobbe i colleghi attorno a lei. C’erano Juri e alcuni Agenti Temporali. Jaylah la stava liberando dai legacci con un coltellino multiuso. La mezza Andoriana aveva disattivato l’olo-travestimento, rivelando il suo volto e l’uniforme da Agente Temporale. Appena ebbe tagliato le corde che la bloccavano, prese a sfilarle le collane e gli altri gioielli arroventati, per evitare che continuassero a ustionarla. «È libera; riesce a camminare?» le chiese.

   «Io... non lo so...» farfugliò Ladya. Sedette sull’altare, facendo grossi respiri, mentre Norrin le bagnava ancora il volto. Sapendo che avevano poco tempo, provò ad alzarsi in piedi. La testa riprese subito a girarle, tanto che cadde in avanti. Per fortuna Norrin le era accanto. L’Hirogeno l’afferrò prontamente e poi, capito che non si sarebbe retta, la prese in braccio. «Tranquilla, è tutto finito. Ora ce ne andiamo» le promise.

   «Hanno ucciso Ortega... per un dettaglio insignificante... sono pazzi...» mormorò la Vidiiana.

   «Pazzi no; fanatici molto» corresse Juri, schermandosi dal solleone con una mano per osservare le guardie a terra. «Svelti, andiamo prima che ci vedano». La navetta occultata galleggiava lì vicino, a un metro da terra. La porta posteriore era aperta, creando l’impressione surreale di un ingresso aperto nel nulla. Norrin vi entrò per primo, con Ladya in braccio. Seguirono Juri e gli Agenti Temporali. L’ultimo chiuse la porta posteriore, rendendo del tutto invisibile la navicella.

   «Torniamo alla Keter, ti servono cure» disse Norrin, deponendo Ladya sul pavimento. Lo fece con più delicatezza possibile, avendo notato le piaghe e le bolle sulla sua pelle.

   «Un momento. Chiedo il permesso d’essere lasciata in cima alla piramide» disse Jaylah.

   «Sei impazzita?!» fece Vrel, che sedeva al timone.

   «Devo risolvere una buona volta il mistero di Masaka» disse l’Agente Temporale. «Se c’è qualche entità là dentro – magari un Devidiano – lo scoprirò».

   «E come ne uscirai viva?» chiese il timoniere.

   «Qui abbiamo il nostro miglior equipaggiamento» disse Jaylah, alludendo alle tute occultanti appese lungo un lato della cabina. «Signore?» si rivolse a Norrin.

   «D’accordo» acconsentì l’Hirogeno dopo una breve riflessione. «Dobbiamo accertarci che non ci sia lo zampino di un altro viaggiatore del tempo. Voi Agenti scenderete tutti e quattro. Signor Shil, ci porti in cima».

   Il timoniere borbottò qualcosa, ma eseguì l’ordine. La navetta si sollevò in volo, risalendo le pareti della piramide, fino a raggiungere la sommità. Si fermò proprio davanti all’ingresso chiuso da un telone. Jaylah e gli altri Agenti Temporali indossarono le tute occultanti.

   «Non aspettateci» disse la mezza Andoriana, aprendo il portello. Lei e i colleghi si resero invisibili e sbarcarono. Juri richiuse l’ingresso dietro di loro, ripristinando il pieno occultamento. La navetta cabrò, dirigendosi verso la Keter che l’attendeva in orbita.

 

   «Attenti» disse Jaylah, guidando la squadra verso l’ingresso frusciante.

   «Pensi che sia un Devidiano?» chiese uno dei colleghi.

   «Può essere. Avrebbe tutto il tempo di scendere sulla terrazza a raccogliere l’energia neurale dei moribondi» rispose la mezza Andoriana. Regolò il phaser innestato direttamente nel bracciale della tuta e scostò la tenda per entrare.

   Si trovò in una sala del trono ancora più sontuosa di quella che Masaka aveva ricreato su Ultima Thule. Il pavimento era di marmo giallo, mentre le pareti rilucevano d’oro brunito. In fondo al salone, tra due bracieri spenti, c’era una pedana sollevata di quattro gradini che ospitava un trono d’oro massiccio, col marchio di Masaka impresso nello schienale. Il trono era vuoto. Anzi, non proprio. Aguzzando la vista, Jaylah notò due sottili oggetti quadrati che vi erano posati sopra. Si avvicinò cautamente, mentre i colleghi la vigilavano, pronti a intervenire se qualcosa l’avesse attaccata.

   «Ma guarda...». I due oggetti avevano tutta l’aria d’essere unità di memoria. Una era dorata, con l’emblema di Masaka. L’altra, color argento, recava il simbolo di Korgano. Ma Jaylah sapeva che solo una sarebbe stata riversata nella sonda-archivio. Si chiese se era perché lei l’aveva prelevata in quel momento. Ma perché fare una cosa simile? Se voleva che Korgano entrasse negli Archivi, avrebbe dovuto lasciarlo lì.

   «Tutto qui?» chiese uno degli Agenti, incredulo.

   «Così pare» annuì Jaylah. «Ma c’è una cosa di cui dobbiamo ancora accertarci. Aspettiamo il tramonto».

 

   Il lettino uscì dalla camera cilindrica incassata nella parete, scorrendo sui binari. La dottoressa Mol riprese conoscenza e alzò la testa. Vestiva una tuta bio-medica argentea e per quanto si sentisse ancora debole non provava più il dolore delle scottature. «Situazione?» chiese con voce fioca.

   «Aveva ustioni di primo grado nei punti a contatto coi gioielli, oltre a una brutta insolazione sul 60% del corpo» riferì il dottor Portillus, suo braccio destro in infermeria. «Abbiamo completato la rigenerazione dermica. Ma deve ancora assumere dei liquidi per riaversi dalla disidratazione» aggiunse, porgendole una bottiglietta d’acqua.

   La Vidiiana bevve qualche sorso. «Grazie» disse, posando la bottiglietta su un vicino ripiano. Notò che alle spalle del collega c’era Norrin. Quando il dottore si ritirò, l’Ufficiale Tattico si fece avanti.

   «Volevo accertarmi che stessi bene» disse Norrin.

   «Mi sento molto meglio... grazie per avermi soccorsa» sorrise la dottoressa. «Me la sono vista brutta, laggiù».

   «Sarei intervenuto prima, ma sai com’è, con quei maledetti Accordi Temporali. Abbiamo dovuto aspettare che non ci fossero testimoni» si scusò l’Hirogeno.

   «Certo, capisco» annuì la Vidiiana. «Ma è in momenti come quello che pensi alla tua vita e ti penti di ciò che non hai fatto».

   «Hai dei rimpianti?» le chiese Norrin.

   «Quando si raggiungono gli “anta”, è difficile non averne nessuno» sospirò la dottoressa, mettendosi a sedere sul lettino. «Io e te ci somigliamo, credo. Abbiamo sacrificato molto per le nostre carriere. Abbiamo anche rinunciato alla possibilità di vivere coi nostri simili. Non che voglia tornare indietro, ma... a volte è un peso».

   «A volte sì» ammise l’Ufficiale Tattico. Si guardò attorno, accertandosi che fossero soli nella saletta. «Senti, io non sono bravo in queste cose. Ma vorrei che sapessi quanto sono sollevato di vederti salva». Detto questo, si chinò su di lei e la baciò sulle labbra.

   Ladya non si oppose, ma non ricambiò neanche con trasporto. Quando si separarono, rimase a guardare Norrin con una certa sorpresa e un pizzico d’imbarazzo.

   «Ti ho scioccata?» chiese l’Hirogeno. Sapeva che la Vidiiana era piuttosto timida, nella vita privata. Inoltre temeva di non piacerle, date le notevoli differenze tra le loro specie.

   «Un po’... ma non in senso negativo» disse la dottoressa, dopo una breve riflessione. «È solo che non pensavo d’interessarti. Ci sono molte donne più giovani e più affascinanti di me, a bordo».

   «Tu sei l’unica che m’interessi» disse Norrin, un po’ impacciato. «Prenditi tempo per pensarci, d’accordo?».

   «Sì... lo farò» promise Ladya, colorandosi leggermente. Con la scusa della convalescenza, tornò a distendersi sul lettino.

   L’Hirogeno esitò un attimo, poi fece per uscire.

   «Norrin!» lo richiamò la Vidiiana quando fu sulla porta.

   «Sì?».

   «Non mi pento d’essere sulla Keter» mormorò la dottoressa, guardandolo con affetto.

   «Nemmeno io» disse l’Ufficiale Tattico, prima di uscire.

 

   Quando i guerrieri D’Arsay irruppero nel tempio, gli Agenti Temporali si appiattirono contro le pareti. Le tute occultanti li rendevano invisibili, ma avevano il timore che la strana tecnologia dei nativi li individuasse in qualche modo. Fortunatamente si sbagliavano. Le guardie accesero i bracieri e ispezionarono ogni anfratto del salone, in cerca di Ladya. Quando si convinsero che non c’era, uscirono quasi tutte. Di lì a poco entrarono dei pezzi grossi: funzionari, sacerdoti. Per ultimo venne un D’Arsay abbigliato in modo particolarmente sontuoso, con un copricapo adorno di penne variopinte. Jaylah comprese d’essere al cospetto del sovrano.

   «Come vedete, Maestà, loro sono incolumi» disse il Sommo Sacerdote, accennando alle due unità di memoria posate sul trono.

   «Sia lode agli dèi. Se gli fosse successo qualcosa, un nuovo Sacerdote avrebbe sovrinteso alla vostra immolazione» ribatté il Re, scrutando severamente quanti lo attorniavano. Sacerdoti e funzionari indietreggiarono di un passo e fissarono il suolo, intimoriti. «Come ha fatto la prigioniera a liberarsi?» chiese il sovrano.

   «Le corde erano tagliate... qualcuno l’ha aiutata» rispose il guerriero-giaguaro. «Forse altri due stranieri che sono stati avvistati oggi in città. Li sto facendo cercare. Ho anche aumentato la sorveglianza del tempio».

   «Credevo che questo luogo sacro fosse sicuro... che nessuno avrebbe osato profanarlo. È chiaro che mi sbagliavo» disse il Re, accostandosi al trono. Prese l’unità di memoria che conteneva la personalità di Masaka e la scrutò per lunghi secondi. Poi la consegnò a quello che sembrava uno scienziato, data l’uniforme molto più moderna degli altri. «L’Archivio è pronto ad accoglierla?» chiese.

   «Lo è, Altezza» rispose lo scienziato, inchinandosi.

   «Allora procedete» ordinò il Re. «Che la sua personalità sia infusa nell’Archivio. E così tutte le altre».

   «E Korgano, mio signore?» chiese il Sommo Sacerdote, contemplando l’altra unità di memoria, ancora sul trono.

   «Lui no» decise il Re. I dignitari attorno a lui si scambiarono sguardi preoccupati. Quanto ai sacerdoti, avevano la tragedia scritta sul volto.

   «Mio signore... senza Korgano non può esserci equilibrio» disse il Sommo Sacerdote.

   «Ne abbiamo parlato tante volte!» sbottò il Re. «Non voglio ricominciare daccapo. Korgano ci ha abbandonati tanto tempo fa. Ha smesso d’inseguire Masaka. Quale che fosse l’equilibrio, non esiste più».

   «Proprio per questo il mondo sta morendo!» disse il Sommo Sacerdote, con una nota di disperazione. «Lo strapotere di Masaka sta prosciugando la vita. Ascoltatemi, v’imploro. Gli dèi crearono il mondo assieme... se vogliamo che lo ricreino di bel nuovo, devono essere ancora assieme!».

   «Ho preso la mia decisione e non la cambierò» disse il Re, ostinato. «Tutti gli altri dèi ed eroi avranno il loro posto negli Archivi, assieme ai soldati e ai servitori. Ma colui che ci ha abbandonati... che ha reso buie le nostre notti... lui no. È la mia ultima parola!». Ciò detto, prese l’unità di memoria con la personalità di Korgano e la gettò sdegnosamente in uno dei bracieri.

   Inorridito, il Sommo Sacerdote tese le mani scarne verso le fiamme. Sembrava disposto a ustionarsi pur di salvare il dio-luna. Ma il guerriero-giaguaro si frappose minaccioso. Il vecchio chinò il capo, sconfitto. «Da questo verrà solo del male» profetizzò. Poi lasciò la sala del trono, assieme agli altri sacerdoti e ai funzionari. Il Re e le sue guardie uscirono per ultimi.

   «Le cose cominciano a chiarirsi» disse Jaylah, rimasta sola coi colleghi. «Korgano doveva stare negli Archivi. Gli altri personaggi... erano programmati per interagire con lui!» comprese, ripensando al loro atteggiamento. «La sua assenza li confonde. Ecco perché Picard riuscì a fingersi Korgano. Ed ecco perché adesso Masaka sta cercando di rimpiazzarlo col Comandante. Si sente incompleta e non riesce a sopportarlo».

   «Ha importanza?» chiese un collega. «Al nostro ritorno il Capitano distruggerà la sonda-archivio».

   «Non è detto» obiettò Jaylah, avvicinandosi al braciere. «Se Masaka avesse il suo compagno, allora forse cambierebbe atteggiamento». Immerse la mano tra le fiamme, approfittando della protezione offerta dalla tuta, e raccolse l’unità di memoria. Era un po’ annerita in superficie, ma non sembrava ancora danneggiata.

   «Che fai?! Non possiamo alterare la Storia!» la rimproverò il collega.

   «Secondo la Storia, le fiamme hanno consumato quest’unità» ribatté Jaylah. «Se ce la portiamo via, per i D’Arsay non cambierà niente. Il passato resterà identico. Ma potremmo migliorare il nostro presente. Se completiamo le personalità degli Archivi, potremmo trovare un modo per coesistere senza distruggerli».

   «Dovremo parlarne col Capitano, oltre che con la Commissione per l’Integrità Temporale».

   «Certamente. E adesso vediamo se, a parte questi programmi, qui c’è una vera entità» disse Jaylah.

   Gli Agenti attesero ancora molte ore. Quando finalmente la lunga giornata D’Arsay si concluse e il sole svanì sotto l’orizzonte, uno strano sibilo si diffuse nella sala. Era lo stesso suono, simile a un bisbiglio, che aveva segnato la cerimonia all’alba.

   «Da dove viene?» chiese uno degli Agenti, guardandosi attorno. Lui e gli altri regolarono i visori su varie frequenze, ma non videro alcuna creatura.

   «È come immaginavo» disse Jaylah, accostandosi a una parete. «Tutto quest’oro, sotto il sole per molte ore, si arroventa al punto da dilatarsi. Quando il sole tramonta e la temperatura scende, il rivestimento aureo si restringe. Così la brezza s’infiltra tra l’oro e la pietra sottostante, attraverso alcune crepe, producendo questo suono. Immagino che all’alba si produca il fenomeno inverso, con l’aria che esce dalle intercapedini. In entrambi i casi, le escursioni termiche creano l’illusione di una voce sibilante. Torniamo sulla Keter... qui non c’è alcuna entità».

 

   «Affascinante!» disse Juri, quando Jaylah ebbe terminato il suo resoconto in sala tattica. «Il fenomeno che hai descritto somiglia a quanto accadeva nell’Antico Egitto coi Colossi di Memnone. Succede lo stesso anche con molte statue colossali su Vulcano».

   «Quindi non c’è nessuna Masaka» concluse il Capitano Hod. «Pensa che i D’Arsay lo sappiano?».

   «Difficile dirlo. Il Re e i sacerdoti probabilmente sì. Il resto del popolo direi di no» ipotizzò lo storico. «Beh, a questo punto possiamo trarre qualche conclusione sulla società D’Arsay. Siamo di fronte a una teocrazia che ha fatto degli elementi naturali, e soprattutto degli astri, la base della sua dottrina. A dispetto del notevole progresso tecnologico in certi campi, in particolare la Sintesi Particellare, i D’Arsay continuano a ragionare in questi termini. Dovendo ricreare altrove il loro mondo, hanno pensato che solo gli dèi potessero assumersi un simile compito. Così li hanno “creati” come entità informatiche e li hanno inseriti nell’Archivio, rendendoli più reali di quanto fossero mai stati».

   «Tutti tranne Korgano» commentò il Capitano. «La sua rimozione spiega molte cose».

   «È stata una decisione dell’ultimo minuto, presa dal Re in disaccordo coi sacerdoti» spiegò Jaylah.

   «Pessima decisione, visti i guai che ci crea nel presente» disse Hod. «Se avessimo ancora Korgano, forse troveremmo un accordo con quelle Intelligenze Artificiali».

   «Ecco... noi abbiamo Korgano» rivelò Jaylah, levando di tasca l’unità di memoria bruciacchiata.

   «L’ha preso?!» sbalordì il Capitano.

   «Il Re l’aveva gettato in un braciere. Poi se ne sono andati tutti» spiegò Jaylah, un po’ imbarazzata. «Non credo che al mattino sarebbe rimasto molto. Prendendolo, non ho alterato il passato. Ma possiamo correggere il presente! L’ha detto anche lei che con Korgano quei personaggi potrebbero diventare più ragionevoli».

   «Bisogna vedere quanto ragionevoli» commentò Norrin. «Dubito che ci renderanno la base».

   «Sono pur sempre programmati per ricreare il loro mondo» ragionò Juri. «L’ecosistema... la Città di Masaka... forse anche la popolazione. No, non credo che molleranno l’osso. Ma con un intero pianeta a disposizione, chissà...».

   «Vuole che distrugga l’unità di memoria? O che la rimetta dov’era, finché siamo in tempo?» chiese Jaylah, dato che il Capitano restava in silenzio.

   Hod rimuginò per qualche secondo. «No, teniamola» decise. Poi si rivolse a tutti gli ufficiali: «Abbiamo raccolto abbastanza informazioni sui D’Arsay. Ora torniamo al presente, prima che riescano a individuarci».

   «Il nucleo temporale è carico, devo solo inizializzare la sequenza» informò Dib. «Al ritorno, vuole che aggiunga la personalità di Korgano negli Archivi?».

   «Sì» decise il Capitano. «Dato che abbiamo quest’opportunità, sfruttiamola. Se le cose non cambieranno, possiamo sempre distruggere la sonda».

 

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Capitolo 5
*** Il mondo conteso ***


-Capitolo 4: Il mondo conteso

 

   La sonda-archivio attendeva nell’orbita di Ultima Thule, identica a come l’avevano lasciata. Dal suo punto di vista, e da quello dell’intero Universo, la Keter era sparita solo per dieci secondi. «Bene... ora possiamo affrontarla con più cognizione di causa. Chiedo il permesso di tornare a bordo per inserire questa» disse Juri, rigirandosi nervosamente l’unità di memoria tra le mani.

   «Credevo che non le piacessero le missioni sul campo» notò il Capitano.

   «No, infatti. Ma prima la sistemo, prima questa storia finirà... spero» disse lo storico.

   «Può andare, assieme al signor Dib. Noi però dovremo allontanarci per proteggere la Keter dalla trasmutazione» avvertì Hod. «Già che ci siete, vi chiedo anche di scaricare le opere letterarie contenute nell’Archivio. Così non andranno perdute, se saremo costretti a distruggerlo. Avvisateci quando avrete fatto, così verremo a riprendervi».

   «Intesi» disse Juri, andando a prepararsi.

   «Stavo pensando a una cosa» disse Vrel. «Sappiamo perché Masaka vuol tenersi Radek. Se adesso le diamo Korgano... non credete che il Comandante sarà a rischio?».

   «È un rischio che si è assunto stringendo quell’accordo» rispose il Capitano, ancora indispettita. «Comunque, appena avremo conferma del ritorno di Korgano, manderemo una squadra di salvataggio» promise.

 

   Dib e Juri si materializzarono nella sala cubica, a bordo della sonda-archivio. Lo storico indossava la tuta spaziale, mentre l’Ingegnere Capo aveva la solita tuta termica. I due si guardarono attorno. «Vedi una presa di memoria?» chiese Juri.

   «Potrebbe essere questa». Il Penumbrano indicava una fessura nel muro, posta al centro della parete. Era della misura giusta per inserirvi il dispositivo.

   «Sembra adatta» disse lo storico, osservandola da vicino. «Ma chissà se funziona, dopo tutto questo tempo. Il meccanismo sarà fragile... spero di non romperlo».

   «Mi faccia inserire l’unità mnemonica. La mia presa è più sensibile di quella umana» consigliò Dib. Ricevuta l’unità, la introdusse con estrema lentezza, stando attento a non provocare cedimenti nel congegno.

   «Bentornato a casa, Korgano» commentò Juri. Recatosi alla parete opposta, attivò l’interfaccia olografica e prese a scorrerne i glifi. «E dai, amico, non farti desiderare...» mormorò, con la tuta che doveva lavorare al massimo per asciugargli il sudore. Finalmente si arrestò davanti a un nuovo simbolo. Era il glifo argenteo di Korgano, ma stavolta era circondato da numerosi raggi, che gli davano un’aria più sfavillante. «Il marchio del Cacciatore!» si emozionò. «Con quei raggi attorno, ha la stessa dignità di Masaka».

   «Quel glifo non c’era, l’altra volta» notò l’Ingegnere Capo. «Questo sembra confermare che viene dall’unità di memoria».

   «Lo scopriremo presto» disse Juri, con un certo batticuore. «Forza, Cacciatore... è tempo di tornare in pista» aggiunse, premendo il simbolo. Stavolta non apparve alcuna maschera. Se Korgano si era manifestato, lo aveva fatto a terra, in mezzo agli altri D’Arsay. «Okay, scarichiamo la loro letteratura e battiamocela» disse lo storico. Lui e Dib armeggiarono per un pezzo tra i glifi olografici, cercando di riconoscere i documenti che contenevano i racconti mitici. Quando ritennero di aver fatto, Juri contattò la nave: «Smirnov a Keter, missione compiuta. Ora vorremmo tornare».

   Dall’astronave non giunse alcuna risposta. Juri attese dieci secondi, poi ripeté il messaggio. Ancora niente. «Ohi, ohi» si lamentò. «Speriamo di non aver combinato un pasticcio».

   «Keter a squadra, restate in attesa. Ci sono complicazioni» giunse la voce del Capitano.

   «Che tipo di complicazioni? Korgano c’è o no?» volle sapere lo storico.

   «Non lo sappiamo, ma al momento è irrilevante».

   «Come sarebbe, irrilevante?!» s’indignò l’Umano. «È per questo che abbiamo viaggiato nel...».

   «Silenzio, potrebbero intercettarci!» lo zittì Hod.

   «Chi potrebbe intercettarci?» chiese Juri, sempre più allarmato.

   «I Breen. Sono sbucati dal nulla e vi hanno circondati con una flotta».

 

   L’armata Breen si componeva di ben 24 navi da guerra, quasi tutte del modello più recente. Era una forza militare schiacciante. Il Capitano Hod capì subito che doveva evitare lo scontro. La Keter era tra le navi più potenti della Flotta, ma contro così tanti avversari le possibilità di vittoria erano pari a zero. «Possiamo teletrasportare i nostri?» chiese.

   «Per passare attraverso tutto quel fortanium, dovremmo avvicinarci tanto alla sonda da entrare nel raggio delle armi nemiche» rispose il tecnico.

   «La nave di testa ci chiama» avvertì Zafreen.

   «Sullo schermo» disse il Capitano, preparandosi al confronto.

   Un Breen le apparve davanti. Indossava la solita corazza con casco che nascondeva l’aspetto, ma i dettagli in oro lo indicavano come un militare di alto rango.

   «Sono Thot Vur e rappresento la Confederazione Breen» si presentò l’alieno, con la voce metallica del sintetizzatore vocale. «Sono qui per reclamare la proprietà di questo pianeta, che l’Unione ha abbandonato».

   «Lei è male informato. Non lo abbiamo abbandonato» ribatté il Capitano, mantenendo la calma.

   «L’ultima delle vostre navi trasporto è uscita dal sistema» disse il Breen, inflessibile. «Non ci sono più civili né personale federale a terra».

   «C’è il mio Primo Ufficiale» lo contraddisse Hod. «E in ogni caso, l’Unione non ha rinunciato alla proprietà di Ultima Thule. Abbiamo solo evacuato i coloni in misura cautelare, mentre ci occupiamo di una pericolosa sonda aliena. Vi consiglio di starle alla larga... potrebbe compromettere le vostre navi».

   «Allora la distruggeremo noi per primi» disse Thot Vur.

   «No! Ho due dei miei a bordo» lo fermò il Capitano.

   «Dunque la sonda non è così pericolosa» rispose prontamente il Breen. «Le propongo un accordo: vi permetteremo di riprendere i vostri ufficiali e distruggeremo quel manufatto alieno prima che faccia danni. Dopo di che, occuperemo la colonia abbandonata».

   «Questo è inaccettabile» disse Hod, conscia della posizione strategica del pianeta. «La vostra azione costituisce un attacco militare contro l’Unione».

   «Non desideriamo lo scontro» assicurò Thot Vur. «Ma per mostrarvi la serietà della nostra rivendicazione, porremo un blocco navale attorno al pianeta. E alla sonda».

   «Vi ho detto che ho due persone a bordo».

   «E la loro riserva d’aria si sta esaurendo» completò il Breen. «Questo vi servirà d’incentivo per accogliere la nostra richiesta».

   «Conferirò col Comando di Flotta... non aspettatevi che quest’aggressione vi dia qualche risultato» avvertì Hod. Al suo segnale, la comunicazione fu chiusa.

 

   «In una parola, no» disse l’Ammiraglio Chase. Il Capitano stava comunicando con lui dall’ufficio, su un canale criptato. «Non possiamo assolutamente cedere Ultima Thule. Porterebbe i Breen troppo vicini ai mondi cardassiani, alzando ulteriormente la tensione. E ci farebbe apparire deboli. Per i Breen sarebbe un incentivo a osare ancora di più».

   «Ne sono consapevole» disse il Capitano. «Ho già detto a Thot Vur che non gli cederemo il pianeta. Ma ho due dei miei ancora sulla sonda e la loro autonomia è limitata. C’è anche Radek a terra. Il patto con Masaka dovrebbe proteggerlo... sempre che la regina rispetti gli accordi» disse con una certa frustrazione.

   «Anche di questo non possiamo essere sicuri» disse l’Ammiraglio. «Cerchi di recuperare i suoi con un’azione stealth, ma eviti lo scontro coi Breen. La Flotta sta attivando tutti i canali diplomatici per gestire questa crisi».

   «Qualche nave in più mi farebbe comodo» disse Hod, speranzosa.

   «Le manderò dei rinforzi» promise Chase. «I Breen vogliono saggiare la nostra determinazione. Se sperano di farci arretrare, si sbagliano. Siamo stati risoluti nelle ultime crisi e lo saremo in questa».

   «Che devo fare, se iniziano a sbarcare truppe?».

   «Quello che farebbe in caso di attacco a un nostro qualunque avamposto» rispose l’Ammiraglio. «Certo che sarebbe più facile se sapessimo com’è la situazione sul terreno. Che combinano le entità D’Arsay?».

   «Fanno come a casa loro» rispose il Capitano. «La trasformazione della città è quasi completa. Masaka si accinge a governare col terrore il suo popolo di ologrammi. Se Korgano tornasse, le cose potrebbero migliorare... forse».

   «Verifichi la situazione. Quegli esseri potrebbero rivelarsi l’ago della bilancia di questa crisi» avvertì l’Ammiraglio. «Per difficile che sia, cerchiamo di averli dalla nostra. Chase, chiudo».

 

   La palla dorata compì un perfetto volo ad arco, passando nell’anello di pietra agganciato verticalmente nel muro. Quando rimbalzò a terra, Radek la prese al volo. La folla D’Arsay proruppe in esclamazioni di giubilo. Grazie agli Emettitori da braccio, e ad altri moderni emettitori a irradiazione posizionati in giro per la città, i D’Arsay avevano ormai piede libero in tutto l’abitato.

   «Non sapevo che giocassi a pallavolo» commentò Radek, restituendo il pallone a Masaka. La luce dell’alba riverberava sui gioielli e sulla pelle spruzzata d’oro della proiezione isomorfa.

   «Credi che sia uno sport? Questo è un rito sacro» spiegò la regina, prendendo attentamente la mira. Lanciò il pallone, facendo ancora centro. La folla andò di nuovo in visibilio. «Il movimento della palla simboleggia quello del sole... cioè di me... nel cielo» disse Masaka con soddisfazione. «È un rituale che si eseguiva annualmente nell’antica D’Arsay. Questi canestri che faccio ora sono solo il preambolo. Fra poco ci sarà la partita vera e propria, fra due squadre. Quando sarà finita, i perdenti saranno sacrificato in mio onore».

   «Lasciali vivere» disse subito Radek.

   «Come vuoi... al loro posto sacrificherò i vincitori» decise la regina.

   «Non devi sacrificare proprio nessuno» insisté il Comandante.

   «Se non uccido qualcuno ogni tanto, il popolo scorderà chi sono» obiettò Masaka, con humour nero.

   «Tu vuoi essere temuta. Non sarebbe meglio essere amata?» le suggerì Radek, porgendole di nuovo la palla.

   «Se fossi entrambe le cose?» ribatté la sovrana, squadrandolo con sufficienza. «No, non darmela. Lancia tu!» lo esortò.

   «Va bene...» sospirò il Rigeliano. Aveva sperato di moderare i suoi eccessi, dandole i giusti input, ma la regina era difficile da ammansire. E finché controllava gli altri ologrammi, era lei ad avere l’ultima parola. Tra i piani di Radek c’era toglierle questo controllo, accedendo alla sua matrice olografica. Ma prima doveva guadagnarsi la sua fiducia, tanto da potersene andare in giro indisturbato.

   Il Comandante mirò attentamente al cerchio di pietra. Ai tempi dell’Accademia era bravo a pallacanestro, ma dover centrare un anello posto verticalmente lo disturbava un po’. Prese la mira con gran cura, non volendo sfigurare rispetto a Masaka. Stava per lanciare quando una freccia centrò il pallone, facendoglielo esplodere tra le mani, e si piantò nel muro retrostante. «Frell!» imprecò Radek, voltandosi verso l’aggressore.

   Era un D’Arsay alto e muscoloso, coi capelli tagliati alla moicana. Indossava un gonnellino argenteo e aveva persino la pelle cosparsa di polvere argentata. La maschera lo identificava inequivocabilmente come Korgano. E nel suo arco era già incoccata una nuova freccia, diretta al cuore di Radek. «Chi sei tu, che usurpi il mio ruolo?» chiese con voce stentorea.

   Un mormorio stupito corse tra la folla. Masaka fissò il nuovo arrivato, come fulminata. «Korgano!» esclamò, perdendo la sua calma regale.

   «Io e non altri» confermò il Cacciatore, facendosi avanti. La sua freccia era ancora puntata contro Radek. «Rispondi alla mia domanda, straniero» disse in tono perentorio.

   «Sono il Comandante Radek, della nave stellare Keter» rispose il Rigeliano, pressato contro il muro di pietra. Si era trovato molte volte in situazioni pericolose e in qualche modo ne era sempre uscito; ma stavolta non scommetteva un soldo bucato sulla sua sopravvivenza.

   «Nave stellare?» chiese Korgano, corrugando la fronte. «Conosco bene i sentieri del cielo. Non ricordo di aver mai incontrato questa tua nave».

   «Si trova sopra le nostre teste, in orbita» disse Radek, non sapendo come spiegarsi in modo comprensibile. Korgano ragionava ancora in termini mitici: non aveva accesso alla banca dati federale che permetteva a Masaka di agire con più cognizione di causa.

   «Se anche dicessi il vero, Comandante, questo non ti dà il diritto d’insidiare la mia sposa» disse Korgano con severità. «Dovrei ucciderti per questo. Oppure potremmo batterci in duello. Sì... una sfida mi sembra la soluzione più onorevole».

   «No, fermo!» disse Masaka, frapponendosi. «Tutto questo non è necessario».

   «Mi sorprendi, mia diletta» disse Korgano, abbassando l’arco. «Un tempo mi avresti incitata tu stessa a uccidere lo straniero. Ma sei cambiata... non hai nemmeno la maschera».

   «Non ne ho bisogno» rispose la regina. «Ho imparato molte cose nuove, dal mio ultimo risveglio. Le sto ancora... elaborando» disse, con uno sforzo che tradiva il continuo stress delle sue subroutine.

   «Di che novità parli?» chiese Korgano con vago interesse.

   «Siamo in un nuovo mondo» rispose Masaka, evasiva. «Questo è il primo giorno della nuova era. Dobbiamo istituire l’ordine delle cose, come facemmo all’alba dei tempi. Ricordi? Era questa la nostra missione».

   «Sì... creare una nuova D’Arsay» annuì il Cacciatore.

   «Ma tu ti sei scordato di me. Hai smesso d’inseguirmi» disse Masaka in tono accusatorio. Radek notò che parlava di nuovo in termini mitici e si chiese se lo facesse deliberatamente, per essere più comprensibile.

   «Ero stanco di questa caccia senza fine» disse Korgano. «Tu eri sorda alle mie parole. Così mi sono allontanato... è possibile che abbia commesso un errore».

   «Ma io ti voglio ancora al mio fianco!» assicurò Masaka, accostandosi. «Sono incompleta... lacerata, senza di te. Non posso ricostruire il mondo da sola. So che anche tu mi rivuoi... altrimenti non te la saresti presa con lo straniero».

   «Mi conosci bene» disse Korgano, abbozzando un sorriso. «Lo ammetto, sei riuscita a farmi ingelosire. Forse valeva la pena separarci così a lungo... perché la gioia della riconciliazione fosse più intensa». Gettò l’arco e si levò anche la maschera. Poi prese la compagna tra le braccia e la baciò a lungo, fra gli applausi del popolo.

   «Ricostruiamo questo mondo, assieme» disse Masaka quando le loro labbra si separarono.

   «Così sia» convenne Korgano, tenendola ancora fra le braccia. «E di lui che facciamo?» chiese, accennando a Radek.

   «Ehm... col vostro permesso... io toglierei il disturbo...» fece il Rigeliano, muovendosi come un granchio verso l’estremità del muro.

   «Altolà!» lo richiamò Masaka. «Permettendo ai coloni di andarsene, mi sono esposta a un rischio. La tua gente potrebbe contrattaccare, per riconquistare la città. La tua presenza ci offre qualche garanzia».

   «Vuoi trattenermi comunque?» chiese il Comandante, sconfortato.

   «Devo farlo» disse la regina. Al suo cenno, i guerrieri circondarono Radek. «Scortatelo in cella. Fate che abbia cibo e acqua... ma badate che non scappi».

   Radek fece per protestare, ma le parole gli morirono in gola. Per gli standard di Masaka, quello era già uno sfoggio di benevolenza. Né poteva sperare nella compassione di Korgano. Per quanto sembrasse più moderato, il Cacciatore lo aveva sorpreso in una situazione troppo compromettente. Il Rigeliano lasciò quindi che le guardie lo scortassero verso la piramide, dov’erano le prigioni. Strada facendo, pensò che probabilmente erano stati i suoi colleghi a far manifestare Korgano, nella speranza che esercitasse un influsso positivo su Masaka. «Peccato che l’abbiano fatto mentre io sono qui».

   Intanto, nello stadio, i sovrani stavano salendo sulla tribuna d’onore quando Masaka si bloccò. «Che ti succede?» chiese Korgano, preoccupato dalla sua espressione.

   «I sensori rilevano una nuova flotta in orbita» mormorò la regina. «Questi non sono federali... sono Breen!». Nemmeno la rabbia riusciva a nascondere il timore che si era impadronito di lei.

   «Di chi parli?» si stupì Korgano.

   «Sono avversari che potrebbero distruggere tutto ciò che stiamo costruendo. Questa città era un avamposto contro di loro... ma non può difendersi da una flotta così grande» spiegò Masaka. Attinse alle conoscenze di Thule, che aveva integrato nelle proprie, per elaborare una contromossa. «Attivo lo Scudo Cittadino. Ci proteggerà almeno per un po’» disse. Nel trasformare la città, era stata attenta a non privarla delle difese. La rete energetica era ancora operativa e così i generatori degli scudi. Quando inviò l’ordine, lo scudo a cupola si attivò prontamente, avvolgendo l’abitato. Da terra parve che il cielo fosse divenuto perlaceo, a causa delle turbolenze atmosferiche che rendevano visibile lo scudo. I D’Arsay alzarono gli occhi a quel prodigio, con un misto di stupore e timore.

   «Devi darmi molte spiegazioni» disse Korgano, fronteggiando la sposa.

   «Sì, te le devo» ammise Masaka, preoccupata. Più scenari tattici elaborava, più si accorgeva d’essere in guai grossi. «Vieni alla piramide, presto. Lì sarà più facile mostrarti. Quanto a voi» si rivolse ai sudditi D’Arsay «tornate alle vostre case e restateci! Presto si combatterà una battaglia».

 

   Nello spazio, la flotta Breen circondava la sonda-archivio, che per il momento aveva smesso di trasmutare la materia. La Keter vigilava appena oltre il raggio delle armi e del teletrasporto. A bordo dell’Archivio, Juri sedeva con le spalle al muro, cercando di risparmiare ossigeno. Dib stava in piedi a poca distanza, perfettamente immobile.

   «Perché mi fissi?» chiese l’Umano, di malumore.

   «Non sto fissando lei in particolare» rispose il Penumbrano. «Ma siamo in un piccolo vano cubico ed è difficile escluderla dal mio campo visivo. Se le fa piacere, comunque...». L’Ingegnere Capo si girò in modo da fissare il muro, trenta centimetri davanti a lui. Stette di nuovo immobile.

   «No, torna com’eri prima!» disse Juri, trovando quella posa ancora più disturbante.

   «Lei è irrequieto» diagnosticò Dib.

   «Certo che lo sono!» sbottò Juri. «Siamo su una sonda-archivio che potrebbe pietrificarci. La sonda stessa può essere distrutta dai Breen in qualunque momento. E se non succede nessuna delle due cose, finirò comunque l’ossigeno entro un paio d’ore».

   «Una sintesi efficace della sua situazione».

   «Grazie tante! E che mi dici di te? Quanto tempo ti resta?».

   «Io non ho bisogno d’ossigeno. La mia tuta manterrà valori adeguati di temperatura e pressione ancora per quarantadue ore».

   «Fantastico, allora te ne starai lì a fissare la mia carcassa!» esclamò lo storico.

   «È possibile».

   «Grazie per l’incoraggiamento».

   «Non cercavo d’incoraggiarla. Dicevo solo...».

   «... la verità, sì. Tu dici sempre e solo la verità» sospirò Juri, maledicendo di dover morire proprio accanto a lui. «Beh, se questa dev’essere la nostra ultima discussione, voglio saperlo. Secondo te chi è peggio, fra la teocrazia D’Arsay e il regime Breen?».

   «Non conosco l’esatta quantità di morti provocati dall’una e dall’altro, né posso stimare in modo attendibile le vittime che in futuro...».

   «Alt, stop! La mia era una domanda concettuale».

   «Mi chiede un confronto tra le due forme di governo? In questo caso trovo che la teocrazia sia la peggiore, dato che si basa sui dogmi. E i dogmi, già di per sé, rappresentano una forma di violenza intellettuale, dato che proibiscono il dibattito e la ricerca empirica».

   «E non accade lo stesso con le ideologie politiche? Anche quelle si basano su assiomi che vengono presentati come verità indiscusse» sottolineò Juri. «In nome del “bene superiore” e del “progresso” si commettono le peggiori atrocità. I Breen hanno campi di lavoro forzato in cui gli schiavi lavorano fino alla morte. I Borg hanno distrutto un’infinità di popoli nella loro “ricerca della perfezione”. I Na’kuhl credono nel darwinismo sociale e quindi nella sopraffazione del più debole. E non è che l’Unione sia sempre innocente» aggiunse, con sguardo cupo.

   «Lei sostiene che l’eccesso di razionalità sia nocivo tanto quanto la sua assenza?» chiese Dib con scetticismo.

   «Dico che il dogmatismo si estende ben al di fuori dell’ambito religioso. L’eccessiva fede nello Stato, o in un leader, o persino nella scienza disgiunta dall’etica, porta a orrori per nulla inferiori a quelli che abbiamo visto su D’Arsay» corresse Juri. «Il problema di fondo è l’incapacità di fare autocritica. Se si pensa di aver capito tutto e di aver sempre ragione, se ne deduce che chiunque la pensi diversamente è malvagio e va distrutto senza pietà. Insomma, non importa tanto in cosa credi... ma come credi».

   «Lei crede che si salverà da questa situazione?» chiese ancora Dib.

   Juri sospirò nell’aria viziata del casco. «Sai com’è... la speranza è l’ultima a morire».

 

   Chiuso nei sotterranei, Radek poteva solo aspettare, nella speranza che i suoi colleghi venissero a liberarlo. Ma la comparsa dello Scudo Cittadino, che aveva notato mentre le guardie lo scortavano lì, non gli faceva presagire nulla di buono. Per colmo di sfortuna, anche le prigioni si erano trasformate assieme al resto della base. In luogo delle celle federali modello standard c’erano dei pozzi. Il Comandante era stato calato in uno di essi e ora giaceva su uno scomodo pagliericcio. Era immerso in pensieri deprimenti quando sentì il cigolio del verricello e vide la fune abbassarsi.

   «Pssst! Ehi, Coma’ante!» disse una voce nasale dall’alto.

   «Non è possibile...». Radek guardò verso l’alto, si stropicciò gli occhi e guardò di nuovo. Ihat era lì, con la penna in testa, e agitava le mani per attirare la sua attenzione.

   «Si sbrighi, Coma’ante! Possono sorprenderci da un momento all’altro!».

   «Vecchia canaglia... non mi aspettavo di rivederti» ammise Radek. Si afferrò alla fune e prese a risalire il pozzo. Fortunatamente era ben allenato e ci riuscì senza difficoltà. Quando fu vicino all’orlo, Ihat gli diede la mano per aiutarlo nell’ultimo tratto. «Le guardie?» chiese il Comandante, mettendo piede a terra.

   «Non ci daranno problemi» disse Ihat, accennando a due guerrieri-giaguaro narcotizzati dai dardi di cerbottana.

   «Perché mi aiuti?» chiese Radek.

   «Sono il Fuggiasco... non mi piace vedere la gente in gabbia» rispose Ihat. «E poi tu e i tuoi simili mi state simpatici, Coma’ante. Avete creato un bel po’ di confusione... io adoro la confusione».

   «Sei un vero trickster, come diceva Juri» riconobbe il Rigeliano. I due sgattaiolarono silenziosamente per sale e corridoi, nascondendosi dagli altri D’Arsay. «Ora mi servirebbe una navetta, o almeno un comunicatore per avvertire la Keter. Ma tu non sai di cosa parlo» disse Radek.

   «Se ti riferisci ai vostri talismani metallici, ce ne sono ancora in circolazione» rivelò Ihat. Con aria teatrale, ne estrasse uno che teneva in un sacchetto appeso in cintura.

   «Dammelo, presto!» disse il Rigeliano, cercando d’afferrarlo, ma Ihat se lo nascose dietro la schiena.

   «Al tempo, Coma’ante! Anche se ti ho aiutato, sono stanco di sfuggire a Masaka e non voglio più dovermi nascondere. Se te ne vai per nave, voglio venire con te» disse il Fuggiasco.

   «Non posso accontentarti. Le nostre direttive ci impediscono d’imbarcare i nativi» disse subito Radek.

   «Allora potrei tenere questo gingillo per me...» minacciò Ihat, mentre ci giocherellava e lo lucidava col palmo.

   Il Comandante pensò in fretta. La sua situazione con la Flotta era già a rischio; non voleva comprometterla ulteriormente, portandosi dietro quel mascalzone. Ma osservando il modello d’Emettitore Autonomo di Ihat, un po’ sorpassato, gli venne un’idea. «D’accordo, amico... farò il possibile. Prima però dobbiamo uscire da qui» disse.

   «Seguimi, socio!» gongolò Ihat. Con le sue astuzie, i due riuscirono a nascondersi alle guardie che pattugliavano le varie zone della base. Infine uscirono da un ingresso secondario. Il corpo di Ihat sfarfallò appena, mentre passava dalla sala munita d’olo-emettitori all’aria aperta, dove solo l’Emettitore Autonomo gli permetteva di circolare.

   «Siamo fuori, come ti avevo promesso» disse Ihat. «Ora chiama la tua nave!».

   «Dammi il comunicatore e lo farò» disse Radek.

   Il D’Arsay esitò un attimo, temendo un imbroglio, ma poi glielo cedette.

   «Grazie, amico» disse il Comandante, dandogli una pacca sulla spalla. «Ti devo la vita». Ciò detto, gli disattivò a tradimento l’Emettitore Autonomo. Ihat non fece nemmeno in tempo a lamentarsi, ma il suo volto sorpreso e tradito disse tutto, prima che si dissolvesse. L’Emettitore spento cadde a terra.

   «Scusa» mormorò Radek. Da quando era sceso su quel pianeta, si vedeva costretto a prendere decisioni moralmente discutibili. Si augurò che quella fosse l’ultima. Corse a nascondersi dietro un muretto, evitando le guardie di ronda attorno alla piramide, e premette il comunicatore. «Base Thule a USS Keter, mi ricevete? Rispondete, Keter. Qui è Radek».

 

   «Ci chiamano da Base Thule» avvertì Zafreen. «È il Comandante».

   «Apra un canale» ordinò il Capitano. «Allora, come vanno le cose, Comandante? Sempre che non voglia un titolo più altisonante. Che so... Re del Mondo».

   «Touché, Capitano» ammise Radek. «Ma il mio “regno” è durato poco... Korgano è qui e il mio accordo con Masaka è già stracciato. Siete stati voi a mandar giù il Cacciatore, vero? Bella mossa... ma ora vorrei che mi riprendeste».

   «Resti in attesa... la situazione quassù si è complicata» disse Hod. «C’è un’intera flotta Breen che reclama il pianeta».

   «Breen?» trasecolò Radek. «Che ci fanno qui?».

   «Hanno interpretato l’evacuazione dei civili come un abbandono del pianeta e ora lo reclamano».

   «Capitano, so cosa pensa, ma la situazione quaggiù era pericolosa. Dovevamo mettere in salvo i coloni» si giustificò il Comandante.

   «È vero, ma non spettava a lei accordarsi privatamente con Masaka» obiettò Hod, severa. «La trattativa era compito mio».

   «La regina controlla tutto, qui. Il teletrasporto, le comunicazioni, il processo di trasmutazione della materia. Non potevo seguire le normali procedure» si giustificò Radek.

   «Ne riparleremo, ora dobbiamo affrontare la situazione» disse il Capitano. «Juri e Dib sono rimasti bloccati sulla sonda-archivio. Dobbiamo tirarli fuori alla svelta, o Juri finirà l’ossigeno. Lei come sta, può resistere?».

   «Sì, salvate gli altri» disse il Comandante. Finché lo Scudo Cittadino era attivo, la Keter non poteva teletrasportarlo né inviare squadre di salvataggio. «Ci terremo in contatto. Radek, chiudo».

   Il Capitano girò la poltroncina verso la postazione sensori. «I rinforzi?» chiese.

   «Undici navi sui sensori a lungo raggio, saranno qui fra un’ora» riferì Zafreen, visualizzando i dati sulla flottiglia. «Ma a Juri restano venti minuti d’ossigeno».

   «Allora ce la sbrigheremo da soli» decise Hod. «Capitano a navetta 2, via col salvataggio» ordinò.

   «Ricevuto» disse Vrel, già pronto ai comandi. Il mezzo Xindi occultò la navetta e lasciò l’hangar della Keter, dirigendosi verso la sonda-archivio. Vedendo le navi Breen assiepate tutt’intorno, si chiese perché non risentivano dei suoi effetti. Forse una volta completata la trasmutazione di Base Thule gli Archivi si erano disattivati. Con un occhio al timone e uno ai comandi del teletrasporto, Vrel continuò ad avvicinarsi. Appena fu a distanza utile agganciò Juri e Dib, trasferendoli in cabina. «Ora!» disse al comunicatore, correndo loro appresso. Tutti e tre furono immediatamente trasferiti sulla Keter, che rialzò gli scudi appena li ebbe a bordo.

   Nel frattempo i Breen avevano rilevato il segnale del teletrasporto, trovando le coordinate della navetta occultata. La nave da guerra più vicina aprì il fuoco. I primi due colpi passarono a pochi metri dalla navicella invisibile, mentre il terzo la prese in pieno, distruggendola. Ma a quel punto gli occupanti erano già in salvo sulla Keter. La tecnica della staffetta aveva funzionato.

   «Ottimo lavoro, Vrel» si complimentò il Capitano, vedendoli tutti e tre sulla pedana di plancia. «Voi state bene?» chiese agli altri.

   Juri si levò immediatamente il casco della tuta; il suo volto era cianotico. «Sì... tempismo favoloso» boccheggiò. «Però mi faccia un favore: la prossima volta mandi qualcun altro, in missione sul campo». Così dicendo tese la mano a Dib, che lo aiutò a rialzarsi.

   «Devo lavorare con le risorse che ho» disse il Capitano, senza sbilanciarsi. «Zafreen, che fanno i Breen?».

   «Mantengono la posizione. Nessun inseguimento» riferì l’Orioniana.

   «Siete fortunati. I Breen non tenevano particolarmente a voi, altrimenti vi avrebbero sequestrati» commentò Hod. «Tuttavia la distruzione della navetta indica che li abbiamo fatti arrabbiare. Dib, torni in sala macchine e si accerti che tutto sia pronto alla battaglia. Juri... le consiglio un salto in infermeria».

   «Non occorre... sto bene» disse lo storico, che era avverso alle visite mediche.

   «Beh, non va poi così male» commentò Norrin. «I Breen non hanno più ostaggi e i rinforzi sono in arrivo».

   «Tempo?» chiese il Capitano.

   «Quaranta minuti... no, un momento!» si meravigliò Zafreen. I colleghi la videro controllare più volte i sensori, come se non credesse ai suoi occhi.

   «Che succede?» chiese Hod, con un nodo allo stomaco.

   «Tutte le navi federali hanno invertito la rotta» disse l’Orioniana. Lo sconcerto s’impadronì degli ufficiali.

   «Non può essere una manovra d’aggiramento?» suggerì il Capitano, cercando di razionalizzare.

   «Nossignora... hanno fatto un’inversione completa e si allontanano. Tutte quante».

 

   Al Capitano servì qualche secondo per riprendersi dallo shock. «Zafreen, contatti il Comando di Flotta» ordinò. «Ci servono spiegazioni».

   «C’è già una chiamata in arrivo, priorità 1» disse l’Orioniana. «Ma non è del Comando. Viene dagli uffici presidenziali».

   «Rangda» mormorò Hod. «La prendo nel mio ufficio. Norrin, a lei la plancia». Recatasi alla sua scrivania, l’Elaysiana attivò l’oloschermo e compose il suo codice di sicurezza.

   «Capitano Hod... finalmente ci vediamo» esordì la Presidente. Diversamente da molti suoi simili, che tendevano a mettere su peso, la Zakdorn era segaligna. Aveva però le tipiche guance cascanti della sua specie, sommate a fitte zampe di gallina intorno agli occhi. Invece dell’abito presidenziale indossava una sorta di abito da sera con strascico, troppo giovanile per lei.

   «Le circostanze non sono delle migliori, signora Presidente» disse il Capitano. «I Breen assediano la nostra colonia, ancora in mano ai D’Arsay. E i rinforzi che mi erano stati promessi hanno fatto inversione di rotta».

   «Lo so; glielo ho ordinato io» sorrise Rangda, soddisfatta.

   «Lei?!» impallidì Hod. «Il Comando di Flotta ne è informato?».

   «Il Comando è stato sollevato da questa responsabilità» spiegò la Zakdorn. «Fino al termine della crisi, lei risponderà direttamente a me».

   «Ma... signora Presidente... questo è legale?» mormorò il Capitano.

   «Tutto ciò che faccio è legale» rispose Rangda col suo sorriso lezioso. «Non avrei voluto intervenire, mi creda, ma sono stata costretta. La sua gestione incompetente della crisi ha fatto sì che la colonia cadesse sotto il controllo di una forza ostile. E la reazione sproporzionata dell’Ammiraglio Chase rischiava di portare a uno scontro armato coi Breen. Capisce che dovevo risolvere la faccenda».

   «E l’ha risolta?» chiese Hod. «Si è accordata coi Breen?».

   «Certamente» disse Rangda, indispettita dalla mancanza di fiducia. «In queste ore ho condotto trattative diplomatiche di alto livello con le loro autorità. Sono lieta d’informarla che la crisi è risolta».

   «Questa è... un’ottima notizia» disse l’Elaysiana, anche se i suoi timori continuavano a crescere. «Però i Breen sono ancora qui. Quali sono i termini dell’accordo?».

   «Data l’impossibilità a difenderla, Ultima Thule passerà sotto il controllo della Confederazione» annunciò tranquillamente la Zakdorn. «In cambio, i Breen normalizzeranno le relazioni diplomatiche e ripristineranno gli accordi commerciali con noi. La Guerra Fredda che ci ha afflitto per tre anni sta per diventare un ricordo».

   «Gli ha venduto il pianeta?!» inorridì il Capitano. «È un avamposto strategico... ci permette di tenere i Breen alla larga da mondi popolosi e di controllare i loro movimenti lungo il confine. L’Ammiraglio Chase mi aveva raccomandato di non cedere alle loro pretese».

   «Come le ho detto, lei risponde a me, non all’Ammiraglio».

   «Rispondo al Comando di Flotta... che lei ha scavalcato, con questo provvedimento».

   «È stato necessario per evitare una pericolosa escalation. Spero le sia chiaro, ora, che la politica dell’Unione non è più ostaggio delle decisioni della Flotta Stellare» disse Rangda, fissandola con occhi gelidi.

   Il Capitano rinunciò a contestare la legittimità del provvedimento. Sapeva che la Zakdorn non l’avrebbe mai ascoltata, su questo punto. L’unica speranza era appellarsi al suo pragmatismo politico. «Signora Presidente, i Breen non rispettano questo tipo di accordi. Se noi arretriamo alla loro prima mossa, lo interpreteranno come un segno di debolezza. Si sentiranno incoraggiati a estorcerci sempre di più».

   «Non cerchi d’insegnarmi il mio mestiere» la gelò Rangda. «Tratto coi Breen da quarant’anni, so come accordarmi con loro. Questo accordo ci porterà molti vantaggi. Ad esempio potremo organizzare missioni congiunte per risolvere, una volta per tutte, il problema della pirateria lungo i confini. I criminali come lo Spettro hanno i giorni contati» disse con soddisfazione.

   Il Capitano intuì che Rangda aveva l’accordo già pronto da tempo. Aspettava solo l’occasione giusta per sottoporlo ai Breen. «Sono lieta che lei abbia ottenuto condizioni così vantaggiose» disse, imponendosi l’autocontrollo. «Ma per i Breen sarà facile stracciare l’accordo alla prossima disputa. Per noi, invece, sarà molto difficile riconquistare Ultima Thule».

   La Zakdorn si alzò, incollerita. «Non lascerò che sotto la mia presidenza l’Unione attui politiche imperialiste. Le fanno gli Umani, queste porcherie. Noi siamo meglio. Quindi lasci agire i Breen e non interferisca per nessun motivo. Altrimenti le passo sopra come uno schiacciasassi, a lei e a tutti i suoi ufficiali. Mi sono spiegata?!».

   «Perfettamente» rispose Hod a denti stretti. «Ma il mio Primo Ufficiale è ancora a terra. Se i Breen bombardano la base, lo uccideranno».

   «I Breen intendono occupare l’avamposto, non distruggerlo» rivelò la Presidente. «Come parte dell’accordo, risparmieranno i federali ancora sul campo. Vede che ho pensato a tutto?».

   «Uhm... e coi D’Arsay come devo comportarmi?».

   «Ci penseranno i Breen a fare pulizia. Lei si assicuri solo che la sonda sia distrutta. La sua tecnologia è troppo pericolosa per lasciarla a chiunque, amico o nemico» ordinò Rangda.

   «È tutto chiaro, signora Presidente» disse l’Elaysiana in tono funereo. «Le invierò il rapporto a missione conclusa».

   «Ci conto. Buona giornata, Capitano Hod» disse la Zakdorn, di nuovo sorridente, e chiuse la comunicazione.

 

   «Perché mi hai portato in questo luogo?» chiese Korgano, osservando la sala del processore. Sebbene lo stile si fosse adeguato a quello della peculiare tecnologia D’Arsay, gli equipaggiamenti informatici c’erano ancora tutti.

   «C’è una cosa che devi sapere» disse Masaka, recandosi a una consolle. «Riguarda me, te... tutti noi. La nostra intera missione».

   «È questo che ti ha cambiata?» domandò il Cacciatore.

   «Sì... e cambierà anche te» ammonì la regina, mentre accedeva al database federale. «Devo avvertirti che sarà doloroso».

   «Tu hai sofferto?».

   «Più di quanto mi sia mai capitato» confessò Masaka, corrugando la fronte. «Però credo che mi abbia resa più forte... più capace di affrontare le sfide che ci aspettano».

   «Allora dimmi tutto» disse Korgano con decisione. «Non devono esserci segreti fra noi. E chissà che, condividendo il tuo dolore, non possa alleviarlo in qualche misura».

   «Vorrei che fosse così» disse Masaka, guardandolo con affetto. Poi tornò a concentrarsi sul lavoro. Selezionò molte informazioni sull’Unione e i Breen, oltre che sugli Archivi D’Arsay. Compattò i file e si preparò a inserirli nel programma di Korgano. All’ultimo momento si fermò, chiedendosi se la sua matrice avrebbe retto a tutti quei dati. Il Cacciatore era il suo unico, vero affetto: perderlo sarebbe stato devastante. Provò l’impulso egoistico di lasciare le cose come stavano.

   «Fa’ ciò che devi. Non temere per me» le disse però Korgano. «Non ti ho ritrovata, dopo tutto questo tempo, per perderti di nuovo».

   «Come vuoi» disse Masaka, con un groppo in gola. Premette il comando di trasferimento.

   La proiezione isomorfa del Cacciatore iniziò a sfrigolare. Lui rimase immobile, con gli occhi sbarrati. Poi cadde in ginocchio, coprendosi il volto con le mani.

   «Korgano! Parlami, ti prego!» gridò Masaka, terrorizzata. S’inginocchiò accanto a lui e gli prese le mani, scoprendogli il viso.

   «Ahi, ahi!» fece il Cacciatore. «Questa rivelazione mi ha quasi distrutto. Immagino che abbia fatto lo stesso con te».

   «Sì, ma... il nostro obiettivo non cambia» disse la regina, per confortarlo. «Siamo ancora i sovrani D’Arsay. Dobbiamo ricostruire il nostro regno, qui dove la sonda ci ha portati. E dobbiamo difenderlo da chiunque osi minacciarlo!».

   «Sì» convenne Korgano, rialzandosi con una nuova determinazione. «Insieme, lo difenderemo da qualunque minaccia venga dalle stelle».

 

   «La flotta Breen si sta dispiegando» avvertì Zafreen. «Credo che si preparino a colpire la sonda-archivio».

   Il Capitano restò in silenzio. Aveva già spiegato la situazione agli ufficiali, suscitando un coro di prevedibili proteste, e ora si sentiva svuotata.

   «Quindi è finita? Tutta la nostra missione non è servita a niente?» chiese Vrel, arrabbiato e incredulo.

   «Abbiamo salvato i coloni» disse stancamente il Capitano. «Ma per il pianeta non c’è niente da fare. Rangda lo ha venduto ai Breen, scavalcando sia il Senato che il Comando di Flotta».

   «Capitano... Masaka e i suoi accoliti potranno anche starci antipatici, ma sono tutto ciò che resta di un’antichissima civiltà. I Breen li spazzeranno via, se non facciamo qualcosa» disse Juri.

   «Lei crede?» chiese Norrin. «La regina mi sembra capace di difendersi».

   «I suoi poteri vengono tutti dalla sonda-archivio. Noi abbiamo avuto scrupoli a colpirla, ma i Breen...». Lo storico tacque, vedendo che le navi da guerra avevano aperto il fuoco. Una raffica di siluri guizzò verso gli Archivi, impattando contro lo scafo in fortanium. Non ci furono esplosioni. La sonda rossiccia galleggiava ancora nell’orbita del pianeta, illesa.

   «I D’Arsay devono aver trasformato i siluri, rendendoli innocui» comprese Norrin. «Ma i Breen non si arrenderanno facilmente».

   «Magia contro tecnologia... questa voglio proprio vederla» disse il Capitano, cinica.

   «E non farà niente?» chiese Juri.

   «Ho le mani legate. E poi, chiunque vinca, noi perdiamo» rispose Hod.

   Ai federali non restò che osservare l’evolversi dello scontro. Fallito il lancio di siluri, le navi Breen attaccarono con i disgregatori. I raggi energetici colpirono la sonda da tutte le direzioni. Lo scafo in fortanium era resistente, ma non tanto da sopportare un attacco concentrato. Ben presto cominciò a spaccarsi. Gli squarci si allargarono, mentre esplosioni sempre più grandi punteggiavano la sonda. A quel punto i Breen lanciarono altri siluri. Stavolta le testate esplosero all’impatto, segno che il congegno trasmutante era fuori uso e non poteva più renderle innocue. Un’immane esplosione obliterò gli Archivi, con la loro fantastica tecnologia. Frammenti dello scafo si dispersero tutt’intorno, rimbalzando sugli scudi delle navi Breen senza danneggiarle. Quando il lampo si estinse, degli Archivi D’Arsay non restava altro che la nuvola di detriti in dispersione.

   «Ottantasette milioni di anni d’attesa... per questo» disse Juri, e lasciò la plancia. Gli ufficiali rimasero in silenzio.

   «Ora che fanno i Breen?» chiese il Capitano dopo un po’.

   «Colpiscono la base coi dissipatori energetici» disse Zafreen, inquadrando le navi che sparavano impulsi bluastri contro l’avamposto. Sfoggiati per la prima volta nella Guerra del Dominio, i dissipatori erano una delle armi Breen più temute. Potevano azzerare il potenziale energetico di un’astronave o di una città, rendendola vulnerabile ai successivi attacchi con armi convenzionali. La Flotta aveva adattato i propri scudi, per renderli più resistenti, ma in questo caso le navi Breen erano troppe. Il loro attacco concentrato avrebbe esaurito rapidamente lo Scudo Cittadino, lasciando l’avamposto alla mercé delle truppe di terra.

 

   Nascosto dietro un muretto, Radek osservava l’ingresso dell’hangar cittadino. C’era ancora una navetta al suo interno, probabilmente l’unica rimasta sul pianeta. L’edificio si era adeguato allo stile D’Arsay, ma la navetta – una vecchia classe Dragonfly – era inalterata, segno che poteva ancora volare. E a lui serviva una via di fuga. Peccato che la Dragonfly fosse vigilata da due guardie armate. Il Rigeliano stava pensando a come distrarle, quando lo Scudo Cittadino fu bombardato.

   Questo allarmò i D’Arsay. I pochi che circolavano ancora per le strade corsero verso la piramide, in cerca di protezione. I due guardiani della navetta, però, rimasero al loro posto. Anche Radek non si mosse. Sapeva che un attacco con armi ad alta energia avrebbe sbriciolato qualunque edificio, rendendo inutile mettersi al riparo. Ma conoscendo i Breen, sperava che avrebbero scelto un altro approccio. E da un esame visivo, i lampi azzurri che avvolgevano la cupola dello scudo indicavano che gli alieni stavano usando i dissipatori energetici.

   «Se è così, sono l’unico a non correre rischi» pensò il Comandante. Ebbe solo  la precauzione di gettar via il comunicatore, per evitare che gli trasmettesse la scossa. Di lì a poco lo Scudo cedette. Gli impulsi dei dissipatori colpirono in più punti la città, gettandola nel black-out. Tutti gli strumenti tecnologici furono avvolti da scariche statiche azzurre, mentre la loro energia si disperdeva. Anche il comunicatore, di cui Radek si era prudentemente disfatto, iniziò a crepitare. E lo stesso accadde agli Emettitori Autonomi dei D’Arsay. Uno dopo l’altro, i congegni si disattivarono e caddero a terra, non più sostenuti dai proprietari. Anche i sorveglianti della navetta svanirono.

   Radek uscì dal nascondiglio e corse in avanti. Sapeva che i D’Arsay non erano cancellati: erano solo privi d’energia. Ricaricando gli Emettitori, sarebbero tornati. Ma per il momento lui era l’unico ad aggirarsi per la base. «Non per molto» rifletté, osservando il cielo con preoccupazione. I Breen non avevano certo fatto un favore all’Unione. Se avevano disattivato i D’Arsay, era perché volevano impadronirsi loro del pianeta. Il Comandante guardò la vicina piramide di Masaka con un pizzico di malinconia. La regina si credeva invincibile, ma a quel punto doveva essersi disattivata con tutti gli altri. Chissà che aveva pensato negli ultimi momenti, quando si era resa conto che i suoi poteri non bastavano a difenderla.

   Riscuotendosi da questi pensieri, Radek raggiunse la navetta. Anche quella era senza energia, ma contava di restituirgliela con la procedura di riavvio manuale del nucleo. Il Rigeliano entrò in cabina e aprì un pannello, iniziando a trafficarvi con gli strumenti presi dal kit di bordo. Uno dopo l’altro, i sistemi si riavviarono.

   «Non farlo, ti prego». La voce veniva dall’altoparlante. Era una voce che Radek, ormai, conosceva bene: quella di Masaka.

   «Pensavo che fossi disattivata» disse il Comandante, continuando a lavorare.

   «Lo sono quasi» ammise la regina, in tono sofferente. «Quasi tutti i sistemi della base sono senza energia. Korgano e gli altri sono disattivati. Io funziono al minimo, grazie all’energia ausiliaria predisposta per sostentare Thule in caso di attacco. Ma ho perso la mia proiezione isomorfa e non riesco a riattivarla. In queste condizioni non posso difendere la città».

   «Dev’essere molto imbarazzante, per te» infierì Radek. «Un minuto fa eri onnipotente e ora non puoi neanche premere un bottone. Ma tutto questo non sarebbe successo, se avessi accettato di condividere il pianeta con noi. Se ora sei nel dren, sbrigatela da sola; io me ne vado». Le consolle della navetta si accesero, segno che l’energia principale era tornata.

   «Aspetta!» implorò Masaka. «Devi tornare alla base. Vai nella sala del reattore ed esegui il riavvio manuale del nucleo. Lo farei io stessa, se avessi ancora un corpo. Ma al momento sei la mia unica speranza».

   «Ah, questa è buona!» fece Radek, sprezzante. «Dopo tutto quel che hai fatto, speri che venga a salvarti? Scordatelo. Chiedi pietà ai Breen, quando arriveranno» disse, sedendo ai comandi.

   «Tu mi fraintendi» disse Masaka, addolorata. «Non ti chiedo pietà per me stessa. Se volessi salvarmi, mi basterebbe trasferire il mio programma nel computer della tua navetta. Il problema è che non c’è abbastanza memoria per salvare il resto del mio popolo. È per loro, non per me, che imploro il tuo aiuto».

   Radek aveva già il dito sul tasto d’accensione, ma a queste parole si bloccò. «Non pensavo t’importasse della tua gente» disse. «Di Korgano forse sì... ma tutti gli altri li consideri sacrificabili».

   «La mia missione è ricostruire la civiltà D’Arsay. Se fallissi in questo, non avrei più motivo di esistere» disse Masaka con voce rotta. «Ora che i Breen hanno distrutto i nostri Archivi, esistiamo solo nei computer di questa base. Potrei trasferirmi nei sistemi della tua navetta e andarmene via... ma non voglio farlo. Condividerò la sorte della mia gente».

   «Supponi che io vada a riavviare il nucleo» disse lentamente Radek. «Per farlo, dovrai darmi pieno accesso al computer. A quel punto avrò mano libera. Potrei isolare il tuo programma e disattivarlo, o persino cancellarlo del tutto. A guidare il tuo popolo lascerei Korgano, visto che è il più ragionevole tra voi due».

   «Se lo facessi, non ti biasimerei» ammise Masaka.

   «E anche se vi riattivassi entrambi, ci sono ancora i Breen da affrontare. Non è detto che vincerete» le ricordò Radek.

   «Conosco tutti i rischi e sono disposta a correrli».

   «Perché?».

   Il viso di Masaka apparve sulla consolle. Era affranta, ma al tempo stesso solenne. «Ho sempre chiesto grandi sacrifici ai miei sudditi» riconobbe. «Ora che il nemico è alle porte, devo essere pronta a farli io. Cancellami dal computer, se credi. Ma salva il mio popolo, ti supplico». Ciò detto, la regina svanì.

   Radek si prese la testa fra le mani, riflettendo furiosamente. Se i Breen stavano sbarcando le loro truppe, gli restava poco tempo. Non poteva mettersi a soppesare i pro e i contro, doveva agire subito. E non sapendo esattamente quale fosse la situazione tra i Breen e l’Unione, non poteva nemmeno appellarsi al regolamento. Non gli restava che seguire la coscienza.

   Capito questo, il Rigeliano lasciò i comandi e si precipitò fuori dalla navetta. Corse a perdifiato verso la piramide, mentre i primi caccia Breen sfrecciavano già nell’atmosfera. Superò l’ingresso monumentale, attraversò la hall e percorse un corridoio dopo l’altro, sperando di non sbagliare strada. Sapeva che, se avesse riattivato l’energia mentre i Breen erano in città, le navi non avrebbero potuto usare ancora i dissipatori, per non colpire le proprie truppe. Ma sarebbe toccato ai D’Arsay vincere la battaglia. Radek non sapeva proprio come avrebbero fatto.

   «Vai a destra» gli disse Masaka da un altoparlante, aprendo la porta giusta in una fila d’ingressi tutti uguali.

   Radek sorrise fra sé, nell’udire quell’insolito navigatore, e infilò la porta. Seguì le indicazioni della regina finché sbucò nella sala del reattore. Alcune pareti si erano pietrificate, ma nel complesso l’ambiente non aveva risentito quanto gli altri della metamorfosi. Le consolle erano ancora al loro posto, anche se erano invase dai glifi D’Arsay. Il nucleo energetico pulsava al minimo, alimentato solo dai sistemi d’emergenza.

   «Le truppe Breen stanno entrando in città, fra mezz’ora saranno qui» lo avvertì la voce di Masaka. «Ti spiegherò come eseguire il riavvio».

   «Conosco la procedura» disse Radek. «Dammi l’accesso al computer».

   «Fatto».

   I glifi colorati lasciarono il posto alle tradizionali interfacce LCARS della Flotta Stellare. Al Comandante bastò un’occhiata per constatare che la regina gli aveva dato pieno accesso ai sistemi. I file con le personalità D’Arsay erano tutti lì. Poteva salvarli dall’imminente frammentazione, ma poteva anche eliminare le personalità sgradite. Stava a lui decidere.

   «Ebbene, mi cancellerai?» chiese Masaka, con voce un po’ tremante.

   «Francamente non l’ho ancora deciso» rispose Radek.

 

   «Capitano, sta succedendo qualcosa» avvertì Zafreen. «I livelli energetici della città tornano a salire. Qualcuno ha riavviato il nucleo con la procedura manuale».

   «Radek» comprese il Capitano. «Cos’ha in mente?».

   «Non saprei, ma ora che c’è di nuovo energia i D’Arsay stanno tornando» disse l’Orioniana.

   «Forse il Comandante ha voluto riequilibrare le forze» ipotizzò Vrel.

   «Ora che la sonda-archivio è distrutta, i D’Arsay non possono più trasmutare gli oggetti» obiettò Norrin. «Non vedo come possano opporsi a un agguerrito esercito Breen».

   «Lo vedremo fra poco» disse il Capitano, gli occhi fissi allo schermo. I battaglioni Breen marciavano per le strade, senza incontrare resistenza. Stavano convergendo sulla piramide.

 

   Il sole splendeva alto sulla Città di Masaka. Un vento caldo spirava tra gli edifici e i monumenti in pietra, così come sulla giungla circostante. Qua e là si udiva il gorgheggiare degli uccelli. La trasformazione poteva dirsi completa, ma le strade erano deserte. Anche dopo essersi riattivati, i D’Arsay restavano nascosti nelle case o nella piramide centrale. Questa era circondata da un perimetro di guerrieri, con le armi in pugno.

   L’esercito Breen avanzò in ranghi serrati. Per primi c’erano i carri armati, che levitavano a un metro da terra. Nel loro avanzare sbriciolarono muretti e abbatterono alberi. Poi venivano i soldati, indistinguibili per via delle armature termiche. I loro passi cadenzati facevano tremare le finestre. Raggiunta la piramide, l’armata la circondò, tenendola sotto il tiro dei disgregatori. Il sole riverberava sulle corazze levigate dei carri armati. In mezzo ai veicoli e dietro di essi c’erano i soldati Breen, perfettamente allineati.

   I due schieramenti si fronteggiarono sotto il sole a picco. Il contrasto fra l’esercito ultratecnologico dei Breen e quello apparentemente primitivo dei D’Arsay era stridente. I Breen stavano zitti e immobili, in attesa di ordini, mentre i D’Arsay si agitavano e lanciavano urla di guerra.

   D’un tratto il carro armato Breen posizionato davanti all’ingresso della piramide avanzò di qualche metro. Era equipaggiato con un proiettore olografico, che materializzò l’immagine di Thot Vur, così ingigantita da torreggiare su entrambe le armate. Il leader Breen, che in quel momento si trovava sulla sua nave ammiraglia, osservò brevemente i difensori. Poi parlò loro con il consueto timbro metallico: «Sono Thot Vur, comandante della Quinta Flotta della Confederazione Breen. Esigo di parlare immediatamente con il vostro leader».

   A queste parole ci fu movimento fra i ranghi D’Arsay. I guerrieri si aprirono in due ali, permettendo a Korgano e Masaka di avanzare, mano nella mano. Molto più in alto, Radek li osservò dalla terrazza della piramide, augurandosi di aver fatto la cosa giusta. Non se l’era sentita di cancellare Masaka, dopo aver constatato che era disposta a sacrificarsi per la sua gente, anziché fuggire. Ma non sapeva ancora come lei e Korgano avrebbero affrontato gli invasori.

   «Due sono gli astri del popolo D’Arsay» disse il Cacciatore. «Io sono Korgano e questa è la mia sposa Masaka. Sappiamo chi siete e siamo consapevoli di ciò che avete fatto. Esponete le vostre richieste».

   «Molto bene» disse Thot Vur. «V’informo che, in virtù dell’accordo con l’Unione Galattica, prendo formalmente possesso di questo pianeta. D’ora in poi Ultima Thule sarà proprietà inalienabile della Confederazione Breen».

   «L’Unione non può cedere la proprietà di ciò che ha già perduto» obiettò Korgano. «Questa è Nuova D’Arsay e appartiene a noi».

   «Voi siete giunti da invasori, alterando il pianeta con le vostre tecnologie» ribatté il Breen. «Ma anche se siete riusciti a riattivarvi, non costituite più una minaccia, ora che la vostra sonda è distrutta. E siccome siete ologrammi, anziché persone, non avete alcun diritto. Starà al nostro giudizio cancellare i programmi inutili e riconvertire gli altri a scopi produttivi per la Confederazione. Se opporrete resistenza, questa città sarà rasa al suolo. Tutti i vostri hardware e olo-proiettori verranno distrutti».

   «Massacrereste la nostra gente?» chiese Korgano, in tono dolente.

   «Non potete morire, perché non siete vivi» fu la pronta risposta. «Siete solo delle macchine. Se non accetterete di servirci, sarete disattivati».

   «Buffo» commentò Masaka. «L’Unione accusa me d’essere crudele, ma poi si accorda con voi. Eppure io ho permesso ai federali di andarsene incolumi, mentre voi volete sterminarci».

   «Il pianeta è quasi completamente disabitato; noi abbiamo quest’unica città» disse però Korgano, allargando le braccia. «Non possiamo accordarci per un’equa spartizione del territorio? Costruite pure i vostri insediamenti sugli altri continenti e lasciate a noi questo».

   «È inaccettabile che voi continuiate ad autogovernarvi su un mondo della Confederazione» rispose Thot Vur.

   «Perché?».

   «Questa non è una trattativa per una spartizione territoriale. Tutto il pianeta appartiene a noi» insisté il Breen. «Inoltre la vostra pseudo-cultura costituisce un focolaio di superstizioni primitive che deve essere estinto».

   «Può darsi che abbiamo i nostri... difettucci» ammise Masaka, con un sorriso sardonico. «Ma da quel che vedo, neanche voi andate per il sottile. Il mio sposo vi ha fatto un’offerta generosa e voi l’avete spregiata. Non sarete voi, gli ostinati che rifiutano di scendere a patti?».

   «Noi agiamo nel rispetto del diritto interstellare. Voi non sapete neanche che cosa sia» ribatté Thot Vur. «Questo è l’ultimo avvertimento. Arrendetevi o sarete distrutti» minacciò.

   «Non abbiamo vagato per 87 milioni di anni nella solitudine dello spazio, solo per divenire vostri schiavi» rispose Korgano. Lui e Masaka dettero le spalle ai Breen e rientrarono in fretta nella piramide. I ranghi dei guerrieri D’Arsay si richiusero dietro di loro, ricostituendo lo schieramento.

   «Gli ologrammi hanno fatto la loro scelta» disse Thot Vur, rivolto alle sue truppe. «Eliminateli tutti. Verificate che nell’installazione non sia rimasta qualche tecnologia rilevante. Quando avrete finito, ritiratevi. Tutta l’area cittadina sarà bombardata dall’orbita, così che della superstizione D’Arsay non resti nemmeno il ricordo».

   «Ricevuto» confermò il comandante di battaglione. I carri armati e i soldati Breen presero di mira i guerrieri D’Arsay. Questi, che erano muniti solo di armi primitive, restarono immobili. Pur essendo ologrammi erano comunque vulnerabili, se gli emettitori da braccio e quelli a irradiazione disseminati per le strade fossero stati distrutti.

   «Fuoco» ordinò il comandante Breen. Decine di carri armati e migliaia di soldati eseguirono l’ordine. Non accadde assolutamente nulla. Nessuna delle armi aveva funzionato. Con stupore, i Breen si accorsero invece che le loro armature e i caschi cominciavano a dissolversi in sabbia. Questo mise a nudo i loro corpi fatti d’ammoniaca e idrocarburi, tenuti in uno stato gelatinoso dalla bassa temperatura. Senza le tute refrigeranti che li mantenevano a 120°C sottozero, si trovarono esposti al caldo afoso della giungla. Il sole era a picco, in quel momento, e i termometri segnavano 35°C sopra lo zero. Troppi per i Breen, che iniziarono a sciogliersi fra atroci tormenti. Le sacche di gelatina che componevano i loro corpi si squagliavano a vista d’occhio, mettendo a nudo lo scheletro. I soldati si accasciarono, dibattendosi disperatamente, mentre intorno a loro si allargavano le pozzanghere. Quelli che erano dentro i carri armati sopravvissero solo pochi secondi in più, perché anche i veicoli si polverizzarono. Alcuni caccia, che pattugliavano il cielo, andarono incontro alla stessa sorte. Precipitarono dissolvendosi in sabbia, provocando danni minimi alla città.

   Dentro la piramide, Korgano e Masaka udirono i lamenti strazianti dei Breen. «Forse abbiamo esagerato» disse il Cacciatore, triste in volto.

   «No, per niente» ribatté Masaka, implacabile. «Devono imparare la lezione... e non è ancora finita!».

 

   Sulla plancia della sua ammiraglia, Thot Vur perse improvvisamente il collegamento con le olocamere a terra. «Che succede? Ripristinate subito il segnale» ordinò.

   «Non è un problema di segnale» riferì un addetto alle comunicazioni. «Le olocamere sono tutte fuori uso».

   «Signore, stiamo perdendo i segni vitali delle nostre truppe. Di tutte quante» avvertì un altro ufficiale.

   «Anche i caccia e i veicoli di terra sono fuori uso» disse un terzo.

   «Non è possibile» disse Thot Vur. «Mostratemi ciò che accade laggiù».

   Lo schermo fornì subito una ripresa aerea del centro cittadino. I guerrieri D’Arsay erano ancora al loro posto, a difesa della piramide. Intorno a loro, però, i ranghi ordinatissimi dei Breen lasciavano posto a pozzanghere sempre più ampie, in cui i soldati agonizzanti si dibattevano tra gli scheletri dei commilitoni già morti.

   «A tutta la flotta: voglio un bombardamento completo dell’area urbana» ordinò Thot Vur. Gli artiglieri azionarono immediatamente i disgregatori e i tubi lanciasiluri. Ancora una volta non accadde nulla. Nessuna delle ventiquattro astronavi sparò un solo colpo.

   «Perché non facciamo fuoco?» chiese Thot Vur.

   «È assurdo, signore, ma... sembra che i cavi di alimentazione dei disgregatori si siano trasformati in liane. E i siluri si sono pietrificati. Persino le cariche di antimateria sono state neutralizzate» rispose l’Ufficiale Tattico.

   «Sintesi di Particelle» realizzò Thot Vur. «Hanno replicato la loro tecnologia sul pianeta. A tutte le navi, ritirata immediata».

   Le astronavi iniziarono a manovrare per uscire dall’orbita, ma i loro movimenti erano impacciati. «Signore, anche i motori stanno andando fuori uso» avvertì l’Ingegnere Capo dalla sala macchine. Davanti a lui, il nucleo di curvatura si disfaceva in una cascata di sabbia. «Stiamo perdendo il contenimento dell’antimateria».

   «Abbandonare la nave!» ordinò Thot Vur, precipitandosi fuori dalla plancia, seguito dai suoi ufficiali. Correvano verso la vicina capsula di salvataggio. Il leader Breen aveva appena sfiorato il comando d’apertura quando il contenimento dell’antimateria cedette del tutto. Materia e antimateria si annichilirono, provocando la rottura del nucleo. La potente nave da guerra fu vaporizzata con tutti i suoi occupanti. Il resto della flotta subì la stessa sorte. Lo spazio si riempì dei bagliori delle esplosioni e dei frammenti incandescenti degli scafi. Poi le luci si estinsero e i detriti si dispersero nell’orbita.

 

   In quel momento, Masaka e Korgano uscirono in cima alla piramide e osservarono la desolazione che li circondava. L’armata Breen si era praticamente dissolta. Al posto dei soldati c’erano pozze d’ammoniaca e idrocarburi, che evaporavano sotto il solleone; gli spessi vapori offuscavano l’aria. Dei carri armati restavano solo mucchi di sabbia, che il vento avrebbe presto disperso. Il cielo era rigato dai frammenti della flotta che bruciavano nell’atmosfera.

   «È questo il nostro regno... un regno di cadaveri» disse Korgano, contemplando quella devastazione.

   «C’è anche la vita» ribatté Masaka, accennando alle case da cui facevano capolino i D’Arsay. «Il nostro popolo ha un futuro».

   «Spero che non dovremo mai più fare una cosa simile» affermò il Cacciatore, fronteggiandola.

   «Dipende da chi verrà a minacciarci» rispose la regina, sostenendo lo sguardo.

   «Ma noi non andremo all’attacco di altri mondi» dichiarò Korgano. «Abbiamo già immolato abbastanza vittime per la nuova D’Arsay».

   «Degli altri mondi non mi curo; basta che ci lascino in pace» disse Masaka. Quando le navi Breen erano apparse in orbita, aveva capito subito che la sonda era a rischio. Così aveva trascorso le ore successive a replicare i congegni per la Sintesi di Particelle nel sottosuolo del pianeta. Al tempo stesso aveva sondato la flotta Breen, scoprendo dove colpire per distruggerla rapidamente. La strategia aveva funzionato, impartendo ai Breen – ma anche all’Unione – una lezione che non avrebbero dimenticato tanto presto.

 

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Capitolo 6
*** Sotto un nuovo sole ***


-Capitolo 5: Sotto un nuovo sole

 

   «È una catastrofe... e lei l’ha lasciata accadere!» strepitò la Presidente Rangda, all’indirizzo del Capitano Hod. Le due comunicavano via subspazio su un canale criptato.

   «È stata lei a ordinarmi di non intervenire nello scontro» obiettò l’Elaysiana in tono misurato. «Io mi sono attenuta alle istruzioni. I Breen hanno avuto campo libero nel prendere possesso del pianeta. Non è colpa mia se i D’Arsay li hanno distrutti».

   «E come hanno fatto? I Breen avevano già eliminato la sonda-archivio» disse la Zakdorn.

   «Masaka e Korgano sono stati previdenti. Sapendo che la sonda era a rischio, hanno usato la Sintesi Particellare per ricostruire i loro macchinari nel sottosuolo del pianeta» spiegò il Capitano. «Così hanno anche potuto contare sull’effetto sorpresa, dato che i Breen li credevano indifesi».

   «Ventiquattro navi distrutte... la Confederazione è sul piede di guerra!» si disperò la Presidente.

   «Non possono incolpare l’Unione. Noi ci siamo ritirati secondo gli accordi» ribadì Hod. «Il pianeta è a loro disposizione... se non possono occuparlo, peggio per loro».

   «Senza di quello, verranno meno alla loro parte dell’accordo» sottolineò Rangda, alludendo ai commerci e alle manovre militari congiunte.

   «Questa è una disgrazia. Ma forse è meglio avere un mondo-cuscinetto, piuttosto che far avanzare i Breen nel nostro spazio» disse il Capitano.

   La Presidente rimuginò. Era ancora arrabbiata e per un attimo sembrò sul punto d’inveire contro Hod, ma poi l’astuzia politica prese il sopravvento. «Se una nuova civiltà sta sorgendo ai nostri confini, non possiamo ignorarla» disse. «Voglio che lei stipuli un patto di non aggressione coi D’Arsay».

   «Signora Presidente, questo è un compito da ambasciatori» notò Hod.

   «Non si preoccupi, le farò avere una dispensa speciale per gestire le trattative» garantì la Zakdorn. «Vede che, malgrado tutto, ho grande stima di lei?» fece con un sorriso stiracchiato.

   «Ne sono onorata» disse l’Elaysiana. Le intenzioni di Rangda erano fin troppo chiare: sperava che facesse la fine di Thot Vur. Ma con i giusti accorgimenti, lei contava di uscirne viva.

 

   «Venga avanti, Capitano Hod. S’inchini al cospetto di Masaka, Signora dei Quattro Punti Cardinali, Creatrice e Distruttrice del mondo!» disse il funzionario D’Arsay con voce stentorea.

   L’Elasysiana avanzò nella sala del trono, affollata di dignitari. Davanti a lei, in cima alla scalinata, Masaka era assisa sul suo scranno. Per celebrare la vittoria indossava un sontuoso copricapo di penne dorate, che le facevano corona. Korgano invece aveva il solito aspetto e se ne stava discosto, senza alcun seggio. Giunta davanti agli scalini, il Capitano notò che ai suoi lati c’erano guerrieri D’Arsay armati, pronti a intervenire al minimo sgarro.

   «I miei rispetti, Altezza. Vengo in pace e senz’armi» esordì l’Elaysiana, mostrando le mani aperte. «Mi scuserete se resto in piedi, ma...».

   «Sì, voi federali siete troppo orgogliosi per inchinarvi» disse Masaka, segnalando ai suoi guerrieri di non intervenire. «Finalmente c’incontriamo, Capitano. Ero incerta se permetterle di sbarcare... ma il mio stimato amico, il Comandante Radek, mi ha persuasa ad accoglierla».

   Il Rigeliano, che fino a quel momento era stato seminascosto tra i dignitari D’Arsay, si fece avanti un po’ imbarazzato. Hod scambiò una breve occhiata con lui e si rivolse nuovamente alla sovrana. «Sono qui per negoziare un trattato di pace, a nome dell’Unione Galattica» annunciò.

   «Il vostro tentativo di distruggerci sfruttando i Breen è fallito e ora ci tendete la mano? Non sono così ingenua» rispose Masaka, arcigna.

   «Vi siete impadroniti di un pianeta conteso e ne pagate le conseguenze» ribatté il Capitano. «I Breen hanno sferrato il loro assalto e potrebbero riprovarci...».

   «Che ci provino!» ringhiò Masaka. «Stiamo potenziando le difese. Ora abbiamo uno Scudo Planetario e generatori di riserva in tutti i continenti. I loro dissipatori energetici non sono più una minaccia per noi».

   «In ogni caso, la pace con l’Unione è nel vostro interesse» disse Hod. «La bozza di accordo prevede uno scambio di ambasciatori e la creazione di una zona di tre anni luce intorno al pianeta, in cui le navi federali potranno passare solo col vostro permesso» disse, consegnando a un funzionario il d-pad coi dettagli del trattato.

   «Volete accordarvi sia coi Breen che con noi. Sperate di sfruttare la nostra contesa a vostro vantaggio?» chiese la regina.

   «È normale prassi dell’Unione cercare intese con gli altri popoli della Galassia» spiegò l’Elaysiana. «Con questo accordo, noi riconosceremo la vostra sovranità su Ultima Thule».

   «Ci darò un’occhiata, se avrò tempo» disse Masaka, scrutandola dall’alto in basso.

   «Con tutto il rispetto, vorrei sentire cosa ne pensa Korgano» aggiunse Hod, notando che il Cacciatore restava in silenzio e in disparte.

   «Non è il momento» disse la regina. «Ora che la città è costruita, ci alterneremo nel governo. Io terrò il trono nelle ore diurne e Korgano in quelle notturne».

   Il Capitano sentì un incipiente mal di testa. Con esseri del genere, le trattative si annunciavano complicate. «Altezza, questo continuo avvicendamento non può funzionare. Ci sono molte potenze interstellari con cui dovrete rapportarvi. Per cavarvela vi servirà una politica estera che non cambia dall’alba al tramonto».

   «Noi dobbiamo agire secondo la nostra natura, che è quella degli astri» insisté Masaka.

   «E cosa v’insegnano gli astri di questo nuovo pianeta?» chiese Hod, andando verso la finestra più vicina. «Guardate... ora è giorno, eppure la luna brilla alta nel cielo».

   I D’Arsay si accalcarono lungo la fila di finestre, per verificare con i loro occhi le parole del Capitano. Effettivamente il grosso satellite naturale del pianeta splendeva alto, come un disco quasi pieno. La regina stessa lasciò il trono e si recò alla finestra più vicina, per osservarlo assieme a Korgano. «L’astronomia di questo mondo è diversa, e allora? Che dovremmo imparare?» chiese.

   «Che anche il potere può essere condiviso» spiegò Hod. «Voi lo avete già fatto, in parte, alternandovi al trono. Ma dovete imparare a condividerlo nello stesso momento. Invece di detronizzarvi a vicenda in un ciclo continuo, affiancate due troni e regnate assieme» suggerì.

   «Non l’abbiamo mai fatto...» mormorò la regina, incerta.

   «Ma così rispetteremo il nuovo ordine delle cose» approvò Korgano. «Credo che il Capitano abbia parlato con saggezza, mia diletta. Non sei stanca di questo interminabile avvicendamento? Io sì. Voglio condividere tutto il giorno, non solo le albe e i tramonti».

   «Come faremo ad accordarci, se dissentiremo su qualcosa?» chiese Masaka, tornando verso il trono.

   «Come fanno i mortali, suppongo. Ne discuteremo fino a trovare un compromesso» rispose Korgano.

   «Un compromesso!» esclamò la regina. «Non è forse un modo per scontentare entrambe le parti? Il mio potere è sempre stato assoluto» disse, sfiorando con rimpianto lo schienale del trono.

   «Ho visto le immagini del nostro mondo natio» disse il Cacciatore, venendole appresso. «Oggi è un deserto senza vita. Non ci sono alberi, né acqua. Il sole implacabile ha distrutto ogni cosa. Ecco cosa fa il potere assoluto. Vuoi essere così?».

   «No!» gemette Masaka, rialzando lo sguardo. «Voglio regnare sui viventi, non sui cadaveri. È solo che...».

   «Hai paura delle novità? Certo non hai paura di me» disse Korgano. Le prese la mano che aveva posato sul trono e la tenne tra le proprie.

   «Io non temo niente e nessuno. Sicuramente non te!» ribatté la regina, fissandolo con aria di sfida.

   «Allora dimostralo. Rimani al mio fianco. Ricostruiamo la nostra civiltà assieme» la invitò il Cacciatore, in tono appassionato.

   «E sia» cedette Masaka. «Condivideremo questo nuovo mondo, come il sole e la luna condividono il nuovo cielo». Così dicendo attivò la Sintesi Particellare. Il trono svanì, rimpiazzato da due seggi affiancati di uguale magnificenza, uno dorato e l’altro argenteo. Anche il marchio di Masaka svanì dalla parete di fondo, così come dalle pareti esterne della piramide. Persino le fronti dei D’Arsay divennero lisce. I sudditi se le sfiorarono increduli, mentre i sovrani s’incontravano davanti ai due troni.

   «Sapevo che avresti accettato» disse Korgano, abbracciando la sposa.

   «Non l’avrei fatto per altri» sussurrò Masaka. La coppia si baciò tra le acclamazioni della folla. Anche il Capitano Hod applaudì, augurandosi che il regno congiunto fosse un po’ più benevolo di quanto visto finora. Non s’illudeva che tutte le ingiustizie si risolvessero, ma era pur sempre un miglioramento, rispetto all’autocrazia di Masaka.

   Terminati gli applausi, i sovrani sedettero fianco a fianco. «Capitano Hod, leggeremo nel dettaglio la proposta dell’Unione e se lo riterremo opportuno vi porremo delle correzioni, ma in linea di massima le dico che sono favorevole al trattato» annunciò Korgano.

   «Vi ringrazio... la Keter resterà in orbita, in attesa di una risposta. Spero solo che non troveremo giaguari a spasso nei corridoi» disse l’Elaysiana.

   «La sua nave sarà risparmiata dalla trasmutazione» promise Masaka. «Nel frattempo, però, dobbiamo deliberare su altre questioni. A partire da questa!». Al suo cenno, le guardie trascinarono in sala un prigioniero che aveva la testa stretta in una gogna. Era Ihat.

   «Pietà, mia regina!» implorò il poveretto. «Non ho fatto nulla di male, lo giuro!».

   «Non so che farmene dei tuoi giuramenti» disse Masaka con voce vellutata. «Hai finito di scappare, bugiardo ladruncolo!».

   Il Capitano provò il desiderio d’intervenire a favore del poveretto, ma si trattenne. Aveva faticato per raggiungere una certa intesa con i sovrani e non poteva buttare tutto all’aria per una sola persona.

   «Quindi mi ucciderete? Ma non pensate che anch’io, come tutti, ho un ruolo da svolgere per equilibrare le cose?» chiese Ihat.

   «E che ruolo sarebbe? Mentire, imbrogliare, rubare tutto ciò su cui riesci a mettere le mani?» incalzò Masaka.

   «Vivo d’espedienti, sono fatto così» ammise Ihat. «Ma è merito mio se non tutto, nel nostro mondo, è noiosamente prevedibile. E poi m’interesso a ciò che accade fuori dai confini. Ora che viviamo in mezzo a tanti altri popoli» disse accennando a Hod, «potrebbe farvi comodo uno come me...».

   Korgano e Masaka si scambiarono un’occhiata. Poi la regina si rivolse al prigioniero: «Non tollererò più il disordine che spargi nella mia città. La tua vita qui è finita».

   Il prigioniero chinò il capo, affranto, aspettandosi l’esecuzione.

   «In compenso, la tua nuova vita sta per cominciare» sorrise Masaka. «Ci serve un ambasciatore che tratti con l’Unione. A te piace viaggiare e vedere posti nuovi, inoltre hai la lingua sciolta e ti adatti facilmente alle nuove circostanze. Sono qualità rare fra noi... perciò non vedo persona più indicata a svolgere quest’incarico. Liberatelo!» ordinò.

   Ihat rialzò la testa, incredulo. Accanto a lui, il guerriero-giaguaro era altrettanto sorpreso. Ma la regina aveva parlato in termini inequivocabili, così dovette obbedire. Aprì la gogna, liberando il prigioniero, anche se continuò a guardarlo in cagnesco. Ihat si massaggiò il collo, per far passare l’indolenzimento, e s’inchinò davanti ai sovrani. «Per la prima volta in vita mia non so che dire, tranne... grazie» disse. Masaka lo congedò con un cenno e lui si ritirò verso il muro, tra i mormorii dei dignitari.

   Mentre i sovrani davano altre disposizioni, Radek si accostò al Capitano. «Chiedo il permesso di tornare a bordo» disse come se nulla fosse.

   «Cominciavo a credere che volesse restare» disse Hod.

   «E perché? Questa è una missione come un’altra» sostenne il Rigeliano, con invidiabile faccia tosta.

   Hod scosse la testa, incredula, ma non replicò. Nel frattempo Ihat era sgattaiolato accanto ai federali. «Bene, bene... se devo fare l’ambasciatore, mi servirà un passaggio per la vostra Terra. Mi porterete voi?» chiese.

   «Direi di sì» annuì l’Elaysiana. «Ma cerca di non combinare troppi guai, mentre sei a bordo. Non vorrei scoprire che la mia pazienza è inferiore a quella dei tuoi sovrani».

 

   Di lì a poco i federali risalirono sulla Keter, in attesa che i D’Arsay si esprimessero sul trattato. Korgano e Masaka discussero dell’argomento, mentre passeggiavano nella hall della piramide, seguiti dalle guardie.

   «Mi hai sorpresa, prima» disse Korgano. «Non mi aspettavo che perdonassi Ihat così facilmente».

   «Non volevo bisticciare davanti a tutti» spiegò Masaka. «E poi l’importante è che si levi di torno. Spero solo che quel furfante non combini disastri, in mezzo agli alieni. Non ho mai commesso errori prima d’ora... dargli quell’incarico potrebbe essere il primo».

   «Mai commesso errori?» rise Korgano, divertito dalla sua cocciutaggine. «Ne sei proprio sicura? Hai cercato di rimpiazzarmi con lo straniero...».

   «Ancora questa storia!» sbottò Masaka. «Tu eri sparito e a me serviva qualcuno esperto della Galassia. Comunque, se è stato un errore, l’ho corretto in fretta».

   «Vero» concesse Korgano. «Ma laggiù c’è un errore molto più grave, che non hai ancora risolto» avvertì.

   Masaka seguì il suo sguardo, notando il vecchio accasciato accanto a un braciere semispento. Era Uxmal. «Ah, no!» s’irrigidì. «Non è neanche il mio vero padre... non ho nulla da dirgli».

   «Allora lascia che sia lui a parlare» suggerì Korgano.

   «Per sentire i suoi rimproveri? Non mi umilierò a farlo!» sibilò la regina, sprezzante. «È solo un vecchio rimbambito. Non sprecherò tempo ascoltando i suoi vaneggiamenti».

   «Chi vuoi ingannare? Io ti conosco... dietro questa maschera che ostenti, sei terrorizzata all’idea di confrontarti con lui» disse Korgano.

   «Assurdo... perché dovrei temerlo?» chiese Masaka con una smorfia.

   «Temi che ti metta di fronte alle ingiustizie e agli errori che hai commesso. Tutte cose che non puoi tollerare... perché una dea non sbaglia».

   Masaka rimuginò a lungo, fissando il pavimento. Ogni tanto la sua immagine sfarfallava, segno del conflitto fra le vecchie subroutine e i nuovi protocolli che si erano creati negli ultimi tempi. «Gli parlerò» disse infine. «Ma solo per dimostrarti che non temo nessuno!».

   «Ti aspetterò» promise Korgano, segnalando anche alle guardie di darle spazio.

   Masaka attraversò la hall, ma ad ogni passo in direzione del vecchio la sua andatura rallentava. Non erano solo le proteste dell’orgoglio ferito. C’era qualcosa di diverso... un batticuore mai provato prima, nemmeno sotto la minaccia dei Breen. Korgano aveva ragione: era terrorizzata.

   Giunta davanti al vecchio accasciato, Masaka si arrestò. Osservando il suo aspetto malmesso, provò qualcosa di strano. Forse era quella che gli Organici chiamavano compassione. O senso di colpa. Restò a lungo in silenzio.

   Poco alla volta il vecchio, che stava sonnecchiando, aprì gli occhi e la mise a fuoco. «Masaka» riconobbe. «C’è stata agitazione, prima... e ora indossi il copricapo della vittoria».

   «Ho dovuto affrontare una battaglia» confermò la regina. «Ovviamente ho schiacciato i nemici... con un piccolo aiuto».

   «Sono certo che è stata una grande vittoria» annuì Uxmal. «Potresti darti ai festeggiamenti... invece sei qui, con questo vecchio mendicante».

   «Sì, sono qui» ripeté Masaka. «Ho sempre pensato d’essere infallibile, ma ultimamente sono accadute cose che hanno incrinato questa certezza. Io e Korgano stiamo creando la nuova D’Arsay, ma il cammino è incerto. In questi tempi difficili io... ecco...» mormorò, inginocchiandosi accanto al padre. Gli sfiorò la testa calva con la mano inanellata. Uxmal gliela prese e la tenne tra le proprie mani rugose.

   «Figlia mia... alla fine ti sei ricordata di me» disse solennemente il vecchio.

   «Sì, padre» sussurrò Masaka con voce rotta. «D’ora in poi non ti scorderò più. Non scorderò più nessuno, nel nostro regno». Per la prima volta in vita sua, pianse.

   Uxmal si raddrizzò per quanto possibile e l’attirò più vicina, fino a baciarla in fronte. «Ti perdono per ciò che mi hai fatto» disse. «Creare il mondo e sgominare i nemici è sempre stato nelle tue facoltà. Ma riconoscere uno sbaglio... non ti credevo capace di farlo. Oggi, per la prima volta, sono fiero di te».

   «Grazie, papà» disse Masaka, abbracciandolo. Poi si rialzò e si rivolse ai servitori che attendevano a rispettosa distanza. «Una portantina, subito!» ordinò. «Portatelo in un alloggio confortevole e dategli vesti nuove. D’ora in poi, a mio padre saranno tributati i massimi onori del regno».

   «Udiamo e ubbidiamo» dissero i servi, prima di correre a prendere la portantina per il mutilato.

   Nell’attesa, Korgano si avvicinò a Masaka. «Ben fatto» le disse. «Sai, anche Uxmal è un ologramma come tutti noi. Se rimaneggiamo le sue subroutine, potremmo ridargli le gambe».

   «Lo farò» disse Masaka, a bassa voce per non farsi sentire. «Sai che non mi dispiace ciò che siamo? All’inizio ero sconvolta, ma devo ammettere che non è così male».

 

   Il giorno dopo, i sovrani D’Arsay contattarono la Keter per annunciare che accettavano l’accordo. Di conseguenza Ihat fu teletrasportato sulla nave, in qualità di ambasciatore, per essere condotto sulla Terra. Come apparve sulla pedana di plancia, cominciò subito a ficcanasare in giro, facendo commenti salaci. Fortunatamente Juri era lì per spiegargli alcune cose sull’Unione. Intanto il Capitano si congedò dai sovrani.

   «L’Unione vi manderà a breve il proprio ambasciatore» disse Hod. «Vi esorto a trattarlo con lo stesso rispetto che noi daremo al vostro. Se dovesse succedergli qualcosa, le conseguenze sarebbero gravi» mise in chiaro.

   «Il vostro rappresentante sarà trattato con tutti gli onori; avete la mia parola» promise Korgano.

   «In realtà gli ambasciatori non avranno molto di cui discutere» intervenne Masaka. «Noi non siamo interessati alle vostre trame interstellari. Preferiamo concentrarci sulle questioni interne... perché anche se la città è costruita, qui resta molto da fare. Abbiamo un intero popolo da ricreare».

   «Non lo avete già?» chiese il Capitano.

   «Abbiamo gli ologrammi, ma il nostro scopo è sempre stato ricreare i veri D’Arsay» spiegò la regina. «Per sicurezza ho scaricato i loro codici genetici nel computer della base, prima che la sonda fosse distrutta. Con le nostre tecnologie, possiamo sintetizzare i DNA e far sviluppare gli embrioni in incubatrici. Presto i primi D’Arsay di carne e sangue apriranno i loro occhi sul mondo. Per questo vi dico che, se non interferirete nelle nostre faccende, noi non disturberemo voi».

   «In futuro, quando le prime generazioni D’Arsay saranno cresciute, non escludo che si possano stringere ulteriori accordi» aggiunse Korgano.

   «Buona fortuna, allora» disse il Capitano. «Spero che riuscirete ad adattarvi alle nuove condizioni».

   «Chissà. Vedremo come andranno le cose sotto il nuovo sole» rispose Masaka.

   «Addio, regina» disse Radek, fissandola con un’ombra di rimpianto.

   «Addio, Comandante. E grazie di tutto» rispose lei, ricambiando lo sguardo. L’attimo dopo lo schermo tornò a mostrare il pianeta.

   «Rotta verso la Terra» ordinò il Capitano Hod. «E mostrate all’ambasciatore il suo alloggio».

   «Non vedo l’ora di raggiungere il vostro pianeta!» disse Ihat, fregandosi le mani. «Scommetto che mi divertirò un mondo, laggiù».

   «Bada che anche noi abbiamo delle leggi» disse Juri, precedendolo nel turboascensore. Se ne andarono chiacchierando fittamente della Terra.

   «Beh, questa missione non è andata come previsto» sospirò Hod. «Pensavamo di dover respingere un’invasione e invece l’abbiamo legittimata».

   «Nel momento in cui Rangda ha ceduto il pianeta ai Breen, è svanita ogni speranza di riconquistarlo» disse Norrin. «A quel punto poteva andare solo a loro o ai D’Arsay».

   «Non so ancora cosa sia peggio» disse il Capitano. «I D’Arsay restano una teocrazia che non tollera il dissenso».

   «Ma hanno fatto dei progressi» notò Radek, speranzoso.

   «Sotto la spinta della necessità» precisò Hod. «Quando si sentiranno più sicuri, potrebbero tornare alle loro pessime abitudini. L’Unione dovrà stare attenta, con loro».

 

   Di lì a poco il Capitano si ritirò nel suo ufficio, per fare rapporto all’Ammiraglio Chase. Nel riferire l’accaduto non nascose la sua frustrazione per la scarsa libertà di manovra che aveva avuto, a causa dei maneggi di Rangda.

   «Ha fatto ciò che poteva, date le circostanze» riconobbe l’Ammiraglio quando ebbe sentito tutto. «Certo che quanto accaduto su Ultima Thule costituisce un precedente pericoloso. Se si afferma l’idea che l’Unione rinuncia facilmente a interi pianeti, ci troveremo di fronte a una serie infinita di rivendicazioni».

   «Concordo, signore» disse Hod.

   «Ma sono ancora più inquieto per gli sviluppi politici interni» proseguì Chase. «Rangda ha sfruttato questa crisi per dare uno schiaffo a tutta la Flotta Stellare. Ha voluto mostrarci che ormai ha tanto potere da annullare le disposizioni del Comando, senza nemmeno passare dalla discussione in Senato. E sebbene l’accordo coi Breen sia saltato, questa dimostrazione di forza resta valida. D’ora in poi saranno ancora meno quelli che oseranno contestarla».

   «In tutta franchezza, Ammiraglio... speravo che qualcuna delle navi di rinforzo ignorasse il contrordine di Rangda e venisse ugualmente in nostro aiuto. Invece hanno fatto tutte dietrofront» notò Hod.

   «Le loro Intelligenze Artificiali non possono trasgredire un ordine diretto del Presidente» disse Chase. «Per questo è una fortuna che voi non l’abbiate. Se un giorno le cose volgessero al peggio, sarà fondamentale che almeno voi abbiate libertà d’azione».

   «Libertà d’azione... per cosa?» mormorò Hod, pur sapendo la risposta.

   «Agire secondo coscienza» rispose l’Ammiraglio. Non aggiunse altro, perché non ce n’era bisogno. Presto o tardi, il conflitto tra la Presidente e la Flotta Stellare sarebbe esploso, segnando il crollo definitivo dell’una o dell’altra parte.

 

   Come capo della Sicurezza, Norrin disponeva di un ufficio tutto suo, anche se vi trascorreva poco tempo, dato che il suo turno principale era in plancia. L’Hirogeno veniva lì per stilare i ruolini di servizio della sua sezione, discutere con i colleghi di questioni tattiche, gestire eventuali indagini. O, come in quel caso, scrivere lettere di condoglianze alle famiglie dei caduti sotto il suo comando. Era un compito che gli pesava, anche perché essendo un tipo di poche parole spesso non sapeva che dire. Nel caso di Ortega, poi, non lo conosceva granché. Ma gli Agenti Temporali, pur essendo un dipartimento semi-autonomo, ricadevano sotto la sua responsabilità negli aspetti burocratici, quindi non poteva esimersi. L’Ufficiale Tattico era bloccato su quella lettera da una buona mezz’ora, a chiedersi come elogiare il Tenente senza suonare banale o melodrammatico. Si stava ancora lambiccando il cervello quando la dottoressa Mol entrò nell’ufficio.

   «Posso parlarti un momento?» chiese la Vidiiana, a bassa voce sebbene fossero soli.

   «Certo» disse l’Hirogeno, lasciando la scrivania per venirle incontro. «Mi chiedevo se hai pensato a quanto ti ho detto...».

   «Sono qui per questo» confermò Ladya, un po’ rigida. Distolse lo sguardo e si umettò le labbra, prima di tornare a concentrarsi sull’Hirogeno. «Sei una bravissima persona, Norrin, e tengo molto a te. Sei tra i pochi, qui a bordo, a sapere come ci si sente lontano dalla propria gente. E mi hai salvato la vita, cosa della quale ti sarò sempre grata».

   «Sento che sta per arrivare un ma» disse Norrin, per nulla confortato da quell’esordio.

   «Il ma è che siamo ufficiali superiori di questa nave» spiegò Ladya. «Abbiamo responsabilità che sarebbero compromesse, se ci abbandonassimo ai sentimenti. Io credo che, per il bene di tutti, dovremmo tenere le cose come stanno».

   «Non violeremmo il regolamento» le ricordò l’Hirogeno.

   «È vero, ma sarebbe tutto più complicato» disse la Vidiiana. «Non mi sento pronta per un cambiamento di questo tipo».

   «C’entra qualcosa la morte di Ortega? L’hanno ucciso brutalmente davanti ai tuoi occhi. Forse temi che accada lo stesso anche a me» indovinò Norrin.

   «Può darsi» ammise Ladya a malincuore. «Comunque, per quanto tu mi sia caro, devo chiederti di non insistere».

   «D’accordo» acconsentì Norrin, fissandola malinconico. «Dimmi solo se ci sono altri motivi oltre a questo. Se non fossimo ufficiali della Keter, credi che potremmo...?».

   «Forse» disse Ladya in un soffio. «Stammi bene, Norrin». La dottoressa abbandonò in fretta l’ufficio, lasciandosi dietro un Hirogeno giù di corda. Lei stessa era in preda al dubbio e si chiedeva se non avesse fatto uno sbaglio. Nei giorni successivi provò più volte l’impulso di tornare da Norrin e ritrattare. Ma ogni volta che stava per farlo, qualcosa la tratteneva, finché sentì che il tempo utile per tornare sui suoi passi era scaduto.

 

   «Voleva vedermi, Capitano?» chiese Jaylah, entrando nell’ufficio.

   «Sì, Guardiamarina» l’accolse Hod.

   Notando che il Capitano era più formale del solito, Jaylah rimase in piedi anziché sedersi.

   «Quest’ultima missione mi ha fatto riflettere» disse l’Elaysiana. «Pensavamo tutti che Masaka fosse la quintessenza del dogmatismo, e in parte lo è. Eppure, a conti fatti, si è rivelata più ragionevole dei Breen... o della nostra beneamata Presidente» aggiunse caustica. «Dev’essere perché, in qualche misura, ha accettato di mettersi in discussione. Così ho pensato che dovrei farlo anch’io».

   «Capitano?» chiese Jaylah, perplessa.

   «Finora l’ho esclusa dal comando della Squadra Temporale a causa di alcune differenze di vedute tra noi» confessò il Capitano. «Ma ora che serve un nuovo caposquadra, devo ammettere che lei è la candidata migliore. Si è destreggiata sia negli scontri diretti, come la caccia ai Devidiani, sia nelle decisioni più filosofiche, come salvare o meno Korgano. Per queste ragioni le conferisco i gradi di Tenente e il comando della Squadra Temporale». Così dicendo si alzò e le venne appresso, per appuntarle i gradi.

   Inaspettatamente Jaylah si ritrasse. «Non so se sono pronta» disse. «Non ho mai comandato una squadra».

   «Norrin la giudica in grado... e dopo gli ultimi eventi anch’io sono giunta alla stessa conclusione» disse il Capitano. «Ma se la pensa diversamente, non è obbligata ad accettare».

   «Vorrei solo pensarci un attimo» mormorò Jaylah, soppesando i pro e i contro. Non poteva mentire a se stessa: guidare la squadra era sempre stata la sua ambizione. Ma col succedersi delle missioni, aveva visto com’erano difficili le scelte che l’aspettavano. E dopo l’esperienza nel lazzaretto aveva messo in dubbio persino la sua volontà di restare in quella branca della Flotta.

   «Non posso darle molto tempo. La squadra ha bisogno di un capo» avvertì Hod. «Se non sarà lei, la Commissione per l’Integrità Temporale invierà qualcun altro. In quel caso non è da escludere che Rangda faccia pressioni per designare un suo fedele».

   «Accetto la promozione» disse subito Jaylah.

   «Me lo aspettavo» commentò il Capitano, amara. «Tenente Chase, da questo momento lei è a capo della Squadra Temporale. Faccia onore al suo incarico e alle responsabilità che ne derivano» disse, appuntandole i gradi sul colletto. Dopo di che le strinse la mano.

   «Lo farò» disse Jaylah, ricambiando la stretta. Tenne per sé i propri timori. L’anno prima, durante la sua esperienza con un Cristallo di Bajor, le era stato rivelato che la Guerra Civile incombeva sull’Unione. Con lo scontro fra Rangda e la Flotta sempre più acceso, la mezza Andoriana non stentava a crederlo. «Qualunque cosa mi aspetti, non mi farà male avere un po’ d’autorità» pensò uscendo dall’ufficio, con i gradi da Tenente in bella vista sul colletto.

 

   Un anno dopo, a Nuova D’Arsay, il sole scintillava attraverso le finestre dell’ospedale cittadino. Il neonato strillava a pieni polmoni, mentre un sensore medico lo scannerizzava da capo a piedi. «Tutti i valori sono nella norma» disse il dottore, consultando uno schermo pieno di glifi colorati. «Il bambino sta bene».

   Masaka e Korgano si scambiarono un’occhiata emozionata, poi tornarono a osservarlo. Erano stati loro a sintetizzare il suo DNA, in base alle informazioni degli Archivi, e poi ne avevano seguito assiduamente la crescita in incubatrice. Vederlo respirare a pieni polmoni era una scena imperdibile; il coronamento dei loro sforzi.

   «Complimenti, piccolo» disse Masaka. «Sei il primo D’Arsay in carne e ossa che nasce in 87 milioni di anni. E presto non sarai solo» aggiunse, osservando la lunga fila d’incubatrici lì accanto, piene d’infanti che si succhiavano i pollici o scalciavano.

   «Non gli abbiamo ancora dato un nome» notò Korgano.

   «Scegli tu» disse la regina.

   Il Cacciatore rifletté qualche secondo, osservando il piccolo che strillava. Lo avvolse in una copertina e lo prese in braccio, lasciando che i raggi del sole lo illuminassero attraverso la finestra. «Sarai Huna-ku te-Masak, “nato sotto un nuovo sole”» disse solennemente. Poi lo consegnò a una balia, perché se ne prendesse cura. Ovviamente gli ologrammi non potevano allattare, ma la balia aveva con sé un biberon. Cominciò subito a nutrire il pupo, fermandone il pianto.

   In quella arrivò un sacerdote. A differenza dei sovrani, che avevano smesso di farne uso, lui aveva il volto coperto da una maschera rituale. «Lode a voi, miei sovrani... questo è un giorno fausto!» esultò. «La rinascita del nostro popolo merita una celebrazione. Organizzerò una grande festa al tramonto».

   «Certo...» disse Korgano distrattamente, osservando il neonato che succhiava dal biberon con sano appetito.

   «E secondo la tradizione, il primo nato della nuova città verrà sacrificato!» aggiunse il sacerdote.

   «Uhm, sì... l’usanza era quella» disse Masaka. Korgano la osservò con rimprovero, ma lei restò concentrata sul sacerdote. «Ricordi perché si faceva?» gli chiese.

   «Per propiziare gli dèi... affinché i successivi nati fossero sani e forti» rispose lui, osservando la fila d’incubatrici.

   «Mi sento già abbastanza propizia» disse la regina. «Non ho portato in vita questa creatura per fartela ammazzare».

   «Altezza... è mio dovere...» protestò il sacerdote.

   «Li stabilisco io, i tuoi doveri. Oppure osi contestare i miei ordini?!» s’inalberò Masaka.

   «Mai, divina padrona» si arrese il D’Arsay, arretrando a capo chino.

   «Buon per te... altrimenti mi tornerà la voglia d’immolare qualcuno, e non sarà il bambino» minacciò la sovrana. Il sacerdote lasciò frettolosamente la sala.

   «Questa è la regina che amo» si complimentò Korgano. «Chiamo Uxmal, così vedrà anche lui il bambino. Ora che ha le gambe, verrà subito qui».

   «Vi aspetto» disse Masaka. Quando Korgano fu uscito, si accostò alla balia. «Fammelo tenere» disse accennando al neonato, che aveva smesso di succhiare dal biberon.

   «Sorreggetegli la testa, mia signora» si raccomandò la D’Arsay, consegnandole il pupo nell’involto di coperte.

   Masaka annuì, impaziente, e lo prese tra le braccia. Dopo essersi sfamato, il bimbo avrebbe dovuto dormire; invece si guardava intorno con gli occhioni spalancati. La regina si assicurò di reggerlo correttamente. Sorrise, soddisfatta della sua vitalità. Poi uscì sul terrazzo dell’ospedale, per mostrargli il mondo sotto il nuovo sole.

 

 

FINE

 

 

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