Un amore nato dal caso di G RAFFA uwetta (/viewuser.php?uid=90941)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non resta che guardare ***
Capitolo 2: *** Lasciare spazio al nuovo ***
Capitolo 3: *** Ritenta, sarai più fortunato ***
Capitolo 4: *** Mi gioco il tutto per tutto ***
Capitolo 5: *** Amare è capire come orientarsi nella nebbia ***
Capitolo 6: *** Riscriviamo la storia ***
Capitolo 7: *** Il vuoto nel cuore ***
Capitolo 8: *** Raccomandato? Con ricevuta di ritorno! ***
Capitolo 9: *** L'ultima prova ***
Capitolo 10: *** Un pezzo di cielo ***
Capitolo 11: *** L'umanità del Signor Nessuno ***
Capitolo 1 *** Non resta che guardare ***
Un
amore nato dal caso
Non
resta che guardare
Era
una sera limpida, una di quelle in cui il cielo faceva
l’amore con
le stelle e la luna invidiosa si appiattiva dietro a un angolo buio.
Giovanni, occhi viola e capelli neri come il carbone, se ne stava
seduto sulla panchina dall’altra parte della strada a fumare
pigramente, ammirando il paesaggio.
All’improvviso,
senza un motivo valido, per un secondo, si fece silenzio. Ed era ben
strano considerato il parco vicino che pullulava di insetti e il
grande raccordo che sovrastava il quartiere periferico della
città.
Poi
un boato. Immenso e stucchevole, fradicio di pietre che rotolavano le
une sulle altre.
La
terra tremò e si spaccò, come se
all’improvviso le fosse venuta
voglia di ridere a crepapelle. Squarci bui come bocche affamate di
coccodrillo afferravano e rivoltavano ogni cosa li sovrastava. Sciami
di sirene, urla e scoppi si fusero con il terrore e la polvere
imbevuta di calcinacci.
Fu
di nuovo silenzio. Irreale e suggestivo come la nebbia di dicembre.
L’intero
isolato era stato inghiottito. Rimasero indietro solo il dolore e
lacrime sporche di sangue che si mischiavano agli idranti saltati
lungo la via.
A
pochi passi dalla panchina, una ruota girava lenta, il resto della
macchina incastrato sotto un blocco di cemento. Una mano
strisciò da
sotto un tronco e sbucò dai rami fradici di detriti.
Più lentamente
un’altra la seguì, così come tutto il
corpo.
Giovanni
sbatté le ciglia, passandosi le dita tra i capelli sudici.
Sotto
l’intermittente luce dell’unico lampione rimasto
attaccato al
suolo, quasi si strozzò ingoiando saliva mista a sangue.
Davanti a
sé scoprì che, al posto di un rigoglioso angolo
di quartiere, vi
era una voragine fumante.
La
terrà tremò ancora un paio di volte, come se lo
stomaco del
coccodrillo si assestasse per accogliere meglio la propria preda.
Lingue di fuoco erano disseminate ovunque lungo il percorso del
gasdotto e sporadiche scintille crepitavano nel buio della notte.
Agghiacciato,
si accasciò sulle ginocchia tremanti. Il suo urlo
fagocitò il
silenzio e l’eco ridestò i rumori che ripresero a
ronzare nelle
sue orecchie. Giovanni pianse impunemente come un bimbo.
Non
si avvide degli uomini accorsi che si guardavano attorno impreparati.
Dei curiosi che sgomitavano per avere la migliore visuale. Di una
coperta e un abbraccio caldo che lo sorreggevano davanti a
quell’inferno.
Era
rimasto vivo solo lui. Tutto il resto era polvere di stelle.
Niente
è più emozionante nella vita che vedersi sparare
addosso e non
essere colpiti – Sir Winston Churchill ( dopo aver subito un
attentato )
Note
dell’autrice: inizio un po’
forte per una storia che
vuole essere raccontata.
Buona
lettura e i commenti sono graditi.
Questa
storia partecipa al contest ‘Il contest del
Simbolismo’ indetto
da Arianna.1992 sul forum con il prompt sopravvivenza/alligatore.
Disclaimer:
l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi
diritto.
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Capitolo 2 *** Lasciare spazio al nuovo ***
Un
amore nato dal caso
Lasciare
spazio al nuovo
Lo
studio della psicologa era molto piccolo. Le pareti erano bianche e
dal soffitto pendeva un filo alla cui estremità era
attaccata una
lampadina tondeggiante. Una spropositata finestra senza tende
occupava la parete più lunga, davanti alla quale erano poste
una
scrivania scura e due sedie dall’aria scomoda. La porta, di
dimensioni insolitamente ridotte, si trovava incastrata tra due
angoli della stanza.
Fin
troppo minimalista, aveva pensato Giovanni storcendo il naso,
la
prima volta che era entrato. È davvero
bizzarra,
come del resto la proprietaria.
La
dottoressa Morena Scafandrone era una donna minuta dallo sguardo
gelido. Portava con disinvoltura corti capelli canuti e un intreccio
di rughe che partivano dagli occhi chiari fino giù sul collo
che
spuntava da un colletto perfettamente inamidato. I piedi, che si
muovevano aritmicamente senza incontrare il pavimento, calzavano
delle comode ballerine di un vistoso colore rosa.
Per
riuscire a guardare negli occhi i suoi pazienti, teneva sotto il
sedere un paio di volumi sulla psiche umana.
«Che
c’è di strano?» rispondeva altera agli
sguardi interrogativi.
«Ormai non servono più.» Liquidava il
discorso con la mano
appesantita da un enorme solitario.
Tutto
in quella stanza era disomogeneo, sembrava il magazzino di un
robivecchi, ma a Giovanni piaceva. Forse perché anche lui si
sentiva
un’accozzaglia di emozioni contrastanti.
«Allora,
mio caro,» addolcendo lo sguardo, la donna lo
scrutò negli occhi,
«hai fatto molti progressi. Non hai più bisogno
del mio aiuto.
Buona giornata.»
Giovanni
andò in iperventilazione e boccheggiò davanti a
quelle parole di
chiusura. Scosse la testa borbottando risentito.
Era
approdato in quello studio mesi prima, straziato dalla cruda
realtà:
lui era vivo.
Gli
tornò in mente il rumore sordo della sua rabbia che
schiantava sul
ripiano della scrivania, l’espressione imperturbabile della
dottoressa e l’irrazionale terrore che gli soffocava la gola.
Allora non capiva, non riusciva a farsi una ragione della propria
presenza sulla terra.
«Non
esiste un valido motivo, è così e devi
accettarlo.» gli ripeteva
Morena.
E,
giorno dopo giorno, passo dopo passo, come un puma, aveva imparato ad
adattarsi alle incongruenze della vita. Chiuso nella sua testa aveva
scisso le emozioni e le aveva rielaborate, trovando loro una nuova
collocazione.
Aveva
smesso di urlare contro Dio, di ritorcere la rabbia contro se stesso.
Aveva ripreso a camminare tra la gente, sorpreso per ogni sorriso che
aleggiava sui volti di sconosciuti. Aveva imparato ad ascoltare il
silenzio che cantava nella sua testa. Aveva abbandonato i toni cupi
dei discorsi futili.
Aveva
ristabilito una connessione con il cielo rimanendo in equilibrio tra
follia e realtà. Aveva scalciato i demoni e abbracciato
nuovi sogni.
«Torna
a vivere, Giovanni. Sono certa che qualcuno, la fuori, ti sta
aspettando.» E gli porse un quadretto.
Il
ragazzo glielo strappò dalle mani e stizzoso lo lesse: Primo
segno di un animo equilibrato è la capacità di
starsene tranquilli
in un posto e in compagnia di se stessi.
Si
alzò e, uscendo, le regalò il suo sorriso
migliore.
Siamo
come una fotografia che per essere nitida ha bisogno di luci e ombre
nella giusta misura. Massimo Bisotti.
Note
dell’autrice: Giovanni non capisce.
È uno qualunque, con i
suoi chiari e scuri. Dunque: perché solo lui si è
salvato? Ma a
questo quesito non c’è una risposta. E Giovanni
dovrà farsene una
ragione.
Buona
lettura e i commenti sono graditi.
Questa
storia partecipa al contest ‘Il contest del
Simbolismo’ indetto
da Arianna.1992 sul forum con il prompt puma/equilibrio.
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l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi
diritto.
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Capitolo 3 *** Ritenta, sarai più fortunato ***
Un
amore nato dal caso
Ritenta,
sarai più fortunato
Non
si è mai lontani abbastanza per trovarsi –
Alessandro Baricco
«È
la fine del mondo!» urlò un signore inginocchiato
tra i detriti, le
mani sporche e insanguinate nel tentativo di scavare. Daniele
annuì
piano, quasi trasognato davanti a quel disastro. Scosse le forti
spalle e si fiondò in mezzo a quella baraonda di calcinacci
in cerca
di sopravvissuti.
Fu
proprio per caso che, con la coda dell’occhio, vide una
sagoma
districarsi da sotto un grande albero. Senza perdere tempo la
raggiunse e l’avvolse in una coperta presa al volo dal mezzo
dei
Pompieri.
“Deve
avere la mia età,” pensò
distratto mentre lo sorreggeva tra
le proprie braccia. «Sh,» sussurrò tra i
suoi capelli nel
tentativo di calmarlo, «è tutto finito.»
Per
un solo istante i loro occhi si incontrarono e, sebbene il giovane
non lo vedesse affatto, Daniele avvertì le loro anime
sfiorarsi.
Giovanni,
sorreggendo un vassoio, si districò tra i tavolini del bar
dove
lavorava. Porse due birre ghiacciate a una coppia di ragazzi e un
caffè a Osvaldo, seduto lì accanto. Prese
l’ordinazione dal
solito gruppo di pettegole e, nel mentre, sentì alle sue
spalle
ridere bonariamente alle spese di qualcuno.
«Siete
dei cafoni!» disse quest’ultimo contrariato,
sebbene la sua voce
fosse intrisa di risa.
Giovanni
sobbalzò. Aveva già sentito quel tono caldo
sussurrargli
nell’orecchio. Si voltò di scatto e
piantò i suoi occhi viola in
faccia al giovane che proprio in quell’istante
girò il volto nella
sua direzione, quasi ne fosse stato attratto.
Il
tempo si fermò e le loro anime cantarono.
Un
cliente urtò Giovanni che scosse la testa frastornato.
Contemporaneamente, l’altro ragazzo ricevette una pacca sulla
spalla che lo distrasse. Sebbene avessero tentato immediatamente di
ritrovare i loro volti tra la folla di passanti, l’attimo era
fuggito via.
“I
centri commerciali sono una trappola per topi,”
pensò
frustrato Daniele davanti alle lucenti porte dei loro silenziosissimi
ascensori. Era stanco e l’idea di buttarsi a capofitto nella
folla
di un sabato pomeriggio di saldi lo demoralizzava.
Proprio
in quell’istante le porte si aprirono lentamente su un
abitacolo
stipato all’inverosimile. Daniele gemette tutto il suo
disappunto.
Rassegnato
alla prospettiva di aspettare il successivo, i suoi occhi scovarono,
tra tutti quegli sconosciuti, un paio dall’incredibile colore
viola. “È lui,”
gridò la sua anima mentre la
consapevolezza li incendiava. Poco elegantemente sgomitò ma
fu
inutile: le porte si chiusero derisorie.
L’asfalto
scorreva lento sotto le ruote dell’autobus che lo stava
riportando
a casa. Giovanni, la testa appoggiata al finestrino, la mano che
aveva scavato un solco sulla guancia, sognava il suo letto.
Erano
imbottigliati nel traffico cittadino di lunedì mattina e lui
era
stanco perché aveva lavorato fino all’alba nel pub
di un amico.
L’urlo
della sirena e l’improvviso inchiodarsi del veicolo, lo
svegliarono
del tutto e, con occhi sgranati, si appiccicò al vetro nel
tentativo
di scoprire il motivo.
La
camionetta dei Pompieri lì affiancò e Giovanni
vide un giovane
biondo sistemarsi il bavero della divisa.
«Finalmente!» esultò.
«Ora so dove cercarti.»
Il
fato è come uno scoiattolo: riempe la tana di ghiotte
occasioni,
anche quelle bacate.
Note
dell’autrice: Il destino sembra prendersi
gioco di loro. Ma
è bene ciò che finisce bene.
Buona
lettura e sono graditi i commenti.
Questa
storia partecipa al contest ‘Il contest del
Simbolismo’ indetto
da Arianna.1992 sul forum con il prompt scoiattolo/ incontri.
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l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi
diritto.
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Capitolo 4 *** Mi gioco il tutto per tutto ***
Un
amore nato dal caso
Mi
gioco il tutto per tutto
Cadendo,
la goccia scava la pietra, non per la sua forza, ma per la sua
costanza. Lucrezio.
Giovanni
odiava le feste, non per l’allegria che le impregnava ma per
quel
fastidioso rimbombo che gli martellava il cervello.
Chiuse
gli occhi e si passò una mano dietro il collo già
madido di sudore
freddo. Strinse i denti conscio che, se non si fosse lasciato alle
spalle quel sottile velo di timore che non lo abbandonava da allora,
nulla sarebbe mai cambiato.
Aveva
faticato a ottenere un biglietto per la festa dei Vigili del Fuoco.
Negli ultimi due mesi, aveva tampinato Guido, un suo vicino, fino
all’esasperazione affinché gli cedesse il suo
invito dietro una
lauta ricompensa.
Sebbene
avesse il cuore che batteva forsennato dall’ansia, non si
sarebbe
fatto abbattere, avrebbe mantenuto i nervi saldi e sarebbe andato
dritto verso il proprio obiettivo. Avrebbe minuziosamente
scandagliato la sala finché i suoi occhi non avessero
incontrato
quelli castani del suo salvatore. L’uomo che, solamente
tenendolo
stretto a sé, l’aveva salvato da un destino
peggiore che finire
schiacciato dalle mura di casa.
Giovanni
nascose le mani tremanti nelle tasche dei jeans e si inoltrò
tra la
folla evitando le grosse casse degli altoparlanti. Raggiunse a fatica
il buffet di torte fatte in casa e accettò un piatto di
plastica con
una fetta di tiramisù afflosciato sul fondo. Non era molto
invitante, ma aveva bisogno di zuccheri per contrastare il panico che
a ondate tentava di sopraffarlo.
Mentre
ingoiava la torta, scorse, attraverso un canale apertosi tra gli
astanti, il volto sorridente del suo eroe che puntava nella sua
direzione. Istintivamente le labbra si aprirono denudando i denti
ancora sporchi di crema stucchevole. Che figura da
barbagianni,
pensò inorridito mentre con uno scatto si girava e si
dileguava tra
la folla.
«Suvvia,
Giovanni, fatti forza! Da quella distanza non si sarà
accorto di
nulla,» tentò di convincersi mentre si specchiava
nel bagno in cui
si era rifugiato poco prima. Piegò il capo e con le mani a
coppa si
sciacquò il volto in fiamme. Prese un sorso
d’acqua fresca e, dopo
averla rimestata in bocca, la sputò nel lavandino.
Fu
allora che la porta si aprì ed entrò Daniele,
sguardo preoccupato e
gli occhi fissi al riflesso di fronte. Giovanni si
pietrificò
imbarazzato.
«Ciao,
io sono Daniele,» si presentò. «Ti ho
cercato ovunque e sono così
contento di notare che ti sei ripreso bene.»
Davanti
a quella mano tesa smise di pensare. Fece leva sul ripiano e si
voltò
lentamente. Gli sembrava di camminare sulla luna, impacciato e
traballante sulle gambe molli dall’emozione. A un soffio da
lui
allargò le braccia e gli si buttò contro,
premendo il capo sulla
sua spalla. Un paio di lacrime scivolarono lungo la guancia accaldata
quando avvertì Daniele ricambiare la stretta.
«Ciao,
sono Giovanni,» sussurrò. «Ti ho cercato
ovunque e sono così
felice di averti finalmente trovato.»
Stretto
a lui, pensò che era fortunato. Come un bravo castoro, era
riuscito
a fare l’impossibile: intreccio dopo intreccio aveva
raggiunto il
proprio obiettivo.
Note
dell’autrice: io penso che se uno
è destinato arriverà
ovunque.
Giovanni
e Daniele si sono cercati e trovati. Ora non devono fare altro che
vivere.
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storia partecipa al contest ‘Il contest del
Simbolismo’ indetto
da Arianna.1992 sul forum con il prompt raggiungere gli
obiettivi/castoro.
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Capitolo 5 *** Amare è capire come orientarsi nella nebbia ***
Un
amore nato dal caso
Amare
è capire come orientarsi nella nebbia
Giovanni
prese il telefonino e, per la terza volta, controllò i
messaggi. Era
appena tornato dal lavoro e già l’ansia premeva
per uscire.
Alloggiava
in una modesta pensione nel cuore della città, in uno
stabile
immerso nel verde appartenuto a un nobile decaduto.
Giovanni
non aveva problemi con le persone perennemente in ritardo, ma quando
si trattava di Daniele la sua insicurezza emergeva.
Nervoso,
calciò una scarpa che finì sotto la scrivania.
Ci
teneva a Daniele, al loro rapporto fatto di timidi sguardi e sorrisi
sinceri. Si era abituato così tanto alla sua presenza da
riconoscere
le sfumature dietro le quali mascherava le emozioni. Stare con lui
era come vagare nella nebbia e riconoscere che un’ombra, come
un
suono improvviso o un colore sfocato, erano indizi che lo portavano
da lui.
Si
appoggiò alla finestra e iniziò a tormentare le
unghie. Aveva
ripreso a piovere.
Daniele
era bello, aveva fascino e tutti ammiravano la sua allegria. Invece
lui era schivo, gli piaceva fermarsi e contemplare, magari in
compagnia di una buona sigaretta.
Proprio
l’opposto, pensò mesto. Se non
cambio la situazione
qualcun altro me lo porterà via. Non sono abbastanza
interessante o
particolarmente carino per uno come lui.
In
quell’istante, oltre l’uscio, qualcuno
gridò: «Giovanni!
Giovanni! Scendi, c’è un tizio che ti aspetta
fuori in cortile.»
Senza
indugio, il moro caracollò giù dalle scale col
cuore che batteva
forsennato, le scarpe dimenticate, per catapultarsi fuori sotto la
pioggia.
Col
fiato in gola lo raggiunse e, prima che potesse dire
alcunché, gli
prese il viso tra le mani e lo baciò. Daniele, colto di
sorpresa,
fece cadere l’ombrello.
Fu
intenso e straziante.
Un
calore improvviso gli bruciò la pelle e gli parve che il
sangue
evaporasse all’istante quando Daniele rispose al suo assalto.
Così
gli affondò le dita nei capelli biondi e li
strattonò, piegandogli
il capo di lato.
Era
terribile e al contempo gustoso. Era come soffiare via la nebbia per
scoprire che esistevano davvero i colori.
Oh
santo cielo quanto lo amo.
Si staccò
da lui e prese un lungo respiro.
«Ti
amo,» gli disse con urgenza. «So di non essere
perfetto e non ho
molto da offrirti ma vorrei comunque provare a dimostrare che sei
speciale. Che sei unico.»
Daniele
fermò quel fiume di parole baciandolo con trasporto.
«Non
chiedo la luna, Giovanni. Desidero un compagno che mi comprenda, che
mi sopporti.» Sorrise alla smorfia buffa che fece.
«E tu sei
perfetto,» l’assicurò. Ripresero a
baciarsi lentamente.
«Ehi!
Voi due! Avete finito di fare le colombelle? Venite, ho appena
servito il tè.» Sulla porta si stagliava la figura
tonda della
cuoca.
I
due ragazzi sussultarono colti di sorpresa. «Non è
stata la più
eclatante delle dichiarazioni,» bisbigliò Giovanni
sulle sue
labbra.
Risero
impacciati, poi, prendendosi per mano entrarono nella pensione.
«Ah,
Giovanni. Poi assicurati di lavare il pavimento.»
proferì la cuoca,
indicando loro le evidenti tracce di umido che avevano lasciato;
erano bagnati come pulcini.
Note
dell’autrice: dove sta scritto che
dichiararsi l’amore
sia un evento straordinario? Giovanni e Daniele sono due pasticcioni
ma è indubbio che si amano davvero. Ciò non gli
impedirà di
causare qualche disastro.
Buona
lettura e i commenti sono graditi.
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storia partecipa al contest ‘Il contest del
Simbolismo’ indetto
da Arianna.1992 sul forum con il prompt amore/colomba.
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Capitolo 6 *** Riscriviamo la storia ***
Un
amore nato dal caso
Riscriviamo
la storia
«Tu
non capisci,» urlò Giovanni,
«è tutta colpa mia.» Tentò di
scostarsi ma Daniele lo fermò deciso.
Si
erano dati appuntamento in quel piccolo appartamento vuoto in
periferia: due stanze, un cucinotto e un balcone dalla vista
mozzafiato. Una firma sul contratto e sarebbe stato loro, per sempre.
Era tutto perfetto, eppure c’erano questioni in sospeso tra
loro.
«Spiegami,»
si limitò a dire mentre gli asciugava una lacrima col
pollice.
Giovanni deglutì e tirò su col naso, sorridendo
triste.
«Allora
ero un menefreghista, bighellonavo e vivevo a spese di mio zio.
Quella fatidica sera avevo ceduto per pochi soldi una dose di coca a
Paolo. Aveva solo quattordici anni e sapevo benissimo che era
strafatto, ma non mi importava. Dopo il disastro, venne fuori che
l’esplosione era avvenuta appunto nella rimessa dove si
rifugiava.
Gli inquirenti ipotizzarono che, stordito dalla droga, pensando di
avere acceso la stufa, avesse invece lasciato uscire il gas che
saturò il locale, con la disastrosa conseguenza che
sappiamo.»
«È
colpa mia,» ripeté mogio. «Sono un
assassino,» rincalzò sviando
il suo sguardo, «e non ho avuto nemmeno le palle di
denunciarmi. Sei
il primo a cui lo confesso,» sussurrò tra i denti,
pentito e
vergognoso.
Tra
loro calò un pesante silenzio e Giovanni si mosse a disagio.
Infine,
certo del rifiuto del compagno, fece un passo indietro e, tenendo il
capo basso, si diresse verso l’uscio.
Non
riuscì a raggiungere le scale del pianerottolo che si
sentì
afferrare e due labbra calde si appoggiarono con prepotenza sulle sue
strappandogli un mugolio sorpreso. Daniele lo baciò con
impeto,
accarezzandogli il palato e succhiandogli fuori l’anima.
Giovanni,
stretto nella morsa del suo abbraccio, tremò.
«Non
sei l’unico ad avere dei segreti,»
cominciò a raccontare Daniele
con voce commossa. «Era la mia prima uscita ed ero gasato,
anche per
via di un bicchiere di troppo. Arrivammo in quel casolare a notte
fonda, scesi eccitato, con l’adrenalina a mille. Il
comandante mi
disse di fare un sopralluogo per vedere se qualcuno era sfuggito a
quell’inferno. Poco distante sentii dei lamenti provenire da
un
cespuglio. Scostai le foglie e trovai un bambino parzialmente
ustionato con un tubo conficcato nel petto. Fui in grado solo di
vomitare.» La sua voce si incrinò,
respirò a fondo prima di
continuare. «Mentre me ne stavo lì, pietrificato
dall’orrore,
vidi la vita scivolare dai suoi occhi.»
Giovanni
gli accarezzò la schiena cercando di alleviare la sua
angoscia.
«Entrambi
siamo colpevoli,» riprese Daniele tra le lacrime.
«Condividiamo il
dolore per sopportare meglio i nostri errori. Ricominciamo da qui,
Giovanni, e affaccendiamoci come formiche affinché il nostro
amore
cresca più saldo.»
Rientrarono
nell’alloggio con un sorriso mesto e, a entrambi, vennero in
mente
le parole di un libro: tutte quelle pagine
bianche le
regalo a te per riempirle.
E così avrebbero fatto. Si sarebbero concessi
un’opportunità
spartendosi i silenzi e le gioie, i giorni tristi e l’amore.
Note
dell’autrice: la vita ci mette davanti a
delle scelte e non
sempre siamo in grado di fare ciò che è giusto.
Giovanni e Daniele
devono fare i conti con un triste passato ma, ora che sono in due, il
fardello peserà di meno a entrambi.
Questa
storia partecipa al contest ‘Il contest del
Simbolismo’ indetto
da Arianna.1992 sul forum con il prompt condivisione/formica.
Buona
lettura e i commenti sono graditi.
Disclaimer:
l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi
diritto.
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Capitolo 7 *** Il vuoto nel cuore ***
Un
amore nato dal caso
Il
vuoto nel cuore
Per
colmare un vuoto devi inserire ciò che l’ha
causato. Emily
Dickinson.
Le
vie della città erano invase da una folla multicolore, da
grida
festanti, musica ad alto volume e striscioni stesi tra un carro e
l’altro inneggianti all’amore e al rispetto.
Da
un folto gruppo di motociclisti fasciati in aderenti tute nere,
sbucò
una giovane ragazza lentigginosa. Dietro di lei arrancava un uomo
tarchiato che teneva una telecamera in bilico sulla spalla.
«Seguimi!»
urlò la giornalista mentre trafficava con il registratore
agganciato
in vita; era un modello superato, di quelli con il microfono
attaccato al filo. «Voglio intervistare quel ragazzo
laggiù.» E,
con passo spedito, uscì dal corteo per fermarsi davanti a un
negozio
di scarpe.
«Ciao!»
esordì con un sorriso smagliante. «Già
stanco di questa
confusione? Cosa ne pensi del Pride di quest’anno?
Cambieresti
qualcosa? Ritieni che i politici si occupino a dovere dei diritti
degli omosessuali? Cosa vi manca per sentirvi uguali?»
sparò
a raffica. Nella fretta, quasi ficcò il microfono nel naso a
un bel
ragazzo dagli straordinari occhi viola.
«Cosa
ti fa credere che faccia parte di tutto ciò?»
rispose accigliato
l’interpellato, sventolando la mano.
«Oh,
scusa. Ecco, io credevo...» balbettò la ragazza,
fissando il
foulard iridato che teneva al collo. Davanti all’espressione
confusa della giornalista, il giovane scoppiò a ridere di
gusto.
«Perdonami,
è stato più forte di me.» Le sorrise
porgendo la mano. «Mi chiamo
Giovanni, sono gay e, una volta arrivato il mio compagno, ci
tufferemo tra la folla.»
«Stupido!»
proruppe confidenzialmente, dandogli un buffetto sul braccio come
punizione per lo scherzo subito.
«Sono
ancora valide le domande?» chiese Giovanni strizzando
l’occhio. Al
cenno positivo continuò. «Personalmente? Tutto
questo non mi
interessa. Nella mia vita, non ho mai avuto bisogno di identificarmi,
di appartenere ad un gruppo piuttosto che ad un altro. Ho sempre
fatto quello che mi pareva più opportuno, o per lo meno, che
mi dava
più profitto. Meravigliata? Come darti torto.»
«Quindi,
se non credi nell’utilità del Pride, cosa fai qui?
Sei uno dei
tanti pacati curiosi che aspettano che altri
risolvano i
problemi?» La ragazza fletté le labbra in una
piega amara e gli
occhi le si adombrarono, persa in chissà quali ricordi.
Giovanni
sorrise.
«Guarda
che non condanno o disprezzo le varie comunità gay, anzi:
sono qui
per sostenere Daniele, l’uomo che amo. Vedi, lui è
uno dei molti a
cui la società ha calpestato la dignità, e, per
società, intendo
tutto ciò che celebra l’omofobia: leggi,
religione, famiglia,
prospettive di vita, lavoro.»
«Sai,
Daniele è un ragazzo d’oro, eppure i suoi genitori
l’hanno
bollato come un diverso.
Nemmeno si sognano quanto amore ha donato a chi ha avuto la fortuna
di incontrarlo. Del bene che si prodiga a fare fino ad annullarsi.
No, per loro è solo uno sbaglio, un aborto.» quasi
ringhiò. Mise
una mano tra i capelli scuri e fece un profondo respiro per calmarsi.
«Il
loro rifiuto ha creato un vuoto nel suo cuore e lui l’ha
colmato
entrando a fare parte della comunità gay. Non
c’è niente di male,
in questo, ma nel profondo del suo animo pensa ancora di essere
sbagliato. Invece, sono coloro che non
l’hanno accettato ad
essere imperfetti.»
In
quel momento un ragazzo trafelato li raggiunse. «Amore, scusa
il
ritardo.» Giovanni si illuminò e strinse a
sé il nuovo venuto.
La
giornalista si spostò lievemente per lasciare loro un
po’ di
intimità. Sentendo un sordo brontolio, alzò gli
occhi al cielo per
scoprire che, nel frattempo, si era annuvolato.
«Piero,
togliamoci dalla strada prima che si scateni il temporale.»
L‘uomo
grugnì il suo assenso. Una volta raggiunto
l’androne di un
palazzo, si girarono verso la folla che aveva preso a sciamare
composta, disperdendosi tra le vie verso i mezzi di trasporto
cittadini. Con la coda dell’occhio la giornalista scorse la
coppia
che rideva felice sotto la pioggia che aveva preso a cadere
insistente. Diede una pacca al suo compare e gli disse:
«Riprendili,
sono fantastici. La giusta conclusione per questa giornata piena di
amore.»
Piero
immortalò il bacio appassionato che Giovanni e Daniele si
stavano
scambiando incuranti di tutto.
Il
cielo era un cumulo disordinato di nubi grige che il vento sferzante
spostava a proprio piacimento. Scrosci d’acqua improvvisi
fendevano
l’aria rendendo lucido e pulito il paesaggio.
L’umidore del
terreno si miscelava perfettamente con quello più dolce
delle piante
in fiore. Un placido ruscello scorreva lento tra i campi pezzati di
marrone, giallo e verde.
Dietro
il vetro socchiuso della camera, una giovane ragazza era china su una
scrivania.
Celeste,
capelli ramati trattenuti da una matita in uno sgraziato chignon,
labbro stretto tra i denti canditi, una mano pallida distesa sul
foglio, era indaffarata a scrivere con la sua calligrafia minuta,
imbrattando di verde la superficie bianca.
Caro,
Daniele.
Che
banalità iniziare una lettera così, ma mi manchi.
Sono
anni che cerco di...
Proprio
in quell’istante la porta si aprì ed
entrò suo padre.
«Cosa
stai facendo chiusa in camera?» chiese. Poi, i suoi occhi si
posarono sul giornale e l’espressione divenne glaciale. In
due
falcate raggiunse la ragazza e le scoccò uno schiaffo sulla
guancia.
«Come
ti sei permessa? Come hai osato?» disse indignato.
«Non
puoi impedirmi di amare mio fratello!» urlò
Celeste. L’uomo si
ritrasse come scottato, artigliò il giornale e lo fece a
pezzi.
Voltò le spalle alla figlia e uscì sbattendo la
porta.
Celeste
guardò a lungo l’uscio chiuso. Non le era sfuggito
il tremore
delle braccia del padre e l’indecisione prima di afferrare il
quotidiano, gli occhi farsi malinconici davanti all’evidente
espressione felice di Daniele e la piega amara della sua bocca.
«Forse
un rimedio c’è,» disse cospiratoria.
Alacre, radunò davanti a sé
i pezzi di carta, li distese e raccolse i frammenti della foto che
ritraeva Daniele e il suo compagno. Delicatamente li pose
all’interno
di una busta vuota.
«Domani
scendo in paese e la spedisco.» Sorrise furba. E
finalmente
tornerà tutto come prima, pensò
fiduciosa.
Note
dell’autrice: La famiglia dovrebbe essere
il luogo più
sicuro dove crescere circondati dall’amore.
Daniele
viene da un mondo pieno di pregiudizi che ha scavato un solco nel suo
cuore, un vuoto che ha colmato come ha potuto.
In
soccorso, sono giunte due persone speciali: Giovanni, il suo
compagno, che gli riempie le giornate dimostrando tutto il suo amore.
E Cecilia, sua sorella, che, con un espediente, cercherà di
ridargli
ciò che crede perduto.
Sebbene
in modi differenti, entrambi hanno dimostrano di tenere a lui.
Questa
storia partecipa al contest ‘OUT & PROUND –
Originali e
Fanfiction’ indetto da Nuel2 sul forum.
Buona
lettura e i commenti sono graditi.
Ulteriori
note:
Questa
storia l’ho
inserita in
una raccolta ideata per il contest ‘Il contest del Simbolismo
indetto da Arianna.1992 sul forum.
Anche
se non
partecipa
al suddetto concorso,
mi sono presa la libertà di usare uno dei simbolismi in
elenco:
cane/devozione. Inoltre,
al fine di sottolineare che partecipa solo
a un
contest, ho deciso
di creare un nuovo banner.
Disclaimer:
l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi
diritto:
il-vu...lanima.jpg.
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Capitolo 8 *** Raccomandato? Con ricevuta di ritorno! ***
Un
amore nato dal caso
Raccomandato?
Con ricevuta di ritorno!
«Perché
il pompiere?» chiese curioso Giovanni un pomeriggio.
«Per
riscattarmi e rendere Pietro fiero di me,» rispose.
«Sapessi quanto
ero agitato mentre aspettavo la lettera che mi avrebbe cambiato la
vita.»
«Daniele,
guarda che se consumi il pavimento poi ti tocca pagarlo.» Il
vecchio
Pietro aveva riso davanti all’espressione scioccata del
giovane.
Erano
giorni che stava chiuso in casa nella speranza di ricevere il
responso al bando a cui aveva partecipato tempo prima.
Non
era stato facile accedere al concorso pubblico indetto per diventare
Vigili del Fuoco, avendo avuto in passato un piccolo contenzioso con
la giustizia. Ma Pietro, suo angelo custode, aveva messo una buona
parola con Sandro, il Maresciallo di zona, che aveva insabbiato la
sua pratica.
Era
ancora un ragazzino quando era scappato dalla famiglia che lo voleva
chiudere in collegio perché gli piaceva vestirsi da donna.
«Lì
ti raddrizzeranno!» aveva sbraitato suo padre mentre gli
teneva il
viso sotto la fontana per lavare via il trucco. Appoggiata allo
stipite della porta, sua madre singhiozzava col volto nascosto tra le
mani.
Era
ancora un gioco, eppure l’avevano fatto sentire sporco e
sbagliato,
così aveva deciso di andarsene, pur di non vedere la
delusione
storcere la bocca ai suoi genitori.
Solo,
spaventato e affamato, sperduto nella grande città, per due
giorni
aveva tenuto d’occhio il sacchetto di carta, appoggiato sopra
le
cassette della posta, che il panettiere lasciava ogni mattina. Poi,
con il coraggio di chi non aveva più nulla da perdere,
l’aveva
afferrato e, mentre scappava via, una signora l’aveva colto
in
fallo. Dei passanti, arrivati in soccorso della donna,
l’avevano
raggiunto e immobilizzato fino all’arrivo della polizia.
Fortuna
aveva voluto che Pietro, l’uomo derubato, fosse una persona
buona.
Aveva compreso subito la situazione, facendosi immediatamente carico
di Daniele. Non aveva figli e nemmeno moglie, e avere accanto il
ragazzo l’avrebbe aiutato a vivere meglio la propria
vecchiaia.
«Ho
sentito un rumore,» Daniele aveva scosso la testa e, con
aspettativa, si era fiondato alla finestra perlustrando con
voracità
la strada.
«È
ancora troppo presto,» aveva cercato di ammansirlo Pietro.
«Sono
appena le otto e il postino arriva verso mezzogiorno.» Aveva
riso
con affetto della sua ansia.
«E
se mi hanno scartato perché sono un ladro? E se non vedono
di buon
occhio i finocchi? E se la mia media scolastica non bastasse? E
se...»
«E
se invece vieni qui e mi leggi il giornale?»
l’aveva incitato
sventolando le pagine. Daniele aveva buttato fuori il fiato e si era
seduto accanto all’uomo iniziando la lettura.
«Vedrai
che ti prenderanno, sei un bravo ragazzo. Devi solo avere la pazienza
delle mucche.»
«Cosa?»
aveva chiesto sconcertato Daniele.
«Be,
certo. Mio nonno diceva sempre che una mucca vive serena
perché ha
la speranza che prima o poi mangerà tutta l’erba
del prato. Leggi,
su.» E, dandogli un buffetto sulla testa bionda, aveva
liquidato la
questione.
«È
proprio andata così, lo giuro,» disse sorridendo a
Giovanni. «A
mezzogiorno in punto seppi di essere diventato un pompiere.»
La
speranza è la vernice del domani sulla delusione di oggi. (
Evan
Esar )
Note
dell’autrice:
Daniele
coltiva un sogno
che forse
non si avvererà
mai.
Come
dice il proverbio, la speranza è l’ultima a morire
così Pietro
convince Daniele ad avere pazienza perché solo aspettando si
colgono
i frutti migliori.
Buona
lettura e i commenti sono graditi.
Questa
storia partecipa al contest ‘Il contest del
Simbolismo’ indetto
da Arianna.1992 sul forum con il prompt speranza/mucca.
Disclaimer:
l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi
diritto.
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Capitolo 9 *** L'ultima prova ***
Un
amore nato dal caso
L’ultima
prova
Il
vento soffiava forte e le gocce d’acqua rigavano il
parabrezza
della macchina solitaria che percorreva la strada immersa nella
campagna.
Daniele,
occhi vigili e mascella serrata per la tensione, sterzò a
sinistra
imboccando un sentiero sterrato alzando, al suo passaggio, un muro di
fango. I fari del veicolo sfavillavano ad ogni sobbalzo delle ruote,
non riuscendo a fendere il buio precoce di quel fine pomeriggio
primaverile.
Finalmente,
dopo quasi due ore di viaggio in totale silenzio, spense il motore
davanti ad un’austera casa in mattoni rossi, inscuriti dalla
pioggia battente. Daniele si passò una mano tra i capelli in
un vano
tentativo di sciogliere la tensione, respirò forte e
aprì lo
sportello della piccola utilitaria giallo canarino.
Come
le suole delle scarpe toccarono il pietrisco, reso sdrucciolevole
dall’acqua, una ragazzina dalla zazzera raccolta in due
trecce
disordinate si fiondò tra le sue braccia facendolo
barcollare.
«Celeste,»
bisbigliò felice tra i suoi capelli, «se non mi
lasci andare
prenderemo entrambi un bel malanno!» E poi rise forte, il
viso
rivolto al cielo plumbeo e la schiena premuta contro la lamiera
dell’auto.
«Non
importa cosa dice papà, sei mio fratello e ti voglio bene lo
stesso,» sussurrò Celeste stringendolo
più forte. Daniele baciò
teneramente il suo capo ormai zuppo.
Erano
passati quasi dieci anni da quando, confuso e arrabbiato, era
scappato da quelle terre sempre umide di pioggia e sferzate dal
vento. Si era cacciato subito nei guai. Ma il vecchio Pietro, che
aveva derubato per fame, aveva visto in lui qualcosa di buono che
l’aveva indotto a salvarlo da se stesso. Grato, aveva preso
al volo
quell’opportunità e, sotto la sua ala, aveva
finito gli studi e,
successivamente, si era arruolato nei Vigili del Fuoco. Erano stati
anni esaltanti e aveva ricambiato appieno la fiducia di Pietro.
Poi,
pochi giorni prima, gli era arrivata una busta da suo padre,
contenente una sola fotografia ridotta in mille pezzi: lui che
baciava il proprio compagno sotto un acquazzone.
Davanti
a quell’ennesimo rifiuto, si era deciso ad affrontare il
drago
nella propria tana, come conclusione di un percorso iniziato anni
prima in un giorno uggioso come quello.
«Non
nasconderti dietro a un dito,» gli diceva spesso Pietro,
«affronta
il tuo nemico a testa alta. Se perdi, pazienza. Ci sono altre mille
vittorie che ti attendono.»
Daniele
sorrise al ricordo e l’amarezza che provava si
diluì nella pioggia
che gli scivolava addosso come un manto.
Invocò
l’aiuto di Pietro che l’aveva accolto come un
figlio. Pensò a
Giovanni che l’attendeva fiducioso a casa. Strinse
più forte a sé
Celeste, la sua adorata sorellina, e, passo dopo passo, si
avviò
sereno verso la porta pronto ad affrontare la sua ultima prova.
«Amo
un uomo e non mi vergogno,» disse risoluto una volta
raggiunto il
salotto. «Se proprio non l’accetti, pensa a tutte
quelle vite che
ho strappato alla morte. Di questo, spero, ne sarai fiero. E»
bisbigliò, «me lo farò
bastare.»
Chi
desidera vedere l’arcobaleno, deve imparare ad amare la
pioggia.
Paulo Coelho.
Note
dell’autrice:
ognuno di noi ha ferite scoperte che fanno male.
Daniele
decide di affrontare l’ultimo ostacolo alla propria
serenità: suo
padre. È
risoluto nelle
proprie ragioni ma offre una scappatoia perché in fondo
amare è
anche scendere a compromessi.
Buona
lettura e i commenti sono graditi.
Questa
storia partecipa al contest ‘Il contest del
Simbolismo’ indetto
da Arianna.1992 sul forum con il prompt pioggia/drago.
Disclaimer:
l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi
diritto.
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Capitolo 10 *** Un pezzo di cielo ***
Un
amore nato dal caso
Un
pezzo di cielo
Il
parco era immenso. Piante ad alto fusto allungavano la loro ombra
fino a lambire il cortile di un edificio basso dalle persiane
azzurre. Aiuole lussureggianti di fiori inodori circondavano il
pianale in cemento arricchito da comode sedute e bassi tavolini in
ferro. Viottoli in terra battuta si districavano nella verzura
inoltrandosi fino nel cuore del parco, dov’era ubicata una
magnifica fontana in marmo rosa.
«Ciao,
Pietro.» Daniele baciò sulla guancia rugosa il suo
vecchio amico.
Al ragazzo si stringeva il cuore nel vedere che si stava spegnendo
piano piano.
Dopo
l’ennesimo attacco epilettico, avvenuto mentre lui si trovava
in
trasferta, avevano concordato il suo trasferimento in quel luogo di
pace. Per i primi tempi era stato difficile, abituati
com’erano
alla reciproca presenza. Ma poi Daniele aveva trovato Giovanni e
Pietro aveva ritrovato una cara amica d’infanzia.
«Dov’è
il tuo ragazzo?» gli chiese con voce flebile.
«Sta
parlando con la direttrice, vogliamo che torni a vivere con
noi.»
L’uomo
sbuffò e sorrise fiero di quel giovane così
altruista.
«Non
ti devi preoccupare,» lo redarguì. «Sono
felice per voi, per quel
piccolo pezzo di cielo che vi state conquistando. Comunque, sarei
solo di troppo.»
Daniele
scosse la testa davanti alla cocciutaggine del vecchio.
«Non
sei un peso,» l’assicurò. «Per
me sei un padre, un amico, un
nonno. Mi spiace solo non essere stato in grado di venire a prenderti
prima.»
Pietro
chiuse gli occhi commosso e una lacrima sfuggì al suo
controllo. Con
affetto circondò il collo del giovane con le braccia
appesantite
dalla vecchiaia. Daniele appoggiò la guancia sul petto
dell’uomo e
gli sfuggì un singhiozzo quando Pietro gli baciò
i capelli.
«Sto
morendo e non è giusto iniziare una vita portando in casa la
sofferenza.»
«Quindi,
sarebbe più semplice lasciarci alle spalle le persone che
amiamo?
Pietro, Daniele ed io stiamo costruendo il nostro futuro, ma che
persone diventeremmo se ragionassimo egoisticamente? Che insegnamento
daremmo agli altri?» Giovanni li aveva raggiunti e li
guardava
sereno, una mano appoggiata sulla spalla del compagno.
Pietro
allungò il braccio perché si unisse a loro. Visti
da fuori erano
proprio buffi, tutti stretti uno all’altro. «Sono
fiero di voi,
ragazzi.»
«Andiamo
a casa,» disse Giovanni aiutando Pietro ad alzarsi.
L’amore
è un campo aperto, un oceano di opportunità, e
per viverlo appieno
basta decidere dove andare, e farlo assieme. Accettando gli alti e i
bassi che la sorte vorrà donare.
Come
i
camaleonti si
dipingono
addosso sfumature non loro, usando
la pelle come una tela su cui imprimere le proprie
emozioni,
così,
Daniele e
Giovanni hanno
imparato a
non
restare
concentrati su
se
stessi, a
urlare al
mondo il loro
amore, la reciproca appartenenza.
Che
vestirsi con altri colori
non è essere
diversi ma
significa
essere
unici. Che provare a condividere diluisce il dolore. Che vivere
assieme
è tutto ciò che
chiedono per il loro futuro.
Amare
non significa guardarsi negli occhi, ma guardare insieme verso la
stessa meta. ( Antoine de Saint-Exupery )
Note
dell’autrice: un
viaggio non termina mai con l’arrivo, ma prosegue con
l’esplorazione del luogo. Così la vita non deve
avere dei punti
fermi ma orizzonti da visitare, mete da raggiungere.
Daniele
e Giovanni hanno intrecciato i loro percorsi e ora si accingono a
viaggiare assieme, uniti nel loro amore.
Buona
lettura e i commenti sono graditi.
Questa
storia partecipa al contest ‘Il contest del
Simbolismo’ indetto
da Arianna.1992 sul forum con il prompt futuro/camaleonte.
Ulteriori
note: questa è l’ultima flash
iscritta al contest e un po’
mi dispiace abbandonare Giovanni e Daniele al loro destino. Per cui,
giudice permettendo, in futuro vorrei tornare a scrivere di loro
usando alcuni degli altri prompt del bando stesso. Quindi, che
l’ispirazione sia con me.
Disclaimer:
l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi
diritto.
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Capitolo 11 *** L'umanità del Signor Nessuno ***
Un
amore nato dal caso
L’umanità
del Signor Nessuno
Cercando
di sembrare ciò che non siamo, cessiamo di essere quel che
siamo.
(Ernst Jùnger)
Il
cimitero era silenzioso. Una leggera brezza espandeva il lieve
profumo di fiori freschi che ingentiliva il paesaggio grigio.
L’erba
appena tagliata attutiva i passi frettolosi di chi provava il
desiderio di sentirsi vicino ai propri cari. La presenza di un
piccolo escavatore strideva fortemente con la poesia del luogo.
Giovanni
si passò una mano sul viso in cerca di quelle lacrime che
faticavano
a scendere. Era passato molto tempo dal terribile scoppio che aveva
stravolto la città dove viveva e, il fatto di essere stato
il solo
sopravvissuto alla tragedia, aveva contribuito a creare un vuoto
dentro di lui. Più volte, la psicologa gli aveva ordinato
di
recarsi sulla tomba dello zio, di fare pace con lui ma soprattutto
con se stesso. Perché le cose non accadono mai per
caso. Gli
diceva di continuo con la sua fastidiosa voce da bambina. Cosa che
lui non aveva fatto fino a quel momento.
«Se
preferisci rimanere solo mi sposto sotto quell’albero
laggiù.» La
voce gentile del suo compagno lo riscosse. Voltò il capo e
lo vide
indicare una grande pianta dove stava, nascosta dalle fronde, una
panchina in pietra. Al suo assenso, Daniele gli sfiorò le
labbra con
le proprie, sorridendo triste e al contempo incoraggiante, per poi
incamminarsi facendo scrocchiare la ghiaia bianca.
Rimasto
solo, Giovanni si inginocchiò e accarezzò con
riverenza la foto che
ritraeva lo zio. Aveva un sorriso bellissimo, caldo e avvolgente.
Portava i capelli lunghi alla moda degli hippies che brulicavano
nelle città americane degli anni settanta. Adorava
l’America,
avrebbe tanto voluto vivere lì ed essere sepolto a Los
Angeles, ma
la sua famiglia si era opposta fermamente.
«Sono
qui per chiedere perdono, zio. Per non essere stato un buon nipote e
perché quel giorno me ne sono uscito di casa senza averti
detto
quanto ti amavo, quanto ero orgoglioso di fare parte della tua vita.
Se potessi vedermi ora, sono certo che saresti fiero di me. Ho fatto
tesoro di ogni tuo insegnamento e sono riuscito a costruire delle
solide basi per potere vivere al meglio la mia vita, esattamente come
volevi tu. Ora, ho un compagno meraviglioso che amo alla
follia.»
Giovanni tolse le rose avvizzite dal vaso in peltro.
«Avrei
tanto voluto dimostrare che ero degno di te quando eri in vita, ma
ero uno stupido sciocco accecato dalla mia vana gloria. Hai sempre
avuto ragione su tutto e il mio più grande rammarico
è non averti
più accanto.
«Mi
vergogno un po’ ad essere così felice mentre tu
sei rinchiuso in
una scatola sotto metri di terra.» Con l’aiuto di
una spugna
umida, ripulì dalla polvere la lapide in marmo bianco.
«Allora,
ero così cieco, così sordo e così
concentrato su me stesso da
essere finito per identificarmi con tutto ciò che odiavo di
più.
Ero diventato uno qualunque in un mare di banalità. Mi ero
impegnato
così tanto a non somigliare a mio padre, troppo attaccato
alla
divisa militare, che ho abbracciato il lato opposto della
barricata. Finendo così per confondermi tra loro:
un signor
nessuno senza arte né parte.
«Sai,
ho imparato a mie spese che nella
vita ho
incontrato tante maschere e pochi volti.
La più terrificante fra tutte era proprio la mia.»
***
L’appartamento
all’ultimo piano di un anonimo palazzo di quartiere era
inondato
dalla calda luce serale. Le pareti azzurre avevano assunto un tenue
colore lilla mentre decine di fotografie, chiuse in austere cornici,
ammiccavano felici. I mobili datati, curati ed essenziali, rendevano
il modernissimo televisore un pesce fuor d’acqua. Un gatto
maculato, fino a pochi istanti prima acciambellato sulla poltrona in
velluto a coste, dopo essersi sgranchito le membra, era uscito con le
coda ben ritta, infastidito dal cicaleccio degli altri due occupanti
del locale.
«Ti
ho visto alla rimessa con Paolo, che combinavi?» aveva
chiesto Luigi
mentre posava gli occhiali da lettura sopra il libro che stava
leggendo.
«Nulla
che ti riguarda,» aveva risposto sgarbato Giovanni,
ingollando una
birra fresca. L’uomo aveva sospirato preoccupato.
«Giovanni,
lo sai che devi stare lontano da lui. È così
giovane eppure così
corrotto. Puoi frequentare chiunque, perché insisti appresso
a lui?»
«Zio,
io non lo frequento. Abbiamo un rapporto… lavorativo,
ecco,» aveva
risposto sbrigativo, afferrando un paio di prugne secche da un piatto
sul tavolo.
«Ma
cosa dici? Lavorativo? Quel ragazzino ha quattordici anni! Che lavoro
potrebbe mai fare? E tu, da quando lavoreresti?» aveva
ribattuto
incredulo lo zio. Giovanni aveva sbuffato irritato.
«Lo
sai che aiuto Paride al pub!»
«E
lo chiameresti lavorare essere impegnato tre sere a
settimana?
Un lavoro serio è quello che ti permette di guadagnare
abbastanza da
vivere in modo autonomo.»
«Mi
stai cacciando di casa?» aveva chiesto irriverente Giovanni
mentre
sputava il nocciolo della prugna facendo canestro in un vaso di
peonie lì accanto.
«Giovanni!»
l’aveva ripreso Luigi. «È questa
l’educazione che ti ho
insegnato?» Il ragazzo aveva fatto spallucce mettendo in
bocca un
altro frutto. «Ringrazia il cielo che ho la caviglia fasciata
altrimenti avrei sistemato a modo mio la testaccia dura che ti
ritrovi!» l’aveva minacciato. Giovanni aveva
sorriso
accondiscendente e gli aveva spedito un bacio sulla punta delle dita.
Sebbene
passassero il tempo a bisticciare, zio e nipote si volevano molto
bene.
Giovanni
era approdato a casa di Luigi appena adolescente per frequentare le
scuole superiori, troppo lontane dal paese di provincia dove era
nato.
Quando
suo padre aveva scaricato le valige sul pianerottolo, Giovanni aveva
letto nei suoi occhi il sollievo di essersi liberato di uno
come lui. Quella cosa l’aveva
ferito profondamente,
nonostante sapesse che aveva procurato solo dispiaceri ai propri
genitori. Così, stringendo i denti per non urlare il proprio
disappunto, aveva alzato il mento spavaldo per non fare notare il
magone che gli stava attorcigliando le budella.
A
salvarlo dai pensieri cupi, era arrivato Luigi che, dopo avere
spalancato la porta, l’aveva stretto in un caldo abbraccio,
invitando entrambi ad entrare. L’interno era spoglio e
puzzava di
vernice fresca, ma era apprezzabile, soprattutto per i pasticcini che
imbandivano il tavolo in cucina.
Il
padrone di casa era il fratellastro della mamma di Giovanni, un uomo
di mondo ma che classificava la vita in scomparti separati.
Oltre
le tende, il sole era calato e il nero della notte stava sgomitando
con gli ultimi barlumi rossastri. In quella serata limpida, i rumori
delle autovetture, che stavano sostando sul grande raccordo,
arrivavano nitidi come i pigolii dei passerotti affamati. Il gatto
Paride aveva sbirciato dalla porta spalancata e, miagolando forte,
aveva attirato l’attenzione del padrone. Luigi si era alzato
e
l’aveva seguito in cucina dove aveva riempito la sua ciotola
di
croccantini. Dopo poco, dal bagno in cui si era rifugiato a causa del
suo amore per le prugne, Giovanni l’aveva sentito rovistare
nei
cassetti.
«Hai
spostato tu i cento euro che avevo messo nel barattolo del
sale?»
aveva chiesto corrucciato.
Giovanni
aveva incrociato lo zio nel piccolo corridoio che separava la zona
giorno da quella della notte. A Luigi era bastata una fugace occhiata
agli espressivi occhi viola del giovane per leggere tutta la sua
colpevolezza.
«Accidenti!
E adesso che faccio? Quei soldi servivano per pagare alcune fatture e
domani la banca è chiusa.»
«E
con questo? Cosa vuoi da me! Se sei smemorato non è di certo
colpa
mia,» aveva sputato infastidito rientrando in sala. Per
alcuni
secondi, lo zio l’aveva guardato interdetto, poi
l’aveva rincorso
zoppicante e l’aveva bloccato a un passo dall’uscio
di casa.
«Tu
non me la racconti giusta, Giovanni. Sono giorni che ti comporti in
modo strano. Bighelloni dalla sala alla tua camera per poi sparire
per delle ore. Cosa stai combinando?» gli aveva chiesto
picchiettando il dito sul suo petto. Il ragazzo aveva scosso le
spalle indifferente.
«A
volte, vorrei tanto che i tuoi genitori fossero ancora vivi, sono
certo che tuo padre saprebbe raddrizzarti,» aveva sussurrato
piano
passando la mano nei lunghi capelli scuri.
«Sì,
certo. Proprio lui, il grande e
irreprensibile Stefano
Ghilbertone che non ha trovato di meglio che scaricarmi
davanti a
casa tua perché si vergognava di avere un figlio troppo
ribelle.»
Come un violino scordato, nella voce di Giovanni aveva vibrato tutta
la sua amarezza. Luigi aveva fatto un passo indietro, sbigottito
dall’acredine che stava manifestando il nipote.
«Ma
cosa? Ma come? Non...» aveva balbettato portando una mano
davanti
alla bocca.
«Ero
solo un accessorio, un motivo in più per brindare alla sua
grandezza. Fin dalla mia nascita aveva panificato ogni cosa:
l’asilo,
gli amici, le scuole, gli sport e perché no, anche cosa
dovevo
mangiare. Tutto ciò che facevo doveva essere supervisionato
e
approvato da lui; ci mancava solo che mi contasse i minuti spesi in
bagno ed hai un quadro completo di ciò che ho passato.
«Tutto
doveva essere perfetto e impeccabile, peccato che non abbia mai speso
un secondo della sua vita a chiedere a me cosa
davvero mi
piacesse. E visto che non mi era concesso oppormi alla sua
volontà,
ho iniziato a trasgredire le regole al di fuori del suo dominio.
Quando potevo marinavo la scuola, fumavo nei bagni delle ragazze,
rubavo qua e là piccole cose che rivendevo. Più
venivo messo in
punizione, più aumentavo la posta. Ma per lui contavano solo
le
apparenze e mai le mie esigenze.
«L’ultimo
affronto è stato quello di obbligarmi a frequentare lo
Scientifico,
quando l’avevo supplicato di mandarmi
all’Alberghiero! Perché
fare il cameriere è umiliante per un Ghilbertone
mi diceva ogni
volta che tentavo di dissuaderlo.
«Ora,
mi senti padre? Servo il Pirlo ai vecchietti il venerdì
sera,»
aveva urlato così forte che il gatto era schizzato
miagolando verso
le camere. Luigi l’aveva fatto sfogare restando in silenzio,
perduto nell’osservare la sua rabbia. Come ho
potuto non accorgermi di niente?
Si stava
ripetendo addolorato
come un mantra.
«Quando
è morto mi sono sentito finalmente libero e, al contempo,
ancora
terribilmente in gabbia. L’unico pensiero che mi ha permesso
di
restare a galla sei stato tu, zio. Quell’amore che mi avevi
donato
senza reticenze, senza che l’avessi chiesto, senza avere
nulla in
cambio, è stato l’edera che mi ha tenuto ancorato
a terra, non
permettendomi di crollare.
«È
vero, ti devo molto più di quello che non sarò
mai in grado di
restituire ma non ti permetto di immischiarti nei miei
affari,»
aveva concluso tronfio, gli occhi viola che lanciavano dardi.
«Io…
Giovanni, non voglio ficcare il naso, semplicemente credo che tu
abbia ancora bisogno di una figura genitoriale che ti guidi,»
aveva
detto cauto, sondandolo negli occhi. «Sei così
giovane e così
pieno di rabbia che mi si stringe il cuore.»
«Non
ho bisogno di niente e di nessuno,» era scattato.
«Men che meno una
presenza asfissiante e ingombrante come era quella di mio
padre.»
«Oh
certo! Il grande Giovanni si crede un uomo navigato,» aveva
iniziato
risentito dalle parole del nipote. «Un uomo che ha fatto
sempre le
scelte giuste, come quella di abbandonare gli studi o finire a
bighellonare con la banda di Maurizio. Pensavi fossi del tutto cieco?
Eppure vieni qui a fare la morale, credi di essere migliore di tuo
padre, Giovanni?» gli aveva urlato contro lo zio.
«Tu non sei
nessuno! Sei un volto vuoto in mezzo a facce dipinte. Ecco cosa sei.
Te ne vai in giro tronfio. Io faccio come credo e smetto
quando
voglio.» l’aveva scimmiottato.
«In realtà sei patetico, uno
stupido pusillanime che non è in grado di prendersi le
proprie
responsabilità.»
«E
tu, invece?» aveva infierito Giovanni indicando i quadri
appesi.
«Che mi dici di Alberto? Delle seghe che ti fai pensando a
lui? Hai
paura che crolli la tua perfetta facciata rispettabile se venissero a
sapere che sei un frocio?»
Nella
stanza era calato un pesante silenzio, corrosivo e indigesto come un
limone acerbo.
Improvviso,
lo schiaffo l’aveva colpito in pieno volto facendogli
scattare la
testa di lato. Lo zio l’aveva guardato a lungo, ferito e
deluso.
«Alberto è morto dieci anni fa di AIDS, due giorni
prima che
riuscissimo a formalizzare la nostra unione a Los Angeles.»
Era
uscito zoppicando dalla stanza senza degnarlo di uno sguardo.
Quella
era stata l’ultima volta che l’aveva visto.
Mezz’ora
dopo, un’esplosione aveva ridotto in macerie fumanti alcuni
palazzi
del quartiere dove abitavano. Per un caso fortuito, Giovanni era
stato l’unico a uscire vivo da quell’inferno.
***
Un
pettirosso planò leggero ad un passo da Giovanni e il suo
trillare
felice lo ridestò dai ricordi. Si perse per un attimo a
osservare il
suo zampettare tra l’erba profumata in cerca di cibo. Poi, un
rumore alle sue spalle allontanò l’uccellino e lui
si volse
infastidito verso il disturbatore.
«Mi
scusi, dobbiamo iniziare a scavare.» Due uomini con la divisa
comunale sporca di terra lo guardavano appoggiati
all’escavatore.
«Certo,
certo!» balbettò imbarazzato Giovanni. Si
alzò in piedi così
velocemente da rischiare di cadere.
«Per
sicurezza è meglio che si sposti un poco più in
là,» gli disse
professionale quello più smilzo con gli occhi iniettati di
sangue. A
passo lento, Giovanni raggiunse Daniele che lo accolse tra le sue
braccia.
«Credi
che sia la cosa giusta da fare?» chiese titubante.
«Certamente.
Sarà felice di tornare a Los Angeles dal suo
Alberto.» Giovanni
soffocò un singhiozzo nel suo collo mentre lui gli
accarezzava
gentilmente le guance. «Stai piangendo,»
mormorò tra i suoi
capelli.
Giovanni
spalancò gli occhi e davanti a sé vide tutto
sfocato, come se il
mondo fosse finito dietro un filtro. Ogni cosa era indefinita, senza
consistenza, piatta, un po’ come la sua vita prima di
conoscere
Daniele. Sbatté le ciglia e i colori tornarono a sorridere.
Dentro
di sé, sentì le ultime briciole della maschera
che portava anni
addietro disciogliersi nelle lacrime che scorrevano lente.
«Grazie,
Luigi. La mia felicità la devo a te che, con il tuo amore e
i tuoi
insegnamenti, hai aperto una breccia nella mia corazza, permettendomi
di capire cosa davvero volevo dalla vita.»
Mentre
seguivano mesti la bara appena riesumata verso il crematorio, il
pettirosso gli volò davanti al viso, quasi volesse
contribuire a
lavare via le sue colpe con le proprie ali.
Nessuno
può cambiare una persona, ma una persona può
essere la ragione per
cui qualcuno cambia. (Anonimo)
Note
dell’autrice: per emergere sopra gli
altri non bisogna per
forza essere dei grandi, degli eroi
o dei ricchi.
Per distinguerci dagli altri basta essere speciali per qualcuno.
Giovanni
non vuole diventare un uomo inquadrato come suo padre: un uomo
sterile e privo di cuore. Disubbidendo alla volontà del
genitore è
convinto di essere un ribelle. Invece diventerà un
disgraziato
qualunque che non riesce a riconoscere la felicità a portata
di
mano.
Ulteriori
note: questa storia avrebbe dovuto partecipare al
contest
‘Contest – Una macchia di storia’ indetto
da
Inchiostro_nel_Sangue e elli2998 con il pacchetto segreto A
occhi
chiusi:
quadro:
l’uomo con la bombetta.
frase
di Pirandello: imparerai a tue spese che nel
lungo
tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti.
condizione:
qualcuno sta mangiando una prugna.
Il
pacchetto prevede un obbligo: descrivere come ultima scena (in
metafora o figurativa) la scena presentata nel quadro assegnato.
Come
sempre ho divagato e sono uscita fuori tema.
Buona
lettura e i commenti sono graditi.
Disclaimer:
l’immagine non è mia ma appartiene agli aventi
diritto.
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