Venom

di Longview
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tension ***
Capitolo 2: *** There's comfort in pain ***
Capitolo 3: *** Homesick ***



Capitolo 1
*** Tension ***


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Ammetto che non so proprio cosa dire, quindi non ho intenzione di dilungarmi. È da tanto che non scrivo e, soprattutto, che non carico una mia storia su EFP, pertanto ho solo voglia di condividere questo mio nuovo tentativo con voi. Buona lettura -sperando che effettivamente lo sia-.
-Longview




 
 
 
 




 
 
 
Tension



-Il fenomeno dei Doppelgänger viene così banalmente attribuito a tutti i sosia o presunti tali che per puro caso troviamo in giro per il mondo… è più interessante mantenere l’aura di misticismo che gli venne creata attorno quando il termine fu usato per la prima volta, non ti pare? Un doppio maligno, come Mr. Hyde, o visto come presagio di morte, non rende la faccenda più… affascinante?-.
Due occhioni lo scrutavano stupiti; sembrava che stessero ascoltando le sue parole, ma non riuscivano minimamente a controllare la voglia di giocherellare con i lunghi capelli corvini dell’altro, adagiati morbidamente sul cuscino e che contornavano il suo viso eburneo. Ma quello mosse infastidito una mano.
 -Umpf, se non fossi carino ti avrei già sbattuto fuori di casa, gattaccio-. Questo, di tutta risposta, rumoreggiò per un po’ prima di accoccolarsi al fianco del ragazzo e dormire.
Possibile che non riuscisse a intrattenere una discussione seria con un qualsiasi essere vivente che non fosse una stupida palla di pelo nero? Era in momenti come questi che Gerard Way si rendeva conto di quanto ridicola fosse la sua vita; non sapeva neanche per quale motivo deprimersi maggiormente: i diciassette anni compiuti da svariati mesi, l’estate ormai agli sgoccioli, l’aver dovuto piantare baracca e burattini per trasferirsi dall’altro capo dell’America poche settimane prima… avrebbe potuto continuare per una giornata intera. Di certo, la cosa che più gli faceva ribollire il sangue era stato il dover abbandonare tutte le sue amicizie. È vero, non erano molte, ma per lui erano molto importanti; peccato che, con ogni probabilità, non avrebbe più rivisto nessuna di esse fino all’anno dopo. Il solo pensiero di dover ricominciare tutto da capo, in una nuova scuola, solo, senza nessun punto di riferimento…
-Gerard, disturbo?-
Una testa biondiccia e scapigliata fece capolino dalla porta socchiusa, riportandolo sulla Terra. Mikey. Ora che ci pensava non doveva essere l’unico terrorizzato dall’idea di tornare tra i banchi scolastici. Conosceva abbastanza bene suo fratello da sapere che si sarebbe abituato alla nuova situazione non prima dei trent’anni. E ora ne aveva quindici. Ma in fin dei conti era fatto così, e, per essere onesti, a Gerard non dispiaceva questo fatto; non si sentiva più così stupido se anche qualcuno di sua conoscenza provava le stesse cose che provava lui. Sperava solo che le sue intuizioni fossero corrette.
-No, entra pure-. Mikey si avvicinò velocemente a lui, e gli si sedette di fianco. Per un attimo gli parve un topo, con il suo fare silenzioso e il muso sottile. Ma forse non era propriamente esatto riferirsi al viso di una persona definendolo “muso”, anche se, insomma, gli esseri umani sono pur sempre animali, forse dotati di intelligenza, ma uguali a tutti gli altri viventi. E gli parve che Zed, il gatto, ebbe la sua stessa idea, visto che gli venne incontro e lo annusò dalla testa ai piedi.
-Mamma mi ha detto di venire a controllare se non stessi tentando il suicidio- ridacchiò quello.
-Quanto siamo spiritosi oggi, davvero. Tra l’altro, non vorrai farmi credere di sentirti tranquillo per domani-. Mikey fece spallucce: si sentiva abbastanza sicuro di sé, non era spaventato da quella nuova situazione stranamente. Sinceramente, era contento di essersi lasciato alle spalle la vita di prima. Voleva scordare quel buco dimenticato da Dio in cui abitava, voleva scordare i ragazzi che con i loro soprusi lo avevano sempre escluso e reso insicuro. Aveva la possibilità di ricominciare e crearsi una reputazione tutta nuova; sperava solo che questa volta sarebbe andata bene. Ma, allo stesso tempo, era dispiaciuto per Gerard. Avrebbe voluto far qualcosa per scuoterlo dallo stato di depressione in cui era finito da quando i genitori avevano comunicato loro il trasferimento.


-Ragazzi, ho trovato un nuovo lavoro… a Los Angeles- esordì Donald Way, durante una serata qualunque, alla fine di una giornata qualunque. I figli smisero improvvisamente di mangiare, le posate caddero nei piatti tintinnando, mentre gli sguardi vuoti e sconvolti dei due trasmettevano sentimenti totalmente contrastanti. Mikey era emozionato, davvero. Non era certo che fossero emozioni positive, ma sentiva forte e chiaro il cuore battergli come un tamburo nel petto. Gerard invece avrebbe voluto vomitare. Odiava le cose organizzate in quattro e quattr’otto e soprattutto odiava i cambiamenti di ogni tipo. Ma se questo fosse stato il fatto che più lo preoccupava non avrebbe fatto così tanta resistenza a cambiare casa, e non sarebbe scoppiato in un pianto soffocante e terribilmente doloroso di fronte a tutta la sua famiglia, un’ora dopo, non appena riuscì a realizzare tutto ciò che gli sarebbe successo. Un unico pensiero gli rimbombava nel cervello, facendolo rabbrividire: ‘Dovrò abbandonare Bert’.


-A cosa stai pensando?-
Gerard lo fissava insistentemente nel tentativo di comprendere i motivi di quel lungo silenzio. Gli aveva forse trasmesso tutto il suo disagio interiore? Magari era come un virus o una malattia che lo aveva contagiato nel momento in cui era entrato in contatto con le sue lacrime infette. In fin dei conti piangeva quasi ogni giorno su quel letto, anziché passare il tempo a masturbarsi. Anche se ogni tanto faceva pure quello.
-Ti manca?-
Incredibile come una domanda tanto vaga potesse colpirlo così nel profondo. Non sapeva se stesse arrossendo per la rabbia o per le lacrime che tentava inutilmente di trattenere.
-Non sono affari che ti riguardano. E ora vattene, per favore-
Mikey obbedì, capendo che non era il momento adatto per parlarne. Gerard avrebbe voluto parlargli di quello che era accaduto la sera prima, perché desiderava ardentemente potersi sfogare e avere una spalla su cui piangere. Voleva essere consolato da qualcuno, piuttosto che tenersi tutto dentro e consumarsi l’anima. Corse in bagno e si chiuse la porta alla spalle, sentendosi spiato, anche se non c’era nessuno in stanza con lui. Si sfilò in fretta i vestiti lanciandoli sul pavimento, e senza aspettare oltre si buttò sotto il getto dell’acqua fredda. Troppi pensieri e ricordi gli affollavano la mente, gli martellavano nel cervello, gli facevano scoppiare la testa. D’improvviso gli venne un’emicrania lancinante, come una serie di stilettate dritte nelle tempie. Le lacrime si mischiavano con le gocce gelide che uscivano dal soffione della doccia.


Gerard sentì il telefono squillare. Era agitato, perché sapeva perfettamente chi fosse, ma era indeciso se rispondere o meno. Non aveva sue notizie da una settimana, ma, nonostante la rabbia che gli ribolliva in corpo, non poteva pensare di tenergli il muso per sempre. Prese in mano il ricevitore e cominciò a parlare.
-Pronto…?-

-Gee, ciao, sono Bert- Il suo stomaco fece una giravolta quando sentì la sua voce, sebbene fosse lontana più di tremila chilometri.
-Bert, stai bene?- Era in ansia.
-Certo, tutto bene. Senti… avrei una cosa da dirti-, il suo tono non prometteva nulla di buono, -in questi giorni ho riflettuto a lungo, mi spiace infatti di non averti più chiamato-
-Mh, continua-
-Io non ce la faccio a saperti così lontano. Ti amo troppo per poter vivere ogni mio giorno senza te. Penso che sia il caso di finirla qui.-


Perché non esistevano metodi per cancellare la memoria? Il nostro cervello è così stronzo che fa in modo di farci ricordare meglio di ogni altra cosa i momenti più brutti della nostra vita.
“Ti amo troppo”, e allora perché lo aveva lasciato così, per telefono? Per di più, iniziava a sentirsi in colpa per come aveva trattato Mikey. Avrebbe voluto andare a scusarsi, ma era troppo tardi e lui era troppo stanco per fare altro che non fosse infilarsi sotto le coperte e dormire. Magari si sarebbe risvegliato scoprendo che era stato tutto un brutto sogno… No. Purtroppo era la dura realtà.
Uscì dalla doccia, si avvolse nell’accappatoio e iniziò a pettinarsi i capelli davanti allo specchio. Si rese conto di essere un vero disastro. Aveva gli occhi rossi e gonfi e pieni di capillari scoppiati; era di un pallore cadaverico; i capelli neri e bagnati gli si appiccicavano al viso in modo inquietante; i suoi lineamenti affilati -il naso all’insù, gli zigomi sporgenti, le orbite leggermente incavate- non facevano che peggiorare il suo aspetto tremendo. Meglio che non ci desse grande peso. Infatti si asciugò i capelli e tornò in camera, dove si rivestì e si mise a letto.
Il mattino dopo si risvegliò, colpito dal violento suono della sveglia. Erano mesi che non si faceva trapanare le orecchie e non sentiva per niente la mancanza di quell’aggeggio. Indugiò qualche secondo con la testa nascosta sotto il cuscino, tentato dall’idea di radunare le sue poche cose e filarsela dalla finestra, senza farsi mai più vedere. Sarebbe potuto andare su qualche isola sperduta, o a vivere sotto i ponti assieme ai barboni. Pensava che non sarebbe stato tanto peggio che affrontare quel nuovo anno scolastico. Ma doveva farsi coraggio: nel peggiore dei casi avrebbe passato i mesi seguenti nell’indifferenza generale, dopotutto non era un obbligo doversi fare nuovi amici. Stava benissimo da solo, e non aveva bisogno di nessuno.

“Ti hanno abbandonato tutti, Gerard. Fattene una ragione”.

Una volta tanto la sua coscienza diceva il vero. Con non poca fatica, rotolò giù dal letto e si diresse in bagno. Si vestì e scese le scale, diretto in cucina. Suo fratello e suo padre erano seduti a tavola, l’uno che imburrava una fetta di pane tostato, l’altro che sorseggiava del caffè mentre leggeva il giornale. Entrambi fin troppo presi da ciò che stavano facendo per potersi accorgere di lui, e di certo Gerard non se ne rammaricava. Sua madre, invece, era ai fornelli che cuoceva delle uova. Un conato di vomito gli risalì per la gola.
-Buongiorno, tesoro- tre teste si sollevarono stanche, tre paia di occhi lo scrutavano stupiti come fosse un’apparizione mistica, -Come mai quell’espressione sofferente?-
Il ragazzo scosse la testa, e diede a intendere di non avere molta fame. Si avvicinò con passo strascicato alla caffettiera, e, afferrata una delle tante tazze riposte accuratamente nella credenza, la riempì fino al bordo.
Quindici minuti più tardi, Gerard e Mikey, zaini in spalla, uscirono di casa e cominciarono a camminare verso scuola. Il sole faceva ribollire l’asfalto sotto i piedi dei due, sebbene fosse mattina, e rendeva ogni metro percorso un’agonia, in particolare per il maggiore dei fratelli.
-Se soffri così tanto il caldo, perché ti ostini a vestirti di nero?- domandò Mikey, mentre all’orizzonte iniziava a stagliarsi l’imponente figura dell’edificio nel quale avrebbero passato i seguenti nove mesi. L’altro fece spallucce.
-Almeno sono ben coperto dal sole, odierei vedere la mia pelle diafana farsi più scura a causa dell’abbronzatura- o diventare rossa per le scottature, pensò poi. –in ogni caso, siamo arrivati-.
I due si presentarono in segreteria per ritirare i rispettivi orari settimanali e per avere qualche informazione generale sulla posizione delle aule; vennero tuttavia liquidati con un gesto sconsolato in direzione della piantina affissa al muro. Infine consegnarono loro le chiavi degli armadietti, relativamente vicini tra loro, e lì si diressero. Gerard osservò di sfuggita gli studenti che passeggiavano per i corridoi, alcuni spaesati e spaventati, altri a proprio agio, che si salutavano tra loro con una tale disinvoltura e un tale calore da far sentire al ragazzo un forte peso addosso. Nonostante tutti i pensieri dei giorni precedenti, non poteva fare a meno di sperare di conoscere nuove persone, di rifarsi una vita.

“Di dimenticare il passato.”

Forse il suo umore non era propriamente adatto per pensare di ricominciare tutto d’accapo, forse era ancora troppo emotivamente instabile. Onestamente, non sapeva cosa lo trattenesse dal fuggire a gambe levate da quella situazione, da quel luogo, dalla sua vita. Sentiva un’immensa pressione che non riusciva a contrastare e che lo stava confondendo. Ancora non ragionava bene, lo sapeva perfettamente, e non aveva neanche parlato a nessuno di ciò che era successo due giorni prima. Pensò di rendere Mikey partecipe di quello che gli passava per la testa, subito dopo scuola.
Il suono della campanella lo ridestò dai suoi pensieri, e si rese conto di aver passato almeno cinque minuti a fissare il freddo e grigio interno del suo armadietto.
-Ci vediamo in mensa per la pausa pranzo, okay?- Gerard annuì, e salutò il fratello.
Scrutò il suo orario: inglese alle prime due ore. L’insegnante era un certo professor Goodman.
La giornata trascorse noiosa e pesante: il ragazzo fece un respiro di sollievo quando l’ultima ora si concluse. Si precipitò verso l’uscita, e fu stranamente contento di vedere il fratello, il quale già si era fatto qualche amico. Il più piccolo salutò i nuovi compagni, e incredibilmente anche il maggiore dei due si ritrovò a salutare qualche ragazzo entrato in contatto con lui durante le lezioni. Gerard accelerò il passo verso casa. Per qualche strana ragione, era ansioso di parlare con Mikey.

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Capitolo 2
*** There's comfort in pain ***


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Ciao! Non ho molto da dire quindi andrò subito al dunque: ringrazio tutti coloro che hanno letto, recensito e messo la storia tra le seguite. Mi sono resa conto che da introduzione e primo capitolo non si capisce per niente dove vorrei andare a parare con questa storia, ma, in ogni caso, ci tengo a precisare che non è un semplice racconto di adolescenza tra i banchi di scuola; non ho messo a caso, tra i generi, Dark e Fantasy. Anyway, per ora vi lascio al capitolo. Ci vediamo alle recensioni c: (se ce ne saranno).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

There's comfort in pain 

 

-Ho voglia di andare in un parco. Secondo te ce ne sono qui in zona?- Gerard punzecchiò con un piede il fratello, il quale sbuffò scocciato.
-Certo che sì, e lo sapresti se solo uscissi ogni tanto da questa stanza. Piuttosto, è un’ora che ti fisso mentre scarabocchi su quel coso, si può sapere cosa stai facendo?- Mikey si allungò, sdraiandosi sul letto affianco all’altro. Si sorprese vedendo sul foglio un abbozzo di quello che pareva il suo viso: si sentì lusingato. A Gerard piaceva ritrarre qualsiasi cosa vedesse. Non era neanche la prima volta che lo disegnava, ma ogni volta la cosa lo metteva in imbarazzo: si trovava al centro dell’attenzione di una delle persone che più stimava e prendeva ad esempio, e ciò era un grande privilegio per lui. Inoltre, non ricordava l’ultima volta che aveva passato del tempo con suo fratello, e la cosa lo rendeva felice. Sapeva che d’ora in poi avrebbe trascorso gran parte delle sue giornate con lui, dal momento che si ritrovava solo come un cane.
A dire il vero era molto dispiaciuto per Gerard. Era trascorsa una settimana da quando gli aveva raccontato tutto, e ancora si domandava come facesse a fingere di star bene.

 

Gerard voleva assolutamente parlare con Mikey. Voleva liberarsi da quel peso, e l’unico modo era sfogarsi con qualcuno; non era certo che sarebbe riuscito a voltare pagina, ma almeno avrebbe fatto un passo avanti.
-Mh, sì, insomma… Bert mi ha lasciato- quelle semplici parole pronunciate ad alta voce lo fecero rabbrividire. Il più piccolo quasi si strozzò con l’acqua che stava avidamente trangugiando.
-Stai scherzando, spero- Bert era stato il suo amore platonico per molto tempo, e in seguito il suo ragazzo a tutti gli effetti per un lungo periodo, a quanto pareva, fino a pochi giorni prima. Gli sembrava impossibile che, dopo tutti i buoni propositi dei due riguardanti il futuro, la loro storia fosse finita così insensatamente. Gerard gli raccontò tutto, finché non cedette alle emozioni e si lasciò andare a un pianto sommesso.
-Non posso vivere senza di lui-

 

Gerard non rispose, ma proseguì a tracciare segni con la matita; dopo qualche minuto scarabocchiò quella che pareva una firma ai piedi del foglio e lo cacciò tra le mani di Mikey. Farfugliò qualcosa come un “te lo regalo”, e scattò sull’attenti. Non ne conosceva il motivo, ma aveva realmente voglia di andare al parco. Uno di quelli grandi, con stradine alberate, animali, persone che fanno jogging e magari un laghetto al centro. Ne doveva per forza esistere uno che rispondeva alle sue esigenze momentanee, in quella città. Senza parlare, infilò un blocco da disegno, un astuccio e una bottiglietta d’acqua (che con grosse probabilità era abbandonata sulla sua scrivania da tempi immemori) dentro la sua tracolla, e uscì dalla stanza.
-Gee, aspettami!-
Al parco fu poco il tempo che trascorsero seduti. Gerard fece camminare a lungo il fratello prima di trovare un posto adatto, appartato, silenzioso e con una bella vista. Fecero una piccola sosta sulla riva del laghetto, protetta da una staccionata: alcuni pesci e delle piccole tartarughe marine nuotavano placide, mentre una coppia di cigni si spostava lentamente sul pelo dell’acqua, muovendo ritmicamente le zampe che erano visibili sotto l’incredibilmente limpida superficie del lago. Alla fine si sistemarono a qualche metro da lì, sul prato, e Gerard riprese a disegnare, mentre Mikey sonnecchiava sdraiato a terra.
La sera i due tornarono a casa giusto in tempo per la cena, che consumarono in silenzio. Erano ormai diverse ore che Gerard era perso nel suo mondo, chiuso nel suo palazzo mentale. Mikey lo aveva soprannominato in questo modo; o, per meglio dire, lui lo chiamava “il palazzo dei trip mentali di Gerard Way”, ma il maggiore, con la sua licenza creativa, si era appropriato di e aveva modificato quella definizione.
Gerard pensava alla settimana appena trascorsa. Il giorno dopo era lunedì, una nuova giornata di scuola, e non era tanto angosciato come suo solito. Sotto sotto, doveva ammettere che quel posto, in quella nuova città, non era così male. Gli studenti, almeno fino a quel momento, non si erano granché accorti della sua presenza, ma comunque non gli negavano mai il saluto nei corridoi o all’ingresso in aula. Non aveva ancora avuto occasione di socializzare realmente con qualcuno, anche se era un obiettivo che si era proposto per i giorni a venire, ma nonostante ciò si sentiva ben accetto. Certo, quella scuola non era esente dalle classiche divisioni di caste: alcuni “prescelti” –giocatori di football, cheerleaders e ricconi- non si mischiavano mai con loro, con la plebaglia, e stavano ben distanti, senza dubbio, da tipi come lui. Un paio di loro avevano esplicitamente manifestato il loro disgusto invertendo il senso di marcia non appena avevano incrociato lo sguardo del ragazzo nel cortile, o durante la lezione di educazione fisica. Il lato positivo di ciò era che, molto probabilmente, nessuno avrebbe mai tentato di mettergli le mani addosso dal momento che tutti quei grossi scimmioni decerebrati avevano paura di sporcarsi, o di prendere qualche malattia. Magari, entrando in contatto con lui, sarebbero potuti diventare poveri tutto d’un colpo. Era certo meglio non rischiare.
Ma, nonostante la sua sorprendente positività, non poteva negare di sentirsi dilaniato nel profondo. Ogni momento passato da solo –e, ultimamente, quei momenti costituivano la quasi totalità delle sue giornate- gli ricordava quanto fosse vuota e insensata la sua esistenza. Aveva superato diverse delusioni durante il suo percorso di crescita, ma l’ultima era stata la peggiore. Con il trasferimento a Los Angeles, il suo malumore aveva raggiunto vette mai viste prima. Un fuoco gli bruciava le budella, e l’ansia lo pervadeva ogni volta che pensava a quanto Bert conoscesse a fondo ogni particolare della sua vita. Tra tutte le cose che lo potevano preoccupare riguardo la loro separazione, quella lo faceva assai impensierire. Non credeva ci fosse dell’astio tra loro due, ma non poteva comunque essere certo che l’altro non sarebbe andato a sbandierare i suoi fatti personali ai quattro venti. Conosceva bene la sua passione per i pettegolezzi e la sua tendenza a non saper mantenere segreti, e, a essere sinceri, lo aveva spesso odiato per questo. Ma lo aveva anche amato, molto. Ricordava con un sorriso tutti i momenti trascorsi assieme a Bert, e credeva con tutto se stesso che non avrebbe mai incontrato nessuno come lui. Si era costruito una vita intera grazie a lui, e aveva imparato ad accettarsi per quello che era. Probabilmente non sarebbe mai più stato così felice.
Per quanto tentasse di distogliere la mente, il suo pensiero tornava irrimediabilmente e costantemente a questo, o, almeno, a Bert in generale. Si riprometteva di smetterla, ma, per quanto ci provasse, tornava ogni volta al punto di partenza.

“Hai assolutamente bisogno di un confidente, Gerard”.

Pensò di chiamare Bob, giusto per sapere come stesse. Bob era uno dei suoi migliori amici da una vita: da che ne aveva ricordo, lui c’era sempre stato. Ricordava quando erano appena dei bambini, e nel pomeriggio sua madre, che li aspettava fuori dai cancelli della scuola, portava loro la merenda –pane e marmellata e una mela che puntualmente abbandonavano intatta nello zainetto- e poi a giocare al parco. I genitori dei due erano vecchi amici, per questo si erano ritrovati vicini di casa nel New Jersey. Aveva ben impressa nella mente la sua espressione quando gli annunciò che si sarebbero trasferiti: i suoi occhi di ghiaccio, che difficilmente tradivano emozioni, erano spenti e tristi, e poco dopo sarebbero diventati anche colmi di lacrime mal trattenute.
Gerard lo aveva contattato un paio di volte, e altrettanto aveva fatto Bob. Ma dopo qualche tempo aveva smesso, principalmente per evitare di sentire la sua mancanza, e l’altro aveva ben capito e tristemente accettato quella silenziosa decisione.
Il ragazzo si alzò da tavola e, saliti i gradini della scala a due a due, sgattaiolò in camera sua e si chiuse la porta alle spalle, segno che non voleva essere disturbato. Si sedette alla scrivania, sopra la quale si trovava un telefono fisso, alzò il ricevitore e lo portò all’orecchio. Per qualche secondo rimase così, in questa posizione, senza fare altro. Lo sfiorò l’idea che Bob non avesse minimamente voglia di sentirlo. E in più, si ricordò del fuso orario.

"Bob è insonne, Gerard, e inoltre il New Jersey è appena due ore avanti rispetto a qui. Sarà ben contento di sapere che sei ancora vivo".

Tentò di convincersi con questo pensiero, e compose il numero. Attese qualche secondo prima che una voce acuta e amichevole prese il posto dell’angosciante rumore della chiamata in corso.
-Pronto?- Gerard sorrise inconsciamente.
-Ciao, Mary, sono Gerard- dopo, ci furono attimi di silenzio che fecero credere al ragazzo che fosse caduta la linea, o che la donna non riuscisse a ricordarsi chi fosse.
-C’è nessuno…?-
-Oh, tesoro, scusami, ma è così bello sentirti che mi mancano le parole-, "tipico", -in ogni caso, non ti faccio perdere tempo: immagino tu voglia parlare con Bob-.
-Sì, te ne sarei grato- a volte si stupiva di quanto potesse risultare patetico. Dopo qualche minuto, durante i quali il ragazzo sentì un gran trambusto dall’altro capo del telefono -a migliaia di chilometri da lì- rispose la voce dell’amico, roca e affannata, probabilmente a causa della corsa per prendere la chiamata.
-Gerd, sei un figlio di puttana- onestamente, se lo meritava. Non aveva dato sue notizie per quasi due mesi, e quello era il minimo che si aspettava di ricevere. Conoscendo il carattere scontroso dell’altro, credeva non gli avrebbe neanche risposto; eppure, dal tono che aveva usato, pareva profondamente preoccupato.
-Lo so, Bob, mi dispiace. Chiamavo per sapere come stessi-
-Qui l’unico che ha il diritto di sapere come l’altro sta trascorrendo la propria vita sono io, dal momento che ti credevo morto- dopo la preoccupazione, era nata la rabbia più profonda nel cuore di Bob. Sapeva che tutta quella storia aveva scosso Gerard come mai prima d’allora, e non lo biasimava per essersi allontanato da lui. Tuttavia, non poteva negare di essersi sentito ferito. Erano migliori amici, loro due, ma, nonostante questo, non si era minimamente degnato di dargli delle motivazioni, per quanto evidenti, di quel lungo periodo senza sue notizie. Bob voleva ascoltarle uscire dalla sua bocca, non immaginarle come era sempre accaduto da che si conoscevano.
-Te l’ho detto, mi dispiace. Mi sento in colpa per aver creato questa situazione, ma mi sono sentito costretto-, Gerard prese fiato, e indugiò qualche secondo prima di continuare, -mi mancavi a tal punto che non riuscivo a parlarti. Ma ora è diverso, ho davvero bisogno di te-.
Il ragazzo dall’altro capo della chiamata capì che qualcosa nella testa dell’amico non girava per il verso giusto.
-Ho saputo cos’è successo. Bert si è comportato da vero insensibile- .
Gerard si chiese se Bob parlasse ancora con Bert, anche se gli pareva improbabile. Chiunque facesse un torto a un amico veniva prontamente aggiunto alla lista nera del ragazzo.
–Poteva senza dubbio risparmiarsi ciò che ha fatto- aggiunse.
-Beh, non mi importa… se ha deciso di lasciarmi, sebbene la giustificazione fosse stupida, significa che ha ponderato a lungo la sua decisione- non era molto convinto di quell’affermazione.
-La sua giustificazione era stupida? Gee, tu sei sempre stato il primo a sostenere che il tradimento è imperdonabile… non puoi cambiare idea in questo modo solo perché è capitato a te-
Gerard pensò a uno scherzo, tutto un’enorme scherzo di cattivo gusto progettato ai suoi danni. Non capiva cosa Bob gli stesse dicendo, perché era evidentemente falso, tutto frutto di disinformazione o merito di qualche malalingua.
E allora perché le sue parole erano apparse così sincere?
-Bob, di cosa stai parlando? Bert non ha mai accennato ad alcun tradimento- ora era estremamente serio. Sentiva la cena risalirgli l’esofago, come sempre, e pregò che almeno potesse resistere fino alla fine della chiamata senza vomitare tutto sul pavimento.
-Cazzo, allora è doppiamente bastardo. Non so se tu voglia realmente sapere tutto ma… pare sia stato con una, più di una volta, durante la tua assenza. Ha deciso di lasciarti sia per i sensi di colpa, sia per i dubbi sortigli riguardo i sentimenti che provava nei tuoi confronti- e sapeva, effettivamente, che Bob non gli aveva mai mentito. Certo, Gerard si era sempre immaginato tutta una vita con Bert: finite le superiori, i due avrebbero confessato ai genitori la loro relazione e, quasi totalmente sicuri di una loro reazione negativa, sarebbero scappati, insieme, si sarebbero trovati un lavoro e una casa e avrebbero vissuto il resto della loro vita così, senza troppe pretese. Non aveva mai preso in considerazione la possibilità che tra loro sarebbe potuta finire male. E ora, ripensandoci, si sentiva uno stupido. E odiava a morte il suo ormai ex ragazzo per come lo aveva trattato, per quello che aveva fatto e per come poi aveva tentato di fargli fare la parte dell’idiota. Tutti quei pensieri e i sentimenti contrastanti che gli pesavano sul cuore si riversarono all’esterno attraverso un pianto sommesso, ma che tuttavia tradiva tutto il dolore da lui provato.
-Mh…- singhiozzò. Bob comprese subito il duro colpo che l’amico aveva dovuto subire, e si dispiaceva del fatto che fosse stato lui ad averglielo dovuto infliggere.
-Gee, so che è dura… ma devi andare avanti- sospirò, alla ricerca delle parole più adatte, -e poi, sai che io ci sarò sempre, per qualsiasi cosa. Potranno anche portarti dall’altro capo del mondo, ma io non smetterò di darti il tormento- ridacchiò. Gerard si sentì un poco sollevato dal pensiero di avere comunque qualcuno su cui poter sempre contare. Aveva Bob. E Mikey. Ma con Mikey non poteva parlare di qualsiasi cosa.
-Bob… credi che Bert dirà qualcosa su di me?- domandò preoccupato.
-No, gli starò con il fiato sul collo. Se dovessi venire a sapere che qualcuno ha scoperto chi sei veramente, Bert sarebbe il primo a pagarne le conseguenze. È in mezzo a questa storia come nessun altro, e non credo parlerà- e poi aggiunse, sussurrando:- a meno che non voglia finire in carcere-.

 
 

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Capitolo 3
*** Homesick ***


Homesick




La chiacchierata con Bob della sera precedente aveva lasciato in Gerard una grande malinconia. Avevano parlato a lungo, e, quando era arrivato il momento di salutarsi, Gerard si era sentito come se quella fosse stata la sua ultima occasione di passare del tempo con l’amico. Sinceramente, era stato mosso da uno strano senso di gelosia non appena gli aveva detto di star passando molto tempo con i loro vecchi amici, e con qualche nuova conoscenza. Temeva che, con il passare dei mesi, Bob avrebbe potuto rimpiazzarlo con qualcun altro, magari una persona più simpatica e meno enigmatica e complessata di lui. Qualcuno che non gli creasse mille grattacapi a cui dover pensare. Da una parte gli augurò di trovare qualcuno del genere, e magari di trovarsi anche una ragazza.
Sorrise. Lui e Mikey erano di nuovo lungo la strada che li portava a scuola, e quest’ultimo non poté fare a meno di domandargli il perché di quell’improvviso buonumore.
-Ieri sera ho sentito Bob. Dice che sentono tutti la nostra mancanza, a Belleville- Gerard aveva totalmente stravolto la chiamata del giorno prima al solo scopo di vedere felice il fratello. Mikey era riuscito a inserirsi molto bene nel nuovo ambiente, ma non poteva in alcun modo nascondere a Gerard di avere nostalgia di quel posto che, fino a pochi mesi prima, chiamavano “casa”.
Mikey sorrise a sua volta, e insieme continuarono a parlare fino all’arrivo a scuola. Nel cortile, poi, le loro strade si divisero: dopo essersi salutati velocemente, il più piccolo si diresse verso un gruppo di ragazzi che chiacchierava a lato del portone d’ingresso, mentre Gerard filò dentro l’edificio in direzione del suo armadietto. Il momento in cui lo aprì, fu per lui, psicologicamente, l’attimo in cui la nuova settimana ebbe inizio; infatti, senza rendersene conto, dieci minuti più tardi si trovava fuori dall’aula di inglese, quasi un quarto d’ora in anticipo rispetto al suono della prima campanella.  Sperava di potersi accaparrare un posto decente, arrivando presto.
 
“Prega che i banchi non siano già tutti occupati, Gee, o ti ritroverai in prima fila di fronte all’insegnante come tutta la scorsa settimana”.
 
Preferiva non ricordare le incredibili pessime figure che aveva fatto i giorni precedenti a causa di quel piccolo inconveniente. Appena varcò la soglia, ritrovò la stanza già piena di alunni, che, senza alcun evidente motivo, avevano deciso di rovinargli la giornata occupando ogni sedia esistente nell’aula.
Nervoso, e stringendo saldamente con la mano destra la cinghia della tracolla che aveva appesa su una spalla –ora che ci pensava, quell’accessorio lo rendeva ancor più effeminato di quanto fosse in realtà-, si fece largo tra i ragazzi, finché non trovò, per sua fortuna, un banco libero. O, almeno, sperava che lo fosse.
-Scusa- Gerard fece cenno al ragazzo che, abbandonato con la schiena contro il muro e con le cuffiette nelle orecchie, era seduto al posto immediatamente vicino. Questi lo fissò stralunato, indeciso se valesse la pena o meno di togliersi un auricolare per sapere cosa  avesse da dirgli lo strano individuo di fronte a lui. Alla fine si decise, improvvisamente incuriosito dalla spilla dei Misfits che, facendo vagare lo sguardo sulla sua figura, trovò attaccata all’esterno della sua tracolla.
-Questo posto è occupato?- domandò infine il ragazzo.
-Oh, no- rispose l’altro. Gerard allora, soddisfatto, ripose le sue cose sul tavolo, per poi sedersi con un sorrisetto trionfante. Finalmente aveva la possibilità di osservare ogni angolo della classe, in quel posto d’onore ai margini della stanza, e non avere più la sola esclusiva visuale della cattedra del professore. Finalmente poteva passare inosservato agli occhi di tutti.
Passarono alcuni minuti nei quali i due ragazzi, che si erano trovati casualmente vicini di banco, si scrutarono sottecchi a vicenda: entrambi si domandavano se fosse necessaria una presentazione di qualche tipo, in una situazione del genere. Alla fine lo sconosciuto fece il primo passo.
-Io mi chiamo Frank- esordì quello, passandosi una mano tra i capelli. In quel momento Gerard si rese conto che quel ragazzo aveva una capigliatura decisamente strana, rasata sui lati della testa e nel mezzo lasciata libera di crescere: probabilmente era quello l’aspetto che doveva avere una cresta senza gel e lacca.
-Uhm, io sono Gerard-  Lui si era sempre un po’ vergognato del suo nome: solo pronunciandolo, si sentiva invecchiato di almeno vent’anni. Preferiva certamente i soprannomi che gli amici gli avevano affibbiato, come “Gee” o “Gerd”, rispetto a quello scellerato mucchio di consonanti adatto più che altro a un nonno. E mentre pensava a tutto ciò, Frank ridacchiò, facendolo innervosire e arrossire: subito infatti sbuffò, già pronto ad alzarsi e cambiare posto. Ma l’altro lo trattenne, afferrandolo per un braccio.
-Ehi, va tutto bene, scusami. Mi piace il tuo nome- Gerard, convinto che scherzasse, iniziò a ridere nervosamente, e si scrollò di dosso la mano stretta attorno al suo polso –rabbrividì all’idea che fino a un  istante prima qualcuno lo stesse trattenendo in quel modo, addirittura entrando in contatto fisico con lui. Il pensiero di essere toccato o sfiorato da qualcuno che non conoscesse lo aveva sempre messo sotto pressione, e, inconsciamente, ciò andò ad aumentare l’odio che iniziava a provare per quella sua nuova conoscenza. Fece per andarsene, credendo che almeno si sarebbe risparmiato ulteriori prese in giro.
-Ma dove scappi? Ero sincero- il ragazzo allora riportò lo sguardo su Frank, che ora appariva offeso e, con grandi probabilità, meno propenso al dialogo con lui. Fsi era giocato la sua prima occasione di fare amicizia con qualcuno; con qualcuno di strano, certo –almeno a giudicare dal suo aspetto-, ma dopotutto non poteva negare di essere lui stesso strano. Accennò uno sguardo dispiaciuto in direzione dell’altro, in segno di scuse, ma l’altro continuò a scrutarlo, abbastanza diffidente e infastidito. Prima che uno dei due potesse aggiungere qualcosa, suonò la campanella, e, puntualissimo, il professore varcò la soglia. Gli alunni, sparsi casualmente per ogni angolo dell’aula, nel giro di qualche secondo presero posto dietro a banchi.
Gerard tentò con ogni molecola del suo corpo di prestare attenzione e prendere appunti durante la lezione di letteratura, ma la parte del ragazzo coscienzioso e diligente non gli si addiceva: pertanto, dopo appena mezz’ora dall’inizio –e pensare che doveva sopportare la finta affabile parlantina del professore per un’altra ora e mezza-, prese a scarabocchiare qualche disegno lungo il bordo del quaderno, estraniandosi totalmente dal resto della classe. Ma sentiva pesante e fastidioso lo sguardo di Frank addosso, proprio mentre stava ripassando i contorni di una mummia dall’aria minacciosa. Gli lanciò una veloce occhiata, e in quel momento l’altro ragazzo prese fiato, cosciente di essere stato colto in flagrante, e gli sussurrò: -Sei bravo a disegnare-.
Gerard si gonfiò, fiero e consapevole di esserlo. Sorrise mentre riprendeva il suo personale lavoro, ma l’altro non pareva propenso a concludere lì la conversazione. Così Frank cominciò con cautela a porgli qualche domanda, senza freno e con forte curiosità.
-Ascolti i Misfits?-
-Certo. Perché?- Gerard non staccò neanche per un secondo gli occhi dal quaderno, sia perché era intento a disegnare, sia perché preferiva non farsi scoprire dal professore a non seguire la sua lezione.
-Mh, niente. È una tra le mie band preferite- rispose quello, contento.
-Oh, bene- quella conversazione era senza senso e inconcludente, ma, nonostante l’imbarazzo, i due si sentivano come se la situazione si stesse sciogliendo dalla tensione poco a poco. Ciò che sorprendeva era il repentino cambiamento di atmosfera che correva tra loro.
-Non ti avevo mai visto a scuola prima d’ora- Gerard scrutò l’altro da sotto le ciocche dei suoi capelli corvini che ora, chino sul banco, gli cadevano sul viso. Abbozzò un sorriso storto.
-Sì, uhm, mi sono trasferito da poco…- Frank percepì una nota di tristezza nella voce e negli occhi dell’altro. Preferì non domandare oltre.
 
Qualche ora dopo, Mikey Way si sorprese nel vedere il fratello, in atteggiamento di finta rilassatezza –che in realtà nascondeva tutto il suo disagio interiore-, intento a parlare con un gruppo di ragazzi. Si avvicinò cautamente, salutò l’altro e stette al suo fianco in attesa che concludesse quel suo nuovo bel quadretto.
A quanto sembrava, dei tre ragazzi presenti, almeno due aveva appena avuto il piacere di conoscerli: uno era un tipo abbastanza alto e con dei capelli assurdamente voluminosi e ricci, l’altro un ragazzotto un po’ in carne e con un accenno di barba in viso.
-Io comunque avrei fame- concluse l’afro, e, per sottolineare ciò che aveva appena detto, si passò entrambe le mani sul ventre asciutto.
-Sì, uhm, venite con noi…?- Frank si lisciò la nuca, un po’ in imbarazzo. Non voleva che Gerard e il ragazzo apparso si sentissero esclusi, e quindi si trovò costretto a invitarli a pranzo. Di tutta risposta, Mikey allungò la mano verso di lui, per presentarsi.
-Beh, piacere, Mikey-, prese fiato, -sono il fratello di Gerard-.
Frank allora sgranò gli occhi, e accennò un leggero sorriso. Quei due si somigliavano così poco che non avrebbe mai immaginato fossero imparentati. Il più piccolo si presentò anche agli altri due ragazzi, Ray e Matt.
In mensa, Gerard si estraniò dalle chiacchiere degli altri. Sbocconcellava quello che aveva nel piatto e giocherellava con la forchetta. Non riusciva a rendersi partecipe, e non perché non gli interessassero i discorsi che venivano fatti al tavolo, o perché si sentisse triste: semplicemente aveva poca voglia di parlare. La sua mente tornò per circa la centesima volta alla sera prima, e a Bob. Ricordava gli anni passati, a scuola, durante la pausa pranzo, quando non si sentiva costantemente sorvegliato dal fratello; proprio in quel momento, gli picchiettò con il gomito sul fianco, per spronarlo a mangiare. Mikey era molto premuroso, ma anche troppo apprensivo nei suoi confronti.
Frank, seduto di fronte a lui, si sporse in avanti, e gli sussurrò: -So che qui non servono il cibo migliore del mondo, ma purtroppo è l’unica cosa che puoi mettere sotto i denti. Ti ci abituerai con il tempo-.
Gerard aggrottò la fronte e pensò che non si sarebbe mai abituato a tutto quello.
 
Contro ogni aspettativa, le settimane trascorrevano senza intoppi. Mikey iniziò a passare molto più tempo con i suoi nuovi amici, a scuola e fuori, mentre Gerard approfondiva con lentezza l’amicizia con Frank; non era molto, ma era contento di poter contare su qualcuno quando ne aveva bisogno, come quando era stato preso di mira per i corridoi da un paio di studenti: Frank era corso in suo aiuto, e Gerard scoprì che era una piccola testa calda, da cui più o meno chiunque cercava di tenersi alla larga. Essere suo amico gli aveva fatto acquisire uno strano rispetto, ma la cosa positiva era che nessuno aveva più tentato di infastidirlo.
Quando era a casa, Gerard studiava e disegnava, e cominciava a sentire la mancanza di Mikey, ora che  trascorreva molti pomeriggi fuori dalle mura domestiche. Cercava però di non farglielo notare, perché era contento di vederlo a suo agio nella nuova città. Ogni tanto parlava con Bob, e gli raccontava della scuola e delle persone del posto: in California era tutto così diverso. Anche il clima era tutto nuovo per lui: a ottobre era ancora costretto a vestirsi con pantaloni corti e t-shirt. Quando voleva uscire per una passeggiata, doveva aspettare le ore meno calde, se non voleva ritrovarsi con ustioni sparse per tutto il viso e sul corpo, come era già successo qualche settimana prima –“i drammi dei nuovi arrivati”, ridacchiò Ray il giorno seguente, quando lo incontrò per i corridoi a scuola. Nota positiva, il loro quartiere distava pochi chilometri dal mare, e di tanto in tanto prendeva il pullman e andava a nuotare (aveva la patente, ma odiava guidare, e per di più non aveva modo di usare l’automobile quando suo padre lavorava).
Un pomeriggio, mentre tornava a riva dopo più di mezzora passata in acqua a rilassarsi, vide Frank raggiungere la spiaggia con uno zaino in spalla e un telo sotto braccio. Nel panico, si gettò sott’acqua, e cercò di nuotare lontano. Non era la prima volta che lo incontrava in giro per la città, ma il suo animo timido e poco socievole lo spingeva a evitarlo il più possibile. Quante probabilità avevano di trovarsi sulla stessa spiaggia, alla stessa ora, lo stesso giorno? Quando non riuscì più a trattenere il respiro, tornò in superficie in grande affanno. Frank era ancora lì, aveva steso il telo sulla sabbia e ci si era seduto sopra; osservava il mare con un’espressione dura in viso. Con uno scatto, posò lo sguardo su Gerard, unica persona presente oltre a lui stesso, e quest’ultimo si accorse di non aver fatto molta strada nuotando in modo forsennato. Frank si stupì di vederlo, e si incupì lievemente, mentre lo salutava con una mano: voleva passare del tempo in solitudine, niente di più. Gerard non ebbe più scuse: uscì dall’acqua e si diresse nel punto dove aveva abbandonato la sua roba, raccolse un asciugamano e si avvicinò all’altro ragazzo.
-Che ci fai qui?- Frank lo guardava serio; aggrottò un po’ la fronte e socchiuse gli occhi, per ripararsi dal sole. Gerard percepì del fastidio nelle sue parole, e arrossì.
-Niente, mi piace venire qui ogni tanto…- fece vagare un po’ lo sguardo, indeciso se correre via il più lontano possibile o comportarsi da persona normale. Notò che Frank aveva qualche tatuaggio qua e là sul corpo, e poté anche osservare meglio quelli sulle braccia. Senza che se ne accorgesse, si perse nel tentativo di comprendere quale soggetto avesse rappresentato sul basso ventre, il quale era parzialmente coperto dal costume.
-Uhm, Gerard, tutto bene?- Gerard distolse velocemente lo sguardo, conscio del fatto che si era comportato in maniera molto poco opportuna; ma, soprattutto, in maniera molto fraintendibile.
Si portò una mano al viso, per nascondere il mix di emozioni che lo stavano travolgendo: -Mi dispiace, scusami! Stavo solo… guardando i tuoi tatuaggi-, e, detto questo, corse a raccogliere le sue cose, salutò Frank e scappò via, non sapendo più che altro dire. Solo quando fu a una certa distanza dalla spiaggia, si fermò per indossare la maglietta, e si incamminò verso la fermata del bus. Il costume gocciolava ancora, e sbuffò. C’era qualcosa in Frank che spesso lo agitava, qualcosa che non sapeva spiegarsi, ma che lo scuoteva fino nelle viscere. Sentì lo stomaco gorgogliare, e gli venne da piangere. Era scosso per qualche strana ragione, e non solo per lo spiacevole equivoco di poco prima. Con un amaro sorriso sulle labbra, si chiese con quale coraggio avrebbe rivolto la parola a Frank il giorno dopo, a scuola.

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