Quare iam te cur amplius excrucies? di Cress Morlet (/viewuser.php?uid=918469)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Da mi basia mille ***
Capitolo 2: *** Odi et amo ***
Capitolo 1 *** Da mi basia mille ***
Quare iam te cur amplius excrucies?
Davvero sto pubblicando questa
storia? Davvero? Sono così emozionata. Spero tantissimo che
possiate amarla.
Il palato è un infido bastardo, un emerito traditore. Il
palato, la lingua, i denti, la gola: dannati mostri, dannati
pugnalatori alle
spalle. Si ribellavano e lo torturavano intimamente, così
come i mormorii strascicati degli ubriachi fradici nelle bettole e nelle taverne, così come i
mugolii delle donne senza nome. Ogni cosa lo infastidiva, in quel mondo
costruito dalle mani sporche di sangue degli assassini falsi e cortesi, e le
verità crude degli uomini tormentati non facevano eccezione.
In fondo avrebbe
dovuto saperlo - e lo
sapeva, lo sapeva e non si era fermato, lui, folle,
folle! - che una volta assaggiato il vino più
pregiato dei Sette Regni la sua
bocca avrebbe detestato qualsiasi altra bevanda. Il suo istinto primordiale e il suo spirito di sopravvivenza avevano cercato di avvertirlo, di farglielo
comprendere, di fargli scorgere il destino inesorabile in cui ci
sarebbe stato
un prima e ci sarebbe stato naturalmente
un dopo.
Perché qualsiasi altro sapore
non sarebbe
mai stato il sapore di lei.
E nulla più sarebbe stato uguale, nulla
avrebbe più avuto un senso. Lo aveva realmente compreso soltanto dopo averla
baciata: era diventato impossibile anche soltanto guardare un’altra
donna.
L’aveva baciata una sola volta ed era stato come assaporare
la bocca di un
fottuto dono divino caduto giù dal cielo, baciare una
promessa di grazia e di
dannazione eterna. Una bocca inesperta, dolce,
innocente.
Sua, tutta sua.
La
ragazza, quello stecchetto con due gambe magroline e senza neanche una
forma di
donna, la bambolina dai rossi capelli, l’ammaestrato
uccellino di Approdo del
Re che pigola e cinguetta all’ombra della testa mozzata di
suo padre: lei,
stupida e viziata figlia della lunga Estate, si era lasciata baciare da
lui e
non lo aveva fermato, non lo aveva spintonato via. Folle lui e
folle lei. O
forse solo lui, o forse solo lei.
Chi era impazzito per primo, chi lo aveva
fatto? Chi era stato? Non ricordava il fottuto modo in cui si erano
svolte
quelle dannate vicende che lo avevano piegato in due, disintegrato.
Ammazzato
non una volta ma cento, mille, mille
e ancora mille.
Chi era impazzito per
primo? Chi? L’uccellino si era presentato da lui. Era comparso all’improvviso
in un corridoio del cortile dell’ala ovest - come un’apparizione
evanescente,
come il proprio peggior incubo - e aveva ripreso a
cinguettare le stesse
nauseanti e tormentanti frasi che astutamente rifilava a tutti i suoi
lord, a
tutti i suoi ser. Aveva cinguettato i suoi ringraziamenti, le belle parole che
usava strappare ai versi delle sue adorate ballate romantiche, che
soleva
rubare alle favole narrate con placido fervore dalle interminabili file
delle
sue septe vecchie e decrepite.
Aveva cinguettato e aveva cinguettato e aveva
cinguettato.
Non aveva ascoltato nessuna delle sue noiose frasi e neppure le
aveva prestato la minima attenzione, niente di niente.
Le divinità allora dovevano
aver deciso di punirlo e di deriderlo. Si erano prese la loro rivincita
su
tutte le sue bestemmie e su tutte le vite che lui aveva strappato con
gioia. La
luce del Sole aveva iniziato ad infiammare le lunghe trecce della
ragazzina,
trecce annodate in un groviglio cespuglioso, modellate in cerchi di
raggi
sanguigni che rendevano ridicola la sua acconciatura.
Un’acconciatura stupida
che lei si ostinava -
con il broncio, con le occhiatacce - a far intrecciare
alle sue mute serve dagli sguardi sempre bassi. Lui si era perso.
Il rosso era
diventato fuoco, si era trasformato in rame, si era sciolto in
vino. Una corona
di spine e di foglie autunnali. La bocca sottile di Sansa si era stesa
in un
breve e falso sorriso -
eppure cosa esisteva di realmente falso in lei? - e i
suoi occhi azzurri sfuggenti gli avevano ricordato la
realtà.
Ti vuole soltanto
usare. Tutti usano tutti.
Improvvisamente si era reso conto dell’entità dei
suoi sciocchi pensieri, si era destato dal torpore in cui il suo dolce
profumo
lo aveva indotto e aveva compreso di starsi comportando alla stregua di
un
bambino poco sveglio, di un adolescente inesperto - guardava i suoi capelli,
guardava le sue efelidi, e non si concentrava su quelle piccole tette sode e
sul suo ventre piatto e stretto - e allora aveva pensato
di dover rimediare, di
dover dimostrare a se stesso di essere un uomo.
Non l’uomo stolto che osservava
di nascosto le lacrime impigliate tra le ciglia di una bimba che
dormiva ancora
con le bambole, strette nel suo piccolo abbraccio, ma l’uomo
vero che scopava
le donne nei bordelli e che si liberava di tutti i suoi desideri
più
pruriginosi.
Non l’uomo che tremava di fronte allo sguardo di una bambina,
ma
l’uomo che le donne le fotteva veloce e impaziente, senza
neppure guardarle in
faccia, appagando i suoi bisogni e le sue morbose
necessità.
Questi pensieri
avevano annebbiato la sua mente fracida di immagini volgari, avevano
reso il
suo corpo ubriaco e smanioso.
Allora si era proteso verso di lei, quasi
barcollando, e aveva divorato la sua faccia. Bocca contro bocca, aveva
mangiato
le sue bugie e il suo respiro.
Aveva un sapore buono la ragazzina,
qualcosa di dolce, di estremamente puro. Neve e miele insieme, che assurda
follia dei sensi.
Lei aveva serrato le labbra e le palpebre, ma non aveva fatto
niente altro. Non si era scostata dal suo tocco, dalle sue mani ruvide
che
avevano iniziato a scombinarle i capelli e a stringerle la gola
sottile.
Avevano mantenuto entrambi gli occhi chiusi e lui aveva pensato che lei
era
bella anche al buio delle lumiere spente e consumate, anche al nero
delle
ciglia abbassate, sotto il Sole o sotto la Luna.
L’aveva baciata con un bisogno
disturbante e la bocca di Sansa si era mossa sulla sua senza
schiudersi, senza
concedergli nulla di più. In quel momento un vento freddo si
era insinuato
lungo tutta la sua schiena, fino ad accarezzargli anche le vesciche
della
guancia deturpata.
Troppo tardi aveva compreso che non era stato un vento
freddo a placare i suoi bruciori.
Sansa, mia Sansa, il mio
uccelletto delle
Isole dell’Estate, il mio uccelletto spaventato.
Lei aveva accarezzato il suo
volto sfregiato e lo aveva baciato come una bambina che neppure riesce
a
immaginare che esista qualcos’altro dopo un bacio a fior di
labbra. Forse in
quel momento doveva aver detto il suo nome: Sansa, bambina mia, Sansa.
Che
ingenua e stupida, stupida!,
piccola donna.
Avrebbe potuto rivoltarla come un
logoro calzino, sollevare la sua gonna e possederla in un qualsiasi
angolo buio
del castello, stenderla sul pavimento e forzarla ad aprire le gambe per
lui.
Per lui, soltanto per lui. Prima
le ginocchia, poi le cosce, fino a divorarla
con mani e lingua, fino a fottersela tutta.
Quella creaturina che nemmeno conosceva i pensieri che animavano la mente degli uomini intorno a
lei, la
mente di tutti gli uomini animali esattamente come lui. Avrebbe potuto
farle di
tutto, qualsiasi cosa inimmaginabile e impronunciabile, e continuare a
divorarla per delle ore intere, -
anni e secoli, millenni e altri millenni -,
fino a soddisfare ogni sua necessità repressa e anche di
più.
Gustarla,
mangiarla, marchiarla in ogni punto possibile. Avrebbe potuto farle di tutto.
Ma Sansa aveva posato una mano sul suo cuore e altra neve era caduta
nel suo
petto, placando ogni suo dolore, ogni sua smania.
Stupida bambina mia,
stupida.
Sei buona. Sei pateticamente pura. Non riuscirai mai a sopravvivere in
questo
mondo, diventerai cibo donato ai cani e ai vermi. Altra carne morta
lasciata a
penzolare sulle picche di questo castello marcio e corrotto fin dalle
viscide
fondamenta. Un’altra testa staccata dal proprio corpo e
trasformata in un
trofeo da mostrare ai nemici.
Le immagini di queste sue elucubrazioni lo
avevano talmente tanto spaventato
- era timore? il bruciore alle pupille e alle
costole era timore di vederla morta o desiderio di uccidere o ancora
febbre di
possederla? - da spingerlo ad allontanarla dalle sue
braccia, dal suo ventre
proteso verso di lei.
Aveva soltanto intravisto labbra bagnate dalla saliva e
guance rosse, poi aveva iniziato a urlarle di andarsene.
‘Vattene via.
Vattene
via subito altrimenti te ne pentirai. Io te ne farò pentire,
te lo giuro. Ti
farò pentire di qualsiasi cosa tu abbia mai fatto o pensato
se non te ne andrai
adesso, subito, vattene. Vattene!’
Doveva averla insultata, oppure aveva
maledetto se stesso. Il resto non lo ricordava più ormai, era fuggito via dalla
sua testa e dai suoi occhi ad ogni nuova sorsata di vino. Scomparso ad ogni
fondo rosso di un vuoto boccale che aveva ingurgitato nel tentativo di
dimenticare i cerchi delle sue maledette trecce. Una nuova coppa di vino ad
ogni giro di ciocca rossa e poi una risata isterica ogni istante in cui
scorgeva gli occhi azzurri di quella dannata ragazzina in quelli
castani delle
prostitute che si sedevano accanto a lui.
“Sei strano, Mastino. Che ti succede
questa notte?”
Un pugno contro il tavolo ad ogni goccio di sapore annacquato,
ad ogni bicchiere di tutte quelle schifose bevande pagate con poche
monete di
bronzo.
Un sapore mediocre che gli faceva rimpiangere sapori migliori - il
sapore di lei.
“Innamorato? Tu?”
E un tonfo al cuore al passare di ogni
secondo, allo scoccare delle ore, al lento formarsi di una nebulosa
parete di
caos dentro di lui.
Miele, neve, dolce sale
di lacrime mai versate. Cosa gli
stava succedendo? Cosa stava accadendo nella sua testa, nel suo sterno,
tra le
sue gambe?
“Conosco una cura adatta a te. Adatta a qualsiasi
uomo.”
Lo toccò,
continuò a toccarlo, ma il suo corpo lo tradì
fino a costringerlo ad
allontanare con un grugnito quelle mani che già gli avevano
slacciato i
pantaloni, calato giù le brache. Non vedeva nulla, sentiva
tutto in maniera
ovattata. Dita che indugiavano sulle sue gambe, capelli neri pieni di
brillanti, un odore forte di aria consumata. Delle labbra che gli chiedevano di
lasciarle riprovare, di lasciare che lo toccassero.
“Non pensare a niente, farò
tutto io.”
La scostò, con più forza e
brutalità.
“Dov’è lei?”
Dov’è
Sansa?
Lui
l’aveva cacciata e lei se ne era andata,
era volata via.
Dov’è
Sansa? È lontana la ragazzina. Forse
è
irraggiungibile.
“Dov’è lei? Dimmelo. Dimmi
dov’è!”
Tentò di rivestirsi e un
conato di vomito lo costrinse a inginocchiarsi a terra, a gettare il
capo
contro il pavimento.
Sansa, bambina mia,
Sansa. Sansa, dove sei? Non sei
scappata, non hai pianto, non hai neanche abbassato la testa. Nulla,
nulla di
nulla. Mi hai soltanto guardato un secondo e poi te ne sei
andata. Te ne sei andata,
Sansa, te ne sei andata e adesso io ti rivoglio, io ti ho sempre
voluto, io non
respiro, torna da me.
Torna, stupida
ragazzina, torna subito qui. Un momento,
ho bisogno di toccarti, di baciarti, di averti, un altro momento
ancora. La mia
bambina, la mia mia mia bambina. Mia, mia, mia, sei sempre
stata mia. Smettila
di non guardarmi, io ho bisogno di stringerti e di
proteggerti.
Ti proteggerò
da chiunque, anche da me stesso se hai così tanta paura.
Anche io ne ho tanta.
“L’uccellino. Devo trovare, devo
trovare...”
Il mondo diventò oscuro e tinto di
rosso. C’erano risate intorno al suo corpo e qualcuno che
sghignazzava il suo
nome, alcuni che uggiolavano spaventosi lamenti e tantissimi altri che
continuavano a godere delle loro puttane e che non si interessavano di
niente
altro.
“Devo trovare...”
Lui l’aveva cercata. Non aveva saputo resisterle, non
aveva dormito neppure un minuto. Un’intera notte passata a
guardare il soffitto
e a pensare a lei, fino a soddisfare da solo il suo piacere, fino a
godere sibilando
ancora il suo nome. Di prima mattina si era recato nella sua stanza,
ubriaco di
strani sentimenti, e aveva trovato la porta aperta. Non sarebbe mai, - mai,
perché lo aveva fatto, perché? -
dovuto entrare in quella camera.
“Che cosa ho
fatto?”
Lei era in piedi e singhiozzava. Si era sentito morire e aveva compiuto
qualche passo incerto. I suoi occhi si erano mossi frenetici e avevano
intravisto le lenzuola sporche di sangue, l’abito macchiato
sulle cosce, le
mani che impugnavano un coltello. Non appena Sansa l’aveva
visto - che occhi
lucidi, che lacrime enormi su quel viso tanto piccolo -
aveva lasciato cadere
l’arma e aveva portato le dita rosse sulla labbra, come a
chiedergli di tacere.
L’odore di ferro non lo aveva mai disgustato, mai lo aveva
scosso, non fino a
quel momento. Le gambe della bambina avevano continuato a gocciolare e
a
formare macchie su macchie scivolose sul pavimento. Mai aveva odiato il
sangue
con una tale disperazione, mai aveva tentennato dinanzi ai suoi doveri,
mai
aveva pensato di sputare acido sulla sua più antica
lealtà.
Lei lo aveva
supplicato di aiutarla.
“Avrei dovuto... avrei dovuto...”
E lui l’aveva
tradita.
Vomitò fin quasi a svenire, fin quasi a soffocare nel suo
stesso
vomito. Le lacrime si mischiarono alle cicatrici del suo viso e le sue
braccia
all’improvviso cedettero. Avvertì delle mani sul
suo collo e delle labbra
vicino al suo orecchio. Sbatté di nuovo la testa contro il
pavimento e delle
voci roche pronunciarono altre volte il suo nome. Tentò di
sollevarsi carponi,
ma vomitò ancora, e poi ancora e un’altra volta
ancora. Lui non riusciva più a
smettere. Cercò di afferrare una veste, ma il mondo riprese
vorticosamente a
girare e lui si perse in immagini senza un senso. Prima di chiudere gli occhi
vide soltanto degli uccelletti rossi con il collo rotto e le ali
strappate.
Angolo
autrice.
Ciao! Questa è una mini-long di soli
due capitoli. Tranquilli il secondo capitolo è
già pronto. Quando preferite che io lo pubblichi? Doveva
essere una OneShot originariamente, poi oggi ho scoperto di aver
scritto più di seimila parole in questi tre mesi di lunga
gestazione e quindi... ho diviso. Grazie Harriet, per avermelo fatto
notare :)
Ma alla fine arriveranno i veri ringraziamenti. Intanto spero che possa
esservi piaciuto questo primo capitolo. Abbiate pietà,
è la mia prima SanSan! Giuro di amarli più di me
stessa e spero di aver reso loro onore. Grazie mille, per qualsiasi
dubbio o chiarimento sono qui :) Spero (anche) di conoscere la vostra
opinione in merito.
A presto!
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Capitolo 2 *** Odi et amo ***
Quare 2
A Sandor e
Sansa. Vi ringrazio.
Il cielo era verde, il cielo era nero. Lampi di
fuoco vivo
bruciavano le stelle, nuvole grigie bucavano il mare in tempesta. La
battaglia
infuriava, gli uomini gridavano e le voci si confondevano in urla senza
pace.
Intere strade sporche di sangue, immense pareti luride, mura distrutte
al
passaggio di spade, frecce e olio bollente. Le fiamme avevano
risvegliato i
suoi incubi, l’odore di carne morta aveva avuto il potere di
disgustarlo e di
fargli compiere delle decisioni inaspettate. Aveva sputato
saliva e parole
rabbiose, sporcandosi il mento, e aveva disertato.
Ogni cosa aveva smesso di
avere importanza, ogni cosa si era dissolta nella nebbia e si era
consumata su
stessa non appena la prima scintilla verde era stata scoccata in alto,
verso le
navi nemiche. Il terrore gli aveva consigliato di fuggire presto, di
farlo
subito, senza voltarsi indietro e senza rimpianti.
Non temeva nessun uomo, non
temeva nessun ferro e nessun assalto. Non esisteva alcun potere al
mondo in
grado di farlo indietreggiare, di farlo balbettare. Soltanto il fuoco
aveva la
destrezza di trasformarlo in un bambino di sette anni, un poppante
spaventato
dalle mani violente e dalle intenzioni crudeli del fratello maggiore.
Gli aveva
infilato la testa su dei ceppi accessi e Sandor era stato costretto ad
ascoltare la sua risata sguaiata, le sue parole pungenti, il suo tono
divertito. Era stato
spensierato suo fratello.
Gli aveva distrutto l’esistenza
con un’abominevole leggerezza, senza mai incontrare nessuno
tanto coraggioso da
punire il suo gesto, nessuno tanto magnanimo da vendicare la vita di un
bambino
che si era spaccata in due parti. E la sua faccia non aveva potuto far
altro
che sciogliersi tra le fiamme, sul legno, tra le unghie sporche di
terra di
Gregor.
Perché essere un tale folle masochista? Perché
combattere in una città
che brucia?
Che il Re muoia, che la capitale sia presa, saccheggiata,
conquistata. Sgorgasse sangue dalla gola aperta e sfracellata di ogni
nobile,
di qualsiasi cavaliere.
Doveva scappare, abbandonare la città e non farci mai
più ritorno, doveva correre, correre e correre il
più veloce possibile.
Invece
dove si trovava il coglione? Era seduto scompostamente su una sedia,
con le gambe
rigide e la schiena stanca.
E perché mai era lì? Utilizzava la spada alla
stregua di un bastone, brancolando alla ricerca di un sostegno che
nella sua
mente contorta e febbricitante non esisteva più. Gli
spifferi d’aria gli
grattavano le ossa, l’umidità gli bagnava i
muscoli tesi.
Era in una trappola.
Chiuso nella camera da letto della ragazzina, in una delle stanze
più buie
dell’immenso palazzo di Approdo del Re. Talmente tanto buia
da apparire come un
nido caduto da un vecchio albero, scomposto e sfilacciato dagli zoccoli
degli
animali. Le sue bambole riposavano adagiate su dei cuscini bianchi e lo
guardavano di sbieco. Una aveva la pelle di porcellana, gli occhi vuoti
e i
capelli biondi simili a della paglia mangiucchiata. Gli puntava il dito
contro
e minacciava di punirlo, senza bocca o labbra disegnate.
Sandor mugugnò dinanzi
a quel giocattolo inquietante e si voltò verso una delle
finestrelle della
stanza, la cui luce rischiarava le mattonelle del pavimento. Avidamente
tracannò del vino da una fiala di metallo e poi
sospirò con rassegnazione.
Perché, perché era lì? Dannato il
cielo, perché?
Avrebbe già dovuto essere
fuori dalle porte di Approdo del Re, avrebbe già dovuto
percorrere mille miglia
lontano da quel fuoco maledetto e respirare aria pulita. Invece no, invece era
lì.
Attendeva il ritorno del suo uccellino rosso, del suo uccellino
sgangherato.
In che cosa si era ridotto, a che cosa assomigliava adesso? Non ad un
uomo, non
ad un cavaliere buono e giusto. Forse ad un cane sciolto che annusava
la terra
alla ricerca di un nuovo padrone, forse ad un cane rabbioso che voleva
vendicarsi dei torti subiti.
Uccidere chiunque aveva osato avvicinarsi a lei -
tutti quelli che
l’avevano toccata, tutti quelli che avevano tentato di
piegarla e sopraffarla.
Sandor ricordava, non aveva dimenticato nulla di quanto
accaduto in quei mesi di agonia. Sansa che cade a terra, picchiata, umiliata,
derisa. Nelle sue orecchie sente ancora lo strappo del suo
vestito, il modo
feroce in cui le hanno scoperto la pelle della schiena. Il pianto
disperato del
suo uccellino catturato dalle braccia forti di tre uomini che volevano
violentarla, il modo barbaro in cui le avevano aperto le gambe e
sollevato la
gonna. Troppe immagini gli sconvolsero la mente, si susseguirono rapide
nella
sua testa e gli fecero pesare le palpebre e il centro del
petto.
Dov’è
l’uccellino?
Dov’è? Maledizione, dove cazzo si era nascosta?
Ma che fottuta
vita patetica era la sua e che fottuto destino ignobile gli era toccato
in
sorte. Risvegliare i suoi sentimenti, le sue emozioni: che tale
meschinità, che
tale abominio. Fanculo gli dei, fanculo la sua stramaledetta esistenza.
Fanculo
qualsiasi cosa, anche la più sacra. Non aveva mai avuto
rispetto di niente e di
nessuno, di certo non avrebbe iniziato a
sbagliare in quel momento. Farsi guidare
dalla vendetta, seguire l’odore del sangue, deliziarsi
uccidendo qualsiasi
essere vivente. Ecco come aveva condotto i suoi giorni, ecco come aveva
goduto,
ecco come aveva conquistato le migliori soddisfazioni della sua
vita.
Perché
nessun orgasmo aveva mai potuto battere un omicidio.
Nulla si era mai rivelato
più eccitante di combattere e di vincere, niente. Trucidare
con tutte le
proprie forze, anche con macchie di sangue all’interno degli
occhi o con grumi
a ragnatela tra le ciglia. Sandor strizzò le
palpebre e allontanò il vino dalla
sua bocca.
Non sapeva da quanto tempo era seduto su quella sedia. Non sapeva da
quanto tempo attendeva invano il rumore dei suoi passi, il suono dei
suoi
respiri. Bestemmiò a bassa voce e si domandò
quanto potesse sembrare patetico
agognare i suoi sguardi, i suoi sorrisi. Nella sua pancia qualcosa
tremò non
appena tali pensieri lo tradirono. Perché, lei aveva mai sorriso?
E aveva mai
sorriso a lui?
La bocca dello stomaco bruciò e i ricordi gli mangiarono i
polmoni in un sol boccone. Forse sì, forse era
accaduto la prima volta in cui si
erano incontrati. Aveva tentato di farla ridere e Sansa aveva deciso di
ripagarlo con un misero broncio.
Sì? No? Sì
o no? Aveva
desiderato osservare da
vicino - e toccare e
sfigurare con le proprie labbra - il sorriso sincero che
la ragazza rossa riservava soltanto alla sua amorevole
famiglia.
Costantemente
circondata da tutti i suoi fratelli, con un’anziana septa
sempre al seguito e
un metalupo talmente tanto obbediente da rivestire i panni di un cane
da
focolare. Aveva realizzato di voler parlare con lei, con la bimba
incapace di
notare le impronte di sangue impresse sul terreno ad ogni suo passo.
Aveva
sfiorato la sua spalla e aveva compiuto un errore fatale.
Perché non aveva
compreso subito quanto pericolosa e letale sarebbe diventata una tale
mocciosa?
Una bambina che passeggiava con i lupi e che li addomesticava cantando
ballate
era il chiaro simbolo di un terribile flagello, di un vero castigo
divino in
grado di distruggere l’anima di qualsiasi uomo. Invece che cosa aveva fatto?
Invece di scappare via, il più lontano possibile, che cosa aveva fatto?
Era
stato talmente tanto coglione da immolarsi, da distruggersi con le
proprie mani
sudice. E perché si era sacrificato, perché lo aveva fatto?
In
nome di che cosa? Di un
fottuto sorriso.
Un fottuto sorriso tirato, uno
schifosissimo sorriso imbronciato. Un maledetto sorriso che gli aveva
spaccato
la vita in tre maledette parti.
Tre maledettissime parti.
“Fanculo.”
E
nella sua testa la notte non cessava di bisbigliare e di mormorare, si
prendeva
gioco di lui e dei suoi tormenti. Lo privava del sonno e della
verità con le
sue malinconiche cantilene. La
notte è buia e piena di terrori, cantavano le
ombre dei suoi incubi deliranti. Ombre del suo passato che
amavano sconvolgere
il suo cervello, trasformare i suoi sospiri e renderli simili a quelli
di un
cane uggiolante.
La notte è infelicità, la notte è
distruzione, la notte è
delirio. La notte
è morte.
Lui posò la fronte contro l’elsa e
sussurrò le
ultime frasi che il vino gli mescolava nella pancia.
E senza di te lo
è ancora
di più. Sansa, bambina mia. Ogni cosa è
più spaventosa senza di te.
“Fanculo.
Fanculo tutto.”
Non ebbe modo di schifarsi dei suoi stessi pensieri, di
pentirsene. La stretta al suo stomaco si intensificò
dolorosamente e nello
stesso istante la porta si spalancò e si richiuse di
schianto. Tutto talmente
tanto veloce che in un battito di ciglia avrebbe già potuto
essere svanito. Lei
poco prima non c’era e poco dopo invece era davanti a lui. Il
rumore di una
porta che si chiudeva di scatto, di una lucerna sollevata
delicatamente, di un
mormorio spezzato a metà, spaventato.
Sansa non si rese neppure conto della sua
presenza, persa in chissà quante riflessione che non avevano
nulla a che fare
con la sua persona.
La scorse riservare uno sguardo intenso alle sue preziose
bambole, a tratti adorante. La bambina tentennò accanto al
letto e il suo
sguardo si adombrò di qualcosa che aveva il sapore del
rimpianto. Lui continuò
ad osservarla e a nascondersi nel buio di quella camera scarsamente
illuminata,
solo in parte rischiarata da due piccole candele. La ragazza
Stark posò la
lucerna sul comodino e prese tra le sue braccia l’inquietante
bambola di
porcellana che abbracciò forte, serrando gli occhi e
mordendosi le labbra. Il
cielo si illuminò di verde e la sua figura apparve come
quella di un fantasma
malinconico e nostalgico, lo spettro di una sposa abbandonata
all’altare.
Una
bambina così triste, una bambina così sola.
Non riuscì più tacere.
“Le dame
cominciano ad agitarsi”, disse, con una voce da ubriaco.
L’uccellino seguì il raschiare della sua voce, ma
i suoi
occhi da spaventati divennero duri e glaciali. Strinse ancora
più forte il suo
giocattolo e non si mosse dal suo posto.
“Perché siete qui? Cercate altri miei
segreti da rivelare alla Regina?”
La vide giocare nervosamente con i capelli
della sua bambola e rise dinanzi al suo fallito tentativo di non
apparire
turbata.
“L’uccellino arruffa le penne?
L’uccellino vuole cantare più forte,
vuole essere un lupo?”, le chiese, squadrandola
dall’alto verso il basso con
uno sguardo impenitente. Sansa deglutì piano e lui ebbe la
sua risposta.
“L’uccellino ha paura. L’uccellino sa
solo ripetere le parole che sente
pronunciare dalla bocca degli altri, non sa parlare da solo. Non
è forte e mai
lo sarà. Stupido, piccolo uccellino. Che
ragazzina...”
“Smettetela di parlarmi
così!”, gli ordinò, ritrovandosi poi a
boccheggiare, alla stregua di uno
stupido pesciolino tirato a forza fuori dall’acqua.
Che stupida, la codarda
Stark. Non sapeva proprio giocare alle regole di quel
gioco al massacro. La
mocciosa era insicura, traumatizzata dalle grida della battaglia che la
finestra lasciava filtrare insieme all’aria. Eppure credeva
di poter essere
forte, di poter essere qualcosa di più di uno stupido
uccellino ammaestrato. La
vide spostare il viso verso il cielo nero e notò che le sue
ciglia tremavano,
leggere. Un dettaglio stupido che soltanto un uomo stupido avrebbe
potuto
cogliere con la coda dell’occhio. La bambina si morse le
labbra e del calore scese
nel suo sterno, si spostò frenetico tra la sua pancia e nel
suo ventre.
Tentò
di sopraffare un groviglio di pensieri inopportuni, ma gli
sembrò di star
vanamente combattendo una guerra senza alcuna arma, equipaggiato
soltanto con dei miseri scudi di
pergamena. Un disastro
annunciato.
Nella sua mente ricominciarono a susseguirsi
una caterva di immagini volgari, di suoi desideri amplificati
dall’azione
corroborante del vino.
Pensò che avrebbe voluto averla, avrebbe voluto
baciarla, avrebbe voluto abbassarle la veste e chiudere in un pugno le
sue
piccole tette morbide. Avrebbe voluto afferrare le sue gambe e
stringersele ai
fianchi e avrebbe voluto che lei godesse ad ogni sua spinta, che
boccheggiasse il suo nome. Non aveva mai agognato niente dalle puttane,
non
aveva mai desiderato nulla da nessuno.
E ora pretendeva ogni cosa da Sansa -
ogni cosa, tutto, ogni
cosa.
E mai le avrebbe concesso qualcosa di se stesso.
Si sarebbe appropriato anche del suo cuore - perché voleva il
suo cuore?
perché? - e glielo avrebbe strappato con la
forza. Perché? Non era forse vero che non esisteva alcun
altro modo? Lui avrebbe... sì, avrebbe... sì, avrebbe...
“Voi mi avete
tradita.”
La sua voce priva di dolcezza interruppe ogni suo pensiero. Parole
dolorose come giganti macigni di ghiaccio nel cuore, parole crudeli da
sopportare
come il peso di una lapide affondata su un vecchio petto
affaticato. Sansa
osservò le sue scarpe e non riprese a parlargli. La bambina
aveva soltanto dei
mattoni alle sue spalle e una porta di legno sigillata con le sue
stesse
piccole mani. Nessuna via di fuga, nessuna speranza di
salvezza.
Era un
uccellino segregato in una gabbia dorata, in un castello in cui erano
tutti
degli sporchi traditori, dei ratti da mangiare. Nulla di nobile, nulla
di
bello. Chiunque desiderava soltanto farle del male - picchiarla, spogliarla,
stuprarla - e lui non era migliore di loro. Immaginava di
costringerla a urlare
il suo nome, di morderle la nuca, di strapparle il cuore a mani nude.
Non gli
importava il prezzo. Avrebbe ceduto gli ultimi brandelli di essere
umano addormentati
dentro il suo corpo, avrebbe finto di essere chi non era, si sarebbe
travestito
da falso cavaliere dall’animo puro. Cosa non avrebbe fatto
pur di averla, pur
di perdersi nella sua carne che lo avrebbe stretto forte e fatto
impazzire. I
suoi sospiri, i suoi gemiti, la sua voce squassata da un potente
orgasmo: cosa
non avrebbe fatto pur di ottenere ogni singolo suo godimento, ogni
singola sua
goccia di piacere. Dei serpenti giocarono con le sue costole, dei
crampi gli
morsero la bocca dello stomaco e lui si ritrovò ad
osservarla troppo a lungo -
troppo intensamente - mentre un lampo viola e verde
squarciava nuovamente le
stelle.
Era una bambina, con una bambola, e il volto infinitamente triste. Le
sue mani erano strette a pugno -
come i bambini, il trattenere, come i bambini.
Le dita della sua piccola mano si distesero e si richiusero formando
uno strano pugno, con
la nocca dell'indice stancamente più sporgente. Voleva
piangere, la bambina.
Voleva disperatamente piangere.
E allora lui seppe soltanto cosa non avrebbe mai fatto:
non l’avrebbe mai costretta, non l’avrebbe mai
violentata.
Io non sono come mio
fratello, io non le farei mai una cosa del genere.
E come cazzo pensi di ottenere ciò che brami, stupido cane
che non sei altro? Con la gentilezza, con la falsa cortesia? Speri
davvero che
la ragazzina aprirà spontaneamente le gambe davanti a te?
Davanti alla tua
brutta faccia, al tuo corpo grasso e vecchio. Credi che ti
bacerà, che ti
sussurrerà che ti vuole e che si spoglierà senza
battere ciglio? Sei diventato
talmente tanto folle da non comprendere che questa è la tua
unica possibilità?
Prenditela, è
tua, nessuno potrà fermarti. Perché
aspetti ancora, perché non
agisci? È la tua ultima speranza di avere almeno un ricordo
felice in tutta la
tua schifosissima vita.
Hai paura degli incubi? Ne hai tanti, tu che vivi
costantemente tra gli spettri bianchi che ti accusano di non aver fatto
mai
nulla di buono nella tua esistenza.
Ti spaventano i fantasmi? Lei sarà soltanto
un ricordo che ti perseguiterà ogni notte nelle sembianze di
una ragazzina
pallida che scivola giù dagli specchi e che si rompe in
milioni di pezzi. Che
cosa vuoi che sia? Non
è niente, è miele tra i tuoi deliri
da folle bambino mai
cresciuto. E così tu l’avrai avuta, tu l’avrai fottuta.
Lei diventerà il tuo
ultimo pensiero prima di morire, diventerà la tua canzone.
Che aspetti?
Prendila, fottila, fottila
a sangue. Strappale il cuore e falla bruciare
insieme a te. Fottila, fottila
adesso!
Sandor represse un conato di nausea e
piegò la testa, scorgendo la gonna di Sansa.
Immaginò di infilare la mano lì in
mezzo, soltanto per percepire quanto doveva essere stretta. Soltanto
per sapere
se le nebbie degli otri di vino gli sussurravano il vero: che lui ci
sarebbe
morto tra quelle cosce, che lui avrebbe desiderato essere sepolto vivo tra
quelle gambe. Doveva avere la pelle talmente bianca da sembrare una
perla
rubata negli anfratti degli scogli del mare.
Pelle liscia e morbida su cui
avrebbe voluto riposare e posare il suo capo. Renderla sua - e sua soltanto, mai
di nessun altro, sua la mente e il cuore e il corpo - e
poi nasconderla al
mondo che amava divertirsi con gli uccellini spezzati, che strappava le
piume
bianche a tutti gli uccelletti arruffati dalla pioggia e dalle tempeste
dell’inverno.
Non posso farlo.
Ma mai farle del male, mai. Piuttosto morire.
Ho
perso.
Avrebbe voluto scuoterla e allo stesso tempo temeva di avvicinarsi ai
suoi piedi, di crollare davanti alle sue ginocchia.
Ho perso contro una
bambina
che ha la bocca ancora sporca di latte. Ho perso.
Accettarlo gli costò un pezzo
marcio della sua anima perduta. Guardare le sue dita intrecciarsi e poi
slegarsi, i suoi polsi magri, le sue vene esposte gli
procurò un dolore
indicibile al petto.
Non potrei mai farti del
male, mai. Che cosa mi hai fatto?
In che cosa mi hai trasformato?
Una profonda rabbia gli scaldò le vene alle
piante dei piedi e gli fece gettare a terra la spada. Sansa
sussultò e lui non
si trattenne più.
Imprecò con la sua voce grattata e rozza mentre ogni
ingiuria
gli dava la forza di alzarsi senza barcollare e senza piegarsi al suo
cospetto.
“Che tu sia maledetta!”, le disse e la vide
stringere le labbra, abbracciarsi
il petto.
Mosse veloce un passo dopo l’altro e la realtà
della sua misera
sconfitta comparve dinanzi alle sue pupille così come anche
il modo in cui - da
stupido, folle, folle e inetto uomo! - si
era imprigionato la gola e la testa
con strette catene di ferro arrugginito. Da solo, aveva compiuto ogni
scelta da
solo e non si era mai fermato, non aveva mai tentennato, non aveva mai
riflettuto un secondo. Era stato lui la causa di tutti i suoi mali e
così lei
si era trasformata nella sua più orribile penitenza, nella
sua più spaventosa
perdizione. L’ultima, quella
definitiva. In quel momento comprese cosa lui
potesse sembrare agli occhi degli dei: un ignobile cane che corre verso
l’altare sacrificale e che spodesta l’agnello - lo salva - pochi
secondi prima
della discesa del pugnale nelle sue carni innocenti.
Un sacrificio inutile, il
cane lo comprende mentre sta per morire. Perché
l’agnello ha comunque il manto
sporco di sangue.
“Maledetta ragazzina. Maledetta!”
Afferrò le sue braccia e
l’attirò vicino al suo corpo.
“Maledetta!”
“Tu non mi farai del male.”
Il corpo
di Sansa tremò tra le sue braccia e una parte del suo odio
cambiò ardore nel
momento in cui la bambola cadde ai loro piedi e la ragazzina si
ostinò a non
abbassare lo sguardo. Anche la sua bocca tremava, così come
il mento arrossato
e il nero delle sue immense pupille. Era una bambina pericolosa.
Gli occhi
erano un azzurro liquido strano, un azzurro pallido capace di
trasformarsi in
ghiaccio. Lui lo aveva visto accadere una volta soltanto e con un
brivido aveva
pulito il sangue colante dal suo labbro spaccato. La schiena si
piegò ancora,
scossa da un male infinito, e Sandor avvicinò i loro
visi.
“Tu non mi farai del
male”, ripeté l’uccelletto, e lo
ripeté ancora, lo cantilenò infinite volte e
non smise di farlo mai, neppure un secondo, neppure quando le loro
fronti e i
loro nasi si toccarono.
Ti odio. O ti amo. Che
importanza ha? Tanto tu sei mia.
“Detesto le bambine che frignano.”
Con la
mano destra tolse via le sue lacrime, con forza, senza alcuna
gentilezza. Così
le arrossò soltanto di più le guance e si
bagnò il palmo di altre sue lacrime,
di altro suo dolore. Grosse lacrime di sale, una smorfia di contrito
spavento e
singhiozzi profondi ebbero il potere di sfigurare il viso di Sansa e di
pugnalare la sua gola, costringendola a chiudersi e a trattenere parole
di cui
un giorno si sarebbe pentito.
“Mi hai tradita, adesso dovrò sposare Geoffrey,
mi hai tradita. Perché l’hai fatto?
Perché?”
Sandor tastò la sua schiena, la
spinse contro il suo petto, cercò di abbracciarla, di
stringerla tra le sue
braccia. Le afferrò la testa, la fece affondare contro la
pelle del suo collo,
tentò di non affogare tra i suoi capelli. C’era
una cacofonia di suoni e rumori
nella sua testa, troppo forti e troppo dolorosi da sopportare da
solo.
“Canta.
Mi hai promesso una canzone. Canta”, le ordinò,
stringendole la vita con un
braccio e la nuca con l’altra mano.
Una parte sconsiderata di se stesso
desiderava che lei lo accettasse così come era. Che lei lo
guardasse, che lei
non provasse ribrezzo. Un orribile difetto e debolezza
dell’essere umano, il
desiderio di voler essere accettato esattamente nel modo in cui si
è.
Incondizionatamente.
Per questo motivo voleva costringerla a parlare contro la
sua guancia sfregiata, a rispondergli contro le sue croste, ad
assaporare il
sangue nero ancora rimasto attaccato alla sua pelle grumosa. Ma Sansa
non
parlava, ma Sansa non cantava. Rimaneva lì, con le labbra
premute sul suo
orecchio e sui suoi radi capelli. Muoveva un po’ il capo,
batteva le ciglia
sulla sua pelle e non faceva altro. Non parlava, non cantava, non lo baciava.
“Canta. Canta una canzone, mi hai promesso una canzone.
Pretendo la mia
canzone!”, glielo disse sul collo, con le dita che si
muovevano frenetiche
sopra i bottoni del suo abito, che scivolarono avanti e indietro sulla
sua
schiena e che all'improvviso si fermarono sulle sue spalle. Voleva il
suo corpo, voleva la sua
voce, voleva il suo cuore. La voleva tutta - e la voleva sempre.
“Non riesci
neanche a guardarmi? Non puoi proprio guardarmi?”, le chiese,
e si odiò non
appena ascoltò il tono patetico assunto dalla sua voce
latrante. E Sansa uscì
dal nascondiglio delle vene del suo collo e Sansa lo guardò,
Sansa raddrizzò le
spalle e lo guardò. Ma non iniziò mai a cantare e
mai avrebbe cantato a lui. Le
sue mani coprirono le guance della bambina. La sua bocca
parlò vicino alla sua
e non le rivelò nulla di se stesso.
Sei bellissima, avrebbe
voluto dirle. Sei
bellissima, bambina mia, sei bellissima e ti vorrei tra queste
lenzuola. E più
di ogni altra cosa vorrei che tu volessi me. Non so perché,
ma è così. Averti
non mi basta se non sei anche tu a volerlo.
Lui che era un uomo spezzato in tre
maledettissime parti e che certe parole non avrebbe mai potuto
pronunciarle ad
alta voce, compì l’unica scelta possibile.
L’unica che credeva fosse giusta da
compiere.
“Verrai via con me. Adesso aprirò quella schifosa
porta e tu verrai
via con me. Posso tenerti al sicuro e nessuno ti farà mai
più del male. Non hai
una possibilità di scegliere, hai capito? Scelgo io per
entrambi. Vuoi tornare
a casa, ti riporto a casa. Ti porto dove cazzo vuoi, ma tu verrai via
con me. Hai
capito? Hai capito cazzo?”, domandò, e perse altre
battaglie con in mano una sola spregevole
spada di vetro.
Pensò che non gli avrebbe mai risposto. Pensò che
avrebbe
continuato a osservarlo con la stessa immobilità della sua
bambola di
porcellana e che sarebbe stato costretto a issarla a forza sulle sue
spalle.
Pensò che lo avrebbe odiato e che sarebbe morta soffocata
dai singhiozzi e
dalle lacrime. Pensò ancora altro, ma non ebbe ragione su
niente.
Sansa Stark
chinò lo sguardo e si perse a guardare un dettaglio del
pavimento. Si
inginocchiò a terra e afferrò il suo giocattolo
che era caduto scomposto ai
suoi piedi, con i vestiti alla rovescia. Sussurrò una sola
parola, mormorò due
sillabe che si confusero tra gli squarci verdi del cielo in
tempesta.
Lui fu
sul punto di sputare il cuore,
di vomitarlo.
“Uccellino”, la chiamò e la
bambina sollevò il capo verso di lui.
Sandor tese la sua mano e aspettò.
Aspettò, aspettò e aspettò - e avrebbe aspettato tutto il
tempo necessario e
anche oltre.
Stelle di fuoco attraversarono il mare e Sansa sfiorò le sue
dita.
E lo fece piano, al pari di un sogno.
Angolo autrice.
Siamo arrivati alla fine! Nella mia testa questo è solo
un'immenso prologo per una serie di OneShot SanSan sempre What If?
Ovvero, ora che Sansa è fuggita con Sandor come si
evolveranno le cose? Sandor troverà un po' di pace? Vorrei
tornare presto a scrivere di loro due perché le idee non
mancano, ma il tempo è tiranno e ci sono tante altre storie
ancora da finire. Ma vi è piaciuto questo finale? Cosa ne
pensate? Spero davvero vogliate condividere con me i vostri pensieri
e/o opinioni perché ci tengo tantissimo. Naturalmente le
citazioni della Serie Tv le avete riconosciute no? Così come
alcune battute della famosa scena tra Sansa e Sandor. Ringrazio
infinitamente tutte le persone che mi hanno supportato in questa
stesura, in particolar modo Harriet che è stata
infinitamente paziente e buona e preziosa con me. A presto :)
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