Quare iam te cur amplius excrucies?

di Cress Morlet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Da mi basia mille ***
Capitolo 2: *** Odi et amo ***



Capitolo 1
*** Da mi basia mille ***


Quare iam te cur amplius excrucies?

 Davvero sto pubblicando questa storia? Davvero? Sono così emozionata. Spero tantissimo che possiate amarla.







Il palato è un infido bastardo, un emerito traditore. Il palato, la lingua, i denti, la gola: dannati mostri, dannati pugnalatori alle spalle. Si ribellavano e lo torturavano intimamente, così come i mormorii strascicati degli ubriachi fradici nelle bettole e nelle taverne, così come i mugolii delle donne senza nome. Ogni cosa lo infastidiva, in quel mondo costruito dalle mani sporche di sangue degli assassini falsi e cortesi, e le verità crude degli uomini tormentati non facevano eccezione. In fondo avrebbe dovuto saperlo - e lo sapeva, lo sapeva e non si era fermato, lui, folle, folle! - che una volta assaggiato il vino più pregiato dei Sette Regni la sua bocca avrebbe detestato qualsiasi altra bevanda. Il suo istinto primordiale e il suo spirito di sopravvivenza avevano cercato di avvertirlo, di farglielo comprendere, di fargli scorgere il destino inesorabile in cui ci sarebbe stato un prima e ci sarebbe stato naturalmente un dopo. 
Perché qualsiasi altro sapore non
sarebbe mai stato il sapore di lei.
E nulla più sarebbe stato uguale, nulla avrebbe più avuto un senso. Lo aveva realmente compreso soltanto dopo averla baciata: era diventato impossibile anche soltanto guardare un’altra donna. 
L’aveva baciata una sola volta ed era stato come assaporare la bocca di un fottuto dono divino caduto giù dal cielo, baciare una promessa di grazia e di dannazione eterna. Una bocca inesperta, dolce, innocente. 
Sua, tutta sua.
La ragazza, quello stecchetto con due gambe magroline e senza neanche una forma di donna, la bambolina dai rossi capelli, l’ammaestrato uccellino di Approdo del Re che pigola e cinguetta all’ombra della testa mozzata di suo padre: lei, stupida e viziata figlia della lunga Estate, si era lasciata baciare da lui e non lo aveva fermato, non lo aveva spintonato via. Folle lui e folle lei. O forse solo lui, o forse solo lei
Chi era impazzito per primo, chi lo aveva fatto? Chi era stato? Non ricordava il fottuto modo in cui si erano svolte quelle dannate vicende che lo avevano piegato in due, disintegrato. Ammazzato non una volta ma cento, mille, mille e ancora mille
Chi era impazzito per primo? Chi? L’uccellino si era presentato da lui. Era comparso all’improvviso in un corridoio del cortile dell’ala ovest - come un’apparizione evanescente, come il proprio peggior incubo - e aveva ripreso a cinguettare le stesse nauseanti e tormentanti frasi che astutamente rifilava a tutti i suoi lord, a tutti i suoi ser. Aveva cinguettato i suoi ringraziamenti, le belle parole che usava strappare ai versi delle sue adorate ballate romantiche, che soleva rubare alle favole narrate con placido fervore dalle interminabili file delle sue septe vecchie e decrepite. 
Aveva cinguettato e aveva cinguettato e aveva cinguettato. 
Non aveva ascoltato nessuna delle sue noiose frasi e neppure le aveva prestato la minima attenzione, niente di niente. 
Le divinità allora dovevano aver deciso di punirlo e di deriderlo. Si erano prese la loro rivincita su tutte le sue bestemmie e su tutte le vite che lui aveva strappato con gioia. La luce del Sole aveva iniziato ad infiammare le lunghe trecce della ragazzina, trecce annodate in un groviglio cespuglioso, modellate in cerchi di raggi sanguigni che rendevano ridicola la sua acconciatura. Un’acconciatura stupida che lei si ostinava - con il broncio, con le occhiatacce - a far intrecciare alle sue mute serve dagli sguardi sempre bassi. Lui si era perso. Il rosso era diventato fuoco, si era trasformato in rame, si era sciolto in vino. Una corona di spine e di foglie autunnali. La bocca sottile di Sansa si era stesa in un breve e falso sorriso - eppure cosa esisteva di realmente falso in lei? - e i suoi occhi azzurri sfuggenti gli avevano ricordato la realtà. 
Ti vuole soltanto usare. Tutti usano tutti. 
Improvvisamente si era reso conto dell’entità dei suoi sciocchi pensieri, si era destato dal torpore in cui il suo dolce profumo lo aveva indotto e aveva compreso di starsi comportando alla stregua di un bambino poco sveglio, di un adolescente inesperto - guardava i suoi capelli, guardava le sue efelidi, e non si concentrava su quelle piccole tette sode e sul suo ventre piatto e stretto - e allora aveva pensato di dover rimediare, di dover dimostrare a se stesso di essere un uomo. 
Non l’uomo stolto che osservava di nascosto le lacrime impigliate tra le ciglia di una bimba che dormiva ancora con le bambole, strette nel suo piccolo abbraccio, ma l’uomo vero che scopava le donne nei bordelli e che si liberava di tutti i suoi desideri più pruriginosi. 
Non l’uomo che tremava di fronte allo sguardo di una bambina, ma l’uomo che le donne le fotteva veloce e impaziente, senza neppure guardarle in faccia, appagando i suoi bisogni e le sue morbose necessità. 
Questi pensieri avevano annebbiato la sua mente fracida di immagini volgari, avevano reso il suo corpo ubriaco e smanioso. 
Allora si era proteso verso di lei, quasi barcollando, e aveva divorato la sua faccia. Bocca contro bocca, aveva mangiato le sue bugie e il suo respiro. 
Aveva un sapore buono la ragazzina, qualcosa di dolce, di estremamente puro. Neve e miele insieme, che assurda follia dei sensi. 
Lei aveva serrato le labbra e le palpebre, ma non aveva fatto niente altro. Non si era scostata dal suo tocco, dalle sue mani ruvide che avevano iniziato a scombinarle i capelli e a stringerle la gola sottile. Avevano mantenuto entrambi gli occhi chiusi e lui aveva pensato che lei era bella anche al buio delle lumiere spente e consumate, anche al nero delle ciglia abbassate, sotto il Sole o sotto la Luna. 
L’aveva baciata con un bisogno disturbante e la bocca di Sansa si era mossa sulla sua senza schiudersi, senza concedergli nulla di più. In quel momento un vento freddo si era insinuato lungo tutta la sua schiena, fino ad accarezzargli anche le vesciche della guancia deturpata. 
Troppo tardi aveva compreso che non era stato un vento freddo a placare i suoi bruciori. 
Sansa, mia Sansa, il mio uccelletto delle Isole dell’Estate, il mio uccelletto spaventato. 
Lei aveva accarezzato il suo volto sfregiato e lo aveva baciato come una bambina che neppure riesce a immaginare che esista qualcos’altro dopo un bacio a fior di labbra. Forse in quel momento doveva aver detto il suo nome: Sansa, bambina mia, Sansa. 
Che ingenua e stupida, stupida!, piccola donna. 
Avrebbe potuto rivoltarla come un logoro calzino, sollevare la sua gonna e possederla in un qualsiasi angolo buio del castello, stenderla sul pavimento e forzarla ad aprire le gambe per lui. Per lui, soltanto per lui. Prima le ginocchia, poi le cosce, fino a divorarla con mani e lingua, fino a fottersela tutta. 
Quella creaturina che nemmeno conosceva i pensieri che animavano la mente degli uomini intorno a lei, la mente di tutti gli uomini animali esattamente come lui. Avrebbe potuto farle di tutto, qualsiasi cosa inimmaginabile e impronunciabile, e continuare a divorarla per delle ore intere, - anni e secoli, millenni e altri millenni -, fino a soddisfare ogni sua necessità repressa e anche di più. 
Gustarla, mangiarla, marchiarla in ogni punto possibile. Avrebbe potuto farle di tutto. 
Ma Sansa aveva posato una mano sul suo cuore e altra neve era caduta nel suo petto, placando ogni suo dolore, ogni sua smania. 
Stupida bambina mia, stupida. Sei buona. Sei pateticamente pura. Non riuscirai mai a sopravvivere in questo mondo, diventerai cibo donato ai cani e ai vermi. Altra carne morta lasciata a penzolare sulle picche di questo castello marcio e corrotto fin dalle viscide fondamenta. Un’altra testa staccata dal proprio corpo e trasformata in un trofeo da mostrare ai nemici. 
Le immagini di queste sue elucubrazioni lo avevano talmente tanto spaventato - era timore? il bruciore alle pupille e alle costole era timore di vederla morta o desiderio di uccidere o ancora febbre di possederla? - da spingerlo ad allontanarla dalle sue braccia, dal suo ventre proteso verso di lei. 
Aveva soltanto intravisto labbra bagnate dalla saliva e guance rosse, poi aveva iniziato a urlarle di andarsene. 
‘Vattene via. Vattene via subito altrimenti te ne pentirai. Io te ne farò pentire, te lo giuro. Ti farò pentire di qualsiasi cosa tu abbia mai fatto o pensato se non te ne andrai adesso, subito, vattene. Vattene!’ 
Doveva averla insultata, oppure aveva maledetto se stesso. Il resto non lo ricordava più ormai, era fuggito via dalla sua testa e dai suoi occhi ad ogni nuova sorsata di vino. Scomparso ad ogni fondo rosso di un vuoto boccale che aveva ingurgitato nel tentativo di dimenticare i cerchi delle sue maledette trecce. Una nuova coppa di vino ad ogni giro di ciocca rossa e poi una risata isterica ogni istante in cui scorgeva gli occhi azzurri di quella dannata ragazzina in quelli castani delle prostitute che si sedevano accanto a lui. 
“Sei strano, Mastino. Che ti succede questa notte?” 
Un pugno contro il tavolo ad ogni goccio di sapore annacquato, ad ogni bicchiere di tutte quelle schifose bevande pagate con poche monete di bronzo. 
Un sapore mediocre che gli faceva rimpiangere sapori migliori - il sapore di lei
“Innamorato? Tu?” 
E un tonfo al cuore al passare di ogni secondo, allo scoccare delle ore, al lento formarsi di una nebulosa parete di caos dentro di lui. 
Miele, neve, dolce sale di lacrime mai versate. Cosa gli stava succedendo? Cosa stava accadendo nella sua testa, nel suo sterno, tra le sue gambe? 
“Conosco una cura adatta a te. Adatta a qualsiasi uomo.” 
Lo toccò, continuò a toccarlo, ma il suo corpo lo tradì fino a costringerlo ad allontanare con un grugnito quelle mani che già gli avevano slacciato i pantaloni, calato giù le brache. Non vedeva nulla, sentiva tutto in maniera ovattata. Dita che indugiavano sulle sue gambe, capelli neri pieni di brillanti, un odore forte di aria consumata. Delle labbra che gli chiedevano di lasciarle riprovare, di lasciare che lo toccassero. 
“Non pensare a niente, farò tutto io.” 
La scostò, con più forza e brutalità. 
“Dov’è lei?” 
Dov’è Sansa? 
Lui l’aveva cacciata e lei se ne era andata, era volata via. 
Dov’è Sansa? È lontana la ragazzina. Forse è irraggiungibile. 
“Dov’è lei? Dimmelo. Dimmi dov’è!” 
Tentò di rivestirsi e un conato di vomito lo costrinse a inginocchiarsi a terra, a gettare il capo contro il pavimento. 
Sansa, bambina mia, Sansa. Sansa, dove sei? Non sei scappata, non hai pianto, non hai neanche abbassato la testa. Nulla, nulla di nulla. Mi hai soltanto guardato un secondo e poi te ne sei andata. Te ne sei andata, Sansa, te ne sei andata e adesso io ti rivoglio, io ti ho sempre voluto, io non respiro, torna da me. 
Torna, stupida ragazzina, torna subito qui. Un momento, ho bisogno di toccarti, di baciarti, di averti, un altro momento ancora. La mia bambina, la mia mia mia bambina. Mia, mia, mia, sei sempre stata mia. Smettila di non guardarmi, io ho bisogno di stringerti e di proteggerti. 
Ti proteggerò da chiunque, anche da me stesso se hai così tanta paura. Anche io ne ho tanta. 
“L’uccellino. Devo trovare, devo trovare...” 
Il mondo diventò oscuro e tinto di rosso. C’erano risate intorno al suo corpo e qualcuno che sghignazzava il suo nome, alcuni che uggiolavano spaventosi lamenti e tantissimi altri che continuavano a godere delle loro puttane e che non si interessavano di niente altro. 
“Devo trovare...” 
Lui l’aveva cercata. Non aveva saputo resisterle, non aveva dormito neppure un minuto. Un’intera notte passata a guardare il soffitto e a pensare a lei, fino a soddisfare da solo il suo piacere, fino a godere sibilando ancora il suo nome. Di prima mattina si era recato nella sua stanza, ubriaco di strani sentimenti, e aveva trovato la porta aperta. Non sarebbe mai, - mai, perché lo aveva fatto, perché? - dovuto entrare in quella camera. 
“Che cosa ho fatto?” 
Lei era in piedi e singhiozzava. Si era sentito morire e aveva compiuto qualche passo incerto. I suoi occhi si erano mossi frenetici e avevano intravisto le lenzuola sporche di sangue, l’abito macchiato sulle cosce, le mani che impugnavano un coltello. Non appena Sansa l’aveva visto - che occhi lucidi, che lacrime enormi su quel viso tanto piccolo - aveva lasciato cadere l’arma e aveva portato le dita rosse sulla labbra, come a chiedergli di tacere. 
L’odore di ferro non lo aveva mai disgustato, mai lo aveva scosso, non fino a quel momento. Le gambe della bambina avevano continuato a gocciolare e a formare macchie su macchie scivolose sul pavimento. Mai aveva odiato il sangue con una tale disperazione, mai aveva tentennato dinanzi ai suoi doveri, mai aveva pensato di sputare acido sulla sua più antica lealtà. 
Lei lo aveva supplicato di aiutarla. 
“Avrei dovuto... avrei dovuto...” 
E lui l’aveva tradita. 
Vomitò fin quasi a svenire, fin quasi a soffocare nel suo stesso vomito. Le lacrime si mischiarono alle cicatrici del suo viso e le sue braccia all’improvviso cedettero. Avvertì delle mani sul suo collo e delle labbra vicino al suo orecchio. Sbatté di nuovo la testa contro il pavimento e delle voci roche pronunciarono altre volte il suo nome. Tentò di sollevarsi carponi, ma vomitò ancora, e poi ancora e un’altra volta ancora. Lui non riusciva più a smettere. Cercò di afferrare una veste, ma il mondo riprese vorticosamente a girare e lui si perse in immagini senza un senso. Prima di chiudere gli occhi vide soltanto degli uccelletti rossi con il collo rotto e le ali strappate.







Angolo autrice.

Ciao! Questa è una mini-long di soli due capitoli. Tranquilli il secondo capitolo è già pronto. Quando preferite che io lo pubblichi? Doveva essere una OneShot originariamente, poi oggi ho scoperto di aver scritto più di seimila parole in questi tre mesi di lunga gestazione e quindi... ho diviso. Grazie Harriet, per avermelo fatto notare :)
Ma alla fine arriveranno i veri ringraziamenti. Intanto spero che possa esservi piaciuto questo primo capitolo. Abbiate pietà, è la mia prima SanSan! Giuro di amarli più di me stessa e spero di aver reso loro onore. Grazie mille, per qualsiasi dubbio o chiarimento sono qui :) Spero (anche) di conoscere la vostra opinione in merito.
A presto!

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Capitolo 2
*** Odi et amo ***


Quare 2

A Sandor e Sansa. Vi ringrazio.


Il cielo era verde, il cielo era nero. Lampi di fuoco vivo bruciavano le stelle, nuvole grigie bucavano il mare in tempesta. La battaglia infuriava, gli uomini gridavano e le voci si confondevano in urla senza pace. Intere strade sporche di sangue, immense pareti luride, mura distrutte al passaggio di spade, frecce e olio bollente. Le fiamme avevano risvegliato i suoi incubi, l’odore di carne morta aveva avuto il potere di disgustarlo e di fargli compiere delle decisioni inaspettate. Aveva sputato saliva e parole rabbiose, sporcandosi il mento, e aveva disertato. 
Ogni cosa aveva smesso di avere importanza, ogni cosa si era dissolta nella nebbia e si era consumata su stessa non appena la prima scintilla verde era stata scoccata in alto, verso le navi nemiche. Il terrore gli aveva consigliato di fuggire presto, di farlo subito, senza voltarsi indietro e senza rimpianti. 
Non temeva nessun uomo, non temeva nessun ferro e nessun assalto. Non esisteva alcun potere al mondo in grado di farlo indietreggiare, di farlo balbettare. Soltanto il fuoco aveva la destrezza di trasformarlo in un bambino di sette anni, un poppante spaventato dalle mani violente e dalle intenzioni crudeli del fratello maggiore. Gli aveva infilato la testa su dei ceppi accessi e Sandor era stato costretto ad ascoltare la sua risata sguaiata, le sue parole pungenti, il suo tono divertito. Era stato spensierato suo fratello. 
Gli aveva distrutto l’esistenza con un’abominevole leggerezza, senza mai incontrare nessuno tanto coraggioso da punire il suo gesto, nessuno tanto magnanimo da vendicare la vita di un bambino che si era spaccata in due parti. E la sua faccia non aveva potuto far altro che sciogliersi tra le fiamme, sul legno, tra le unghie sporche di terra di Gregor. 
Perché essere un tale folle masochista? Perché combattere in una città che brucia?
Che il Re muoia, che la capitale sia presa, saccheggiata, conquistata. Sgorgasse sangue dalla gola aperta e sfracellata di ogni nobile, di qualsiasi cavaliere. 
Doveva scappare, abbandonare la città e non farci mai più ritorno, doveva correre, correre e correre il più veloce possibile. 
Invece dove si trovava il coglione? Era seduto scompostamente su una sedia, con le gambe rigide e la schiena stanca. 
E perché mai era lì? Utilizzava la spada alla stregua di un bastone, brancolando alla ricerca di un sostegno che nella sua mente contorta e febbricitante non esisteva più. Gli spifferi d’aria gli grattavano le ossa, l’umidità gli bagnava i muscoli tesi. 
Era in una trappola. Chiuso nella camera da letto della ragazzina, in una delle stanze più buie dell’immenso palazzo di Approdo del Re. Talmente tanto buia da apparire come un nido caduto da un vecchio albero, scomposto e sfilacciato dagli zoccoli degli animali. Le sue bambole riposavano adagiate su dei cuscini bianchi e lo guardavano di sbieco. Una aveva la pelle di porcellana, gli occhi vuoti e i capelli biondi simili a della paglia mangiucchiata. Gli puntava il dito contro e minacciava di punirlo, senza bocca o labbra disegnate. 
Sandor mugugnò dinanzi a quel giocattolo inquietante e si voltò verso una delle finestrelle della stanza, la cui luce rischiarava le mattonelle del pavimento. Avidamente tracannò del vino da una fiala di metallo e poi sospirò con rassegnazione. 
Perché, perché era lì? Dannato il cielo, perché? Avrebbe già dovuto essere fuori dalle porte di Approdo del Re, avrebbe già dovuto percorrere mille miglia lontano da quel fuoco maledetto e respirare aria pulita. Invece no, invece era lì
Attendeva il ritorno del suo uccellino rosso, del suo uccellino sgangherato. 
In che cosa si era ridotto, a che cosa assomigliava adesso? Non ad un uomo, non ad un cavaliere buono e giusto. Forse ad un cane sciolto che annusava la terra alla ricerca di un nuovo padrone, forse ad un cane rabbioso che voleva vendicarsi dei torti subiti. 
Uccidere chiunque aveva osato avvicinarsi a lei - tutti quelli che l’avevano toccata, tutti quelli che avevano tentato di piegarla e sopraffarla
Sandor ricordava, non aveva dimenticato nulla di quanto accaduto in quei mesi di agonia. Sansa che cade a terra, picchiata, umiliata, derisa. Nelle sue orecchie sente ancora lo strappo del suo vestito, il modo feroce in cui le hanno scoperto la pelle della schiena. Il pianto disperato del suo uccellino catturato dalle braccia forti di tre uomini che volevano violentarla, il modo barbaro in cui le avevano aperto le gambe e sollevato la gonna. Troppe immagini gli sconvolsero la mente, si susseguirono rapide nella sua testa e gli fecero pesare le palpebre e il centro del petto. 
Dov’è l’uccellino? Dov’è? Maledizione, dove cazzo si era nascosta
Ma che fottuta vita patetica era la sua e che fottuto destino ignobile gli era toccato in sorte. Risvegliare i suoi sentimenti, le sue emozioni: che tale meschinità, che tale abominio. Fanculo gli dei, fanculo la sua stramaledetta esistenza. Fanculo qualsiasi cosa, anche la più sacra. Non aveva mai avuto rispetto di niente e di nessuno, di certo non avrebbe iniziato a sbagliare in quel momento. Farsi guidare dalla vendetta, seguire l’odore del sangue, deliziarsi uccidendo qualsiasi essere vivente. Ecco come aveva condotto i suoi giorni, ecco come aveva goduto, ecco come aveva conquistato le migliori soddisfazioni della sua vita. 
Perché nessun orgasmo aveva mai potuto battere un omicidio
Nulla si era mai rivelato più eccitante di combattere e di vincere, niente. Trucidare con tutte le proprie forze, anche con macchie di sangue all’interno degli occhi o con grumi a ragnatela tra le ciglia. Sandor strizzò le palpebre e allontanò il vino dalla sua bocca. 
Non sapeva da quanto tempo era seduto su quella sedia. Non sapeva da quanto tempo attendeva invano il rumore dei suoi passi, il suono dei suoi respiri. Bestemmiò a bassa voce e si domandò quanto potesse sembrare patetico agognare i suoi sguardi, i suoi sorrisi. Nella sua pancia qualcosa tremò non appena tali pensieri lo tradirono. Perché, lei aveva mai sorriso? E aveva mai sorriso a lui? La bocca dello stomaco bruciò e i ricordi gli mangiarono i polmoni in un sol boccone. Forse sì, forse era accaduto la prima volta in cui si erano incontrati. Aveva tentato di farla ridere e Sansa aveva deciso di ripagarlo con un misero broncio. 
Sì? No? o no? Aveva desiderato osservare da vicino - e toccare e sfigurare con le proprie labbra - il sorriso sincero che la ragazza rossa riservava soltanto alla sua amorevole famiglia. 
Costantemente circondata da tutti i suoi fratelli, con un’anziana septa sempre al seguito e un metalupo talmente tanto obbediente da rivestire i panni di un cane da focolare. Aveva realizzato di voler parlare con lei, con la bimba incapace di notare le impronte di sangue impresse sul terreno ad ogni suo passo. Aveva sfiorato la sua spalla e aveva compiuto un errore fatale. Perché non aveva compreso subito quanto pericolosa e letale sarebbe diventata una tale mocciosa? 
Una bambina che passeggiava con i lupi e che li addomesticava cantando ballate era il chiaro simbolo di un terribile flagello, di un vero castigo divino in grado di distruggere l’anima di qualsiasi uomo. Invece che cosa aveva fatto? Invece di scappare via, il più lontano possibile, che cosa aveva fatto? Era stato talmente tanto coglione da immolarsi, da distruggersi con le proprie mani sudice. E perché si era sacrificato, perché lo aveva fatto? In nome di che cosa? Di un fottuto sorriso
Un fottuto sorriso tirato, uno schifosissimo sorriso imbronciato. Un maledetto sorriso che gli aveva spaccato la vita in tre maledette parti. 
Tre maledettissime
parti. 
“Fanculo.” 
E nella sua testa la notte non cessava di bisbigliare e di mormorare, si prendeva gioco di lui e dei suoi tormenti. Lo privava del sonno e della verità con le sue malinconiche cantilene. La notte è buia e piena di terrori, cantavano le ombre dei suoi incubi deliranti. Ombre del suo passato che amavano sconvolgere il suo cervello, trasformare i suoi sospiri e renderli simili a quelli di un cane uggiolante. 
La notte è infelicità, la notte è distruzione, la notte è delirio. La notte è morte
Lui posò la fronte contro l’elsa e sussurrò le ultime frasi che il vino gli mescolava nella pancia. 
E senza di te lo è ancora di più. Sansa, bambina mia. Ogni cosa è più spaventosa senza di te
“Fanculo. Fanculo tutto.” 
Non ebbe modo di schifarsi dei suoi stessi pensieri, di pentirsene. La stretta al suo stomaco si intensificò dolorosamente e nello stesso istante la porta si spalancò e si richiuse di schianto. Tutto talmente tanto veloce che in un battito di ciglia avrebbe già potuto essere svanito. Lei poco prima non c’era e poco dopo invece era davanti a lui. Il rumore di una porta che si chiudeva di scatto, di una lucerna sollevata delicatamente, di un mormorio spezzato a metà, spaventato. 
Sansa non si rese neppure conto della sua presenza, persa in chissà quante riflessione che non avevano nulla a che fare con la sua persona. 
La scorse riservare uno sguardo intenso alle sue preziose bambole, a tratti adorante. La bambina tentennò accanto al letto e il suo sguardo si adombrò di qualcosa che aveva il sapore del rimpianto. Lui continuò ad osservarla e a nascondersi nel buio di quella camera scarsamente illuminata, solo in parte rischiarata da due piccole candele. La ragazza Stark posò la lucerna sul comodino e prese tra le sue braccia l’inquietante bambola di porcellana che abbracciò forte, serrando gli occhi e mordendosi le labbra. Il cielo si illuminò di verde e la sua figura apparve come quella di un fantasma malinconico e nostalgico, lo spettro di una sposa abbandonata all’altare. 
Una bambina così triste, una bambina così sola. Non riuscì più tacere. 
“Le dame cominciano ad agitarsi”, disse, con una voce da ubriaco.
L’uccellino seguì il raschiare della sua voce, ma i suoi occhi da spaventati divennero duri e glaciali. Strinse ancora più forte il suo giocattolo e non si mosse dal suo posto. 
“Perché siete qui? Cercate altri miei segreti da rivelare alla Regina?” 
La vide giocare nervosamente con i capelli della sua bambola e rise dinanzi al suo fallito tentativo di non apparire turbata. 
“L’uccellino arruffa le penne? L’uccellino vuole cantare più forte, vuole essere un lupo?”, le chiese, squadrandola dall’alto verso il basso con uno sguardo impenitente. Sansa deglutì piano e lui ebbe la sua risposta. 
“L’uccellino ha paura. L’uccellino sa solo ripetere le parole che sente pronunciare dalla bocca degli altri, non sa parlare da solo. Non è forte e mai lo sarà. Stupido, piccolo uccellino. Che ragazzina...” 
“Smettetela di parlarmi così!”, gli ordinò, ritrovandosi poi a boccheggiare, alla stregua di uno stupido pesciolino tirato a forza fuori dall’acqua. 
Che stupida, la codarda Stark. Non sapeva proprio giocare alle regole di quel gioco al massacro. La mocciosa era insicura, traumatizzata dalle grida della battaglia che la finestra lasciava filtrare insieme all’aria. Eppure credeva di poter essere forte, di poter essere qualcosa di più di uno stupido uccellino ammaestrato. La vide spostare il viso verso il cielo nero e notò che le sue ciglia tremavano, leggere. Un dettaglio stupido che soltanto un uomo stupido avrebbe potuto cogliere con la coda dell’occhio. La bambina si morse le labbra e del calore scese nel suo sterno, si spostò frenetico tra la sua pancia e nel suo ventre. 
Tentò di sopraffare un groviglio di pensieri inopportuni, ma gli sembrò di star vanamente combattendo una guerra senza alcuna arma, equipaggiato soltanto con dei miseri scudi di pergamena. Un disastro annunciato
Nella sua mente ricominciarono a susseguirsi una caterva di immagini volgari, di suoi desideri amplificati dall’azione corroborante del vino. 
Pensò che avrebbe voluto averla, avrebbe voluto baciarla, avrebbe voluto abbassarle la veste e chiudere in un pugno le sue piccole tette morbide. Avrebbe voluto afferrare le sue gambe e stringersele ai fianchi e avrebbe voluto che lei godesse ad ogni sua spinta, che boccheggiasse il suo nome. Non aveva mai agognato niente dalle puttane, non aveva mai desiderato nulla da nessuno. 
E ora pretendeva ogni cosa da Sansa - ogni cosa, tutto, ogni cosa
E mai le avrebbe concesso qualcosa di se stesso. Si sarebbe appropriato anche del suo cuore - perché voleva il suo cuore? perché? - e glielo avrebbe strappato con la forza. Perché? Non era forse vero che non esisteva alcun altro modo? Lui avrebbe... sì, avrebbe... sì, avrebbe... 
“Voi mi avete tradita.” 
La sua voce priva di dolcezza interruppe ogni suo pensiero. Parole dolorose come giganti macigni di ghiaccio nel cuore, parole crudeli da sopportare come il peso di una lapide affondata su un vecchio petto affaticato. Sansa osservò le sue scarpe e non riprese a parlargli. La bambina aveva soltanto dei mattoni alle sue spalle e una porta di legno sigillata con le sue stesse piccole mani. Nessuna via di fuga, nessuna speranza di salvezza. 
Era un uccellino segregato in una gabbia dorata, in un castello in cui erano tutti degli sporchi traditori, dei ratti da mangiare. Nulla di nobile, nulla di bello. Chiunque desiderava soltanto farle del male - picchiarla, spogliarla, stuprarla - e lui non era migliore di loro. Immaginava di costringerla a urlare il suo nome, di morderle la nuca, di strapparle il cuore a mani nude. Non gli importava il prezzo. Avrebbe ceduto gli ultimi brandelli di essere umano addormentati dentro il suo corpo, avrebbe finto di essere chi non era, si sarebbe travestito da falso cavaliere dall’animo puro. Cosa non avrebbe fatto pur di averla, pur di perdersi nella sua carne che lo avrebbe stretto forte e fatto impazzire. I suoi sospiri, i suoi gemiti, la sua voce squassata da un potente orgasmo: cosa non avrebbe fatto pur di ottenere ogni singolo suo godimento, ogni singola sua goccia di piacere. Dei serpenti giocarono con le sue costole, dei crampi gli morsero la bocca dello stomaco e lui si ritrovò ad osservarla troppo a lungo - troppo intensamente - mentre un lampo viola e verde squarciava nuovamente le stelle. 
Era una bambina, con una bambola, e il volto infinitamente triste. Le sue mani erano strette a pugno - come i bambini, il trattenere, come i bambini
Le dita della sua piccola mano si distesero e si richiusero formando uno strano pugno, con la nocca dell'indice stancamente più sporgente. Voleva piangere, la bambina. Voleva disperatamente piangere. E allora lui seppe soltanto cosa non avrebbe mai fatto: non l’avrebbe mai costretta, non l’avrebbe mai violentata. 
Io non sono come mio fratello, io non le farei mai una cosa del genere.
E come cazzo pensi di ottenere ciò che brami, stupido cane che non sei altro? Con la gentilezza, con la falsa cortesia? Speri davvero che la ragazzina aprirà spontaneamente le gambe davanti a te? Davanti alla tua brutta faccia, al tuo corpo grasso e vecchio. Credi che ti bacerà, che ti sussurrerà che ti vuole e che si spoglierà senza battere ciglio? Sei diventato talmente tanto folle da non comprendere che questa è la tua unica possibilità? Prenditela, è tua, nessuno potrà fermarti. Perché aspetti ancora, perché non agisci? È la tua ultima speranza di avere almeno un ricordo felice in tutta la tua schifosissima vita. 
Hai paura degli incubi? Ne hai tanti, tu che vivi costantemente tra gli spettri bianchi che ti accusano di non aver fatto mai nulla di buono nella tua esistenza. 
Ti spaventano i fantasmi? Lei sarà soltanto un ricordo che ti perseguiterà ogni notte nelle sembianze di una ragazzina pallida che scivola giù dagli specchi e che si rompe in milioni di pezzi. Che cosa vuoi che sia? Non è niente, è miele tra i tuoi deliri da folle bambino mai cresciuto. E così tu l’avrai avuta, tu l’avrai fottuta
Lei diventerà il tuo ultimo pensiero prima di morire, diventerà la tua canzone. Che aspetti? Prendila, fottila, fottila a sangue. Strappale il cuore e falla bruciare insieme a te. Fottila, fottila adesso
Sandor represse un conato di nausea e piegò la testa, scorgendo la gonna di Sansa. Immaginò di infilare la mano lì in mezzo, soltanto per percepire quanto doveva essere stretta. Soltanto per sapere se le nebbie degli otri di vino gli sussurravano il vero: che lui ci sarebbe morto tra quelle cosce, che lui avrebbe desiderato essere sepolto vivo tra quelle gambe. Doveva avere la pelle talmente bianca da sembrare una perla rubata negli anfratti degli scogli del mare. 
Pelle liscia e morbida su cui avrebbe voluto riposare e posare il suo capo. Renderla sua - e sua soltanto, mai di nessun altro, sua la mente e il cuore e il corpo - e poi nasconderla al mondo che amava divertirsi con gli uccellini spezzati, che strappava le piume bianche a tutti gli uccelletti arruffati dalla pioggia e dalle tempeste dell’inverno. 
Non posso farlo
Ma mai farle del male, mai. Piuttosto morire. 
Ho perso
Avrebbe voluto scuoterla e allo stesso tempo temeva di avvicinarsi ai suoi piedi, di crollare davanti alle sue ginocchia. 
Ho perso contro una bambina che ha la bocca ancora sporca di latte. Ho perso. 
Accettarlo gli costò un pezzo marcio della sua anima perduta. Guardare le sue dita intrecciarsi e poi slegarsi, i suoi polsi magri, le sue vene esposte gli procurò un dolore indicibile al petto.
Non potrei mai farti del male, mai. Che cosa mi hai fatto? In che cosa mi hai trasformato? 
Una profonda rabbia gli scaldò le vene alle piante dei piedi e gli fece gettare a terra la spada. Sansa sussultò e lui non si trattenne più. 
Imprecò con la sua voce grattata e rozza mentre ogni ingiuria gli dava la forza di alzarsi senza barcollare e senza piegarsi al suo cospetto. 
“Che tu sia maledetta!”, le disse e la vide stringere le labbra, abbracciarsi il petto. 
Mosse veloce un passo dopo l’altro e la realtà della sua misera sconfitta comparve dinanzi alle sue pupille così come anche il modo in cui - da stupido, folle, folle e inetto uomo! - si era imprigionato la gola e la testa con strette catene di ferro arrugginito. Da solo, aveva compiuto ogni scelta da solo e non si era mai fermato, non aveva mai tentennato, non aveva mai riflettuto un secondo. Era stato lui la causa di tutti i suoi mali e così lei si era trasformata nella sua più orribile penitenza, nella sua più spaventosa perdizione. L’ultima, quella definitiva. In quel momento comprese cosa lui potesse sembrare agli occhi degli dei: un ignobile cane che corre verso l’altare sacrificale e che spodesta l’agnello - lo salva - pochi secondi prima della discesa del pugnale nelle sue carni innocenti. 
Un sacrificio inutile, il cane lo comprende mentre sta per morire. Perché l’agnello ha comunque il manto sporco di sangue. 
“Maledetta ragazzina. Maledetta!” 
Afferrò le sue braccia e l’attirò vicino al suo corpo. 
“Maledetta!” 
“Tu non mi farai del male.” 
Il corpo di Sansa tremò tra le sue braccia e una parte del suo odio cambiò ardore nel momento in cui la bambola cadde ai loro piedi e la ragazzina si ostinò a non abbassare lo sguardo. Anche la sua bocca tremava, così come il mento arrossato e il nero delle sue immense pupille. Era una bambina pericolosa
Gli occhi erano un azzurro liquido strano, un azzurro pallido capace di trasformarsi in ghiaccio. Lui lo aveva visto accadere una volta soltanto e con un brivido aveva pulito il sangue colante dal suo labbro spaccato. La schiena si piegò ancora, scossa da un male infinito, e Sandor avvicinò i loro visi. 
“Tu non mi farai del male”, ripeté l’uccelletto, e lo ripeté ancora, lo cantilenò infinite volte e non smise di farlo mai, neppure un secondo, neppure quando le loro fronti e i loro nasi si toccarono. 
Ti odio. O ti amo. Che importanza ha? Tanto tu sei mia
“Detesto le bambine che frignano.”
Con la mano destra tolse via le sue lacrime, con forza, senza alcuna gentilezza. Così le arrossò soltanto di più le guance e si bagnò il palmo di altre sue lacrime, di altro suo dolore. Grosse lacrime di sale, una smorfia di contrito spavento e singhiozzi profondi ebbero il potere di sfigurare il viso di Sansa e di pugnalare la sua gola, costringendola a chiudersi e a trattenere parole di cui un giorno si sarebbe pentito. 
“Mi hai tradita, adesso dovrò sposare Geoffrey, mi hai tradita. Perché l’hai fatto? Perché?” 
Sandor tastò la sua schiena, la spinse contro il suo petto, cercò di abbracciarla, di stringerla tra le sue braccia. Le afferrò la testa, la fece affondare contro la pelle del suo collo, tentò di non affogare tra i suoi capelli. C’era una cacofonia di suoni e rumori nella sua testa, troppo forti e troppo dolorosi da sopportare da solo. 
“Canta. Mi hai promesso una canzone. Canta”, le ordinò, stringendole la vita con un braccio e la nuca con l’altra mano. 
Una parte sconsiderata di se stesso desiderava che lei lo accettasse così come era. Che lei lo guardasse, che lei non provasse ribrezzo. Un orribile difetto e debolezza dell’essere umano, il desiderio di voler essere accettato esattamente nel modo in cui si è. Incondizionatamente. Per questo motivo voleva costringerla a parlare contro la sua guancia sfregiata, a rispondergli contro le sue croste, ad assaporare il sangue nero ancora rimasto attaccato alla sua pelle grumosa. Ma Sansa non parlava, ma Sansa non cantava. Rimaneva lì, con le labbra premute sul suo orecchio e sui suoi radi capelli. Muoveva un po’ il capo, batteva le ciglia sulla sua pelle e non faceva altro. Non parlava, non cantava, non lo baciava
“Canta. Canta una canzone, mi hai promesso una canzone. Pretendo la mia canzone!”, glielo disse sul collo, con le dita che si muovevano frenetiche sopra i bottoni del suo abito, che scivolarono avanti e indietro sulla sua schiena e che all'improvviso si fermarono sulle sue spalle. Voleva il suo corpo, voleva la sua voce, voleva il suo cuore. La voleva tutta - e la voleva sempre
“Non riesci neanche a guardarmi? Non puoi proprio guardarmi?”, le chiese, e si odiò non appena ascoltò il tono patetico assunto dalla sua voce latrante. E Sansa uscì dal nascondiglio delle vene del suo collo e Sansa lo guardò, Sansa raddrizzò le spalle e lo guardò. Ma non iniziò mai a cantare e mai avrebbe cantato a lui. Le sue mani coprirono le guance della bambina. La sua bocca parlò vicino alla sua e non le rivelò nulla di se stesso. 
Sei bellissima, avrebbe voluto dirle. Sei bellissima, bambina mia, sei bellissima e ti vorrei tra queste lenzuola. E più di ogni altra cosa vorrei che tu volessi me. Non so perché, ma è così. Averti non mi basta se non sei anche tu a volerlo
Lui che era un uomo spezzato in tre maledettissime parti e che certe parole non avrebbe mai potuto pronunciarle ad alta voce, compì l’unica scelta possibile. L’unica che credeva fosse giusta da compiere. 
“Verrai via con me. Adesso aprirò quella schifosa porta e tu verrai via con me. Posso tenerti al sicuro e nessuno ti farà mai più del male. Non hai una possibilità di scegliere, hai capito? Scelgo io per entrambi. Vuoi tornare a casa, ti riporto a casa. Ti porto dove cazzo vuoi, ma tu verrai via con me. Hai capito? Hai capito cazzo?”, domandò, e perse altre battaglie con in mano una sola spregevole spada di vetro. 
Pensò che non gli avrebbe mai risposto. Pensò che avrebbe continuato a osservarlo con la stessa immobilità della sua bambola di porcellana e che sarebbe stato costretto a issarla a forza sulle sue spalle. Pensò che lo avrebbe odiato e che sarebbe morta soffocata dai singhiozzi e dalle lacrime. Pensò ancora altro, ma non ebbe ragione su niente. 
Sansa Stark chinò lo sguardo e si perse a guardare un dettaglio del pavimento. Si inginocchiò a terra e afferrò il suo giocattolo che era caduto scomposto ai suoi piedi, con i vestiti alla rovescia. Sussurrò una sola parola, mormorò due sillabe che si confusero tra gli squarci verdi del cielo in tempesta. 
Lui fu sul punto di sputare il cuore, di vomitarlo
“Uccellino”, la chiamò e la bambina sollevò il capo verso di lui. 
Sandor tese la sua mano e aspettò. Aspettò, aspettò e aspettò - e avrebbe aspettato tutto il tempo necessario e anche oltre
Stelle di fuoco attraversarono il mare e Sansa sfiorò le sue dita. E lo fece piano, al pari di un sogno.

 







Angolo autrice.
Siamo arrivati alla fine! Nella mia testa questo è solo un'immenso prologo per una serie di OneShot SanSan sempre What If? Ovvero, ora che Sansa è fuggita con Sandor come si evolveranno le cose? Sandor troverà un po' di pace? Vorrei tornare presto a scrivere di loro due perché le idee non mancano, ma il tempo è tiranno e ci sono tante altre storie ancora da finire. Ma vi è piaciuto questo finale? Cosa ne pensate? Spero davvero vogliate condividere con me i vostri pensieri e/o opinioni perché ci tengo tantissimo. Naturalmente le citazioni della Serie Tv le avete riconosciute no? Così come alcune battute della famosa scena tra Sansa e Sandor. Ringrazio infinitamente tutte le persone che mi hanno supportato in questa stesura, in particolar modo Harriet che è stata infinitamente paziente e buona e preziosa con me. A presto :)

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