J’écris ton nom

di Ryo13
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Su le ali degli uccelli  ***
Capitolo 2: *** Su ogni pagina che è bianca ***
Capitolo 3: *** Scrivo il tuo nome, Libertà ***



Capitolo 1
*** Su le ali degli uccelli  ***




CAPITOLO 01
 

Su le piane e l’orizzonte
Su le ali degli uccelli
E il mulino delle ombre
Scrivo il tuo nome

 Liberté di Paul Éluard ∽

 

1889

Aurélie lo trovò tra le sterpaglie del bosco appena a pochi passi dalla scogliera. L’uccello si dibatteva frenetico, agitando un’ala spezzata nel tentativo di riprendere il volo. Ma era impossibile: le piume così spiegazzate e l’inclinazione innaturale dell’arto lasciavano presagire un danno tale da costringerlo a terra.

Il gabbiano garriva disperato, in preda al dolore. Era una vista misera: lui abituato alla leggerezza del cielo, costretto a rotolare nella fanghiglia che gli macchiava le candide piume.

Il becco scattava da un lato all’altro, in cerca di aiuto. Ma non c’era alcuno della sua specie a soccorrerlo né, se ci fosse stato, capace di farlo adeguatamente.

Ad Aurélie si strinse il petto in una morsa. Girò lo sguardo attorno, anche lei in cerca di sostegno, ma era sola. 

Rimase indecisa per lunghi istanti sul da farsi, fino a quando uno stridio più acuto le lacerò una fibra del cuore e lei andò, invocata dal suo grido.

Prenderlo con la dovuta delicatezza non fu facile, perché il piccolo animale al tocco della mano estranea si agitò con maggior forza. Aurélie cominciò a vezzeggiarlo sottovoce, con un tono calmo e tanto basso da risultare roco.

Forse fu la gentilezza dei modi, il timbro della voce, o semplicemente una connessione d’anima, ma il gabbiano cominciò ad accettare quella invasione così estranea e in breve smise di agitare le ali. 

La ragazza se lo raccolse sul petto, attenta a non fargli del male. Poi si avviò sul sentiero di casa che si trovava alla periferia di Saint-Gildas-de-Rhuys: l’abitazione ㅡ una solida struttura settecentesca di proprietà della famiglia Lacroix da generazioni ㅡ distava meno di un miglio da Plage de Kercambre, da cui con ogni probabilità proveniva l’uccello.

Aurélie corse per l’ultimo tratto, togliendosi dalla strada principale per impedire che uno dei suoi genitori potesse scorgerla attraverso le vetrate della facciata. Sgattaiolò sul retro, raggiungendo le cucine ㅡ al momento vuote ㅡ e scivolando in una stanzetta della servitù nella quale sua madre non avrebbe mai pensato di cercarla. Ma non era vuota: in un angolo, seduta sulla poltrona, Agnés stava rammendando delle camicie.

Quando la domestica vide entrare Aurélie con in mano un batuffolo di piume per poco non le prese un colpo: l’ago le cadde di mano e prese ad agitare le mani come per scongiurare una catastrofe.

«Mademoiselle Aurélie, cosa avete fatto? Cos’avete in mano?! Sarete mica stata vista?»

La donna si precipitò a lanciare cupe occhiate al di là della porta e lungo i corridoi, fino a quando la mano impaziente della ragazza non la trascinò dentro per impedirle di attirare l’attenzione con i suoi schiamazzi.

«Mi sono preoccupata di non dare nell’occhio quindi, per piacere, non vanificare i miei sforzi», la riprese brevemente. «Questa creatura ha bisogno di cure immediate.»

Quasi a sottolineare la ragione di quelle parole, il gabbiano garrì in una serie di acuti.

«Sainte Mère de Dieu!» esclamò Agnés, «Ci farà scoprire!»

Aurélie non badò al terrore della sua vecchia nutrice e tornò a mormorare al suo piccolo amico.

Quando riuscì a calmarlo a sufficienza da poterne esaminare l’ala danneggiata vide, tra le piume macchiate di sangue, le piccole ossa fratturate.

«Non posso fasciare l’ala in queste condizioni. Non ho idea di come si debbano riallineare queste ossa. Cosa possiamo fare?»

«Quel che è certo è che non possiamo tenerlo qui: se monsieur Lacroix vi scoprisse vi chiuderebbe in casa per mesi! E a me non so cosa potrebbe capitare...» 

«Pensiamo prima a cosa possiamo fare per alleviare le sue sofferenze», disse indicando l’uccello. «Se non lo medichiamo per bene rischia di non poter più volare e sarebbe terribile.»

Lo sconcerto al pensiero di una prospettiva simile era piuttosto evidente nei tratti delicati della ragazza. «Cosa possiamo fare?», continuava a mormorare tra sé.

«Beh… ci sarebbe…»

«Cosa?»

«Ecco… potreste sempre portarlo da monsieur Duval. Dopotutto è un medico degli animali, no?»

Aurélie si immobilizzò di colpo, evadendo lo sguardo di Agnés. Ma quella, imperterrita, continuò a parlare: «Dite che non possiamo fare nulla… questa povera bestiola non può rimanere in queste condizioni, sarebbe crudele. E non possiamo tenerla in casa per ovvi motivi. Ma se andaste da monsieur Duval, certo madame Lacroix non avrebbe nulla da obiettare, anzi, la fareste persino contenta».

Aurélie si chiuse in ostinato mutismo, fino a quando la domestica desistette e, non sapendo cos’altro fare, tornò alla sua poltrona riprendendo in mano il lavoro: sapeva che con mademoiselle insistere sarebbe stato controproducente; dunque, fingendo disinteresse, attese che la ragazza traesse le ovvie conclusioni.

Aurélie non avrebbe voluto piegarsi a quell’idea. Tuttavia, più fissava lo sguardo sull’ala spezzata e più comprendeva che non avrebbe potuto lasciar vincere il proprio orgoglio. Non certo a spese del gabbiano ferito.

«Avviso la mamma che intendo far visita alla residenza dei Duval. Tieni nascosto l’uccello fino a quando non verrò a prenderlo.»

Così dicendo, abbandonò in fretta la stanza perché non sopportava di udire i commenti di Agnés: avrebbe già dovuto tollerare gli entusiasmi della madre.

Quando fu informata del programma della figlia, Victoire non credeva alle sue orecchie: la fissò attonita per un lungo momento, chiedendosi se quella fosse proprio Aurélie o se si trattasse di uno scherzo. Quando le vide raccogliere il cappellino da passeggio e il leggero scialle che l’avrebbe protetta dalla brezza serale, non solo comprese che tutto era reale, ma che sua figlia pensava addirittura di attardarsi a causa della visita. 

Sarebbe scoppiata in strilli di trionfo se non l’avesse trattenuta il pensiero che un simile comportamento avrebbe potuto dissuaderla dall’ottimo proposito. Così inghiottì la soddisfazione fino a quando non la vide uscire di casa con il cesto in vimini che usava per cogliere i fiori, dopodiché si abbandonò a un’agitazione esuberante inframezzata da gridolini di appagamento: fu così che la trovò suo marito Régis. 

L’avrebbe redarguita severamente per quel comportamento poco decoroso se non avesse appreso cosa l’aveva resa così entusiasta prima di provarci. Persino lui rimase stupito per quel fatto così insolito, al punto da dimenticare qualsiasi rimprovero. 

⚜⚜⚜

Aurélie aveva recuperato l’infortunato dal retro della casa e si era immersa nel bosco, procedendo a passo sostenuto.

La casa dei Duval non distava molto, ma lei non aveva mai compiuto quel percorso: anzi, negli ultimi tempi aveva preso volutamente a evitarlo, persino se il suo intento era semplicemente quello di passeggiare o di raccogliere fiori.

Nel cesto, nascosto sotto un fazzoletto di lino, il gabbiano riposava senza nemmeno strepitare. La cosa aveva del curioso, perché Aurélie avrebbe scommesso che quelle creature non tollerassero facilmente la cattività e gli spazi chiusi: re dei cieli, erano abituati a solcare i mari toccando con la punta del becco il pelo dell’acqua per fare dei pesci ricco bottino. Di certo non era normale che se ne stesse accucciato come fosse un pigro gattino. Quel pensiero la fece allarmare e la indusse ad accelerare ulteriormente il passo per il timore che versasse in fin di vita.

Giunta davanti la residenza, non si preoccupò minimamente dell’impressione che avrebbe dato alla padrona di casa, o a Etienne Luc Duval, se era per questo.

Sapeva per certo che Etienne abitava con la madre vedova che era piuttosto avanti con gli anni, ma non meno querula: dopotutto, doveva in gran parte a lei il fatto di trovarsi in una difficile posizione, anche se non dimenticava che la colpa andava attribuita quasi a pari merito anche ai suoi genitori.

Batté il pesante manico di ottone sul legno e attese che qualcuno le aprisse. Dopo meno di un minuto venne accolta dalla governante di casa.

Quella, sbalordita, fece tanto d’occhi, ma ㅡ a suo merito ㅡ si ricompose subito.

«Madame Duval si trova nel salotto attiguo, se volete...»

«Non sono qui per vedere lei», l’interruppe bruscamente. «Dov’è monsieur Duval

A corto di parole, le fece cenno di seguirla e la guidò, attraverso la casa, nel giardino sul retro: lì sorgeva una modesta costruzione in mattoni rossi, coperta da un lato da fitti rampicanti. La governante balbettò che si trattava dell’ambulatorio del suo padrone.

«In genere, non desidera essere disturbato...» commentò titubante, alla fine.

«Per me farà un’eccezione», disse Aurélie, ponendo fine a qualsiasi protesta.

«C-certamente, mademoiselle Lacroix.»

La donna bussò alla porta a vetri e attese il permesso di aprire.

Rispose la voce brusca di un uomo: «Avanti!»

In una singola parola era riuscito a condensare esasperazione e noia in maniera così perfetta che Aurélie non ebbe dubbi sul carattere burrascoso di Etienne. E sì che non lo aveva mai incontrato di persona, ma ne aveva sentito abbondantemente parlare: in termini elogiativi dai suoi genitori, e un po’ più realistici dalle cameriere e sarte di Saint-Gildas-de-Rhuys, tra le quali si mormorava che il giovane scapolo fosse schivo e taciturno. Una volta aveva sentito di lui da alcuni ragazzi del villaggio che si erano riuniti alla scogliera: erano stati aspramente rimproverati per averlo disturbato nello svolgimento del suo lavoro, o così aveva dedotto dalle loro chiacchiere.

Che fosse sulla bocca di tutti non faceva meraviglia perché l’uomo aveva fatto ritorno in casa dei genitori ㅡ nella quale, peraltro, non aveva mai vissuto ㅡ solo recentemente.

Aveva studiato medicina per anni in alcune scuole in Francia e all’estero, mentre prima di allora era vissuto a Caen, nella Normandia: i Duval, infatti, si erano trasferiti a Saint-Gildas-de-Rhuys, dove avevano ereditato una tenuta, quando alla signora madre era stata raccomandata l’aria di mare per curare i reumatismi.

La governante, dunque, spinse l’uscio, introducendosi in punta di piedi.

«Monsieur, perdonate se vi interrompo, ma è arrivata in visita mademoiselle...»

«Grazie», l’interruppe con noncuranza Aurélie, entrando col suo cesto come se fosse la padrona. Con mezza giravolta diede le spalle all’uomo, rivolgendosi poi con tutto il peso del suo sguardo alla donna. «Potete andare. Penserò io a spiegare il motivo della mia visita.»

Quella adocchiò brevemente prima l’uno e poi l’altro, ma decise in una frazione di secondo di abbandonare la scena e lasciarli soli. 

«Mademoiselle... non so chi voi siate, ma spero che abbiate un buon motivo per introdurvi in tal modo alla presenza di un uomo ed esigere di essere lasciata sola con lo stesso. Non so cosa pensavate di...»

«Forse se mi lasciaste effettivamente spiegare sarebbe tutto molto più semplice, non trovate?»

Quello la fissò con malcelata irritazione e chiese: «È vostra abitudine interrompere le persone mentre parlano?»

«No, ma è mia abitudine prestare ascolto solo a ciò che merita lo sforzo.»

Interdetto da tanto ardire, Etienne per un momento non seppe cosa rispondere. Poi disse: «Mi toccherà seguire il vostro esempio e domandarvi senz'altro indugio il motivo della vostra visita».

Aurélie sollevò il cesto, poggiandolo con delicatezza sul ripiano del tavolo da lavoro.

«Ho trovato questo gabbiano vicino la scogliera. Ha un’ala spezzata e non so come curarla. So che voi vi occupate del benessere degli animali, oltre che di quello degli uomini; vorrei che curaste questa creatura.»

Quando tolse il fazzoletto svelando l’uccello sotto di esso, Etienne cambiò d’un tratto espressione: ora era del tutto concentrato sul suo compito. Esaminò l’ala, identificando una doppia frattura all’ulna e al radio, o almeno così apprese Aurélie dai suoi borbottii. Era chiaro che parlasse più che altro a se stesso perché, per il resto, pareva essersi dimenticato della presenza della donna.

A lei quell’atteggiamento non dispiacque; anzi, la sua spiccata professionalità metteva a tacere gli innati pregiudizi che nutriva verso quell’uomo. Aveva fatto bene, dunque, a inghiottire un po’ di orgoglio visto che lui sarebbe stato certamente in grado di curare il suo piccolo amico.

Senza consultare la ragazza, cominciò a tirar fuori degli attrezzi e a preparare dei legacci di stoffa. Avrebbe continuato a ignorare la presenza di lei se Aurélie non gli avesse afferrato la mano che reggeva un pezzo di stoffa con quella che sembrava tutta l’intenzione di legare l’animale.

«Che gli fate?!» esclamò, guardandolo storto.

Etienne abbassò lo sguardo sulla mano di lei, ancora stretta alla sua, prima di alzarlo a fissarla negli occhi. Si aspettava che la ritirasse, mortificata per averlo toccato senza averne alcun diritto, ma lei era inamovibile. Apparentemente non le importava nulla di essere una ragazza nubile vicino a un uomo; sola con un uomo dentro un capanno; sola con un uomo celibe.

«Che cosa intendete fargli?», insistette.

Dal momento che quell’impertinente non provava alcuna vergogna, nemmeno lui avrebbe dato peso alle libertà che si prendeva.

«Se mi lasciate fare il mio lavoro, intendo legarlo in modo che non si muova quando manipolerò le ossa per rimetterle in asse e gli applicherò una fasciatura.»

«Si spaventerà.»

«Sicuramente. Ma non esiste altro modo.»

Non del tutto convinta, allontanò la mano, liberandolo: quantomeno non intendeva terrorizzarlo intenzionalmente. Tuttavia rimase nei pressi, seguendo ogni sua mossa.

Come c’era da aspettarsi, quando provò a legarlo, il gabbiano prese ad agitarsi nel tentativo di sfuggirgli. Sgusciò dalla presa della sua mano e atterrò con un tonfo sul ripiano del tavolo, scivolando. 

Il suo garrito quasi assordava.

Quando lo riacciuffò, la situazione sembrò addirittura peggiorare.

Aurélie non riuscì più a tollerare quei tentativi che prolungavano la sofferenza dell’animale. Senz’altro indugio avvicinò il viso al becco, ma non abbastanza da rischiare di essere colpita accidentalmente. Gli soffiò addosso in maniera sufficientemente forte da coglierlo di sorpresa, ma anche con la dolcezza che ricordava una brezza marina. Approfittando dell’attimo di immobilità, lo rabbonì con un suono leggermente stridulo che produsse schioccando la lingua contro il palato. Infine, sostituì le sue mani a quelle di Etienne, facendogli capire con un’occhiata che l’avrebbe tenuto fermo.

L’uomo, nonostante la sorpresa, comprese al volo e passò immediatamente all’azione. Anche se il gabbiano tornò ad agitarsi un poco quando avvertì il dolore all’ala, Aurélie fu abile nel non mollare la presa; e, per quanto potè, lo distrasse abbastanza da permettere all’altro di completare celermente il lavoro.

«Non resta che farlo mangiare, così potrà riprendere le forze», commentò alla fine Etienne.

«Cosa mangiano i gabbiani?»

«Beh, pesci ovviamente, ma anche ratti, e altri animali. Si arrangiano con qualunque tipo di scarto, anche di alimenti umani.»

«Avete del pesce da dargli?»

«Sfortunatamente no. Gli darò alcuni avanzi della mia cucina.»

L’idea non le pareva troppo salutare, ma lo tenne per sé. «Per oggi andrà bene. Domani gli porterò del cibo più adatto.»

Etienne si voltò bruscamente verso di lei. «Domani?! Gli porterete? Cosa vi fa pensare che possiate tenerlo qua?»

«Il fatto che in casa mia non ho il permesso di portarlo.»

«Nell’ultima ora avevo avuto l’impressione che non foste un tipo da avere bisogno di un permesso per fare quel che gli pare.»

«Sbagliate. Se mio padre lo trovasse in casa lo consegnerebbe ad Agnés per farlo cucinare. Non c’è alternativa, lo terrete voi; dopotutto siete il suo medico. Io verrò ogni giorno a occuparmi di lui e vedrete che non vi darà fastidio.»

«Onestamente mi preoccupa di più il fastidio che mi darete voi, piuttosto che quello arrecato dalla vostra bestiola.»

Aurélie agitò una mano come a cancellare le sue affermazioni. «Sciocchezze! Non vi accorgerete nemmeno di me.»

«Ne dubito fortemente» borbottò Etienne tra i denti. Lei finse di non sentirlo.

Quando ebbe controllato un’ultima volta le condizioni del gabbiano e averlo visto rilassato dentro il cesto, che usava ormai come nido, decise di far ritorno alla propria casa. Raccolti scialle e cappello, stava per piantare in asso Etienne con un saluto appena accennato, ma l’uomo riuscì a fermarla quando aveva il piede già per metà fuori dall’uscio.

«Aspettate! Non mi avete detto nemmeno come vi chiamate», sbraitò frustrato.

«Sono Aurélie Colette Lacroix», rispose lei d’un fiato. «La vostra promessa sposa.»

Ciò detto, si diresse verso il viale, lasciando il poveretto con un palmo di naso.





 
NOTE:
Il pacchetto del contest che ho usato è La Sacra sindone: 
- Contesto storico: Belle èpoque; 
- Prompt: Macchina;

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Capitolo 2
*** Su ogni pagina che è bianca ***



CAPITOLO 02

Su ogni pagina che ho letto
Su ogni pagina che è bianca
Sasso sangue carta o cenere
Scrivo il tuo nome

 Liberté di Paul Éluard ∽

 
  

Non passò molto tempo che a Saint-Gildas-de-Rhuys ogni abitante ㅡ persino l’infante del calzolaio ㅡ sapesse che finalmente mademoiselle Aurélie aveva accettato il fidanzamento con l’erede dei Duval.

Invero, la notizia di questa unione non aveva mai finito di ossessionare gli abitanti di una cittadella così piccola e modesta, i quali non avevano certamente nulla di meglio da fare che darsi alla speculazione del pettegolezzo. E le due famiglie più in vista del contado erano certamente un valido motivo per far chiacchierare la gente.

La situazione era molto semplice: i Lacroix facevano parte di un ramo della nobiltà francese che era sopravvissuto tenacemente agli eventi post-rivoluzione, per essere successivamente sconfitto dalla politica della Terza Repubblica che, per voler far risorgere gli ideali di uguaglianza rivoluzionari, aveva decretato la sanzione dei titoli nobiliari a partire dagli anni settanta; i Duval, invece, appartenevano a una solida generazione di mercanti che si era finemente arricchita con gli anni. Etienne, di fatto, era l’unico erede del patrimonio di famiglia.

Madame Duval era sempre stata affascinata dall’idea di far sposare a suo figlio una fanciulla che potesse vantare una discendenza aristocratica, nonostante, al presente, la cosa avesse ormai ben poco valore: tuttavia, ella non dubitava che nel giusto contesto, e magari nel resto dell’Europa, un simile elemento avrebbe potuto giocare a favore della sua famiglia, un giorno. È per questo che aveva architettato le nozze tra i due giovani, trovando terreno fertile tra gli stessi Lacroix, affascinati dalla prospettiva del sostanzioso patrimonio. Ciò che non aveva previsto era la tenacia della giovane signorina della suddetta famiglia, la quale si era rifiutata categoricamente anche solo di incontrare suo figlio. Come se non bastasse, nemmeno quest’ultimo aveva mostrato particolare entusiasmo, e aveva accettato la prospettiva delle nozze per sfinimento, pur di non sentir più lamentare sua madre. In cuor suo, però, il fatto che la giovane si fosse mostrata tanto recalcitrante l’aveva rincuorato: si era convinto che molto presto la cosa sarebbe caduta nell’oblio e che, dopo un fallimento così evidente, sarebbe stato ritenuto sciolto da ogni legame.

Tuttavia, la situazione non era quella che tutti credevano.

Dopo quell’incredibile prima visita, infatti, la ragazza era tornata al capanno di Etienne ogni giorno, proprio come aveva detto, ma, contrariamente a quanto ritenuto dagli abitanti della città, Aurélie non aveva affatto accettato il fidanzamento. Anzi, non ci pensava proprio.

La mattina si alzava e trascorreva del tempo in riva al mare, pescando del pesce che avrebbe poi portato al gabbiano cui aveva dato nome Liberté.

Quando l’aveva così battezzato, Etienne non era riuscito a trattenersi dallo sbuffare e dal dichiarare quanto fosse bizzarro un nome simile per un animale. 

Aurélie non vi aveva badato: come da promessa, i pomeriggi infestava il suo capanno con la sua silenziosa presenza. 

Etienne non poteva certo lamentarsi che la ragazza lo disturbasse con borbottii o inutili chiacchiere: se ne stava sempre in un angolo a vezzeggiare il gabbiano o a disegnargli un ritratto. In alcuni giorni, si era persino resa utile, quando aveva dovuto offrire assistenza per la cura di un cucciolo malato e di alcune oche. Etienne non glielo aveva neppure chiesto, ma lei si era accorta quando era in difficoltà nel gestire gli animali e reperire le varie attrezzature e si era prestata a fare quanto necessario con estrema naturalezza.

Se i primi giorni l’uomo aveva nutrito un profondo fastidio per la gratuita invasione del suo spazio, col tempo si era abituato a condividere un cordiale silenzio con quella donna tanto strana.

Ogni tanto si ritrovava a fissarla. Era del tutto naturale che lo facesse, del resto: i primi tempi, quando si era rifiutata con poco garbo persino di vederlo a una specie di incontro preliminare tra le famiglie, aveva indagato discretamente su di lei. Dal garzone della stalla, aveva saputo che mademoiselle Aurélie aveva fama di essere un tipetto alquanto strambo: c’era chi era pronto a scommettere che le mancasse qualche rotella. Dopotutto, perché mai una giovane assennata avrebbe dovuto dimostrare tanto astio verso i divertimenti più comuni e una così spiccata propensione per la solitudine e l’isolamento? Inoltre, quella sua avversione per il matrimonio non lasciava presagire nulla di buono rispetto al resto dei pensieri che rimanevano celati dietro gli occhi imperscrutabili.

Dopo averla avuta vicino per più di una settimana, Etienne era pronto a scommettere che non fosse esattamente pazza, tuttavia la si poteva definire un tipo alquanto originale, questo sì.

Non riteneva nemmeno i suoi occhi imperscrutabili: quando fissava quel limpido sguardo color acquamarina, notava spesso un lampo di emozione, o il balenio di un’ironia sottile, nota a lei sola.

Non sprecava parole, eppure riusciva a comunicare con quanto aveva attorno a un livello molto profondo: aveva cominciato a notarlo dapprima con gli animali, che si aprivano a una fiducia incredibile a vedersi; poi aveva notato la sua sensibilità verso le piante: il piacere che traeva dal loro profumo, quale che fosse la specie.

Una volta l’aveva scorta in giardino: si era allontanata da diversi minuti senza abbandonare la proprietà, e lui era stato curioso di vedere cosa la impegnasse. 

L’aveva trovata con le mani sul tronco di un albero, ma non si stava appoggiando. Seguiva con i polpastrelli ogni piccola venatura, alzando lo sguardo in contemplazione dei fitti rami.

Qualcosa l’aveva fatta sorridere, poi disse: «Sei bello» con una semplicità disarmante.

Aveva dovuto riconoscere che aveva addomesticato, a qualche livello, persino lui.

⚜⚜⚜

Quel giorno il capanno pareva aver ceduto all’assalto di un esercito: il banco da lavoro era sommerso da scatoloni e vecchio materiale, il pavimento ricoperto da oggetti per lo più irrimediabilmente rovinati; nugoli di polvere avevano reso l’aria quasi irrespirabile.

Aurélie entrò mentre Etienne stava scrollandosi di dosso i pulviscoli a forza di manate su gambe e ginocchia. Alzò per aria il naso, socchiudendo gli occhi, prima di starnutire tre volte di fila.

Etienne ne sorrise, curandosi di non darlo a vedere.

«Si può sapere cosa state facendo?»

«Cercavo il mio vecchio microscopio. Non so che fine abbia fatto. Sono quasi certo che debba trovarsi qui, assieme alle cose che usavo da ragazzo.»

«Dunque avete deciso che o lo avrete, o morirete nel tentativo di ritrovarlo? Perché non avete affidato a uno dei vostri domestici questo lavoro?»

«Non permetto a nessuno di toccare le mie cose. Per quanto vecchie e inutilizzabili, mi infastidisce che chiunque possa metterci mano: alcune cose hanno un valore affettivo per me.»

Dopo quella spiegazione, Aurélie non insistette perché comprendeva bene la volontà che gli estranei rimanessero fuori da certi spazi. Tuttavia, questo pensiero non la scoraggiò dall’offrire il suo aiuto.

«Se volete, potrei darvi una mano a passare al vaglio questo caos. Non sarò un’esperta, ma penso di essere in grado di riconoscere un microscopio se ne vedo uno.»

Quello non protestò, così si misero a lavoro.

Fu incredibile la quantità di cose diverse che vennero fuori dai posti più improbabili: Aurélie scovò persino un paio di scarpe da donna. Non seppe resistere alla tentazione di sollevarle in direzione dell’uomo, con uno sguardo pregno di pungente umorismo. Etienne scosse il capo sbuffando, senza spendere una sola parola in spiegazioni.

Infine, quando aprì l’ennesimo baule consunto, trovò quello che cercava.

«Penso di averlo trovato», annunciò la ragazza scuotendo i palmi davanti alla faccia per disperdere la polvere che si era sollevata assieme al coperchio.

Etienne si avvicinò e raccolse i pezzi dello strumento, strofinandoli a uno a uno con un panno.

Aurélie diede un’occhiata a ciò che c’era sul fondo e trovò una vecchia macchina da scrivere. Sopra recava la dicitura “Remington - Sholes”.

Curiosa, tentò di estrarla, ma era molto più pesante di quanto si aspettasse, quindi non ottenne che un tonfo quando ricadde sul fondo del baule.

Etienne si voltò a guardarla con espressione interrogativa.

«Avevo solo visto… ecco, qui c’è una macchina da scrivere», disse per tutta risposta.

L’uomo posò in un angolo sgombro del tavolo i pezzi del microscopio e venne a vedere l’oggetto che aveva attirato la curiosità di Aurélie.

«Oh… era mia. È un modello del 1874», spiegò mentre la tirava fuori.

Dovette spostare a bracciate parte delle cianfrusaglie per poter far spazio alla macchina. «Chissà se funziona ancora...»

Armeggiando per qualche minuto, riuscì a renderla operativa, fornendole soprattutto nuovo inchiostro.

Aurélie non si perdeva una mossa, affascinata dall’oggetto.

Etienne se ne accorse. 

«Desiderate provarla? È la prima volta che ne vedete una?»

«No, io...», si schiarì la gola, osservandolo per un momento. Poi distolse lo sguardo. «Ne avevo una, una volta. Mio padre la distrusse dopo aver trovato ciò che avevo scritto e mi proibì di possederne altre.»

«Eravate una così pessima scrittrice?», la prese in giro.

«Peggio. Avevo trovato chi mi pubblicasse.»

«Come dite?!»

Aurélie lo fissò con un leggero sorriso sulle labbra. «Posso anche raccontarvi tutto, ma vi scandalizzereste», gli disse quasi sfidandolo.

«Avete già dato scandalo in ogni modo possibile, dubito che rimanga ancora qualcosa che non vi ritenga capace di fare. Parlate dunque!»

«Conoscete per caso Louise Michel1?»

Etienne strabuzzò gli occhi. «Volete dire La lupa assetata di sangue?2 Quella che è sempre in mezzo a qualche tafferuglio e che è stata in carcere non so più quante volte? Quella Louise Michel?!»

«Precisamente.»

«E cosa c’entrate voi con quella donna?»

«Ci siamo scritte un paio di lettere. Avevo letto di lei dai giornali qualche anno prima e rimasi affascinata dal suo attivismo politico. Non avrei saputo come contattarla, ovviamente, ma tre anni fa, durante la sua reclusione in seguito alla manifestazione per i disoccupati, pensai bene di spedirle delle lettere in prigione. Con mia sorpresa, riuscì a rispondermi e avemmo uno scambio di opinioni. Quando ottenne la grazia, mi propose di stampare qualcosa servendomi del suo editore. Poi mio padre trovò quelle pagine e proibì qualsiasi comunicazione. Seppi solo che, pochi mesi dopo, era stata arrestata di nuovo.»

«E cosa avevate scritto da suscitare una reazione tanto intensa in vostro padre?»

«Oh, mio padre è facile allo scandalo, non è che ci voglia molto…»

Aurélie accarezzò con dita leggere i tasti della macchina, mentre il silenzio si estendeva tra loro.

Etienne stava ancora aspettando ed era intenzionato a non mollare l’osso, ma non dovette attendere più a lungo.

«Ho solo scritto di come vedo il mondo.»

Quelle parole tagliarono l’aria.

Il tono, apparentemente leggero, aveva dissipato la sottile aria di ironia che aveva permeato la loro discussione fino a quel momento: quelle parole erano un distillato di verità nascoste, molto più profonde e preziose di quanto si potesse dire.

Etienne non cercò di smorzare la pesantezza del silenzio, o di introdurre un altro argomento. Lasciò che lei capisse che aveva capito, e che non aveva intenzione di schivare il problema, qualunque fosse.

Poi disse: «Potete avere la macchina».

Lei lo guardò confusa.

«Potete avere la macchina», ripetè schiarendosi la gola, «da usare nel tempo che trascorrerete qui, in attesa della guarigione del vostro pennuto.»

«Ma...»

«Vostro padre non saprà nulla, naturalmente», la interruppe. «E voi potete scrivere quel che più vi aggrada, per quanto mi riguarda.»

Dopodiché le diede le spalle, tornando al suo attrezzo.

«Grazie», sussurrò Aurélie, senza che lui la potesse sentire.

⚜⚜⚜

Così, nei giorni successivi, un nuovo elemento entrò a far parte della routine dei due giovani: mentre Etienne sedeva nel tempo libero tra i suoi libri di medicina e i due microscopi, mettendone a confronto le diverse risoluzioni, Aurélie batteva a macchina come se non avesse mai fatto altro nella vita. 

Pur essendo estremamente curioso, Etienne non disturbò mai il suo lavoro, né l’importunò con domande indiscrete. Quando e se l’avesse voluto, lo avrebbe reso partecipe del processo creativo. 

A sua volta era impegnato in uno studio estremamente interessante sui vari tipi di tessuto: aveva da poco acquistato l’ultimo modello di microscopio. Avendo reperito quello più vecchio in suo possesso, stava conducendo un confronto oggettivo sulla qualità delle innovazioni.

Il vero problema con quel tipo di studi di dettaglio, era trovare una qualche soluzione che favorisse l’osservazione con lo strumento, perché purtroppo molti campioni apparivano opachi e le varie parti non ben distinguibili tra loro. 

Ultimamente, tuttavia, era venuto a conoscenza del lavoro di un certo Adolph Hannover3 il quale aveva impiegato il triossido di cromo come fissativo, ottenendo migliori risultati.

Pur avendo un occhio sempre gettato sullo strumento, intento a fissare qualcosa, non perdeva mai di vista Aurélie: da come si agitava sulla sedia pareva inquieta. 

«Qualcosa non va?», le chiese a un certo punto.

Lei si strinse le mani sulla gonna; negli ultimi minuti aveva smesso di battere a macchina.

«Si tratta di Liberté. È agitato.»

Etienne notò solo allora che l'uccello sbatteva a tratti l'ala libera dal bendaggio, mentre tentava di strappare a beccate il legaccio che teneva farma l'altra.

«Mi sembra normale, date le circostanze. Onestamente, credo che abbia resistito più di quanto avrebbe fatto qualsiasi altro animale della sua specie. Ho controllato la ferita stamane e non credo sia ancora pronta per affrontare il volo. Rischierebbe un danno permanente se la danneggiasse ancora.»

Aurélie accennò col capo perché comprendeva i timori dell'uomo e li condivideva.

Etienne tornò al suo lavoro, ma lei non riusciva a fare a meno di provare pena per il suo gabbiano. Provò a vezzeggiarlo offrendogli piccoli bocconi di pesce, ma era dal giorno precedente che li rifiutava.

Quando fissava le chiare iridi gialle, sapeva profondamente nel suo cuore quanto quella cattività lo ferisse: era come una ferita di spillo sul petto che si prolungava per intensità, raggiungendo i polmoni e bloccandole il fiato nella gola; come la malinconia più struggente che imperla di lacrime gli occhi al ricordo d'un momento felice, ormai lontano nel tempo, inafferrabile.

Quando avvertiva un simile, acuto dolore in una creatura, Aurélie vi sprofondava senza che potesse più liberare la mente: distoglierne il pensiero sarebbe stato come decretarne la morte per indifferenza e questo non poteva permetterlo.

Il motivo per cui appariva stravagante agli occhi di tutti era perché in lei c'era questa fragilità devastante che le impediva di proteggersi dal mondo e la lasciava nuda davanti a sentimenti dilanianti.

Come la sofferenza, così era anche della gioia: Aurélie viveva tutto intensamente.

Soffriva, soffriva e soffriva dell'indifferenza umana di cui era circondata e della quale non sapeva darsi spiegazione. Aveva compreso quanto fosse diversa la sua prospettiva rispetto a quella degli altri, ma ugualmente non aveva potuto liberarsi dei suoi sentimenti né, potendo, l'avrebbe mai fatto.

Spesso era come essere l'unico abitante del pianeta che sentisse una profonda connessione con ogni creatura, senza mai trovare un compagno che vivesse quella medesima dimensione: per questo aveva deciso che non si sarebbe accontentata di ciò che offrivano le affettate consuetudini umane.

Il matrimonio era uno sterile contratto e lei non avrebbe mai dato il suo consenso per chiudersi dentro una gabbia.

Fu allora che decise il da farsi.

«Porto fuori Liberté. Torneremo tra qualche ora», annunciò di punto in bianco.

Etienne, sorpreso, la guardò accigliato raccogliere il cesto e sistemarvi meglio l'uccello. Poi la vide dirigersi alla porta.

«Aspettate! Che pensate di fare? Dove andate?»

«Andiamo alla scogliera.»

«Vi ho detto che non è ancora pronto per volare...»

«Sì, vi ho inteso perfettamente. Liberté non volerà naturalmente.»

Aurélie sgattaiolò via con la consueta naturalezza: del resto, compariva e scompariva a piacimento, ma non per questo Etienne era ancora riuscito ad abituarsi a quel modo di fare.

Dopo essere rimasto indeciso per mezzo minuto, abbandonò il lavoro sul tavolo e inforcò la porta, deciso a tallonarla: doveva proprio vedere cosa aveva in mente ora.

La raggiunse in poche falcate. Lei gli gettò un'occhiata ma non disse nulla; non mostrò nemmeno sorpresa per il fatto che l'avesse seguita.

Camminarono con passo sostenuto fino a Plage de Kercambre.

Da quando il gabbiano aveva percepito il rumore delle onde e il soffio del vento aveva preso a garrire a metà tra sofferenza ed entusiasmo.

Gli altri uccelli sulla spiaggia risposero al suo saluto e per un momento il frastuono delle stridule voci coprì quella rombante del mare.

Aurélie sorrise compiaciuta.

Liberté si agitava, tentando di uscire dalla cesta per raggiungere il suo stormo, ma la ragazza lo tenne con decisione sussurrandogli al contempo: «Calma... calma, piccolo. Li raggiungerai molto presto, adesso non è ancora il momento».

Gli carezzò le piume, soffermandosi sotto il becco. Quando smise di muoversi eccessivamente lo prese tra le braccia.

Etienne la vide alzare le braccia in alto col loro carico. Spiazzato, assistette alla scena: una piccola ragazza che sollevava in alto un gabbiano ferito contro il forte vento.

Liberté garriva lanciando richiami al cielo: lunghi suoni dolci, che avevano perso quella certa tensione ansiosa di poco prima.

Aprì l'ala sana per sentire addosso la corrente e la sbatté nell'imitazione del volo. Poi Aurélie cominciò a camminare in quella posa, dicendo: «Ecco, amico… l'aria è tua».

Quando la coppia si approssimò agli altri uccelli, quelli fuggirono via: non avevano mai visto qualcosa di tanto strano, né l'aveva mai visto Etienne, si rese conto.

Ma per quanto bizzarra fosse la scena, si ritrovò a sorridere del loro entusiasmo. 

In men che non si dica il sole si trovò alla prossimità dell'orizzonte segnando che era arrivato il momento per tutti di rientrare.

Aurélie aveva le guance rosse per il vento e lo sforzo intrapreso, ma appariva serena. Anche il gabbiano, nel suo cesto, sembrava in qualche modo più tranquillo e a riposo.

Etienne allungò un braccio.

«Lasciate che lo porti io.»

La ragazza cedette il peso senza opporre resistenza ed Etienne ne fu contento. Sapeva che non avrebbe accordato a chiunque tale libertà, né tale fiducia. 

Mentre passeggiavano, decise di spezzare il silenzio.

«Se ho ben capito, voi non desiderate sposarvi.»

Aurélie, che solitamente non aveva aspettative sugli argomenti di una normale conservazione, fu sorpresa da quella domanda. Dopotutto, non avevano mai accennato alla loro peculiare situazione da che, il primo giorno, si era presentata come sua promessa. Certo, lo aveva detto più che altro per punzecchiare, ma si trattava anche della realtà dei fatti: lei poteva essere stata restia, ma i suoi genitori volevano concludere l'affare; avevano impegnato la sua parola e, per quanto ne sapeva, anche Etienne l'aveva data, nonostante non si fosse mai preoccupato di cercarla o di conoscerla.

«No. Non se potessi scegliere», gli rispose.

«Per quale motivo? Forse non… forse non siete attratta dagli uomini?»

Lei lo guardò con un piccolo sorriso divertito.

«Non saprei. Non credo di disdegnarli fisicamente. Però non ho mai incontrato qualcuno che mi facesse venire voglia di baciarlo.»

«Sicché pensate che sarebbe penoso ritrovarvi legata a un uomo per il quale non provate il minimo trasporto?»

Lei sbuffò, come se quella fosse una domanda sciocca.

«Certo! Sarebbe penoso per chiunque trovarsi in una simile situazione. Eppure agli uomini importa molto meno perché hanno altre scappatoie, e lo sapete.»

Etienne non finse di non capire a cosa si riferiva.

«Ma la mia riluttanza, come dite voi, non dipende tanto da questo, quanto dal fatto che il matrimonio per le donne è come una gabbia: si acquista sicurezza e stabilità economica quando si fa un buon affare… però questo a prezzo della libertà individuale, perché da mogli si è soggette ai mariti.

«Che si viva dentro o fuori dal matrimonio, la posizione della donna è sempre molto difficile: molte scelgono di vendersi perché non potrebbero tollerare l'ostracismo della società; io rifiuto di farlo perché non posso tollerare l'ostracismo della mia anima.»

«Perché la vostra anima vi dovrebbe condannare se vi sposaste?»

«Lo farebbe se cedessi a una mera convenzione. Lo farebbe ogni volta che un uomo vorrebbe impormi come comportarmi, cosa pensare, cosa scrivere, dove andare… ditemi, ne esiste forse uno che non sia pronto a sottomettere sua moglie quando la volontà di lei andasse contro quella propria?»

«A onor del vero, da quel che ho visto, posso affermare che non esiste un uomo che voi non siate in grado di sottomettere.»

Aurélie sorrise sbuffando della sua battuta.

«Potreste essere voi a mettere un qualunque uomo dentro una gabbia», disse, fingendo di rabbrividire al pensiero.

«Cosa aspettate, dunque? Affrettatevi a sciogliere il nostro fidanzamento, prima che finiate molto male!»

Etienne scoppiò a ridere. «Ma io non sono un uomo qualunque

Lei strinse gli occhi, facendo una smorfia con le labbra. «E che genere di uomo siete?»

«Uno che si prende cura delle creature…», rispose soppesando le parole, «rispettandone la natura.»

Aurélie riconobbe la verità di quel discorso e lo rispettò perché, al di là del carattere burbero, non l'aveva mai fatta sentire inadeguata, né aveva mai cercato di manipolarla sfruttando come pretesto il loro presunto fidanzamento.

Non poteva negare che nutrisse un sincero affetto per gli animali, che curava sempre con solerzia.

Si era domandata, naturalmente, perché avesse acconsentito a legarsi a una perfetta estranea: quello che aveva capito  ㅡ intuito, più che altro ㅡ era che gli piaceva vivere nella tranquillità al punto che avrebbe accondisceso a qualunque questione che reputava marginale, pur di evitare inutili contrasti. 

Quando arrivarono in prossimità della casa dei Lacroix, Aurélie stava per lasciare Etienne con Liberté, ma l'uomo la trattenne.

Posò il cesto coperto sulle radici di un albero e si avvicinò alla ragazza.

«Forse non è il primo motivo per cui rifiutate l'idea del matrimonio, ma direi di toglierci il dubbio già che ci siamo...»

Aurélie aprì la bocca interrogativamente: «Ma di che cosa parl…?!»

Etienne le aveva cinto il sottile collo con le mani, prima di prendere un assaggio delle sue labbra. 

Le parole di lei si spezzarono in un ansito di sorpresa quando si ritrovò così intimamente a contatto con l'uomo.

Lui si era preso un po' di tempo per distribuire umidi baci sul labbro superiore e poi su quello inferiore; si era spinto al punto di darle qualche leggero morso, trattenendo la carne delicata tra i denti, ma senza farle male. Poi l'aveva succhiata.

Quando Aurélie fu scossa da un brivido ed ebbe liberato un sottile gemito confuso, Etienne allentò la presa, le carezzò col pollice la pelle sensibile dietro un orecchio, e la circondò ai fianchi, premendosela addosso.

Aurélie si abituò piuttosto in fretta a quella novità.

Quando Etienne si fu allontanato pochi millimetri dalle sue labbra, le bisbigliò con voce un po' roca: «Perciò… vi pare che questa intimità possa essere in qualche modo… disdegnabile

«Mmh...», borbottò quella per tutta risposta.

«'Mmh' dite?» insistette, fissandola con intensità. 

Aurélie non abbassò lo sguardo.

«Perlomeno potrei avere voglia di provarne un altro.»

Etienne sorrise e questa volta fu lei a colmare la distanza che li separava. Lui le lasciò decidere il ritmo e si abbandonò con pazienza alle sue esplorazioni: non c'era timidezza nei suoi gesti, solo un certo impaccio dovuto all'inesperienza, che Etienne trovò delizioso.

Lei era deliziosa.

Finì comunque troppo presto: una sola, breve occhiata e Aurélie era già avviata verso casa.

A Etienne non rimase che raccogliere il cesto per tornare a sua volta sul sentiero: Liberté lo fissava col suo giallo sguardo rapace.

«Sai dirmi ㅡ tu che porti questo strano nome ㅡ come posso fare mia una creatura che anela solo alla libertà?»

Il gabbiano non rispose, ma Etienne era pronto a scommettere che, se avesse potuto, avrebbe detto: «Lasciandola libera».





 
NOTE:
[1] Louise Michel (Vroncourt-la-Côte, 29 maggio 1830 – Marsiglia, 9 gennaio 1905) è stata un'anarchica e insegnante francese.
[2] Era così che l’aveva nominata la stampa.
[3] Adolph Hannover (24 Novembre 1814 - 7 Luglio 1894) fu un patologo danese il quale nel 1843 effettuò la prima definitiva descrizione microscopica delle cellule tumorali.

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Capitolo 3
*** Scrivo il tuo nome, Libertà ***



CAPITOLO 03

Su l’assenza che non chiede
Su la nuda solitudine
Su i gradini della morte
Scrivo il tuo nome


Sul vigore ritornato
Sul pericolo svanito
Su l’immemore speranza
Scrivo il tuo nome


E in virtù d’una Parola
Ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per chiamarti


Libertà.

Paul Éluard ∽

 
  

Victoire bussò alla porta della camera di Aurélie. Entrò senza attendere risposta, com’era sua abitudine, e con uno svolazzo di gonne informò la figlia che quella sera avrebbero avuto ospiti a cena.

Aurélie stava pettinando i capelli ancora umidi dal bagno e prestò poca attenzione alle parole della madre, almeno fino a quando una parola non catturò la sua attenzione: Duval.

«Cosa hai detto, mamma?»

La donna, accigliata, ripeté: «Ho detto che farò servire le portate di pesce, Aurélie! Ultimamente vai sempre a pescare la mattina prima di precipitarti dal tuo fidanzato, portando con te qualsiasi cosa tu abbia preso. Non sono poi così sciocca, sai? Ci vuole poco a capire che quella famiglia ama molto il pesce se gliene porti ogni giorno. Non so come tu abbia fatto a scoprire questa preferenza, né mi spiego perché tu debba portare loro qualcosa ogni volta che vai in visita, ma questo...»

«No, mamma, aspetta… volevo dire… hai detto di avere invitato a cena i Duval?!»

«Ma certo, cara, è ovvio! Ora che hai finalmente accettato il fidanzamento non ha più senso rimandare un incontro ufficiale tra le nostre famiglie! Madame Duval si è espressa molto positivamente al riguardo quando le ho spedito l’invito giorni fa.»

«Io avrei accettato il fidanzamento…?» sussurrò confusa la ragazza.

Ma la madre non la stava più ascoltando: si era lanciata con entusiasmo in un accurato vaglio del guardaroba di Aurélie, giudicando quel capo troppo frivolo, l’altro troppo colorato. Chiamando a gran voce Agnés, ciarlò fino a trovare un vestito che era la perfetta combinazione tra pudico e sbarazzino a suo insindacabile giudizio, e che esprimeva una certa qual eleganza che denunciava apertamente la loro discendenza nobiliare.

Aurélie si era completamente estraniata: paralizzata dalle incaute parole materne, si era resa conto con ritardo che, mentre la sua mente era stata impegnata dal pensiero della guarigione di Liberté, il mondo attorno a lei non solo era giunto a conclusioni errate, ma la stava persino muovendo contro la sua volontà.

Iniziò a sudare freddo, sentendosi chiudere addosso una trappola molto più grande di lei: il suo primo istinto fu quello di scappare per rifugiarsi nel contatto con la natura, dove il mormorio degli abitanti del sottobosco l’avrebbe aiutata a placare la paura fino a tornare a respirare. Ma lei era aggrappata al tavolino da toilette e Agnés stava acconciando i suoi capelli in silenzio.

Quando Victoire lasciò la stanza per supervisionare i lavori di casa in vista della cena, la donna più anziana si interruppe e strinse saldamente la spalla della ragazza.

«Mademoiselle Aurélie, cara… state tremando.»

Agnés sedette sulla panca, accanto a lei, e le prese il viso pallido tra le mani sciupate dall’umile lavoro. «Parlatemi, mademoiselle… ditemi cosa vi succede.»

Il tono materno e l’innata fiducia che ispirava, fecero riempire gli occhi di Aurélie di lacrime non più trattenute. «Non sono fidanzata, nounou1. Non voglio esserlo!»

«Oh… bambina», sospirò, stringendosela al petto. «Avete sempre avuto troppa paura per fidarvi di qualsiasi persona… e certo, il pensiero di un marito deve molto intimidirvi, giovane come siete, però… Non avete nulla da temere, sapete?»

Stretta sotto il collo della vecchia balia, Aurélie desiderò poter tornare bambina in un istante, per allontanare tutto ciò che la spaventava e che non poteva controllare.

«Sarò infelice…», gemette.

«Ma cosa dite? Voi che sapete trarre gioia dalla creatura più minuta, non sarete forse capace di farvi amare da monsieur Duval? Fosse anche un orco, io vi dico che si scioglierebbe davanti al vostro buon cuore!»

«Fosse semplice come dici! Ma gli uomini non si piegano, mai! Fanno solo finta di farlo, ma poi perseguono quello che vogliono a prescindere dalla sofferenza che infliggono…»

«Perché pensate questo?», chiese mortificata la donna.

«E come potrei non pensarlo? Quando non ho mai ottenuto che rifiuti da mio padre, il primo uomo che avrebbe dovuto avermi a cuore?!»

«Ah… monsieur Lacroix, lui… monsieur non è una persona facile, certo… ma non ha mai voluto farvi del male, mademoiselle, dovete crederlo.»

«Non importa quali fossero le sue intenzioni, Agnés: non ha mai risparmiato di ferirmi, costringendomi a fare come voleva, a prescindere dai miei desideri. Mi ha vietato di esprimere chi fossi, preferendo avere e dare agli altri un’immagine fittizia, pur di non prendersi la briga di conoscere la vera me: e anzi, ogni volta che l’ho mostrata, non ne ha avuto che disgusto perché non sono quel modello di educazione e nobile contegno che desidera da una figlia.»

Innervosita, Aurélie si alzò, asciugandosi gli occhi. Fissò allo specchio la sua immagine: era quella di una giovane a modo, perfettamente vestita e acconciata, proprio come la voleva la società; unico segno rivelatore della sua sofferenza erano gli occhi arrossati e le palpebre gonfie di pianto.

«Vedo che avete finito di sistemarmi. Se non ti spiace, adesso vado in giardino… ho bisogno di rimanere un po’ da sola.»

«Ma mademoiselle! La cena. Non potete…»

«Non fuggirò, Agnés, te lo prometto. Dio solo sa che è tardi per questo. Devo solo ritrovare la calma, ma non posso riuscirci qui dentro.»

Ciò detto, si lasciò alle spalle la balia che la vide andare alla porta con sguardo costernato.

«Oh, Dieu… come faremo? C 'est n'importe quoi!»2

⚜⚜⚜

Aurélie sedeva sopra la base di un vecchio tronco tagliato. Sapeva che non doveva mancare molto all’arrivo degli ospiti perché il sole era già sceso oltre il margine dell’orizzonte. 

Negli ultimi venti minuti si era ripetuta di andare; di farsi forza e alzarsi per affrontare qualsiasi cosa sarebbe venuta perché infine non stava recandosi all’altare, non ancora per lo meno.

Eppure ogni cosa aveva concorso a distrarla da quel proposito: il vento che aveva scosso le fronde degli alberi l’aveva lasciata in contemplazione di quella dolcezza struggente; ora la rondine che tornava al suo nido descriveva un arco armonioso, prima di posare le zampe leggere sul ramo, presso i propri piccoli che la chiamavano a gran voce.

Tutto, in natura, rispondeva a una legge armonica di procreazione e lei vedeva bene quanta bellezza fosse racchiusa in ciò: se pensava a questo, ella sapeva di poter creare una famiglia, avere dei figli propri che avrebbe potuto crescere insegnando loro a vedere tutto quell’amore nascosto nel cosmo. A proteggerlo. Ma ciò che la turbava era la profonda sfiducia che aveva nei confronti degli uomini che erano per lei poco sensibili, prevaricatori ed egoisti. Forse ㅡ forse ㅡ non tutti lo erano, a onor del vero, ma come poteva sperare Aurélie di trovare qualcuno di diverso e che capisse la sua natura e la rispettasse al punto da non volerla cambiare?

Non poteva rischiare tutta se stessa: non quando conosceva molto bene cosa significasse vivere con qualcuno che frenava costantemente ogni sincero entusiasmo, che controllasse le attività di chi aveva attorno, persino le parole e i pensieri.

Sapeva che suo padre era stato tanto insistente con questa idea del matrimonio perché la riteneva bisognosa della mano ferma di un uomo ㅡ di un marito ㅡ che le facesse abbandonare le sue infantili velleità. Secondo lui, il matrimonio era il mezzo perfetto per liberare una testa vuota da ogni frivolezza perché ci sarebbero state delle responsabilità a cui far fronte che avrebbero funto da distrazione

Lei poteva non sapere cosa significasse affrontare le responsabilità di un matrimonio, ma era propensa a credere che quando un uomo prendeva per sé il corpo di una donna, diventasse ancora più dispotico.

Il suo pensiero andò a Etienne.

Si morse il labbro, nervosamente. Non poteva accusarlo di essere inflessibile o poco sensibile nei suoi confronti. Tuttavia, fare una lista delle sue buone qualità, anziché farla sentire meglio, la gettava nell’agitazione perché la spingeva a rendersi conto che non aveva nessuna buona obiezione per la quale respingerlo. Se poi ripensava a quel bacio che si erano scambiati… 

Si prese il volto tra le mani e sbuffò sonoramente, passandosi le dita tra i capelli.

Quando sentì un rumore di erba calpestata, si alzò subito cercando chi venisse.

Era suo padre.

Régis Alexandre Lacroix camminava verso sua figlia con un oscuro piglio. Istintivamente, la ragazza si irrigidì come se avesse fatto qualcosa di sbagliato. 

Quando le fu davanti, l’uomo non aprì bocca per un lungo istante, si limitò a fissarla severamente.

«Intendi disonorarmi davanti ai nostri ospiti?», proruppe infine, tagliando con la voce l’aria.

Aurélie sussultò. «Certo che no, padre. Stavo solo riposandomi un poco su questo tronco. Non mi sono accorta che si stava facendo così tardi.»

«Non ammetto capricci questa sera. Ci siamo capiti, Aurélie?»

«Sì. Non ce ne saranno.»

Dandole le spalle con un movimento brusco, tornò sul sentiero senza dubitare che la ragazza lo seguisse docilmente.

Lei obbedì, perché non poteva pensare di fare altrimenti.

⚜⚜⚜

Etienne fissava i signori Lacroix discutere amabilmente con sua madre, al di là del tavolo. L’incontro, apparentemente impeccabile e galante, aveva in sé qualche nota stonata.

In realtà, sua madre si mostrava molto affabile ㅡ evento assai raro per una donna come lei che trovava spesso da ridire su tutto e su tutti; monsieur Lacroix stava seduto piuttosto rigidamente e lasciava che fosse la moglie a portare avanti la maggior parte delle discussioni, probabilmente perché gli argomenti vertevano su cose di poca importanza come il tempo, la moda, e le decorazioni delle portate da tè. 

La più strana di tutti era Aurélie: sedeva composta e mostrava un contegno impeccabile. Non che normalmente non esprimesse una certa grazia in ogni cosa che faceva, ma questa sera era spenta. Sembrava muoversi e parlare ㅡ le poche volte che interagiva ㅡ come se non fosse del tutto presente a se stessa. E la cosa gli metteva non poca inquietudine.

Si rese conto improvvisamente di aver contato sul fatto che il loro bacio avesse cambiato almeno in parte le cose… in meglio, ovviamente. 

Quando era giunto l’invito della sua famiglia, l’aveva interpretato come un segnale a suo favore: poteva significare solo che Aurélie non era più tanto riluttante.

Era partito da casa aspettandosi di trovare non un’aperta complicità ㅡ no, di certo, sapeva che era troppo presto ㅡ, e forse nemmeno una velata predilezione, ma almeno un cenno di sorriso che suggerisse che aveva ripensato a quanto accaduto tra loro.

Invece Aurélie era pallida e chiusa nel suo guscio, e lui non riusciva a comprendere se questo atteggiamento fosse la norma in presenza dei loro genitori, a causa del modo imbarazzante in cui erano finiti fidanzati, oppure se era dovuto a un pentimento per le libertà che gli aveva concesso qualche sera prima.

L’aveva vista e conosciuta solo nel privato del suo ambulatorio, dove si era sempre mostrata serena e incredibilmente sicura di sé; adesso pareva un animale ferito.

“Somiglia a Liberté quando aveva nostalgia del vento e del mare”, si ritrovò a pensare. Poi gli sovvenne del modo toccante in cui lei aveva capito i bisogni del gabbiano e di come avesse trovato un modo per sollevare il suo spirito abbattuto. 

Senza neanche rendersene conto, la cena era volta al suo termine.

«Bene, miei cari signori», esordì madame Duval, quando ebbe finito di mangiare il suo dolce. «Credo sia il caso di parlare, a questo punto, delle prossime nozze!»

Etienne sobbalzò dal suo posto. Senza potersi trattenere, fulminò la madre con un’occhiataccia. Se mai ella se ne accorse, fece mostra di non vedere.

«Credo che potremmo cominciare quantomeno a parlare di stabilire una data. Siamo quasi in estate e non ci sarebbe momento più propizio, a mio avviso.»

Madame Lacroix spese un abbagliante sorriso e si disse d’accordo col suo giudizio. Considerò che due mesi potevano essere sufficienti per preparare adeguatamente ogni cosa e spedire le partecipazioni.

Preso in contropiede, Etienne non seppe cosa replicare e corse con lo sguardo a cercare quello di Aurélie. Però lei teneva la testa abbassata e le spalle contratte. 

Prima che quella incresciosa situazione si portasse troppo avanti, decise dunque di intervenire.

«Mie signore, vi prego, cercate di contenere i vostri entusiasmi di madri. Sono sicuro che entrambe sareste capaci di organizzare un matrimonio degno di un re, ma cose come la data delle mie nozze preferisco deciderle da solo e solamente dopo che la mia fidanzata vi abbia acconsentito. Non un momento prima.»

Madame Duval si accigliò, fissando il figlio come se lo vedesse per la prima volta: non si era aspettata, infatti, da parte sua alcun tipo di obiezione giunti a quel punto.

«È ammirevole che un uomo si interessi di certi dettagli… pensavo che tutti fossero simili al mio Régis: a lui è bastato dire dove e quando presentarsi per le nostre nozze. Di certo gli altri dettagli della cerimonia lo tediavano da morire», commentò Victoire per spezzare l’imbarazzante silenzio che era sceso tra loro.

«Io non avevo bisogno di pensare ad altro, mia cara», disse Lacroix, «perché ero certo che il matrimonio ci sarebbe stato, e quanto prima fosse stato possibile.» Trafisse Etienne con una significativa occhiata che certo esprimeva più di quanto avessero mai potuto fare le parole.

Il giovane sostenne il peso del suo giudizio e rifiutò di piegarsi a quel giocoforza: poteva anche amare la pace e rifuggire le inutili ostilità, tuttavia sapeva prendere una ferma posizione quando la situazione lo esigeva; e al momento era urgente stabilire chi fosse a comandare in quel particolare territorio.

«Io invece sono certo di non desiderare una sposa riluttante, monsieur. Dunque approfitterò di tutto il tempo necessario per portare avanti un corteggiamento che raggiunga lo scopo; e se per ciò occorresse attendere più di quanto la mia premurosa madre o la vostra dolce moglie fossero disposte ad aspettare per appagare i loro desideri, così sia.»

Si alzò dal suo posto, avvicinandosi ad Aurélie per porgerle il braccio. «Col vostro permesso, porto la mia fidanzata a passeggiare nel giardino. Quando decideremo alcunché, state pur certi che sarete i primi che metteremo a parte dei nostri progetti.»

Ciò detto, trascinò via la ragazza che lo seguiva divisa tra l’ammirazione e lo stupore per il coraggio che aveva mostrato davanti alla disapprovazione di suo padre.

«Non posso credere che lo abbiate fatto», mormorò quando furono fuori dalla porta e già a metà strata nel sentiero poco illuminato.

«Fatto cosa?»

«Zittito mio padre, naturalmente. Io… io non ci sarei mai riuscita.»

«Beh… non è mica mio padre. È naturale che mostriate più contegno con lui… gli dovete rispetto, dopotutto.»

«Non sono sicura che a frenarmi sia stato il rispetto. Deve essere bello essere un uomo e non avere mai paura di dire la propria. Mio padre non avrebbe accettato una simile risposta da me o da qualsiasi altra donna; però voi siete un uomo e il suo onore gli impone di rispettare la vostra opinione anche se è in contrasto con la sua. Forse vi avrebbe persino rispetto di meno se vi foste mostrato più malleabile.»

«Dite che solo gli uomini sono liberi di dire la propria, però non vi ho mai vista trattenervi dal dirmi in faccia come la pensavate su qualsiasi argomento.»

«Oh, questo perché il mio intento era di scoraggiare un nostro legame: ho pensato che se mi fossi mostrata come sono realmente, vi sareste presto stufato di me e, alla prima occasione, sareste corso da mio padre per implorarlo di rompere il fidanzamento.»

Etienne ridacchiò. «Era questo che pensavate?» chiese ridendo ancora più apertamente. «Non siete stata abbastanza accorta, allora, perché per irritarmi davvero non avreste dovuto mantenere fede alla parola che mi avevate dato quando mi assicuraste che, venendo nel mio ambulatorio ogni giorno, non mi avreste in alcun modo infastidito. Forse quando aprivate bocca non mi avete risparmiamo un grammo di verità, ma non mi avete mai indispettito.»

Aurélie si finse costernata di quel fallimento.

Quando il momento di ilarità finì, tra loro si fece un silenzio imbarazzante. Come potevano parlare della prospettiva di una loro unione quando era così palese a tutti e due che le pressioni dei genitori non sarebbero cessate, né che Aurélie era più disposta di prima ad accettare il corteggiamento?

Etienne a quel punto non sapeva cosa dire.

«Venite», disse a un certo punto, per spezzare la tensione. «Voglio portarvi in un posto.»

Lei lo seguì senza fare domande.

Etienne la condusse per un sentiero inoltrato nel bosco: per poco la ragazza non inciampò cadendo sulla radice sporgente di un albero a causa del buio, ma lui la sorresse con forza, senza apparente sforzo. 

Procedettero fino a raggiungere le sponde di un piccolo lago, poco più grande di un centinaio di metri: qui dal buio emergevano delle lucette intermittenti che guizzavano sul pelo dell’acqua scura. 

Aurélie trannette il fiato alla vista delle lucciole che illuminavano piccoli dettagli di tenue luce. Tutto era immerso in un religioso silenzio che però silenzio non era perché la natura era al colmo del suo tripudio e, senza sforzo, si potevano udire i tenui gorgheggi dell’acqua agitata qua e là dalla coda di qualche pesce, il frusciare dell’ala di un uccello nel suo nido e il frinire dei grilli nascosti dietro ai ciuffi d’erba. Sopra a tutto, come un maestro in orchestra, il vento carezzava le fronde degli alberi, strappando loro scricchiolii leggeri.

«Che splendore!» esclamò a bassa voce Aurélie, che non voleva rovinare quella perfezione.

«Ero sicuro che vi sarebbe piaciuto.»

Quando si era chiesto come avrebbe potuto fare per lei ciò che lei aveva fatto per Liberté, gli era venuto in mente quel luogo speciale: aveva cominciato a escogitare un modo per trascinarla via dalla cena molto prima che suo padre gli fornisse la scusa perfetta.

Ora era contento di vederla tornare in sé.

Rimasero a contemplare lo spettacolo molto più a lungo di quanto non si sarebbe detto: stavano così bene che non si accorsero del passare del tempo.

Avevano deciso di fare ritorno quando Etienne le disse che quella mattina aveva controllato l’ala del gabbiano e l’aveva trovata in buone condizioni.

«Qualche giorno fa l’ho ritenuto prematuro per la sua sicurezza, anche se la ferita si era già rimarginata. Domani, se volete, possiamo portarlo in spiaggia per farlo volare. Non dovrebbero esserci intoppi, quindi tornerà libero.»

«Oh!» fu tutto quello che riuscì a pronunciare la ragazza.

Si premette il petto, dove il cuore aveva preso a battere velocemente alla prospettiva di dire addio al suo amico.

Etienne si fermò quando la vide esitare e, portandosi vicino, alzò una mano a sfiorarle una guancia.

«Non siate triste, finalmente potrà fare ritorno alla sua casa ed essere felice.»

«Sì», rispose Aurélie con un sospiro. «So che è sciocco avere paura per lui… ma mi sembra come di abbandonarlo a un pericolo.»

«Non è sciocco, è naturale. Infatti è al pericolo della vita che lo lasciate. Ogni creatura prima o poi lo deve affrontare e misurarsi con ciò che gli è ignoto, anche se quel pensiero lo tramortisce.»

Aurélie fu colpita profondamente da quelle parole. 

«Avete ragione», sussurrò chinando il capo. 

Assorbì con ogni fibra del suo essere la leggera pressione del suo palmo caldo, che la faceva sentire così stranamente esposta e allo stesso tempo al sicuro, in un modo che non aveva mai sperimentato. 

Si chiese in cuor suo se anche lei non stesse in realtà rifuggendo dal pericolo insito nella vita.

Nessuno dei due disse altro. Etienne non la baciò: le sue dita scivolarono dalla guancia alla spalla, dalla spalla al suo polso, con una delicatezza ricca di attenzione e sentimento. 

Lei gli porse la mano e insieme ritrovarono il sentiero.

⚜⚜⚜

«Siamo pronti», annunciò Etienne quando aprì la porta a una Aurélie impaziente. Aveva fatto l’ultima visita, dichiarato Liberté perfettamente guarito e pronto a riprendere il volo.

«Portiamolo in spiaggia.»

Il gabbiano sembrava avere intuito cosa stesse per accadere: come se percepisse l’energia nervosa dei due umani e avvertisse in lontananza il richiamo del mare. 

Come la prima volta, man mano che si avvicinavano alla scogliera, aveva preso a garrire, richiamando i suoi simili.

La zona era pianeggiante e non c’era nessuno scoglio sopraelevato da cui potevano spronarlo a volare. Dunque, tutto quello che fecero fu limitarsi a liberarlo della benda che bloccava l’ala, lasciandolo per terra tra le rocce, ma non prima che Aurélie l’avesse accarezzato un’ultima volta, mormorandogli piano che vivesse felice la sua prossima avventura.

Una lacrima le sfuggì per essere assorbita dal candido piumaggio.

Il gabbiano, trovandosi finalmente libero dalla costrizione della stoffa, accennò qualche passo sulle zampe palmate, sbattendo le ali in prova. 

Quando acquistò sicurezza, con movimenti sempre più potenti si sollevò in aria, lanciandosi subito lontano dalla riva e scomparendo quasi in contro al sole. 

Poi planò con un grido di trionfo, ritrovando il familiare azzurro, il sicuro vento, gli antichi compagni… l’amatissima libertà. 

Non si volse indietro a chi lasciava, sulla terra: i rimpianti erano solo per gli uomini, per quelle creature che vivevano senza conoscere se stesse o la natura dalla quale erano stati plasmati e dalla quale erano chiamati a vivere con piena gioia.

Liberté era nel suo elemento, e lì lui era il re.

⚜⚜⚜

Nei giorni successivi Aurélie non tornò al capanno di Etienne: Liberté era andato via e lei non aveva più motivo di recarsi da lui. 

Adesso era tornata a trascorrere il tempo nel suo giardino e tra i boschi, al mare e su, al lago che le aveva mostrato la settimana prima. 

Anche se tutto sembrava tornato alla normalità, in realtà al suo cuore era stata tolta la pace: si svegliava con una strana ansia, che non passava col trascorrere della giornata; se ne stava lì annidata tra le coste, come un peso che le impediva di respirare pienamente.

Era anche inquieta: dalla sera della cena nessuno aveva più sollevato l’argomento del suo fidanzamento, nemmeno suo padre. A rigor di logica, avrebbe dovuto provare sollievo, invece viveva con l’aspettativa di qualcosa che non voleva saperne di compiersi.

Etienne non si era fatto vivo: la mattina che avevano liberato il gabbiano l’aveva tenuta stretta mentre lei piangeva dolore e sollievo sulla sua spalla, le mani aggrappate alla sua camicia, tremanti come quelle di una bambina. 

Le aveva dato dei leggeri baci sul capo, tra i capelli agitati dal vento e l’aveva consolata come il migliore amico che non aveva mai avuto avrebbe fatto. Le aveva asciugato le lacrime raccogliendole tra le dita, e quando l’aveva vista più serena e rassegnata, l’aveva fatta ridere con qualche battuta. Poi l’aveva riportata a casa, lasciandola senza la promessa di rivedersi, né alcun’altra parola che non fosse un generico saluto.

Tornò a casa prima del solito quel giorno: non era dell’umore per nessuna delle attività che solevano impegnarla; non aveva in mente neppure di cenare: avrebbe detto ad Agnés che non aveva fame e che sarebbe andata a letto. 

Quando la donna la vide, uno strano sorriso le stirò le labbra e ㅡ prima che la ragazza aprisse bocca ㅡ le comunicò che le era stato recapitato un regalo per lei che si trovava già nella sua camera.

Aurélie non poté ignorare lo sguardo vivace e complice della nutrice: sapeva cosa significava.

Corse su per le scale col cuore che quasi le scoppiava per l’ansia. Quando entrò, tutto poteva immaginare tranne di trovare la Remington orgogliosamente sistemata sulla sua piccola scrivania.

Con mani tremanti, fece scorrere le dita sul freddo ferro: sembrava che qualcuno l’avesse lucidata, tanto risplendeva di lucente nero.

Il primo foglio era stato battuto e recava una semplice scritta.

Questa appartiene a voi. E.D.

C’era anche un libro sul ripiano, segnato a una particolare pagina.

Quando l’aprì, cominciò a leggere: «Souvent, pour s’amuser, les hommes d’équipage…»3

“Spesso, per divertirsi, i marinai catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari, indolenti compagni di viaggio delle navi in lieve corsa sugli abissi amari. L’hanno appena posato sulla tolda e già il re dell’azzurro, maldestro e vergognoso, pietosamente accanto a sé strascina come fossero remi le grandi ali bianche. Com’è fiacco e sinistro il viaggiatore alato! E comico e brutto, lui prima così bello! Chi gli mette una pipa sotto il becco, chi imita, zoppicando, lo storpio che volava! Il Poeta è come lui, principe delle nubi che sta con l’uragano e ride degli arcieri; esule in terra fra gli scherni, impediscono che cammini le sue ali di gigante.4

Aurélie rilesse più e più volte il testo della poesia, senza riuscire a smettere di piangere.

Finalmente si riscosse e, alzandosi dalla sedia, tornò dabbasso. 

Agnés, che si aspettava di vedere mademoiselle raggiante e soddisfatta, strabuzzò gli occhi davanti alla faccia sfatta della ragazza.

«Mon Dieu! Che è accaduto?! Avrei giurato che il pensiero del ragazzo vi avrebbe reso felice… e invece vi trovo in queste condizioni!»

«Nounou, non è niente. Sono solo rimasta colpita.»

«Fulminata, vous voulez dire!»5

Agnés imbevve un fazzoletto in un catino e lo passò sulle guance della padroncina.

«Dove andate, mademoiselle?», esclamò poi, quando la vide precipitarsi alla porta.

«Devo andare da lui. Ho una domanda da fargli», spiegò mentre si allontanava.

Corse per il sentiero fino alla casa di Etienne, e arrivò che quasi non respirava.

Si appoggiò alla bassa staccionata del cancello, piegata sulle ginocchia nel tentativo di recuperare il fiato.

Un’ombra lunga la coprì, oscurandole il sole.

«Avete fatto presto», commentò Etienne con un sorriso.

Aurélie sollevò la testa, raddrizzandosi al contempo per poterlo guardare come meritava. Ma non sembrava propenso a deflettere dal suo atteggiamento spavaldo.

«Suppongo abbiate trovato il mio regalo.»

«Manca una cosa.»

«Ah, sì?»

«Sì… le pagine che ho scritto. Le avevo lasciate con la macchina da scrivere, dentro un fascicolo.»

«Ma certo», disse mostrando l’involto che aveva nascosto fino ad allora dietro la schiena. Tra le mani aveva la cartellina con il testo che aveva battuto.

«Le avete tenute.»

«Sì.»

«E le avete lette?»

«No.»

«Perché non me le avete restituite quando mi avete portato il vostro dono?»

«Dovevo assicurarmi che veniste da me se il regalo non avesse sortito l’effetto sperato.»

Aurélie corrugò la fronte, ma lasciò correre, proseguendo col suo interrogatorio.

«Perché volevate che leggessi proprio quella poesia?»

Lui la fissò intensamente, abbandonando subito il tono scherzoso.

«Volevo che sapeste che io vi capisco, che vi vedo come l’albatro: una delle creature più splendide che abbiano mai solcato i cieli, un principe che corre con l’uragano… e tuttavia un essere fragile. 

«Volevo capiste che non intendo permettere a marinai e uomini rozzi di schernirvi e farvi del male; che io stesso non intendo tradirvi o sbeffeggiarvi.

«Volevo sapeste che, se mi sposaste, non sarebbe come una gabbia, perché io non vorrei mai togliervi la vostra libertà.»

Aurélie gli credette, aveva cominciato a fidarsi già da tempo.

«Avete il permesso di aprire la cartella», disse dopo un lungo momento.

Etienne la guardava senza distogliere gli occhi, in cerca di un segno che fosse rivelatore di ciò che provava.

I suoi occhi erano limpidi sebbene arrossati. Sospettò che avesse pianto, e si trovò a sperare di non averla inavvertitamente ferita.

Continuò a rimanere impalato nella sua posa, al che Aurélie dovette dirgli nuovamente: «Davvero, potete leggerlo».

Allora lentamente Etienne spostò la sua attenzione sul fascicolo che aveva custodito, impedendosi di sbirciare nonostante la curiosità che lo spronava costantemente a infrangere il suo proposito.

Quando aprì la cartella, lesse il titolo in cima alla pagina: «J’écris ton nom, Liberté».

Scrivo il tuo nome, Libertà.

Etienne scorse poche parole, era sinceramente perplesso.

«Cos’è?», le chiese infine.

«È un racconto su Liberté, un gabbiano ferito che, spaventato ed esule sulla terra, è costretto ad accettare l’aiuto di due esseri che gli sono estranei per poter guarire e ritrovare la strada verso casa.»

«Un racconto?» mormorò l’uomo sorridendo. In qualche modo, lo aveva di nuovo sorpreso.

«Sì. Liberté rappresenta i miei sentimenti: per tutta la vita mi sono sempre sentita un'estranea tra le persone. Arrancavo cercando la strada che mi avrebbe resa libera, che mi avrebbe riportato a casa.»

«E l’avete trovata?», domandò Etienne con fervore, socchiudendo gli occhi.

Lei sorrise ammiccante. «Beh… perlomeno voi mi fate credere che il matrimonio non sarebbe poi tanto male.»

«Ah, sì?»

«Sì», confermò. «Ma dovrete mantenere le vostre promesse. Niente gabbie.»

«Nessuna.»

«Potrò scrivere quello che voglio.»

«Va bene», replicò paziente.

«Badate bene, potrebbe venirmi in mente di unirmi a quel gruppo in inghilterra, le suffragette… o potrei fondare un movimento analogo qui in Francia.»

Etienne scosse la testa, fingendosi sorpreso. «Ma io ero convinto che ne faceste già parte!»

Lei scosse la testa ilare, poi tornò seria.

«E se non manterrete la parola… »

«Se non la mantengo?», chiese alzando curioso un sopracciglio.

«Allora me ne andrei via, e voi non potreste impedirmelo.»

Etienne la fissò, leggendo nei suoi occhi una fiera determinazione. Sapeva che diceva sul serio: intendeva ogni parola.

«No», disse lentamente, «non vi tratterrei.»

Poi aggiunse: «Ma se volerete via, Aurélie, allora scriverò il vostro nome per riportarvi da me. Perché se mai mi doveste lasciare portereste via con voi il mio cuore, sarebbe come tenermi in una gabbia: non mi resterebbe che invocare la mia libertà». 

«Se me ne andassi», gli sorrise accarezzandogli lievemente la guancia, «vi basterebbe spiegare le ali e prendere il volo assieme a me.»

«Ah… quella sì che sarebbe libertà.»

Sopra di loro, mentre il cielo imbruniva colorando di toni accesi e struggenti il mondo, uno stormo di gabbiani planò nel vento, fischiando con echi riflessi l’ultimo canto del giorno.

 


~FINE~

 
NOTE:
[1] Nounou, nourrice = balia
[2] Espressione idiomatica francese che può essere tradotta con: “È assurdo”, “È da pazzi”.
[3] Primo verso della poesia L’albatro (o albatros) è il titolo di una poesia di Charles Baudelaire (1821-1867), pubblicata all’interno della raccolta I fiori del male
.
[4] Traduzione di Giovanni Raboni per Mondadori. Ho scelto di trascrivere il testo come se fosse una prosa per amalgamare il significato in chiave di racconto. Non semplice poeticità, ma il racconto della vita di un uccello che rappresenta quegli uomini che vivono da estranei tra i loro simili, e che sono separati da ciò che corona la loro natura, per cui agli occhi di chi non comprende il loro sentire paiono solo strani e impacciati.
[5] “Fulminata, volete dire!”

 
NOTA CONCLUSIVA:
Grazie a tutti coloro che hanno letto questa storia breve, spero sia stata apprezzata.
Ultimamente mi sono accorta di avere scritto molto sul tema della libertà, sebbene sotto diverse forse: questa nuova storia prende in considerazione la libertà di una ragazza che vive in un periodo storico che risente molto di una visione ancora strettamente patriarcale, ma che respira al contempo aria di cambiamenti e sommovimenti interni della società.
Questo racconto, tuttavia, non voleva prendere a esame la lotta per i diritti delle donne — elemento che resta solo sullo sfondo ed è piuttosto marginale — ma semplicemente i sentimenti di una ragazza che ha paura del matrimonio che vede come qualcosa di costrittivo.
Speravo di creare un po' romanticismo senza struggenti dichiarazioni, ma con quel tanto di poesia nel mezzo da coinvolgere una nota nel cuore.
Forse sembra poco il tempo che hanno avuto Etienne e Aurélie per conoscersi e innamorarsi, però penso che a volte quello che basti sia permettersi di guardare davvero una persona e accettare chi lei sia. Etienne è un tipo burbero che ama la tranquillità e credo che la prima cosa che lo incanti, in realtà, sia constatare come riesca a stare bene e a suo agio con quella ragazza che ha invaso il suo spazio, ma che ha avuto rispetto per la privacy della sua mente; ha scorto anche una certa complementarietà nel lavoro condiviso, oltre che nel silenzio.
Lei ovviamente è rimasta colpita dalla pacatezza dei modi di lui, nonostante si presenti un po' sgarbato all'inizio: eppure, ha modo di verificare che dietro le parole non c'è alcuna volontà di sopraffazione.
Ho anche pensato di concludere la storia senza unire i personaggi, il che sarebbe stato molto significativo — specie il riferimento al diritto di autodeterminazione delle donne — tuttavia, volevo far passare un altro messaggio più sottile e, per me, più importante: ovvero che essere liberi non significa per forza fuggire e distruggere ciò che si percepisce come un ostacolo o una costrizione; a volte, bisogna avere anche il coraggio di trovare una forma di libertà che si confaccia alle nostre vere aspirazioni: quindi restare liberi da legami solo se è veramente questo ciò che ci vuole, non perché il negarseli deve diventare simbolo di lotta contro qualcosa. Non so se riesco a spiegarlo bene... ma è ciò che penso, nel bene e nel male. A volte ho l'impressione che le persone lottino per partito preso contro una cosa o l'altra, dimenticando che non è l'elemento in sé da demonizzare (come in questo caso il matrimonio), ma altro.
E basta. Non vi tedio oltre. Grazie sempre  

Ryo13

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