Vampire Devil, sєcσηd αcт.

di kurojulia_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un ballo al chiarore della luna. ***
Capitolo 2: *** Strato di pelle. ***
Capitolo 3: *** La tana del lupo. ***
Capitolo 4: *** La rabbia perpetua della mezzosangue. ***
Capitolo 5: *** Tradizioni e genitori. ***
Capitolo 6: *** Lugubre, ma dolce, ma nostalgico. ***
Capitolo 7: *** L'universo è stato fatto per essere visto dai tuoi occhi. ***
Capitolo 8: *** La risorsa ultima. ***
Capitolo 9: *** Il sintomo del veleno. ***
Capitolo 10: *** Prima di fare la brava. ***
Capitolo 11: *** Una tazza di tè nella terra innevata. ***
Capitolo 12: *** Sul filo della rabbia. ***
Capitolo 13: *** Ribellarsi, invocare, guardare. ***
Capitolo 14: *** Il sangue più denso. ***
Capitolo 15: *** Un'antica giustizia. ***
Capitolo 16: *** Tutta la vita. ***
Capitolo 17: *** La sirena degli Akawa. ***
Capitolo 18: *** Vedrai, sarai felice con me. ***
Capitolo 19: *** Furioso. ***
Capitolo 20: *** Insieme a te. ***
Capitolo 21: *** Il Re. ***
Capitolo 22: *** Stupida, stupida di una figlia. ***
Capitolo 23: *** La casa degli spettri. ***
Capitolo 24: *** La famiglia Katugawa. ***
Capitolo 25: *** Al mondo siamo tutti soli. ***
Capitolo 26: *** Il Consiglio. ***
Capitolo 27: *** Un bellissimo guaio. ***
Capitolo 28: *** Una creatura canterina. ***
Capitolo 29: *** Una triste fiaba. ***
Capitolo 30: *** E noi la stavamo guardando. ***



Capitolo 1
*** Un ballo al chiarore della luna. ***


01.



Da un po' di tempo a quella parte, i corridoi di quella scuola erano diventati impossibili da gestire. Attraversarli in pace era intollerabile perché, da qualsiasi parte andassero, c'era sempre il solito mormorio, il solito chiacchiericcio fastidioso che si insinuava nelle orecchie; era un soprannome quello che veniva sussurrato a voce bassa, con le labbra nascoste dalle mani e gli occhi attenti. Con toni sorpresi, increduli, e in parte arrabbiati e invidiosi.
 

"La coppia perfetta".


Sì, era vero, almeno apparentemente; i due malcapitati erano in effetti esteticamente perfetti, tanto da far dubitare che si trattasse di esseri umani – beh. Peccato che, non molto in profondità, emergesse subito quanto poco perfetti fossero. Lei era perennemente arrabbiata, lui poco propenso ai rapporti civili – e con un passato da stalker.

Era un giorno di Novembre, e l'aria sembrava essersi improvvisamente raffreddata. Era un inferno svegliarsi la mattina e uscire dal tepore del proprio letto, ma altrettanto piacevole appoggiarsi ai termosifoni e riscaldarsi fino a non poterne più. Lo stesso valeva anche per loro. D'altronde, sotto sotto, erano adolescenti come tanti altri.

 

«Se non chiudono quelle dannate fogne... », disse Yuki, in piedi di fronte al proprio banco, con le braccia incrociate al petto.

Sicuramente, sentire certe frasi dalla bocca di una tale bella ragazza farebbe storcere il naso a chiunque – a chiunque non fosse abituato; ma Sayumi Ichinomiya e Takeshi Takugawa ne ridevano e basta, ogni volta che lei se ne usciva con quelle espressioni infelici. Loro erano abituati agli occhi della ragazza, che analizzavano, scrutavano, puntavano come falchi. Riuscivano solo a sorriderne.

«Temo che sarà una relazione molto breve se continua così», commentò Sayumi, inarcando un sopracciglio, per poi guardare verso Takeshi. Lui aggrottò la fronte, giudicandola.
«"Non lo lascerei per nessun motivo al mondo"», cantilenò. «"Lui è troppo importante per me". Ecco, Yumi, senti che belle cose dice la tua amica falco».

Ma l'albina era in un mondo tutto suo, fatto di pensieri omicidi. «Un genocidio organizzato in fretta e furia dovrebbe andar bene comunque. Non credo che Adolf me ne farebbe una colpa».

«Tra colleghi ci si capisce».

Takeshi Katugawa sembrava aver reso la sua reputazione un po' più... favorevole. Adesso non era più un teppista da strada, l'erede di una famiglia yakuza*, non spaccava più le gambe ai suoi compaesani se questi gli urtavano una spalla. Aveva cambiato lavoro, a quanto dicevano le voci, ed era diventato un ragazzo svogliato – ed era diventato il suo ragazzo, sebbene non si trattasse di un lavoro ufficiale. Non proprio, anche la fatica a volte era simile.
Seduto al posto dell'albina, poggiò pigramente la guancia sulla mano, sorridendo verso di lei.


Un attimo dopo, la porta della classe venne aperta con grinta; una donna scompigliata e trafelata faceva il suo ingresso, con imbraccio un libro e una quantità disturbante di fogli volanti, gli occhiali storti sul naso e la camicia fuori dalla gonna. «La personificazione del tornado Katrina», disse il ragazzo.

«Take, oggi sei in vena di battute?», osservò Sayumi, ridendo.

Sayumi era diventata più brava a parlare con il sesso opposto da quando aveva conosciuto Takeshi e un certo vampiro biondo – che non frequentava la scuola, dato che ormai aveva la bellezza di vent'anni; riusciva a fare battute e commenti adeguati alla situazione, non si sentiva a disagio se aveva un qualche tipo di contatto fisico. Ma, nonostante tutti i suoi miglioramenti, non aveva mai smesso di guardare il cielo con quel velo di nostalgia e malinconia.
I suoi voti in letteratura giapponese erano migliorati e sembrava più rilassata, in un certo senso – ma anche più consapevole e precisa.

Stava ridacchiando quando i suoi occhi si erano posati su Takeshi, e l'ilarità le era morta sulle labbra.


La sua chioma scura era rimasta scarmigliata sin da quando si erano conosciuti, cadendo confusi sulla fronte e, ormai erano cresciuti abbastanza fa sfiorare il ponte del naso dritto. E poi, aveva gli occhi più dolci di tutte le galassie. Più lo guardava, più si rendeva conto di quanto bello fosse e stesse diventando, mentre i suoi tratti si indurivano pian piano – e contemporaneamente, ricordava che lui e la sua migliore amica si erano fidanzati il giorno della partenza da Kyoto.

Aveva provato una strana sensazione quando quei due si erano presentati di fronte a lei e le avevano dato la notizia. Yuki era imbarazzata, Takeshi aveva un bel sorriso sulle labbra.


«Dovresti tornare in classe», si affrettò Sayumi, riscuotendosi. «Già i tuoi voti fanno pietà e compassione, rimedia almeno con la condotta! Su, pussa via!».

«Senti chi parla– ».

«Non ha tutti i torti».

«Yuki. Non infierire». Yuki guardò il ragazzo, ridacchiando – con occhi gentili. E Sayumi quasi si sentì felice, in quel momento. Eppure, quella strana sensazione non tardava mai.


 


 

 

***


 

 


 

«Sbaglio o è la seconda volta che riusciamo a tornare a casa? Insieme, intendo».


Takeshi si voltò a guardare la mezzosangue. Ma la domanda che le aveva fatto era più un fatto che un dubbio. Era davvero solo la seconda volta che facevano quella strada insieme – da coppia – ed era un peccato, dato quanto fosse bello camminare insieme.
Lei non rispose subito, presa in contropiede, ma subito annuì. «È vero, hai ragione. Cominciavo a pensare che non ci saremmo più riusciti», aggiunse, con una breve risata.

«Credo proprio che dovrò comportarmi meglio».

«Così non ti farai trattenere tutte le volte dai professori».

«Sì, sì. Non è che sia solo a causa mia, però, se non ci siamo riusciti», ribatté lui. «Sai, non ero io quello che faceva lo schivo».


 

Sì, era vero. Era stata un po'... sfuggente, e le dispiaceva, perché ad un certo punto Takeshi sembrava cominciare ad esasperarsi; il principale problema era che lei non era mai stata in una relazione prima d'ora e, sicuramente, non pensava che la prima volta sarebbe stata con un essere umano.
Si era persino chiesta se c'era qualche differenza nei rapporti di coppia tra umani rispetto a quelli fra vampiri o demoni, ma era giunta alla conclusione che era tutto più o meno uguale. O comunque, avrebbe usato la sapienza di Sayumi, se avesse avuto qualche dubbio in più.

«Ti ho già chiesto scusa», brontolò Yuki, alzando gli occhi al cielo. Accanto a loro passò una macchina, sollevando un leggero strato di polvere. «Mentre tu non ti sei mai scusato per avermi pedinata».

«Che esagerazione. Non ti ho pedinata. Ti ho solo tenuta d'occhio».

«... certo. Pedinata».


Yuki e Takeshi si voltarono, per guardarsi reciprocamente con delle espressioni divertite.

«Ehy», fece lui, mentre stringeva la mano fredda della mezzosangue. Titubante, non sapeva se fosse davvero il caso di farle quella domanda, ma era preoccupato per lei, per il suo stato d'animo, sebbene sembrasse star bene. Alla fine respirò piano, cercando di nascondere un sospiro. «Come stai?», disse.

«Sto bene», disse placidamente Yuki. «E tu, Take? Come stai?».

Takeshi non rispose, limitandosi a sorridere leggermente e a voltarsi verso la strada.


Con le ombre proiettate sul marciapiedi, dalle chiome smeraldine sopra le loro teste, continuavano il loro tragitto lentamente, cullati dalla temperatura mite del pomeriggio. All'orizzonte, il disco aranciato del sole al crepuscolo cominciava a sparire dietro gli edifici.
Yuki credeva che mancasse ancora tanto per arrivare a casa sua, ma si sbagliava alla grande. Era così presa da quel senso di pace che stava per picchiare la testa contro la porta ed era stato solo grazie a Takeshi se si era evitata un bernoccolo grande quanto il pomello. «Ehy, siamo arrivati. O vuoi passarci attraverso? Puoi fare anche questo?», con delicatezza, il ragazzo aveva lasciato le sue spalle, e si era poi infilato una mano nella tasca.

Yuki fece un passo indietro, storcendo la bocca. «Sì, vedo».

«Qualcosa non– », "qualcosa non va", stava per chiederle, ma un pensiero si infiltrò fra le sinapsi del suo cervello, un pensiero troppo bello e divertente per lasciarlo come tale – allora decise di dargli una voce, mentre le labbra si incurvavano in un sorriso allietato e compiaciuto. «Non dirmi che ti manco già».


 

Oh, precisamente. Ci aveva azzeccato. Aveva fatto centro. 100 punti.

Yuki abbassò lo sguardo, tentanto disperatamente di nascondere l'imbarazzo che la stava attanagliando – le leggeva nel pensiero o cosa? Non era possibile che l'avesse capito così facilmente. Non era proprio possibile.
Si sentì una stupida, ma soprattutto troppo scoperta, mentre i suoi occhi gli videro compiere un piccolo passo, finché le sue scarpe non toccarono quelle dell'albina. Solo allora Yuki alzò il volto.
«Non ti crucciare», le aveva sussurrato, contro il suo viso. Le sue braccia si mossero, le dita andarono sui fianchi per cingerli. Takeshi aveva perso il sorriso, concentrato com'era sulle labbra di lei, sottili e dischiuse, a stento aveva fatto caso al rossore sulle guance. Il respiro della mezzosangue era quasi freddo, inumano – allora, chiuse gli occhi e si sporse verso di lei. Piano, mentre l'aria intorno a loro si caricava di elettricità.

E a quel punto, Yuki lo spinse via con entrambe le mani.

Le aveva appoggiate contro il suo petto, nell'atto di avvicinarsi a sua volta, e subito dopo queste l'avevano allontanato – perché l'anta sinistra della porta d'ingresso si era aperta.

 

Adesso, un uomo stava sull'uscio, le braccia incrociate al petto; doveva avere poco più di quarant'anni, la pelle cerea e i tratti induriti dal tempo, la bocca sottile e rigida. Aveva i capelli argentei, tirati indietro in una pettinatura ordinata, e gelidi occhi color borgogna.
Indossava degli abiti piuttosto eleganti. Una camicia bianca, con al di sopra un gilet nero di seta, e un paio di pantaloni della stessa tinta.

Yuki, con le braccia incrociate al petto, tutta impettita, lo fissava con occhi strani. «Che c'è?», sbottò. «Sono tornata, e quindi?».

Takeshi li teneva d'occhio. Si assomigliavano parecchio, l'un l'altra, probabilmente a causa dello sguardo incattivito. L'uomo sembrava però più freddo rispetto alla ragazza, e aveva un portamento più composto e fiero – ma gli mancava l'ironia di lei. Inutile rifletterci, erano padre e figlia.

«Questo lo vedo», fece l'uomo, con una voce bassa.


Wow, ehy, non esageriamo con le effusioni, pensò Takeshi, inarcando un sopracciglio.
L'uomo albino guardò prima Yuki, con un accenno di fronte aggrottata, e poi pose la sua attenzione sul moro. La sensazione era simile a quella che si provava in tribunale, si sentiva accusato di colpe fantasma. Aveva l'impressione che l'uomo non lo volesse lì e che lui non avrebbe mai dovuto trovarsi di fronte a quella porta.

«Entra», proseguì l'uomo, serafico, per poi sparire dentro casa così com'era apparso – silenzioso.

«Se il mondo starà per precipitare, allora in quel caso prenderò in considerazione l'idea di seguir – ehy! Ehy, tu, sto parlando con te! Dannazione».


Con un po' di furia repressa, Yuki scalciò la terra sotto i suoi piedi, sollevando una sottile coltre di polvere e pulviscolo, schioccando un'occhiata indignata all'interno della sua stessa casa.
Ma perché doveva sempre... prese un respiro profondo e poi espirò, lentamente. Solo a quel punto si era calmata abbastanza da poter parlare con Takeshi. Ruotò i piedi verso di lui, notando la sua espressione perplessa, quella che esigeva qualche tipo di spiegazione.
«Scusami», cominciò lei, prendendogli una mano, stringendola con gentilezza. «Avevo sentito i suoi passi e sai, non mi sembra il modo giusto per... presentarti».

Takeshi guardò la sua mano, accolta da quella della mezzosangue, e l'ombra di un sorriso gli passò sulle labbra. «Devo dire che è un tipo particolare. Ti somiglia molto».


 

Yuki aprì la bocca – e la richiuse. Poi gli diede le spalle, senza aggiungere altro, ed entrò dentro casa.

Takeshi allora ripensò alle parole di Sayumi. Chissà che davvero la loro relazione fosse sul punto di chiudersi.

Quella iettatrice, pensò.


 


 

 

 

***


 

 


 


Somigliarsi? Lei? Con lui?

Ma non diciamo fesserie, pensò, mentre attraversava il salone, non per vantarmi, ma sono nettamente meglio di lui. Sono più gentile. Più affettuosa. ... okay, ora ho detto una balla.

Mentre si avvicinava in direzione della sua stanza, dove probabilmente avrebbe distrutto qualche mobile, intravide la figura del padre in cima alle scale che l'aspettava, con le braccia al petto e un espressione quasi annoiata in viso. Yuki sbuffò e per un attimo fu tentata di fare inversione di marcia – tuttavia continuò a salire le scale finché non gli fu arrivata di fronte. «Complimenti», ringhiò la mezzosangue. «Hai proprio l'ospitalità di un uomo di neanderthal. Vuoi anche una clava, dato che ci troviamo?».

Ma l'uomo non si scompose nemmeno per sbaglio, anzi, la sua maschera si induriva anche di più; le diede le spalle e cominciò a camminare verso la passerella dal lato destro. Lei lo seguì, alzando gli occhi alla volta. «Con te ci si diverte da morire, eh», commentò.

«Non ci si deve divertire, difatti. Non sono certo un clown. Per quello esistono gli umani».


 

Ma Yuki non odiava suo padre, no, assolutamente. Solo, se lei avesse avuto un salvagente e lui stesse affogando nelle terribili acque dell'oceano, l'avrebbe bucato con un riccio indiavolato.
«In ogni caso, di cosa vuoi parlarmi?».

«Adesso lo saprai».

L'albina si morse la lingua dentro la bocca perché sapeva che sarebbero andati in quel suo studio, che lui tanto amava, e che lei odiava. Superarono la stanza di Ai, la camera da letto, la lavanderia e finalmente raggiunsero la quarta porta che ospitava lo studio del capostipite Oseroth Akawa, fiero demone di origini nobili.
Il suo studio era una stanza parecchio angusta – una sua precisa scelta “estetica” –, le cui pareti erano tappezzate di librerie stracolme di libri spessi, ormai impolverati dopo tanto tempo. Al centro svettava la scrivania dell'uomo, su cui sopra c'era una lampada da tavolo verde, diversi fogli sparpagliati, qualche testo aperto con solo una penna a fare da segnalibro, una sedia di fronte alla scrivania per gli ospiti.

Yuki non vi si sedette, mentre Oseroth tornava al suo posto, alla poltrona. Una volta accomodatosi, accennò un impercettibile sorriso. «Era un tuo compagno di scuola? O forse, una preda?».

«Cosa? No», sibilò lei. «Sai che non ho prede».

Beh, tecnicamente una volta aveva approfittato del sangue di Takeshi – e di Sayumi – ma non c'erano stati altri episodi come quelli, il ché si faceva risentire sulla sua stessa salute.

«Avevo creduto che ti fosse passata questa stupida fase di ribellione e avessi finalmente cominciato a nutrirti in modo normale. Sono stato sciocco a pensarlo».

Yuki sorrise, forzatamente. «Oh, per una volta ci troviamo d'accordo».


 

Forse era meglio fargli credere che Takeshi fosse solo una preda, in questo modo – se andava tutto bene – Oseroth non avrebbe sospettato di loro; se l'avesse scoperto, beh, i problemi sarebbero stati infiniti.
Yuki spostò il peso da un piede all'altro, sentendosi improvvisamente a disagio e circospetta. «Allora?».


Oseroth Akawa, il "Re di ghiaccio", incurvò ancora una volta la bocca, e Yuki si maledì per non essere una povera orfanella.

«Ballo».


 


 


 

***


 


 


 

«Dai. Portami con te. Me ne starò buona buonina. Sono o non sono la tua migliore amica?».

«Proprio perché sei la mia migliore amica non ti porterò mai ad una cosa del genere. Sai come funziona? Tanti pinguini con la puzza sotto al naso che cercano di ingraziarsi i potenti e tanti saluti ai principi morali».

Sayumi, dall'altra parte del telefono, sbuffò sonoramente. «Immaginavo che non fosse proprio come in Cenerentola».

«Non credo di averlo mai visto».

«Ma parli sul serio?», Sayumi scoppiò a ridere mentre infilava una mano nel sacchetto delle patatine e se ne portava una alla bocca. «A voi vampiri e demoni non è permesso guardare la tv? A proposito, ripetimi il nome del festeggiato un secondo».

«Ichiro. Ichiro "mi-piace-prendermi-i-calci" Fukanishi».


L'altra rise nuovamente, cercando di non sputacchiare le patatine, mentre batteva i tasti del suo portatile; quella ragazza era stata incapace di usare qualsiasi forma di tecnologia per un po' di tempo, almeno fino a quando non aveva compiuto quattordici anni e le avevano regalato il suo primo cellulare. A quel punto, era diventata velocemente portata per telefoni e computer. Infatti, Sayumi aveva un certo talento nell'apprendimento, come se fosse affamata di informazioni. «Dunque, dunque... è il figlio di un imprenditore, eh? Naturalmente, non poteva essere un tizio qualunque».

Yuki stendette le gambe sul letto, mettendone una sopra l'altra. «Molte persone famose sono in realtà vampiri o demoni – per lo più vampiri, se devo dirti la verità». Alzò lo sguardo verso il soffitto della stanza, strizzando le palpebre. «Attori, cantanti, medici importanti».

«Ah, ma bene. Quindi un vampiro o un demone potrebbe aprirmi su un tavolo operatorio?», Sayumi tirò su col naso e spostò il portatile sul letto. «Ma aspetta. Come fanno a fare i medici di fronte a tutto quel sangue?».

«Ascoltami, non dovete prendermi come esempio, perché io sono una causa persa. I vampiri e i demoni che si nutrono regolarmente – o molto spesso – sono in grado di vedere o sentire sangue e rimanere comunque lucidi. Anche Tetsuya ne è capace».

«... che forza».

Yuki sospirò. «Da una parte sono tranquilla, dato che Tetsuya mi accompagna».


 

Dall'altro capo, si sentì il rumore pesante e sordo di un tonfo. La mezzosangue si mise seduta, chiamandola un paio di volte prima di ricevere una risposta dalla ragazza.

«Ah, sì – sono caduta», biascicò Sayumi. «E mi era caduto il cellulare. Okay, dicevamo? Ah giusto, che sarete insieme al ballo... vi devo assolutamente vedere».
Al ché, Yuki non sapeva più se mettersi a ridere o assecondarla e basta, perché cominciava a diventare insistente. «Ti faccio una foto dell'interno, così ti basta?».

«Ti prometto un favore».

Yuki non rispose, rimanendo in silenzio. Eh, no. Era proprio una pessima idea fare una promessa ad una creatura non-umana, specialmente se era un demone, perché non aspettavano altro che approfittarne. Sorrise leggermente, passandosi la lingua sui canini.
«Allora sei invitata a non imbucarti al party».


 


 


 

***

 


 


 

Non era la sua indole ribelle che la faceva apparire così contrariata – non solo, per lo meno.

Era proprio l'idea in sé a mandarla fuori dai gangheri. Era un rifiuto morale, fisico e psichico; tutti conoscevano il suo carattere contorto e ciononostante nessuno, in quella dannata società, aveva mai provato a comportarsi in modo più vero nei suoi confronti, avevano sempre continuato con quegli atteggiamenti fastidiosi. E adesso li avrebbe visti tutti insieme in una volta sola.

Yuki serrò la mandibola, di fronte alla specchiera, seduta su uno sgabello di pelle nera. Le iridi erano incollate con insistenza sul vetro ma non stavano davvero guardando il proprio riflesso. Addosso, aveva la sottoveste dell'abito che avrebbe indossato – dopo che Kukuri l'avesse truccata.

Dopo che gli Akawa avevano accolto la ragazza umana nella loro famiglia, Kukuri aveva dimostrato di saper imparare in fretta e di avere un certo spirito di adattamento.

 

Kukuri aveva perso la memoria da bambina, all'età di sette anni, dopo che lei e i suoi genitori avevano avuto un incidente stradale in autostrada, poco distante dal paese. Oseroth e Kazumi Akawa avevano appena intrapreso quella strada in carrozza e mentre questa attraversava l'asfalto, Kazumi aveva notato una nube di fumo alzarsi in cielo, appena qualche metro da loro.
Lei aveva insistito con Oseroth per scendere dalla carrozza e andare a dare un'occhiata e proprio lì, la macchina capovolta in mezzo all'erba e ai rovi, una bambina stava urlando e piangendo a squarciagola. Kazumi si era mossa in fretta, sebbene sopra dei tacchi, e mentre raggiungeva la macchina un finestrino andava in frantumi.

Kukuri era riuscita ad uscire dal finestrino prendendolo a calci e Kazumi l'aveva presa fra le braccia all'istante, allontanandosi in pochi scatti. Qualche secondo dopo, la macchina era esplosa.

Ci aveva messo una settimana per ricordare il suo nome.

 

Un anno dopo, aveva ricordato abbastanza da poter condurre una vita reale; ricordava il suo nome, la sua età e dov'era nata, ma il cognome rimaneva in ombra nella sua mente.
E così, Kukuri aveva insistito per giorni perché potesse lavorare per loro, in modo da ripagarli per tutto quello che avevano fatto per lei.

 

Yuki la guardava mentre si aggiustava gli occhiali sul naso e si spostava i cortissimi capelli scuri. Quando incrociò il suo sguardo, Kukuri le sorrise allegramente.

La mezzosangue brontolò, incrociando le braccia al petto. «Invece di lavorare qui, potresti diventare una truccatrice professionista».

Kukuri si mise a ridere, scuotendo la testa. «Ah, non penso sia il caso. E poi, a me piace stare qui, con voi tutti».

«Beh... », Yuki si morse il labbro e poi sospirò, con una smorfia. «... ne sono felice».

 

Kukuri cominciò a spazzolarle i capelli con il pettine, delicatamente, canticchiando sottovoce. Ad un certo punto si piegò sulle ginocchia, per raggiungere le punte della chioma della sua padrona. «Beh, siete pronta? Stanotte farete un passo in più nella società!».

«Che sballo!».

Sentendo il suo tono ironico, la ragazza scoppiò a ridere. «E quali casati parteciperanno?».

«Beh, noi Akawa», cominciò la mezzosangue, alzando l'indice mentre contava. «Osawa, Ichinose, Tachibana, Beaumont e... non me li ricordo più, sono troppi. Quell'idiota di Fukanishi non sa proprio come darsi un contegno».

«Pensate positivo, magari potreste incontrare qualcuno di interessante, stasera».
 

Il sopracciglio dell'albina si inarcò sull'occhio; interessante? Non è che lo escludesse a priori, se doveva essere onesta, ma nemmeno osava provare una speranza simile, un sogno del genere. Sì, certo, ci sarebbe stata molta gente a quel party di compleanno ma la maggior parte sarebbe stata troppo presa da affari e incontri combinati. Stupidaggini come quelle ci sarebbero sempre state.
«Se mai dovessi incontrare qualcuno d'interessante», disse Yuki. «allora sarò finita al ballo sbagliato. Sicuramente, non un ballo per vampiri e demoni».


 

Un'ora più tardi, Yuki era pronta. Aveva indossato il cappotto e infilato le mani nelle tasche ed era scesa, percorrendo l'ampia scalinata che portava al salone d'ingresso. Lì, in piedi di fronte alla porta, c'era già suo padre, ma quando incrociarono gli sguardi, l'uomo le fece un cenno col capo ed uscì, lasciando il portone socchiuso.
Yuki allora continuò a scendere gli scalini, facendo attenzione a dove metteva i piedi, e raggiunse anche lei l'esterno. Il freddo che c'era fuori era tagliente e rigido come una lama, come ogni inverno in Giappone; l'erba sotto le sue scarpe col tacco era coperta da un leggero strato di rugiada, il vento era lento ma gelato, e tutto intorno era silenzioso come un tempio. Solo in lontananza, in strada, si sentiva un vago rumore di macchine.
Il cielo era ormai imbrunito da diverse ore e a mezzanotte era diventato buio pesto.

In qualche modo, quel tempo le aveva alleggerito l'animo. Lei non percepiva molto il freddo, ma le piaceva la sensazione che l'inverno trasmetteva. Si mise le mani, coperte dai guanti, davanti alla bocca a coppa e ci respirò dentro, chiudendo le palpebre.

Chissà se a Makoto piace l'inverno, pensò, di riflesso – riaprì gli occhi e infilò le mani nelle tasche del cappotto. Forse sì. Makoto sembrava un tipo romantico.


 

Sospirò e riprese a camminare per raggiungere il retro della residenza, dove la carrozza la stava aspettando. Si infiltrò silenziosamente nel buio e spuntò dall'altra parte, trovandosi il veicolo di fronte agli occhi, a qualche metro dal giardino dove venivano coltivati ortaggi, frutta e verdura.

Di fronte alla carrozza, c'era una donna; una figura longilinea ed elegante, nascosta dal cappotto con pelliccia, con una cascata di capelli rosso bordeaux lasciati lunghi sulla schiena, sulle guance arrotolati in morbidi boccoli. Aveva un viso delicato, dalla pelle chiara, e fulgidi occhi oro dalla forma dolce ma affilata. Kazumi Akawa sorrideva dolcemente in direzione di sua figlia, socchiudendo le palpebre.
«Cara, fa in fretta», disse la donna. «Dobbiamo partire per la villa!»

«Sì sì», rispose Yuki, affrettando il passo.


 

Kazumi la precedette e, aiutata da Sebastian che le diede la mano, si infilò nella carrozza. Lo stesso fece Yuki, che salutò il maggiordomo con un sorriso, e si sedette di fronte ai suoi genitori.

La carrozza aveva soffici sedili in velluto verde, tendine davanti ai finestrini ed era abbastanza spaziosa da contenere quattro adulti e una bambina. Oseroth e Kazumi sedevano l'uno accanto all'altra e l'albina si era messa di fronte a sua madre, appoggiando il gomito sullo sportello e la guancia contro la mano.
«Alla buon'ora», commentò Oseroth, prima di colpire il separé che li divideva dal cocchiere all'esterno. Subito dopo, la carrozza cominciò a muoversi.

«Prova ad indossare un paio di tacchi, poi voglio vedere». Suo padre era sempre così simpatico. Ma che accidenti ci vedeva sua madre in lui? Sembrava fondersi con le ombre all'interno del veicolo, con quel grande mantello nero, in viso un espressione stranamente annoiata. I capelli bianchi erano ordinatamente pettinati all'indietro e indossava un completo nero e un papillon rosso.

«E Tetsuya, invece? È già lì? Avrebbe potuto venire con noi», disse Kazumi.

«Non so che dirti, evidentemente non voleva prendere un passaggio».


 

Con due dita, scostò la tendina e guardò fuori dal finestrino. Solo al sospiro della vampira, Yuki si decise a guardarli; Oseroth teneva le braccia incrociate al petto come un militare, mentre Kazumi sembrava un po' giù di morale, con le mani posate in grembo. Il primo guardava la seconda di traverso – era peggio della Monna Lisa, in quanto ad espressività –, con le labbra leggermente imbronciate.
Qualche istante dopo, sotto lo sguardo perplesso della figlia, l'uomo si voltò verso di lei ed esordì: «Ascoltami bene. Mi aspetto molto da te, questa sera. È della tua reputazione in società che parliamo ed è fondamentale che tu faccia buona impressione. Demoni e vampiri hanno molti pregiudizi, sia in generale che su di te, e devi fare in modo di dissiparli».

«Come no, e magari porto anche la pace nel mondo».

«Non essere sciocca, non è niente di impossibile», ribatté Oseroth. «Devi solo rispettare l'etichetta».

«Tuo padre ha ragione, tesoro», disse Kazumi. «Ti sarà molto utile per costruirti un futuro».

«Ma soprattutto, voglio che tu approfondisca il tuo rapporto con Ichiro Fukanishi».

«Esatto, Yuki, ha rag–... che hai detto?».


 

Al suono delle parole del padre, Yuki si impietrì sul suo posto. Stava scherzando. Doveva per forza essere una battuta, anche se non era divertente, ma era di suo padre che si stava parlando e aveva uno strano modo di fare il burlone.
No, Oseroth non scherzava mai, a malapena sorrideva, figuriamoci fare qualche battuta.
Era serio – come al solito.

Kazumi aveva sgranato gli occhi, puntandoli sul marito come un leopardo con un coniglietto. Kazumi era universalmente nota come una donna dolce e comprensiva, dai modi eleganti e molto fini, ma era conosciuta anche per la sua forza e per quando... si arrabbiava. Perché diventava una furia. La personificazione stessa della rabbia. Eppure, Oseroth non aveva mai dimostrato paura o soggezione verso di lei, aveva sempre mantenuto un velo di freddezza, in qualsiasi situazione. Forse questo aveva avuto un impatto sulla donna.

 

«Hai sbattuto la testa contro un spigolo, per caso, mio caro?».

Yuki guardò sua madre con occhi sorpresi. Stava forse cercando di aiutarla?

«No».

«E che ne è di Tetsuya? Lui sì che è un ottimo partito!».

Come non detto.

«Yuki Fukanishi. Suona bene».

«Mi stai ascoltando?», sibilò la vampira, mentre apriva la bocca e i canini facevano capolino.

«Ti sto ascoltando e Kazumi, non ti ci mettere anche tu».

«Certo, invece. È mia figlia. Quindi sì, mi ci metto anch'io».

«Fai come vuoi, ma Tetsuya non è un “ottimo partito”. La sua famiglia è distrutta, chissà cosa ha combinato in tutto questo tempo», disse Oseroth.

«Ma noi conosciamo Tetsuya e sappiamo che persona è. Ci possiamo fidare di lui, è intelligente, di bell'aspetto ed è forte. È uno dei pochi vampiri ad aver sviluppato le sue abilità e, nonostante tutto, non rientra tra le “possibilità”?».


 

«ALT!». Yuki tirò un sospirò, chiudendo le braccia, dopo che le aveva aperte per attirare la loro attenzione – nervosa e confusa. Con sua madre, forse, sarebbe riuscita a cavare un ragno dal buco. Il vero problema era Oseroth – allora lo fissò dritto nelle pupille strette e sottili. «Senti un po'. Non obbedisco ad una tua richiesta – o ordine, chiamalo come vuoi – da quando avevo undici anni. Undici. Ti aspetti che adesso invece lo faccia? Quello spigolo doveva essere bello appuntito».

Lei aveva Takeshi, lei aveva quel meraviglioso distruttore, e non aveva bisogno di altri pretendenti, che si trattasse di conti, principi o amori passati.
Oseroth sorrideva, sornione. «Non è che me l'aspetto. Devi farlo. È un ordine».

«Siamo arrivati», annunciò la voce del cocchiere, che batté un pugno contro il separé. Il rumore degli zoccoli era difatti stato sostituito da un vociare continuo; una forte luce calda, proveniente dalla destra dell'albina, precedeva l'entrata alla residenza dei Fukanishi, illustre famiglia vampirica.


 

Ma Yuki stava scrutando Oseroth.

I suoi occhi scuri, con quello screzio di borgogna, ricambiavano lo sguardo senza la minima esitazione, fermi. Lei odiava ammetterlo, ma si somigliavano molto più di quanto volesse.
«Riprenderemo questa discussione», la voce di Kazumi destò la ragazza dalla sua contemplazione, che si voltò in tempo per vederla scendere dalla carrozza con aria stizzita. Allora, Yuki scosse il capo e sorrise.

«Non ce n'è bisogno. Lo farò».


 


 


 

 

NOTA:
Ed eccoci qua. Secondo atto, primo capitolo.
… Dio, avrei dovuto aspettare un po' di più per riprendere la pubblicazione, ma non ce la facevo. Sentivo questa smania assurda di continuare la storia.
In ogni caso! Con l'inizio del secondo atto, c'è anche l'introduzione di due nuovi personaggi, i genitori di Yuki!

Sarei molto curiosa di conoscere le vostre opinioni su Oseroth – per la cronaca, io lo adoro.

IN OGNI CASO (pt2) spero che questo nuovo inizio vi sia piaciuto e che continuerete a seguire questa storia fino alla fine!

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Capitolo 2
*** Strato di pelle. ***


02.



Perché l'aveva detto?

 

Era chiaro sia a lei, che a sua madre, che ai muri – che lei non avrebbe approfondito un bel niente e che casomai avrebbe rovinato i rapporti ancora di più.

Kazumi aveva ridotto le palpebre a due spilli e aveva mostrato i lunghi canini da vampiro – arrabbiato –, ma non aveva fatto altro. Si era gradualmente calmata ed era rimasta zitta.

 

Oseroth ne era stato lieto, a giudicare dalla sua espressione calma.

 

In quell'inquietante calma di totale disaccordo, la famiglia aveva lasciato la carrozza, che era ripartita subito dopo, e aveva avvicinato l'entrata della residenza Fukanishi – per amor di precisione, la villa in cui si svolgevano feste come quelle. Quest'ultima si trovava nella zona più esterna del paese ed era perciò isolata; grande e maestosa, la facciata quasi ricordava la reggia di Versailles, con le finestre alte a porta lasciate aperte, e i lunghi e spaziosi balconi. Le occasionali ventate facevano svolazzare le tende come fantasmi.

A precedere l'entrata – da cui proveniva una forte luce e un vociare rumoroso – c'era solo qualche scalino e guarda caso un tale noto come Tetsuya Tanigawa, con la schiena al muro, le mani nelle tasche del soprabito nero di cashmere.

 

Aveva lo sguardo perso a guardare lontano, ma senza risultare vacuo; i capelli biondi non erano stati acconciati in modo particolare, se non per quelli dietro che aveva pettinato per bene.

Col soprabito non si capiva molto, ma l'albina riconobbe i pantaloni e le scarpe di un completo. Era davvero elegante. Che lei ricordasse, non l'aveva mai visto così.

 

Yuki fece un cenno ai suoi genitori e poi s'incamminò verso di lui, cercando di tenersi in equilibrio sui tacchi, ben diversi dagli stivali della divisa scolastica. Stretta nel cappotto, salì i gradini lentamente finché non gli arrivò accanto.
Per un attimo, l'immagine di un esile ragazzino si affacciò nei suoi ricordi, schiacciando qualsiasi altro pensiero. Sorrise, nostalgica, toccandogli il braccio con la mano guantata.

«Monsieur, sta per caso facendo finta di non vedermi?».

Tetsuya roteò gli occhi verso di lei e si specchiò nei luminosi laghi dorati. Arcuò le labbra in un sorriso dubbioso. «È inquietante, dacci un taglio».

«Cosa sarebbe inquietante?».

«Quel modo di parlare. E il tono. Ti prego, smettila, mi stanno venendo i brividi».

Yuki si mise a ridere e tolse la mano dal suo braccio. «Ma guarda come ti sei messo in tiro».

«Senti chi parla», ribatté Tetsuya, con una leggera risata.

«Io sono stata forzata, tu non hai scuse».

 

Al suono di quelle parole, le schioccò un'occhiata divertita e si tolse dal muro, mentre uno schiaffo di vento gli sollevava il soprabito. Le mani, coperte dai guanti di pelle nera, presero delicatamente il suo viso.

«Che stai–», stordita, lei sobbalzò; Tetsuya si avvicinava, lentamente, tanto che lei poteva sentirne il respiro calmo sulle labbra. Lui non la smetteva di sorridere mentre strofinava il pollice contro il suo zigomo e sfiorava il suo naso col proprio. «Ti sto guardando. Sei bella, Yu».

«E c'era bisogno di fare così per dirmi che sono bella?», bisbigliò lei.

Lui allontanò il volto e sbuffò, con fare esasperato, per poi afferrare entrambe le guance dell'amica e tirarle come elastici. «Hai rovinato l'atmosfera».

«Shme... ti... shubito!». Riuscì a divincolarsi, afferrando le mani del ragazzo per togliersele dalla faccia. Con le guance rosse, fece qualche passo indietro, lasciandosi inondare dalla luce artificiale che proveniva dall'interno. Lo guardò con la coda dell'occhio, strizzando l'altro abbagliata. «Sei proprio strano, tu».
Alle loro spalle, arrivò un'altra carrozza, da cui scesero quattro persone. Imbellettati negli abiti di pregia fattura e in trucco elaborato, ridevano e commentavano la residenza per le feste dei Fukanishi. Qualcuno fece qualche commento divertito sul colore degli interni ma poi, quando intravide Yuki e Tetsuya, sobbalzò vistosamente e si ammutolì.


 

Yuki sospirò. Già. Gli interni. Se n'era quasi dimenticata.

Di uno sgargiante colore giallo – uno sgargiantissimo oro. Non era un mistero il perché di quella scelta né tanto meno la repulsione che la mezzosangue provava per quel vampiro da quattro soldi, soprattutto a causa di come si era svolto il loro primo incontro; tuttavia, per mantenere dei rapporti stabili, poteva capitare che qualche volta partecipassero a certe occasioni mondane.
Per entrambi non era certo il primo ballo; Tetsuya aveva guadagnato esperienza in quel campo già da cinque anni, quando aveva partecipato al primo party, insieme ai suoi genitori e a suo fratello maggiore. Adesso che ne aveva venti, il vampiro era sicuramente la persona più indicata a fare da cicerone – se così vogliamo dire – ad una ribelle come Yuki, che era ancora inesperta.

«Dimmi una cosa», fece Tetsuya, ad un certo punto. «Quanto è stato disastroso il viaggio per arrivare qui?».

«Indovina?».

Tetsuya scrollò le spalle. «E qual è stato il motivo?». Yuki indugiò, strofinando le mani tra di loro per tenersi occupata. Alla fine, con aria sfiancata, rispose all'amico: «Mio padre vuole che io approfondisca – per citare le sue parole – il mio rapporto con quell'idiota di Fukanishi».

Il vampiro batté le palpebre. «Con... il figlio, vero?».

«Ma va», esclamò lei. «Col padre, che avrà cinquecento anni per gamba. Sì, col figlio, Tetsu».

«Lo sai benissimo che l'età non è affatto contemplata in questi contesti. E il padre di Ichiro Fukanishi è vedovo già da un po'. Quindi, tu cosa hai detto?».

L'albina giocherellava con l'angolo del suo cappotto quando, sussurrando, aveva risposto: «... ho detto di sì. No, cioè, all'inizio ho rifiutato, ma poi mia madre ha cercato di prendere le mie difese e... e a quel punto, ho detto di sì».

Sul viso di Tetsuya comparve la stessa identica espressione di sconcerto che aveva avuto lei, in carrozza, quando aveva sentito le assurdità di Oseroth. Finalmente, tolse le mani dalle tasche e si avvicinò all'amica. «Scherzi».

«Magari!», esclamò Yuki, aprendo le braccia, per poi lasciarle cadere lungo i fianchi. Alzò lo sguardo al cielo, una volta nera puntellata di astri celesti. «Il bello è che mia madre ha inizialmente preso le mie difese, ma solo perché, per lei, il mio futuro sposo deve essere alto, biondo e con gli occhi viola».

«Non pensavo che qualcuno mi volesse ancora come genero», disse con un sorriso divertito. Non pensava ad una cosa come il matrimonio da secoli – da quando i suoi genitori si erano suicidati. Così uniti, così vicini, che avevano deciso di togliersi la vita insieme, mano nella mano, stesi su un letto di rose. Chiuse le palpebre. Quella reminiscenza gli faceva venire le vertigini.
Quando tornò a fissare la mezzosangue, si sentiva più sereno. «Quindi, che intenzioni hai? Cambierai il tuo cognome... in Tanigawa, forse?».

Yuki aveva gli occhi fissi di lato, a guardare un qualche punto impreciso di quello sfondo buio, e incastrava il labbro tra i denti per non rispondergli. Ma perché doveva fare così?

«Avere una moglie come te», lo sentì sospirare teatralmente. «sarebbe una catastrofe bella e buona. Comincerei a chiedermi se nella vita passata io non abbia commesso qualche grave peccato. Mi dispiace per Takeshi».


Yuki si girò e roteò le iridi ambra – e sorrise. «Smettila, scemo. Entriamo prima che i miei inizino a pensare che siamo fuggiti».


 


 

 

***


 


 


 

L'interno della villa non era meno fastoso della facciata.

 

Non appena si varcava la soglia – le cui porte erano rigorosamente lasciate aperte – si entrava in un ampio e spazioso salone, illuminato a giorno dal lampadario che pendeva dal centro della volta a cupola, alta una decina di metri. Alla sinistra del salone spiccava invece un soppalco, a cui si accedeva tramite la scale a chiocciola. Era una zona riservata per lo più ai fumatori e a quelli che volevano un po' di tranquillità in mezzo al chiasso delle feste. Lì si trovava anche una porta che conduceva alle stanze interne del salone.
Il centro era invece adibito a sala da ballo, con le decorazioni festose, e un'orchestra da camera a fondo sala composta da pianoforte, violino, violoncello e contrabbasso; alla destra, una lunga tavolata era adibita ad arte per servire un gran numero di ospiti, piena di cibo e bevande.

Il pavimento in mosaico era lucido e splendente, tanto da riuscire a riflettere il soffitto.


 

Yuki, un po' allucinata da tutta quella luce, strizzava gli occhi per cercare di abituarsi.

«Chiedo scusa, volete affidarmi i vostri soprabiti?», disse una voce maschile. I due si voltarono in tempo per vedere un ragazzo, parecchio giovane, che chinava la testa con umiltà e protendeva le mani verso di loro – con stupore, Yuki capì che si trattava di un umano; si sfilò allora l'indumento, piegandolo e appoggiandolo tra le sue mani. Il ragazzo aspettò che Tetsuya facesse lo stesso e poi si inchinò e si fiondò verso una stanza sotto al soppalco, dove finivano tutte le giacche e soprabiti.

Yuki indietreggiò vicino a Tetsuya. «Cosa diavolo ci fa un umano qui?».

«Qualche volta succede», rispose lui, calmo. «Possono essere soggiogati, come sai, ma a volte si offrono volontari spontaneamente».

Lei non riusciva a trovare un solo buono motivo per lavorare lì. Rischiavano molto. Probabilmente, erano tutelati da chi decideva di assumerli, ma ciò non toglieva la possibilità di correre grossi pericoli.
Un numero molto ristretto di esseri umani sapeva dell'esistenza di quelle creature. Quella cerchia che permetteva alle tre razze di coesistere pacificamente, senza cadere in spargimenti di sangue; proprio questa cerchia permetteva a vampiri e demoni di poter vivere nelle città e nei paesi, metteva a disposizione esseri umani per lavorare – o in casi particolari, per sfamarli.


 


«Stai molto bene», disse Tetsuya. Inclinò la testa, spazzolandosi con le mani la giacca nera del completo. «Adesso lo so per certo».

Non era abituata a tutti quei complimenti – per questo non poté evitarsi di arrossire.
Il suo lungo abito blu scuro, con dei ricami floreali sotto la cinta del busto, scendeva in una gonna ampia fino a toccare il pavimento, e il retro del torso era l'intreccio di un nastro che lasciava piccole porzioni di pelle scoperta. Le braccia erano nascoste dai guanti grigio perla di raso che arrivavano sopra al gomito, mentre al collo pendeva un collier di diamanti.
Sua madre e Kukuri avevano insistito fino allo sfinimento ma alla fine Yuki era riuscita a non farsi toccare i capelli, lasciandoli sciolti sulla schiena nelle solite onde albine.
«Troviamo i miei genitori», borbottò laconica, sospingendo Tetsuya.

«No», lui le prese una mano e con l'altro braccio le circondò la vita, fissando un punto a sinistra della sola come un falco che avvista un coniglietto. «Aspetta. Guarda là».

Yuki stava per lamentarsi di quell'improvviso ravvicinamento, quando aveva seguito la direzione dello sguardo dell'amico, e tutto il suo corpo si era irrigidito come un pezzo di legno. Un ragazzo camminavo verso di loro. Alto, le spalle larghe e le gambe lunghe, in vistosi abiti bianchi. I capelli dalle forme ondulate, di un biondo platino, e gli occhi dal taglio felino – smeraldi luccicanti.

L'albina dovette fare appello a tutte le sue forze per non fare dietrofront e fuggire a gambe levate.

«... Ichiro».


 


 


 

***


 


 


 

«Yuki Akawa la mezzosangue». Ichiro sorrise. Le sue labbra, dalla forma già curva, sembravano una mezzaluna quando sorrideva. Aveva un tono di voce mellifluo, che in qualche modo riusciva a sposarsi alla perfezione con la luce che brillava nei suoi occhi verde chiaro.
Yuki si guardò bene dal rispondergli con la sua solita lingua biforcuta. Anche se Ichiro parlava – per la maggior parte del tempo – calmo e allietato, non era il caso di punzecchiarlo. Aveva una certa vena sadica nota a tutti nel settore. «Quale onore. Non ci speravo neanche più», disse.

«Non avete bisogno di sperare», disse Yuki – Ichiro sorrise contento e poi guardò Tetsuya, la fronte leggermente contratta e la bocca chiusa. Lo sguardo gli ricadde sulla mano che stringeva e poi sul braccio intorno al fianco di Yuki e a giudicare dalla sua faccia, non doveva esserne molto felice. «Tetsuya. Quanto tempo».

«Già», convenne l'altro.

«Sono lieto di vederti vivo e vegeto».

«Ci credo».


 

I due vampiri – biondi, ma dal tono totalmente diverso – si studiarono per quelle che sembrarono ere geologiche, le palpebre che tagliavano gli occhi in gelidi spilli. Erano così concentrati a lanciarsi occhiate di fuoco che l'albina pensò di poterne approfittare per scappare via. Allora spostò lentamente una gamba all'indietro, ormai libera dalla presa di Tetsuya, ma proprio in quel momento Ichiro tornò a prestarle attenzione.

E ti pareva, pensò.

«Ho parlato con i tuoi genitori. Tuo padre aveva uno sguardo... felice», Ichiro aggrottò la fronte, come se non riuscisse a spiegarsi una cosa del genere. «Ho provato a immaginare la ragione dietro quell'allegria, ma non posso darla per scontata. Quindi chiederò direttamente a te, se non ti dispiace».

«Era felice? Ah, non... ».

«Non hai deciso di ritirarti da quella scuola di umani?», la interruppe Ichiro. Fece per sorridere, ancora, ma si fermò cedendo il posto ad un espressione contrariata. «e dagli umani stessi. Non riesco a trovare un solo buono motivo per stare in loro compagnia e, per quanto ti suoni surreale, noi tutti attendiamo con molta ansia il tuo ingresso ufficiale nella società».

«È surreale», commentò Tetsuya.

Ichiro gli lanciò un'occhiata obliqua. «Ma è la verità. Sappiamo tutti quanto tu sia importante. Non riusciamo a spiegarci il perché di molte tue scelte, tuttavia».


 

Yuki non riuscì a evitare di inarcare un sopracciglio. Oh, ma davvero? Era così che stavano le cose?

Il Consiglio aveva scoperto molto in fretta che si era iscritta ad un liceo di esseri umani ed erano rimasti tutti perplessi e increduli; qualcuno aveva ipotizzato che fosse un modo come un altro per nutrirsi, per creare qualche schiavo, o persino per sfuggire alla noia.
Ma nessuno di questi motivi rientrava nelle intenzioni di Yuki e loro l'avevano capito subito. Lei era andata lì per poter tornare nel suo paese d'origine, dove avrebbe potuto cercare il suo amico, sparito da ormai tre anni.

In effetti, arrivata a quel punto, avrebbe dovuto ritirarsi – ma poi, c'erano Sayumi, Takeshi e persino Hokori.


 

Con un piccolo colpo di tosse, si schiarì la gola. «Mh-mh. Beh, se vi può consolare, non ho particolari contatti con loro. Oserei dire di non averne affatto». Sentiva lo sguardo di Tetsuya addosso come una calamita, perché quella era una mezza bugia. «Per quanto concerne il mio ritiro, non penso sia una buona idea renderlo immediato: risulterebbe bizzarro».

«Il ritiro di una singola persona sarebbe bizzarro?», disse Ichiro.

«Sì. Dovete sapere che non sono particolarmente amata, in questa scuola», spiegò la mezzosangue. «per cui, penso che salterebbe all'occhio. Vi invito ad aspettare la conclusione di questi anni, Ichiro».

«Ci vorrà del tempo».

«"Chi va piano, va sano e va lontano". Mai parole furono più azzeccate».


 

Ichiro sorrise, comprensivo e divertito; con un gesto fluido, le prese la mano sinistra per appoggiare le labbra sul dorso. Il suo sguardo era di un verde così luminoso e intenso da far pensare alla pietra preziosa. «Adesso devo lasciarti, ma tornerò appena possibile – è una promessa, piccola».

Al nomignolo, tutta la schiena di Yuki si riempì di brividi – agghiacciante. Avrebbe potuto vomitare. Tuttavia, si sforzò di sorridere, almeno fin quando il vampiro non si fosse allontanato abbastanza. Da lontano riusciva comunque a spiccare in mezzo a tanta gente, l'unico ad indossare un completo bianco. Prendeva un po' troppo sul serio il suo compleanno.



Tetsuya rideva mentre finalmente raggiungevano Kazumi e Oseroth. Ridere delle sventure altrui non era molto carino, da parte sua. Anche quando si incontrarono e i coniugi salutarono il vampiro – Kazumi lo abbracciò e Oseroth gli strinse la mano – lui ridacchiava ancora.

«Cara, abbiamo parlato con Ichiro Fukanishi», disse la vampira dai capelli rossi, toccando la spalla della figlia. «e ho visto che l'avete incontrato anche voi».

«È stato molto divertente», disse Tetsuya.

«Come no. Guarda come sto ridendo».


 

Oseroth – dopo aver rivolto qualche sorriso di ghiaccio ad una coppia – era tornato dagli altri e si era rivolto all'albina, una punta di eccitazione che brillava negli occhi. «Allora? Com'è andata? Ti sembra ancora interessato?».
Adesso capiva cosa intendeva Ichiro. Lanciò un'occhiata tormentata all'amico, guadagnandosi un'alzata di spalle, forse una piccola vendetta per quando lei aveva tentato la fuga.

«Non so che dirti, ci ho parlato appena un minuto», borbottò. «E non guardarmi così. Non devi sposarti tu». Il demone fece una smorfia e si allontanò di un passo, mentre Kazumi ridacchiava.

«Devo presentarvi qualcuno. Sono delle persone deliziose».

«... che bello. Yuppie».

«Magari sono davvero delle delizie», cantilenò Tetsuya, appoggiando una mano sulla schiena dell'amica.

«Sì, e tu hai i capelli neri».


 


 

 

 

***


 


 

 

 

Per un attimo, l'idea di protestare e girare i tacchi le aveva attraversato il cervello; purtroppo però aveva visto il sorriso speranzoso di Kazumi e proprio non se l'era sentita di tradire le sue aspettative – o speranze, per l'appunto. Allora si era messa le gambe in spalla e si era fatta condurre, insieme a Tetsuya, verso la famigerata famiglia che dovevano conoscere.
Un paio di metri distanti c'erano quattro persone: una donna e un uomo, entrambi sorridenti, ed un coppia di adolescenti – una ragazza e un ragazzo – dall'aria seria.

Dopo una manciata di passi, si trovarono faccia a faccia.

Erano tutti di bell'aspetto, come l'albina aveva sospettato; la ragazza aveva soffici capelli castani, acconciati in uno chignon, e gli occhi di un caldo colore scuro, ma con un'aria seccata, il ché stonava con il suo aspetto delicato e femminile.
Indossava un abito indaco scuro con un'unica bretella che circondava la sua spalla sinistra, una scollatura a cuore sul petto generoso, mentre alle braccia dei lunghi guanti bianchi.

Aveva davvero uno sguardo serio, sembrava non volesse lasciar trasparire nessun sentimento. Yuki la fissava senza batter ciglio, come se volesse mettere alla prova la sua freddezza.

«Buonasera, signori Osawa», esordì Kazumi, con un sorriso allegro e felice sulle labbra.

«Buonasera», rispose la donna.

«Lui è mio marito Oseroth», riprese la vampira, appoggiando la mano sulla spalla del demone, il quale si esibì in un sorriso cordiale. Poi Kazumi si rivolse alla figlia e al vampiro biondo. «Mentre loro sono Yuki, mia figlia, e Tetsuya, un caro amico di famiglia. Ci sarebbe anche la nostra seconda figlia, Ai, ma non è con noi oggi».


 

Miwa Osawa aveva un espressione gentile e affettuosa mentre ascoltava le presentazioni e, alla fine di queste, si accinse a fare lo stesso con la sua famiglia. «Loro sono mio marito Hiroyuki e questi due giovani Kyo e Mitsuki, i nostri figli». Come se stesse trattando con dei tesori inestimabili, le sue dita toccarono il braccio del ragazzo e della ragazza con molta delicatezza.

Yuki guardò nuovamente i giovani vampiri. Quei due erano... fratelli? No, era impossibile.

Okay, erano entrambi belli, ma questo davvero non significava nulla; Kyo era slanciato e a giudicare dalle spalle doveva avere anche una notevole muscolatura. I suoi lineamenti erano quelli tipici di chi stava per diventare adulto, un po' spigolosi e un po' ammorbiditi. Folti capelli scuri e occhi del medesimo colore, profondi come il mare di notte, ma con uno sguardo distante – non come Mitsuki, che era freddo e serio. Gli occhi di Kyo erano strani e l'albina non riusciva a capire cosa ci fosse di tanto ambiguo.

Che ci fosse qualcosa, sotto lo strato di pelle e muscoli?


 


 


 

NOTA:

Salve! Piccola nota per precisare la natura di della famiglia Osawa: l'intera famiglia non mi appartiene in alcun modo, sono invece personaggi di Sae Morinaga, che è un'autrice (presente anche qui su EFP, e vi invito ad andare a leggere ciò che scrive).
Nulla, volevo solo dire questo. Come sempre, spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento!

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Capitolo 3
*** La tana del lupo. ***


03.




Gli Osawa si erano rilevate persone simpatiche e socievoli, educati e gradevoli, totalmente il contrario di Yuki che non riusciva a trattenere il sorriso guardando le facce scontente dei due adolescenti – Mitsuki e Kyo Osawa.

Ad aggiungere, la famiglia si era congedata relativamente in fretta, e ciò aveva permesso all'albina e Tetsuya di starsene da soli e avvicinare la lunga tavolata. E proprio lì, mentre Yuki stava mettendo le mani su una tortina, Tetsuya le aveva riferito all'orecchio una novità – una novità che le aveva fatto cadere dalle mani la tortina e le aveva fatto spalancare la bocca.

 

Tetsuya, in un movimento lento e calcolato, le aveva rimesso sul palmo la tortina. «Discrezione», sussurrò il vampiro.

«Certo», rispose l'altra. «Discrezione».

Ora capiva perché improvvisamente si era innervosito e l'aveva incitata a raggiungere il tavolo, che – incredibilmente – era il punto più ignorato dagli ospiti. «Come hanno fatto quei due stupidi a trovare questo posto? E tu come l'hai scoperto? Insomma, spiegami tutto».
Tetsuya sbuffò sonoramente mentre si prendeva un calice. Subito dopo, un cameriere si apprestò a versare del vino nel suo bicchiere.

«Credo proprio che c'entri lo zampino di Hokori», riprese il biondo, quando furono di nuovo soli. «Una cacciatrice queste cose le sa, d'altronde, ma evidentemente non ha ancora sviluppato il senso di giudizio».

«Okay, quindi Hokori ha detto a Takeshi e Sayumi dove si trova questo posto?».

«Già, e... Sayumi mi ha mandato un messaggio sul cellulare, poco fa. E direi, ad occhio e croce, accidentalmente».

Yuki aggrottò la fronte. «Da quando vi scambiate messaggi, voi due?».

«Da quando ha insistito affinché registrassi il suo numero sul mio cellulare», Tetsuya roteò gli occhi, portandosi il calice alla labbra, gustando il sapore leggermente amaro del vino rosso. Continuò a bere finché non ebbe mandato giù tutto, lasciando il suo bicchiere sul bordo del tavolo. «Quella ragazza è assurda».

«Sì, lo è. Ed è anche una mentecatta enorme, come Takeshi, ovviamente», esclamò l'albina – mordendosi le labbra per non alzare ancora la voce. «Cosa dice il messaggio?».

«Questa è la parte difficile», rispose il vampiro. Si guardò un attimo alle spalle e di lato, appurando che fossero ancora soli, e infilò la mano nella tasca della giacca. Ne estrasse un telefono cellulare e ci armeggiò velocemente, una rapidità che l'albina davvero non si aspettava. Poi le parò lo schermo davanti agli occhi. «Guarda».


 

La mezzosangue strizzò gli occhi, perplessa e corrucciata. «Ma che accidenti è?». Sullo schermo faceva bella mostra di sé un messaggio, di “Sayumi Ichinomiya”, che recitava: “Sono fuori dal ballo, dove sei?”. Yuki era a bocca aperta. Tetsuya sospirò, rassegnato, premendo qualche altra volta sullo schermo del suo cellulare. Poi, una seconda volta, le mostrò lo smartphone su cui svettava un altro messaggio: “... non era per te. Fai finta di niente”.

 

Ciò che si chiedeva l'albina – ma a cui probabilmente pensava anche Tetsuya – era perché Takeshi non l'avesse fatta ragionare. A questo punto, le veniva spontaneo credere che era un piano congegnato da entrambi.
Eppure, cercava ugualmente di auto-convincersi che quei due non erano così idioti da gettarsi nelle fauci di bestie affamate. Non era possibile.

«Dannazione», ringhiò. «Dannazione!».

 

Con lo sguardo basso sul lucido pavimento, vide le punte delle scarpe stringate in pelle nera di Tetsuya, e poi sentì le sue mani sulle spalle, nel suo solito gesto rassicurante – come un sogno. «Capisco cosa provi, e te lo assicuro, sto davvero considerando di rinchiuderli in isolamento, ma per il momento... », poi fece un lungo sospiro, più simile ad uno sbuffo di rassegnazione.
Yuki guardò il viso dell'amico con gli occhi stancamente socchiusi; nel profondo della sua coscienza, tuttavia, era sorpresa dall'interesse del vampiro verso i due umani. Questo voleva dire che si stava affezionando a loro?


 

«Qual è il piano?», chiese la mezzosangue.

Tetsuya si voltò, dandole il profilo del proprio viso. «Il piano... consiste in te che ti giri e mantieni la calma».

Con un tic alla palpebre, Yuki tenne lo sguardo fisso sul biondino.

«Scommetto che Ichiro sta venendo da questa parte». Lentamente, con la paura di scoprire se avesse o meno ragione, girò il volto verso destra. Alla sua vita, la pelle candida della mezzosangue sbiancò ulteriormente, la bocca si guastò in una smorfia scocciata. «Oh, no».

«E invece », con un passo, Tetsuya si spostò al fianco dell'amica, per poterle circondare le spalle con il braccio destro. «Mentre tu ti occupi della prima piaga a cui sono state concesse le gambe, io cerco di estorcere informazioni– ».

«Con metodi illeciti, voglio sperare».

«Giustappunto».


 

Con una pacca sulla spalla e un sorriso ad illuminargli le labbra, il vampiro aveva staccato il braccio dalle spalle di Yuki e si era dileguato dietro di lei a larghi passi.
Yuki rimase immobile in quel punto, accanto alla tavolata, con le scapole rigide e la mandibola serrata. Sebbene ci fossero una decina di metri a separarli, lei riusciva a percepirne l'ossessiva presenza.
La sola idea di stargli vicino le mandava il sangue al cervello – ricordava ancora il loro precedente incontro, un anno prima; la famiglia Akawa era stata invitata, tutta al completo, a cenare nell'elegante residenza Fukanishi.

Era un giorno d'Autunno e l'albina non aveva avuto molte opportunità per conoscere Ichiro Fukanishi; quella volta era sembrata una situazione più che adeguata per permettere alla primogenita degli Akawa e all'unico figlio dei Fukanishi di conoscersi e, magari, instaurare un buon rapporto.
Ma non era stato proprio così. Quando l'ora di cena era giunta e ognuno di loro aveva preso posto a tavola, Ichiro aveva pensato bene di allungare la sua mano, fredda e bianca, sulla coscia della mezzosangue.

E lei aveva pensato bene di usare una piccola parte del suo potere dell'elettricità – gentile concessione della metà demoniaca – su di lui.


 

Yuki aprì gli occhi e ruotò i piedi verso la sala da ballo, ritornando al presente.
Avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per salvare quella catastrofica situazione. Per loro, l'avrebbe fatto senza esitare.


 


 


 

***

 


 


 

 

La mattina del ballo, Takeshi e Sayumi si erano casualmente incontrati sul tetto della scuola; nel momento in cui il ragazzo stava aprendo la grossa porta per entrare, Sayumi aveva messo la mano sulla maniglia nell'atto di uscire e tornare in corridoio ma il primo era stato più veloce e lei aveva perso l'equilibrio, quasi cadendogli addosso.

Sarebbe stato imbarazzante, per entrambi, ma ormai si conoscevano da quasi otto mesi, un tempo relativamente lungo per accettare pregi e difetti.

 

 

«Stavo cercando proprio te», esordì il moro, mentre la prendeva per le spalle per aiutarla a raddrizzarsi. Sayumi si diede della stupida per un attimo e poi le parole dell'amico giunsero al suo orecchio, misteriose. La ragazza sollevò il volto e lo inclinò di lato. «Cercavi me? Questo è strano».

«Adesso non venirmi a dire che è strano cercare te invece di Yuki, ti prego».

Sayumi alzò le spalle. «Beh, sicuramente è più naturale per te cercare lei, no?».

Takeshi alzò gli occhi al cielo e prese l'amica dal polso per trascinarla fuori, sul tetto: la loro base segreta da un po' di tempo a quella parte. «No, per me è naturale cercare lei come te».

 

La ragazza non l'avrebbe mai detto ad alta voce, per questione di rispetto nei confronti dell'albina, ma quella frase l'aveva resa felice. Le aveva alleggerito lo spirito di qualche grammo.

Si sistemarono a terra, a discapito dell'uniforme, con le schiene contro la ringhiera, e Takeshi iniziò a parlare: «So che ti sembrerà una stupidaggine colossale, ma», cominciò. «per qualche ragione mi sento in ansia per questo ballo. Ho la brutta sensazione che succederà qualcosa di male».

 

Sayumi si mise comoda, appoggiandosi sui talloni e rivolgendo il busto verso il ragazzo. «Dici sul serio? Una sensazione?».

 

Lui fece un cenno col capo, piccolo e breve, per poi riprendere a voce bassa – quasi temesse che lei potesse ascoltarli. «Non so proprio dirti perché. Forse è perché non conosco quel tipo di ambiente. Non ne sappiamo niente entrambi, no?», e si girò per guardarla, cercando una sua conferma.

Allora Sayumi si toccò il mento con le dita, pensierosa, sollevando gli occhi verso un cielo parzialmente ingrigito. «Sai, è vero quello che dici», rispose. «Non sappiamo niente di quest'ambiente, quindi... ».

Dunque tornò a guardare Takeshi, con lo sguardo di una volpe terribilmente infervorata. «... penso che dovremmo rimediare in qualche modo».

 


 



 

***


 


 


 

Quasi trascinando i piedi, Yuki cominciò a camminare in direzione di Ichiro; a primo acchito, era sembrato che il vampiro stesse cercando di andare da lei, ma appena era apparso nel raggio visivo di un paio di ospiti era stato letteralmente catturato in un vortice.
Yuki afferrò i pesanti lembi dell'abito e li sollevò da terra quel poco che le bastava per camminare, e riprese la sua scarpinata, veloce; era incredibile ma Ichiro era talmente sgargiante da spiccare nonostante fosse accerchiato da un gruppo piuttosto nutrito di vampiri.


 

Yuki era ormai ad un passo da loro. Peccato che sembrasse impossibile raggiungerlo davvero e Ichiro stesso era troppo preso dalla situazione per notarla.
Con un grosso sospiro, – e pregando disperatamente gli dei – l'albina piegò la schiena, infilandosi fra gli ospiti. Schiacciata come una sardina, proseguì schivando i gomiti e le mani, fino a che non spuntò di fronte al ragazzo, rischiando pericolosamente di andargli addosso come una meteora.

Che fortuna, pensò la mezzosangue, raddrizzandosi in qualche modo.


 

«Mia piccola Yuki», Ichiro sorrise radiosamente, sfoggiando un paio di fossette ai lati della bocca. Con un gesto rapido, allungò la sua mano per prendere quella della ragazza e stringerla con delicatezza. Guardandola con occhi luccicanti, disse: «Sono felice che tu sia venuta da me».

«Mi dispiace per queste... scomode tempistiche».

Ichiro si lasciò scappare una risatina, intrecciando le sue lunghe dita con quelle della mezzosangue, e si rivolse al gruppo di fronte a lui, con tutta la cortesia che aveva in corpo. «Signori, ho urgenza di parlare con la signorina Akawa. Non temete, sarò di ritorno quanto prima». Un coro di scuse a assensi si levò come uno sciame, mentre lanciavano occhiate incuriosite verso i due.
In fretta, erano rimasti soli, e tutti quanti si erano sparpagliati nella sala. Solo in quel momento, l'albina si prese un momento per respirare. Okay, la prima parte era fatta. «Allora, dunque... », cominciò – oh, cavolo.



Normalmente, a quel genere di party c'era sempre qualche “sacrificio”, un essere umano - a cui veniva spremuto via tutto il suo sangue per sfamare i vampiri; nel caso dei demoni, la situazione si faceva anche più violenta, perché questi si cibavano anche della carne. Yuki ringraziava di non aver mai partecipato a quei party.

Se Ichiro si fosse allontanato da lei e avesse dato l'okay per il sacrificio, a quel punto gli inservienti avrebbero dovuto spargersi e azionarsi, il ché avrebbe reso la ricerca di Tetsuya difficile.
Come se non bastasse, non sapevano come avevano deciso di infiltrarsi, se avevano provato a fingersi dei camerieri – conoscendo Sayumi, era una possibilità.


 

«Piccola Akawa», il vampiro dagli occhi verdi – dal verde più acceso che lei avesse mai visto – aveva sorrise felice, nel momento in cui la piccola orchestra aveva cambiato musica. Le note della Winter Waltz avevano risucchiato il vociare della gente tutta intorno. «posso chiederti l'onore di questo ballo?».

Yuki osservò un istante Ichiro, la mano che lui le aveva elegantemente proteso; non voleva farlo, non voleva toccare nemmeno la stoffa dei suoi guanti bianchi, si sentiva contaminata solo a stargli accanto.
Ricambiando il sorriso del vampiro, prese la sua mano. Le dita si intrecciarono nuovamente alle sue, i loro palmi combaciarono, mentre l'altro braccio si allacciava alla vita dell'albina e l'avvicinava a sé.



Quel ballo era solo l'inizio.

Così vicini, cominciarono a ballare, seguiti a ruota da tante altre coppie in vena di festeggiamenti. Yuki cercava di concentrarsi sulla musica e sul suo ritmo, per evitare di fare qualche passo falso – aveva ballato il valzer forse due volte nella sua vita – e pestare le scarpe di quel vampiro da strapazzo. Contemporaneamente, si sforzava di sentire la sua voce che le sussurrava all'orecchio.

 

Che fine avrà fatto Tetsu?, si chiedeva, guardando Ichiro con la coda dell'occhio.

«Nonostante tu sia poco presente a queste feste, riesci comunque a ballare bene. C'è qualcosa che non sai fare?», diceva Ichiro, accarezzando il dorso della sua schiena. «Sei sprecata per gli umani – come ognuno di noi».

«Eh? Ah, no, ma che dite, non sono affatto brava. Mi sento piuttosto impacciata, a dirla tutta».

«Non devi. Ti guiderò io. Ti guiderò sempre».


 

La musica intanto era cambiata. Al suo posto, la sognante Rêverie*, che accompagnava lentamente il loro volteggiare. Era un bellissimo movimento, ma lei non riusciva a sentirsi tranquilla ugualmente, né tanto meno a godersela.
Yuki stava guardando l'oltre la spalla dell'uomo, cercando tra la folla il suo amico – ma ad un certo punto, sentì la presa alla sua mano rafforzarsi improvvisamente. Allora, l'albina tornò con gli occhi su Ichiro, che a sua volta la fissava. Lo smeraldo dei suoi occhi era immobile e impenetrabile.
«Ascolta bene ciò che sto per dirti, Yuki».

«Cosa– ».

Lei inclinò la testa in avanti, porgendogli l'orecchio, con un sentimento di preoccupazione e turbamento. Quel tono era stato strano e non poteva evitare di avere una pessima sensazione, dentro di sé.
Irrequieta, sentiva le sue parole all'orecchio. Al loro suono, lento, scandito come un orologio vecchio e logoro, sgranò gli occhi come risucchiati dalla sclera – li sollevò leggermente, mentre lui alzava la testa e tornavano faccia a faccia.
Yuki sentiva il pavimento girare, in modo pazzo e distorto. «E come faccio a sapere che è la verità?», sussurrò.

Ichiro ridacchiò, scuotendo la testa. «Non lo sai, mia cara. Ma d'altronde, te la senti di correre il rischio?», fece una pausa. Il suo sorriso non aveva più niente di quello allegro di poco prima. Ogni porzione di quella curva era di puro sadismo. «Se è così, allora bene, evitiamo di fare confusione per nulla. Tu lo sai cosa succede a chi si intrufola a queste feste – specialmente se sono esseri umani».


 

Yuki guardò in basso, verso le punte delle scarpe, che avevano ormai smesso di ruotare. Ormai quella farsa era finita. In mezzo a un vortice di ballerini, loro due erano gli unici immobili, fermi come statue greche.


 

«Non ti preoccupare. Se hai voglia di aiutare i tuoi amici, c'è una soluzione. Devi solo fare quello che ti dico».

«Chi ha parlato di amicizia?», disse lei, a bassa voce. Alzò lo sguardo da terra e lo inchiodò in quello del biondo.

«Mi prendi per un idiota? Sappiamo tutti che in quella scuola non ti odiano tutti. Non avevi nessun bisogno di mentire. Tu hai degli amici, lì, abbastanza stupidi da entrare nella casa di un lupo».

Allora su qualcosa siamo d'accordo, pensò Yuki, serrando la mandibola. Si passò la lingua su un canino. Che situazione schifosa. «Bene. Quindi le tue guardie li hanno trovati e tu vorresti usarli come sacrificio bonus. Complimenti», ringhiò. «Ti ringrazio per avermelo fatto sapere, così posso andare a recuperarli».


 

Ichiro non rispose. Di una spanna più alta della ragazza, la scrutava inclinando il collo in avanti, senza la più piccola forma di espressione nelle iridi. Stette in silenzio per qualche altro secondo, contemplando il suo viso, tenace e agguerrito – poi diede una veloce occhiata attorno a sé, circospetto.

«Andiamo a parlare da un'altra parte».





 


 

***

 



 

 


Mentre Ichiro Fukanishi la teneva per mano, trascinandosela dietro senza molti complimenti, la folla intorno a loro non si risparmiò affatto dal fissarli con curiosità, commentare la scena, additarli come se fossero degli alieni.
I tacchi rendevano l'avanzata una tortura. Lui camminava così in fretta – nelle sue dannate scarpe dalla suola piana – da farle venire il dubbio che non volesse trovare un posto solo per parlare. Il radar di pericolo della ragazza stava suonando come un pazzo.

In questo modo, però, potrei riuscire a tenerlo occupato per un po', pensava intanto. Sì, se dovevano spostarsi in un posto più appartato, lui si sarebbe senz'altro intrattenuto con mille discorsi, o forse avrebbe provato a prendere il suo sangue. In entrambi i casi, non sarebbe stato un fatto veloce.


 

Stavano salendo le scale a chiocciola, ripide e scomode per i suoi tacchi, e quando raggiunsero il soppalco ormai mezzo svuotato, un duo in giacca e cravatta avvicinò Ichiro.
«Odio disturbarvi, ma», cominciò uno dei due, grassoccio e dalla pelle cerea. «ci sarebbe una questione urgente di cui vorrei parlare con voi, nobile Ichiro. Avrebbe un minuto da prestarvi?».

Il vampiro indugiò, stringendo la mano di Yuki. «Ho sempre un minuto per voi. Certamente», rispose. Lasciò il palmo dell'albina e prima di raggiungere il duo, la guardò con un'occhiata ammonitrice – fredda e incattivita.

Lei rimase immobile sul punto, con la schiena che dava sulla sala, a fissare Ichiro seduto ad un tavolo più in là.


 

Okay. La situazione è... non mi convince neanche un po'. Mi sembra strano che Tetsuya non li abbia ancora trovati, sarà passata mezz'ora da quando ci siamo divisi. Deve aver incontrato qualche problema. L'unica cosa che posso fare è guadagnare altro tempo, pensava, torturandosi le dita del guanto destro.


 

Un minuto dopo – con la precisione di un orologio svizzero – il vampiro era tornato, aveva tirato Yuki da un braccio e ripreso a camminare verso sinistra. Yuki fece uno scatto brusco col gomito, liberandosi dalla sua presa, senza fermarsi.
Ichiro rise leggermente di fronte al suo atteggiamento, e intanto oltrepassarono la porta sulla parete sinistra; questa conduceva nella parte più interna della residenza, sfociando in un corridoio pieno di porte, probabilmente stanze per ospiti. Lungo e dalle pareti color crema, illuminato e coperto da un tappeto persiano, Ichiro continuò a sorpassare porte su porte, fino a raggiungere quella in fondo. Era l'ultima stanza, l'ultima porta.

Ichiro, ora alle spalle della mezzosangue, appoggiò la mano sul pomello e lo ruotò una volta, spingendo la porta verso l'interno – un cigolio sinistro.


 

Lei si limitò ad allungare il collo per sbirciare ma, in tutta sincerità, non osava proprio entrarci. Di fronte spiccava un divano, ampio e di colore bordeaux, con alle spalle una finestra spalancata da cui proveniva un venticello gelido. Poi, mentre esaminava la stanza, i suoi occhi scesero fino alla moquette verde scuro e... al corpo riverso sulla pancia. Un corpo che possedeva lunghi capelli e un fisico curvilineo ma delicato.

 

«Ma cosa– », non fece in tempo a sorprendersi che un paio di mani l'avevano sospinta con forza dentro. In un batter d'occhio, era finita sul divano, cercando di non cadere addosso al corpo esanime. Con la faccia nello schienale, si issò usando le mani e si voltò verso la porta. «Ma che diavolo credi di fare, idiota?!», fu l'urlo che uscì, prepotente e sincero, dalla gola della mezzosangue.

Forse ci voleva un esortazione a smuoverlo, perché era ancora sulla soglia della porta, fermo come uno stoccafisso; il suo contorno era illuminato dalla luce che proveniva dal corridoio e la sua era l'espressione di un Diavolo in procinto di cibarsi. Ichiro la stava fissando con un sorriso affilato sulle labbra – passandosi la lingua sui canini.

Solo dopo svariati ed eterni secondi, si chiuse lentamente la porta alle spalle, lasciando calare una cappa di oscurità nella stanza. Con due passi, scavalcando il corpo della donna, si introdusse fino a raggiungere il divano – su cui si lasciò cadere, sgraziato.
Seduto, col capo reclinato all'indietro, a lasciare scoperto il collo bianco. Continuava a stare zitto, abbandonando Yuki su un letto di spine.

«Lo sapevi?», sussurrò l'uomo, spezzando il silenzio. «Si dice che solo il sangue la carne della persona amata possa placare la fama di noi vampiri e demoni – per sempre», si voltò a guardarla, lei alla sua sinistra, aspettando una sua reazione. Una delle sue interessantissime espressioni – ma su quel bellissimo viso, non c'era nulla, se non una fredda serietà. «Beh? Che ne pensi?».

«Penso che non me ne importa niente».

«Non ne avevo dubbi».


 

Ichiro sollevò una mano, affondando i denti sul bordo del guanto, sfilandolo dai polpastrelli. Lo stesso fece con l'altro, dandole un'occhiata grave, indagatrice. Che cercava ancora di metterla in subbuglio.
Poi si avvicinò a lei, le mani spoglie, e infiltrò le dita dietro al suo collo. Il collier che pendeva al collo dell'albina affondò sul grembo di lei, producendo un leggero tintinnio. Più lui si avvicinava, più riusciva a sentire il suo profumo.


 

Yuki si era pietrificata.

Non muoveva un muscolo.

Mentre le mani di Ichiro si erano avvicinate e le avevano sganciato la collana, aveva sentito dei brividi di raccapriccio sulla schiena; mentre lui seguiva la linea della sua mandibola, fino al mento e poi alle labbra, sentì la rabbia crescerle dentro.
Ormai era chiaro l'intento del vampiro – cosa poteva fare? Quale scelta le avrebbe permesso di non mandare all'aria la reputazione degli Akawa? Stringendo i pugni, continuò a stare nella stessa posizione, con il torso ruotato leggermente verso Ichiro.


 

Poi, repentinamente, Ichiro la prese per le spalle e la spinse supina sul divano. Yuki sbatté la schiena contro la superficie, cozzò la testa sul bracciolo e poi puntò gli occhi – arrabbiati e sconcertati – sul biondo. I suoi, ora, brillavano di un rosso famelico, leggermente infastiditi. Ancora, ghignava. «Io lo so. Lo so che tu mi credi un idiota qualunque. Tu, come tutti gli altri. Mi sottovalutate, mi prendete per uno qualsiasi con tanti soldi, e pensate di poter fare quello che volete», mentre parlava, a voce bassa e sibilante, le bloccava entrambi i polsi con le mani e si metteva sopra di lei. Da quell'angolazione, sembrava un colosso. «Ma questo è uno sbaglio davvero grossolano. Io posso distruggervi tutti. Tutti».

«Se hai tutte queste manie di grandezze, valle a sfogare altrove», ringhiò l'albina. «Tipo al Consiglio».

Al suono delle sue parole, sprezzanti, Ichiro le aveva lasciato il polso sinistro – aveva indietreggiato il suo braccio, per poi tornare contro la sua guancia, e schiaffeggiarla.
Il colpo le aveva fatto ruotare la testa dall'altro lato, la guancia ora scottava ustionata.


 

«I tuoi amici non passano granché inosservati», continuò Ichiro, passandosi la stessa mano tra i capelli, ravvivandoli. «Non hanno avuto nemmeno l'accortezza di nascondere quei capelli rosa. Certo che sono proprio stupidi, eh? D'altronde, hai sempre cercato gente speciale per compagnia».

Lei ruotò il viso, digrignando i denti. Stava per rispondere, furibonda, perché non doveva nemmeno azzardarsi a giudicarli – ma la voce le era morta dentro nel momento in cui lui le aveva premuto il palmo sul petto.
«Se provi a scappare», Ichiro sorrise. «li faccio ammazzare».


 

Il vampiro scoppiò a ridere, consapevole che avesse vinto quella partita. Con la bocca aperta e gli occhi socchiusi, si godeva l'espressione di rabbia, impotenza e inquietudine che aveva attanagliato il viso di Yuki Akawa, con la risata più compiaciuta che lei avesse mai sentito – si stava divertendo, perché l'aveva sconfitta. Perché adesso nessuno avrebbe potuto più prenderlo sotto gamba, se era riuscito a mettere in ginocchio la mezzosangue albina.

 

Ma più lui continuava in quella risata, più lei era certa che non voleva fare quella fine – che non voleva perdere quei due, soprattutto. Ormai era diventata una questione di responsabilità. Poteva capitarle qualsiasi cosa, ma loro no.
«Perché lo stai facendo?», bisbigliò. «Solo per farti temere? Sul serio?».

Ichiro smise di ridere gradualmente. Tirò un respiro, sollevato, e scrollò la testa. «Perché... perché?», ripeté. «Perché sono annoiato, immagino. Dai, che vuoi che sia? Pensi davvero che ci sia qualche ragione amletica? Io sono annoiato, tu sei divertente, e al momento anche debole. È il momento migliore per me. Aaaah, Yuki», inspirò l'aria fredda di Novembre, riempiendosi i polmoni con quell'ingorda boccata. «Non dovresti nemmeno lamentarti così tanto. D'altro canto, per noi tutti, tu sei solo una macchina da guerra. Quindi chiudi quella bocca e ringraziaci».

 


 


 


 


 

* Rêverie: composizione al pianoforte di Claude Debussy.

 

 


 


 

NOTA:

Well, questo capitolo è un po' aggressivo – credo. Me lo direte voi, immagino?
Purtroppo Ichiro non ha tutte le rotelle al suo posto, nonostante sia un vampiro e non debba pagare nessuna particolare punizione, e piuttosto – in questo caso, almeno – è Yuki che sta scontando una condanna.

Che dite, la vicenda riuscirà a concludersi senza qualche incidente fatale?

p.s: vi consiglio inoltre di ascoltare Debussy mentre leggete!

 

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Capitolo 4
*** La rabbia perpetua della mezzosangue. ***


04.





Il sangue si era gelato nelle vene. Concentrato, silenzioso.

 

Come avrebbe potuto descriverlo? Era complicato persino per se stessa – quelle parole erano suonate dolorosamente reali, talmente tanto che aveva pensato di poterle afferrare con mano propria.
Oh, , lo sapeva: sapeva che non avevano un adorazione per lei. Ma... una macchina da guerra? La sua esistenza, ai loro occhi, era solo questo?

Ad un tratto, Yuki si rese conto che non era solo disprezzo quello che ricopriva lei e sua sorella; avevano pensato davvero di utilizzarle per i loro scopi, le ritenevano alla stregua di assi nella manica. Ma il problema risedeva nel fatto che nessuna delle due stava dalla loro parte e quindi rappresentavano una minaccia.

 

Nel corso di un minuto, l'albina aveva fatto quel ragionamento – ma dall'altra parte, pensava ancora che Ichiro si sbagliasse. Con le labbra serrate in una pallida linea e le palpebre assottigliate, sibilò: «Non sono niente per voi. Voi non avete nessun diritto nei miei confronti». Strinse i pugni, costretti da lui. «Ti è chiaro? Io sono una persona».

«Una persona?». Ichiro, per un attimo, le apparì persino pensieroso, come se stesse cercando il significato recondito di quella strana parola. Sembrava che non riuscisse minimamente ad afferrare il senso delle frasi della mezzosangue.
Sospirò, scuotendo appena la testa, rassegnato. Nella camera immersa dalla penombra più fitta del mondo – illuminata solo dalla fioca luce della luna fuori dalla vetrata – regnava ormai silenzio, carico di tensione, in cui Yuki aveva elargito la speranza che il vampiro la liberasse da quella morsa.

 

«Tu mi odi davvero tanto, eh?», disse Ichiro.

«E puoi biasimarmi? Che domanda idiota. Certo che ti odio, ti odio con tutta l'anima. Sei ripugnante, un verme che– ». Si fermò, serrando la mandibola più forte che poté. Insultarlo non avrebbe portato niente, lo sapevano entrambi.

Ichiro sorrise, scuotendo la testa.

«Ah, Yuki. Io non ti incolpo di niente, e non l'ho mai fatto. Non posso incolpare una creatura come te... come potrei? D'altronde, non è colpa tua se sei nata così. I tuoi genitori avevano deciso per te e per tua sorella, avevano deciso sin dall'inizio il corso e il destino della tua vita: avevano deciso che dovevate essere maledette. Ed è stato così, difatti. Sei nata bellissima, eppure... », allora sospirò, teatralmente, forse attendendo un applauso commosso dalla sua platea immaginaria. «... è davvero una disdetta che tu sia un tale scherzo della natura».

 

Scherzo della natura.

 

Lei era questo – lei e Ai, la piccola Ai –, uno scherzo della natura. La sua barzelletta, la sua gag comica. Il giudizio risuonò nei suoi padiglioni auricolari come una palla instancabile, ripetutamente: lei era uno scherzo della natura.

Lo era perché, nel suo sangue e nel suo DNA, c'erano elementi di vampiro e di demone; lo era perché passava tutti i giorni e svariate ore in compagnia di quei tonti degli esseri umani; lo era perché proprio un essere umana era la sua amica più cara, la sua confidente, sua sorella; ma, probabilmente, specialmente, perché si era innamorata di un umano.

 

 

Già. Giusto. Gli esseri umani.
E lei... e lei aveva il dovere di difenderli al costo della sua stessa vita – un secondo dopo, tutto il suo corpo aveva iniziato a riscaldarsi come un vulcano in procinto di eruttare.
Un'irragionevole desiderio di sangue, di voracità, di violenza fece fremere il suo corpo con una tale forza che iniziò a tremare, sotto la presa delle gambe e delle mani di Ichiro. Doveva sporcarsi le mani con la densità del suo sangue. Doveva macchiarsi di un orrendo e brutale crimine.

Allora cominciò a muoversi, sempre più bruscamente e arrabbiata, sbracciandosi e cercando di sollevare le gambe. Non riusciva più a sopportare il peso opprimente di Ichiro. Non riusciva più a rimanere immobile a quel modo.

Doveva liberarsi, doveva liberarsi subito – basta.

«Devi stare ferma, stupida di una put– ». In quell'attimo, la porta si aprì, emettendo un cigolio assordante.

Yuki e Ichiro si fermarono ed entrambi guardarono verso il fascio di luce che li ricoprì.

 

Kyo Osawa era in piedi sulla soglia della porta.

 

 

 

 

 

***

 


 

 

 

Kyo Osawa era lì. Era in piedi accanto alla porta, con la mano intorno al pomello, lo sguardo atterrito – di chi non si sarebbe mai immaginato uno scenario simile. Era una festa di vampiri, con qualche demone, ma non era quel tipo di festa.

Immobile nel suo punto, con gli occhi sbarrati, fissava il duo sdraiato sul divano – cavolo, lui stava solo cercando una stanza dove starsene in santa pace.

Un attimo. Lei non sembrava molto a suo agio. Guardando quella scena, Kyo si rese conto che lei sembrava più obbligata, che consenziente.

La vide sgranare gli occhi e alzare la testa più che poté, le bocca aprirsi. «Kyo Osawa.... ».

 

A quel punto, l'albina si rese conto di un fatto: non era più sola. Allora allungò ancora il collo per alzare la testa e, di punto in bianco, scontrò la sua fronte contro quella di Ichiro – il colpo le rimbombò nel lobo frontale come un eco distorto. Il vampiro lasciò la sua presa per premere le mani contro la fronte, che iniziò quasi immediatamente a sanguinare. «Figlia di– ».

«KYO! Aiutami!», urlò l'albina.

 

 

Allora Kyo si riscosse, spinse via la porta e si avventò con un gancio sul vampiro biondo – la sua faccia era ormai ridotta a sangue e lividi, sopraffatta dalla forza del pugno.
“Kyo, aiutami”, non ci aveva pensato due volte e l'aveva fatto. Le nocche arrossate, afferrò il bavero della camicia di Ichiro, spingendolo contro lo schienale del divano per tenerlo immobilizzato.
Era un verme. I suoi occhi brillavano di un verde smeraldo meraviglioso, ma era un verme da cima a fondo. Non poteva credere che quell'idiota si fosse spinto a tanto – l'aveva guardato, disinteressato, sin dall'inizio della festa.

Ma l'aveva capito. Aveva capito subito che non meritava nulla di buono.

«Vuoi picchiarmi, tu? Per favore», Ichiro affondò le unghie nei dorsi delle mani di Kyo, guardandolo con lo scherno screziato dalla paura. «Tu che non sei in grado di vivere, vuoi picchiarmi?».

«Vedrai come sono in grado. E non ti piacerà». Dio, non meritava niente di buono. Guardò l'albina che, intanto, si era sfilata dalla presa delle sue gambe ed era scivolata via come un lampo; si toccava i polsi, il collo e la linea rossa che colava dalla fronte, vicino all'attaccatura dei capelli. «Ma sai cosa? Non ne vale la pena, non vale la pena sporcarsi del tuo lurido sangue. Sarai tu stesso a distruggerti, con le tue stesse mani, e sarà uno spettacolo da urlo». Con uno strattone, Kyo lasciò la presa dalla camicia e fece uno scatto indietro.

Yuki, a quel punto, si sollevò alla svelta dal divano – dando un'ultima, secca occhiata a Ichiro. «Andiamo via da qui», disse lei.

 

 

Con due falcate furono fuori dalla stanza. Si chiusero la porta alle spalle, sperando che non si aprisse mai più – tutto sommato, Ichiro Fukanishi avrebbe potuto lottare molto di più.
Fuori nel corridoio stretto dalle pareti crema, Yuki ancora strofinava il collo e i polsi, nel vano tentativo di far sparire il rossore o il suo odore, ripugnante, che sembrava esserle attaccato.

Kyo la guardò di traverso, con la coda dell'occhio. «Stai... bene?».

 

Yuki avrebbe voluto fermarsi e fare un'elaborazione, al fine di dargli una risposta sensata, ma alla fine si limitò ad annuire lentamente, guardando un punto casuale del muro. Sì, alla fin fine, stava bene. Non era successo niente di irreparabile, Kyo era arrivato al momento giusto. Lei era salva.
In sintesi, rimaneva solo quella sensazione abietta sulla pelle. «Io... grazie. Se non fosse stato per te, forse non ce l'avrei fatta. Grazie», Yuki lo guardò, cercando di non risultare troppo angosciata.

Kyo sorrise, con un tono gioviale sulle labbra. «Routine di tutti i giorni, non pensarci».

«Hai una vita movimentata, eh?».

«Beh... », il vampiro avrebbe voluto aggiungere qualcosa, per esempio che la sua vita lo era sin da quando era solo un bambino e che, adesso, con l'arrivo di Mitsuki lo era ancora di più. Ma non lo disse. Alla fine, non lo disse. «Andiamo, e intanto mi spieghi cosa è successo».

 

Percossero il corridoio con una camminata veloce, lasciandosi indietro quella porta – nefasta, rossa carminio – e nel frattempo l'albina gli spiegava cos'era successo; lei avrebbe potuto essergli sposa e moglie per volere di suo padre e dunque aveva dovuto mostrarsi il più cordiale possibile, per evitare almeno dispute familiari. Peccato che, per quanto potesse essere gentile con Fukanishi, non aveva nessuna intenzione di lasciarsi toccare con un dito.

Kyo era arrivato al momento giusto e al tempo giusto. «E i miei amici umani sono a questa festa», continuò la mezzosangue. «perché pensavano fosse davvero fantastico imbucarsi fra vampiri e demoni. Due geni, eh?». Al vampiro venne quasi da ridere – sembrava una barzelletta.

«Allora dobbiamo recuperare i tuoi amici».

Yuki lo guardò, sorpresa. «”Dobbiamo”?».

«Sono arrivato fin qui, che senso ha abbandonarti proprio adesso?».

«Sei proprio un buon samaritano, tu. Sto diventando ripetitiva, ma grazie».

 

Raggiunsero il soppalco, con le luci del mastodontico lampadario che illuminavano tutto il salone, e cominciarono a rallentare la camminata. Nel soppalco non c'era quasi più nessuno, ad eccezione per i signorotti che fumavano qualche sigaro al tavolo ad angolo più in là.

«Tetsuya», disse Yuki, presa da un'illuminazione. «Tetsuya doveva trovare informazioni su Yumi e Takeshi, dovrebbe trovarsi qui da qualche parte».

«Che ne dici delle cucine?».

«Le cucine, dici? Sì, partiamo da lì. Se hanno avuto un minimo di sale in zucca, si sono intrufolati lì. Incrociamo le dita, Kyo Osawa».

 

 

 


 

 

***

 

 

 

 


Le cucine si trovavano dietro al tavolo del buffet, per agevolare i movimenti dei camerieri e dei cuochi che si occupavano di riempire la tavolata, qualora si svuotasse.

In un momento meno disastroso, Yuki avrebbe potuto sentire qualche morso della fame e si sarebbe goduta quel ben di Dio. Ma era una di quelle situazioni.

Scese le scale del soppalco, si trovarono finalmente nel grande salone, dove gli ospiti ballavano un valzer, gremendo il centro con gli abiti sgargianti e lussuosi. Per passare senza attirare l'attenzione, Yuki e Kyo dovettero camminare schiacciandosi contro le pareti, schivando i gomiti delle persone che erano lì vicine – e poche non erano.
Entrambi ebbero l'intuizione che l'ora del sacrificio fosse vicina.

Finalmente, dopo qualche minuto di sgomitate, erano davanti alle porte della spaziosa ed elaborata cucina; dalle finestrelle si intravedeva un'atmosfera abbastanza calma e, in aggiunta, non c'era più molto personale all'interno, probabilmente proprio perché non c'era bisogno di servizio costante.
A quel punto, l'albina si girò, dando le spalle alla cucina, per cercare l'amico vampiro dai capelli biondi: lo trovò ad una decina di metri da loro, vicino alla parete – anche lui si era trovato a schiacciarcisi contro a causa degli ospiti appollaiati su quel punto. Mentre Tetsuya esaminava intorno a sé, intravide l'amica mezzosangue sbracciarsi con una certa veemenza. Subito affianco a lei vide Kyo Osawa – rapido, riuscì a dileguarsi da quella brutta postazione per raggiungere i due.

 

«Yuki», esclamò il vampiro. «Non sono riuscito a– … cosa diavolo è successo?».

«Cosa è successo?», ripeté perplessa Yuki – poi capì a cosa era dovuta la domanda.

Doveva aver notato i segnii suoi polsi, il sangue sulla fronte e l'assenza della collana. Istintivamente, Yuki cercò di coprirli con le mani.

«Yuki», insistette Tetsuya, con voce ferma. «Dimmi cosa è successo. Scommetto... è stato quell'idiota di Fukanishi, vero? Quel verme schifoso– ».

«Tetsu». Yuki afferrò l'amico per le spalle, sforzandosi di alzare il viso per guardare i suoi occhi, quel bel colore ametista screziato di rosso per la rabbia.

Tetsuya Tanigawa non ricorreva mai ai suoi poteri da vampiro ma, in quel momento, sembrava essere incapace di controllarsi – e Yuki ebbe quasi la tentazione di gettarsi fra le sue braccia, semplicemente per sentirsi protetta e al sicuro. Invece, gli sorrise. «Ha ricevuto quello che meritava. Kyo mi ha aiutata, va tutto bene. Adesso ho bisogno di te per trovare quei due stupidi perché da sola non potrei farcela – vabbene? Ho bisogno della tua forza. Aiutami, Tetsuya».

Lentamente, il rosso negli occhi del vampiro si placò. Sembrò infastidirsi, sembrò ignorare per un attimo le parole dell'albina e poi, alla fine, scomparve all'interno della pupilla come risucchiato da una vortice d'oscurità. Tetsuya sospirò profondamente, facendo un piccolo cenno con il capo. «Sono qui per te. E per loro, dato che ci troviamo».

 

Kyo, che fine a quel momento aveva ignorato i due per cercare la sorellastra, alzò improvvisamente il braccio per indicare la ragazza che era appena sbucata dalla folla di vampiri – e qualche demone disgraziato. Sembrava un po' infastidita mentre si avvicinava a Kyo, senza mancare di una certa graziosità.
Yuki seguì con lo sguardo la sua figura. Mitsuki Osawa, era lei. Aveva un ché di unico che semplificava molto trovarla in mezzo a tante persone. Quando la vampira fu finalmente da loro, l'albina fece quasi un salto. «Mitsuki Osawa», esclamò.

«Che? Cosa?».

«Aiutaci a trovare... », si fermò, roteò gli occhi. «due imbecilli».

 

Mitsuki aggrottò la fronte e sbatté le palpebre, aprendo la bocca per manifestare la sua confusione. Yuki la precedette, prendendole le mani fasciate dai guanti per portarla con sé verso una porta affianco alla cucina. Mentre si avviava, quasi trascinando Mitsuki, urlò ai due ragazzi: «Controllate l'altro lato e se li trovate, cacciateli da questo incubo!».

 

 

 

 

 

***

 

 

 


 

«Certo, Yuki, se ti serviva una mano per trarre in salvo i tuoi amici bastava chiedere. O spiegarmi qualcosa, senza trascinarmi».

«Hai ragione», convenne l'altra. «Ma il mio stato mentale è un po'... malconcio».

 

Era il picchiettio dei tacchi di entrambe a colmare il vuoto nelle loro conversazioni mentre, guardinghe, salivano le scale che portavano al piano superiore della residenza.

«Dimmi una cosa», esordì Mitsuki, la mano al muro per mantenersi in equilibrio. «Questi due umani... sono così importanti, per te?».

 

Erano così importanti? Yuki sapeva perfettamente la risposta ed era convinta che anche la sua nuova amica la conoscesse; d'altronde, che senso avrebbe impegnarsi così tanto per recuperarli da una fine non proprio piacevole? Ma c'era qualcosa, qualcosa di inespresso dentro il suo petto che bloccava qualsiasi parola, qualsiasi affermazione potenzialmente rischiosa. Sarebbe stato rischioso, infatti, dire quanto erano importanti per lei. Quanto sarebbe stato difficile vivere senza Sayumi e Takeshi.

«Beh... non mi sono indifferenti, questo credo sia palese, arrivati a questo punto».

«Indifferenti, dici, eh?». Mitsuki incurvò la bocca in un sorriso addolcito, quasi divertito, mentre rallentava la camminata quando si trovarono a due scalini dal pianerottolo. Si piegò leggermente sulle ginocchia, sollevando i lembi dell'abito per agevolare i movimenti. Si gettò una rapida occhiata alle spalle e poi si sporse in avanti. Più avanti vi era una stanza con una porta a doppia mandata e, davanti essa, due uomini in completo nero. Dovevano essere sicuramente delle guardie – guardia, di solito, voleva dire qualcosa di prezioso. Come un trofeo o... una risorsa importante?

«Lì ci dev'essere qualcosa. Lascia fare a me – al mio segnale, attacca».

 

Yuki non fece in tempo ad obiettare che la vampira era già in piedi e aveva iniziato a sfilare, con una camminata tutta barcollante e ondeggiante, verso i due uomini; con l'impulso di intervenire, Yuki vide come la vampira aveva abbassato quel tanto che bastava il décolleté, lasciando in vista la scollatura e le morbide curve – l'albina quasi scoppiò a ridere quando la sentì parlare.

«Ahh, chiedo venia, signori. Credo proprio di essermi persa... come posso fare?», Mitsuki fece un passo in avanti, sfiorando il petto di uno dei due scimmioni con i polpastrelli, rivolgendogli un'occhiata languida – l'uomo reagì, sorridendo divertito, avvicinando le mani per accarezzare la schiena della vampira.
In quello stesso frangente Mitsuki nascose la mano destra dietro la nuca, compiendo un movimento secco con l'indice e il medio; Yuki fece uno scatto in direzione dell'altro uomo, assestandogli un calcio basso alle caviglie che lo fece cadere a terra con un tonfo, mentre Mitsuki afferrava il braccio dell'altro a lei vicino e lo torceva dolorosamente dietro la schiena – con una spinta decisa, quello finì faccia a terra.

 

«Wow», disse Yuki, assestando un calcio al fianco di uno dei due. «Devo dirmi colpita. Sembravi un angioletto arrabbiato col mondo e invece!».

Mitsuki fece un sospiro simile ad uno sbuffo mentre scostava malamente il secondo uomo per poter aprire la porta a doppia mandata. Con un mezzo sorriso, si tirò incontro le porte. «Non fa mai male sapersi difendere, non credi?».


Come aveva sospettato la vampira, quell'entrata celava una fredda stanza in penombra, ricca di aria umida e di spifferi da far rabbrividire. Ad illuminare l'ambiente solo qualche lanterna primitiva, sparpagliate qua e là. Proprio più avanti, delle celle con tanto di lucchetto e, all'interno, Sayumi e Takeshi.
L'albina aprì gli occhi. Era così sorpresa di vederli proprio lì – così meravigliata di averli trovati – che non sentì la voce di Mitsuki chiederle se erano quei due gli umani che cercava. Era come una visione e lei si era incantata.

 

Rimase ferma, sulla sommità di una scala rocciosa rozzamente levigata. Con le braccia lungo i fianchi, una corrente d'aria fredda che passava dalla porta a due ante alle sue spalle. Mitsuki aveva un espressione interrogativa sul viso, quasi preoccupata, mentre posava delicatamente una mano sulla spalla dell'albina.

«Yuki?», diceva la mora, aggrottando le sopracciglia – la mezzosangue ebbe un sussulto. Da quel punto delle scale, vedeva la cella dove Sayumi e Takeshi erano rinchiusi; riusciva ad intravedere la prima, stesa su quello che sembrava un primitivo lettino, e il secondo seduto a terra, con la schiena al muro e lo sguardo vigile.

Fu proprio quello sguardo che, circospetto e guardingo, individuò ben presto le due ragazze.
 


«Y-Yuki?!». Scattò in piedi, afferrando le sbarre di quella scatola, quasi schiacciando il viso contro il ferro arrugginito.

«Take... », l'albina, seguita da Mitsuki, scese in fretta le ripide scale e si apprestò a raggiungere il ragazzo attaccato alla porta della cella. Gli toccò le dita con le proprie, balbettava qualche frase sconnessa, cercava di controllare se il ragazzo avesse riportato qualche ferita – Dio, erano vivi. Stavano bene.
Non erano stati feriti, non erano stati sacrificati – non ancora, per lo meno. «Ma che diavolo avete nella testa. Cosa diavolo avete. Vi rendete conto di che cosa avete fatto? Volevate morire?!». Sì, la gioia di vederli, la preoccupazione, erano passati in secondo piano di fronte alla verità dei fatti: avevano compiuto un gesto al limite della stupidità.

Takeshi aveva indosso una divisa da cameriere. I pantaloni neri scendevano sulle gambe dritti ed eleganti e una camicia bianca, con al di sopra un gilet blu scuro, gli fasciava il torso. Probabilmente esisteva anche una cravatta, a giudicare dal colletto.

Il ragazzo stava per rispondere ai suoi rimproveri quando Sayumi si alzò dal lettino di scatto, intercettando l'amica e la sua faccia arrabbiata. «Yuki-chan! Sei venuta a salvarci! …Dio, meno male».

«Dio meno male?», Yuki si voltò verso Sayumi. Le sopracciglia basse sugli occhi, le guance cominciarono a colorarsi di un vivido rosso. Una scintilla di rabbia esplose nelle iridi color ambra. «... appena uscite di qui.... VI CONCIO PER LE FESTE!».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

L'albina continuò ad arrabbiarsi e a rimproverare i due esseri umani anche quando riuscirono a farli uscire dalla cella, grazie alle chiavi che Mitsuki era riuscita a trovare dalla cintura di una delle due guardie fuori dalla porta. Intanto che Yuki si avvelenava il fegato, la vampira aveva chiamato al cellulare Kyo, dicendogli che adesso andava tutto bene e i due ragazzi erano stati trovati.

Anche dopo, all'arrivo di Tetsuya e Kyo, il primo si prese un sacco di rabbia – ma più composta di quella di Yuki – e sgridò per una mezz'ora abbondante i due.

Sayumi volle proteggere Takeshi e presto confessò che era stata lei ad insistere, ad oltranza, finché il moro non si era visto costretto ad accettare la sua idea. Takeshi disse che, comunque, lui era molto più d'accordo di quanto avesse dato a vedere ed era sicuro che insieme non avrebbero corso molti pericoli.

Si erano procurarti delle divise da camerieri su internet – da uomo e da donna – e avevano chiesto informazioni sulla famiglia Fukanishi a Hokori, per trovarne poi la residenza; non era stato difficile, era una famiglia che adorava mettersi in mostra e sicuramente non temevano dei ladri. Inoltre, le informazioni che riguardavano i Fukanishi erano per lo più pubbliche al mondo.

 

Dunque si erano infiltrati al ballo, fingendosi dei camerieri, ignari del fatto che il loro odore sarebbe saltato al naso di chiunque là dentro. In men che non si dica, le guardie avevano capito che il duo non faceva parte del personale, ed erano stati catturati e imprigionati.

 

Mentre Mitsuki e Kyo sarebbero rimasti al ballo – avevano dei tutori a cui far conto –, Yuki e i due umani si avviavano verso l'uscita della residenza mentre Tetsuya raggiungeva gli Akawa per spiegare cosa era successo. «Ci vediamo dopo», aveva detto il vampiro biondo e si era diretto come un fulmine verso il salone.

 

Yuki si concesse un sospiro di sollievo solo quando furono giunti in strada, usciti dal lato posteriore. Mentre camminavano spediti, infilandosi nei boschi, la luna si nascondeva dietro nubi scure e funeste. «Allora», cominciò lei, scostando un ramo. «Adesso sapete che tipo di ambiente è. Yumi ha visto il suo ballo, Takeshi ha conosciuto meglio questo mondo. Non farete più una cosa del genere, vero?».

«Non penso proprio», dissero in coro.

«Take, ascolta».

«Sì? A proposito, sei... sei bellissima».

Yuki si morse il labbro, scuotendo la testa. «Io... ».

Lei doveva dirgli una cosa importante. Una cosa di cui avevano già parlato e che, forse, lui aveva già annusato nell'aria. Yuki girò la testa per guardare il ragazzo in viso, la fioca luce della luna che rivelava il suo viso sorpreso. Avrebbe voluto toccargli una guancia. Stentava a credere, in qualche modo, che lui fosse lì, davanti ai suoi occhi. Stentava a credere che era riuscita a salvarli – ma era stata solo fortuna. «Penso che noi... dovremmo aspettare per... ».

Takeshi socchiuse le palpebre. «Per stare insieme?».

«No, ecco– non esattamente. Penso che, per il momento, non dovremmo comportarci come una coppia. Intendo questo». Fece una momentanea pausa, scostando lo sguardo per portarlo davanti a sé. «Sai, io... penso davvero di voler stare con te. Insomma, so che noi... tu... sei importante per me, non posso negarlo. Ma in questa situazione, penso sinceramente che tu sia in pericolo a causa di persone come Ichiro Fukanishi. Ecco... è questo il punto».

Takeshi restò per qualche istante con la bocca socchiusa e gli occhi appannati, come fosse stato abbindolato da qualcosa. Il suo cuore batteva lentamente, placido, e il respiro era profondo e silenzioso. Poi anche lui riversò la sua attenzione verso ciò che aveva di fronte, al cielo rivestito dal buio – annuì, in un tacito accordo con colei che tanto amava.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Yuki lasciò che le dita scivolassero sul legno levigato della porta, saggiandone la consistenza e adorando il fatto di essere lì, nella sua casa, abbastanza protetta da qualsiasi ospite indesiderato.

Era strano sentirsi rilassata e felice proprio in un posto che non aveva mai apprezzato più del necessario – abbracciò il pomello della porta con il palmo della mano, entrando quindi nella stanza. Stette immobile qualche minuto per osservare la sua camera, il letto a baldacchino, la scrivania con lo specchio, le tende sottili.

 

Entrò nella camera, lasciando la porta aperta e trascinandosi fino alla cassapanca posta ai piedi del letto – all'interno c'erano tutti i suoi vecchi ricordi, per lo più pupazzi e bambole di pezza. Seduta e sola, si concesse un lungo ed estenuato sospiro.

Quella serata era giunta al termine – quell'intera giornata. Tutto, alla fin fine, si era risolto in qualche maniera, e lei ne era uscita solo con qualche segno al cuore.
Mentre cercava di liberare la mente dai pensieri e le riflessioni, la porta cigolò, catturando subito la sua attenzione. Con sua sorpresa, sua madre Kazumi era sulla soglia, stretta nel suo scialle di lana sottile e la lunga vestaglia da notte di seta che le fasciava il corpo. Sembrava fosse sul punto di andare a coricarsi – ma doveva fare una deviazione prima.

 

Si guardarono, dapprima in silenzio religioso; poi, visibilmente a disagio, Yuki tossicchiò per rompere quell'omertà opprimente e magari spingere la donna vampira a fare il primo passo – e lo fece.

 

«Ti disturbo?».

«No, affatto, io... », l'albina aggrottò la fronte. «... stavo solo pensando. Quella di oggi è stata una serata piuttosto movimentata e avevo bisogno di riflettere su alcune cose. Tutto qui».

Kazumi strinse le dita attorno al tessuto lanoso, facendo qualche passo in avanti. Con lo sguardo su un punto casuale del pavimento, annuì. «Sì, e per questo me ne rammarico parecchio. Ichiro non è il migliore dei partiti ma non immaginavo che fosse... così», negli occhi della donna un abbaglio di gelida rabbia e frustrazione sembrò fare improvvisamente capolino, ma fu subito sostituito dal suo sorriso. «Mi sento in colpa per non averti tenuta al sicuro».

Yuki scosse la testa. «Non è me che dovete proteggere bensì Ai. So difendermi da sola, lo sapete». Dopo una piccola pausa, si piegò un poco in avanti per arrivare a slacciare il cinturino di una delle scarpe.

 

Kazumi la osservò. «Sei arrabbiata per la storia del matrimonio?».

«Tu cosa credi?», rispose lei, dedicandosi anche all'altra scarpa, per poi lasciarle davanti alla cassapanca.

«Yuki... ». La diretta interessata, ancora avvolta dal suo abito blu, sollevò lo sguardo e scorse i movimenti eleganti della madre mentre si sedeva accanto alla figlia.

Le sue mani andarono a cercare quelle dell'albina, con delicatezza, forse anche timorosa di essere cacciata. «Non l'ha fatto per i motivi che credi, non vuole farti sposare Ichiro per combinare un matrimonio e trarne ricchezze. Noi... beh, noi lo sappiamo. Di quello che sta succedendo, di ciò che succede», Kazumi prese un profondo sospiro. «Dei frequenti assalti».

 

L'albina non rispose. Era un po' stupita, oltre che leggermente in imbarazzo. Guardò la madre negli occhi, specchiandosi nell'oro fuso delle sue iridi, il colore che condividevano entrambe, fulgido allo stesso modo.

Avrebbe voluto rispondere e dire qualcosa di utile ma, come al solito, non voleva chiedere aiuto, e di certo non ai propri genitori. Questo significa tradirsi di fronte agli occhi della donna che l'aveva messa al mondo.

«Per farla breve», riprese Kazumi. «Se tu sposassi Ichiro Fukanishi, saresti al sicuro e protetta, perché faresti parte di una famiglia intoccabile. Capisci? Non dovresti più guardarti le spalle».

 

Yuki si sentì cadere il mondo addosso; era come se sua madre l'avesse messa di fronte a due prospettive: vivere una vita sicura con un uomo che odiava oppure continuare a lottare e difendersi al fianco di Takeshi.
“Al fianco di Takeshi” – la frase stessa era divertente. La loro relazione era basata sulla fortuna. Se gli andava bene, se erano fortunati, potevano stare l'uno accanto all'altra per un altro dolce giorno. E la sensazione che il loro rapporto fosse su un campo minato era vivida alla bocca dello stomaco come un verme divoratore.

 

Capiva anche perché suo padre aveva puntato tutto sul casato Fukanishi invece del ben conosciuto Tanigawa – amici di famiglia da moltissimo tempo; la famiglia dell'amico biondo era da sempre avvolta in una fitta nube di mistero e di strani incidenti e poco si sapeva sui membri ancora in vita, specialmente sul fratello di Tetsuya.

In un gesto rabbioso e frustrato, l'albina si coprì il volto con le mani, sprofondando i gomiti sulle gambe. «Odio quel tizio».

«Ichiro, intendi?», Kazumi sorrise. «Oh, sì. È una persona spregevole. Tuttavia, la scelta è ancora tua, e noi non vogliamo né mai cercheremo di costringerti. E se anche tuo padre ci volesse provare, lo fermerò a tutti i costi: sei grande e sai badare a te stessa. Sarai tu a costruire la tua vita. Solo... fai attenzione, vabbene?».

Yuki sollevò il capo, nascondendo una ciocca di capelli dietro l'orecchio, osservando sua madre con sorpresa; la donna che le aveva sempre causato un certo fastidio o, al massimo, indifferenza, era appena diventata una luce guida in mezzo alle tenebre più insidiose. E si sentiva felice di questa scoperta.

 

Dolcemente, e forse per la prima volta da qualche anno a quella parte, Yuki sorrise alla madre. «Grazie, mamma».

 

 

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Capitolo 5
*** Tradizioni e genitori. ***


05.


 

«Ora stai proprio esagerando».
Yuki sbuffò pesantemente.
Doveva confessarlo, si sentiva presa in contropiede dall'atteggiamento di Takeshi; Yuki aveva una visione di loro due, come coppia, che andava un po' fuori dagli schemi, a partire dal minuscolo dettaglio che non erano nemmeno della stessa "specie".
Ma, in questo caso, faticava soprattutto ad immaginarsi discussioni o litigi fra di loro – il ché era una falsità, avendo già avuto qualche diverbio.

 

Guardò il ragazzo scuotere la testa, irrequieto, mentre un venticello freddo gli scompigliava i capelli sulla fronte e scopriva i luminosi occhi scuri. Yuki pensò che si conoscevano da poco tempo – quasi da nove mesi.
Il tempo di una gravidanza, pensò, arricciando il naso. E in effetti Takeshi sapeva essere molesto allo stesso modo. «No, non sto esagerando», ribatté l'albina. «A dire il vero sono abbastanza sicura che finirebbe così».

Takeshi alzò il viso verso il cielo ingrigito, esasperato, per poi tornare a guardare la sua ragazza – perplesso. «Quindi tuo padre mi ucciderebbe all'istante? Così, senza se, senza ma?».

«Indubbiamente ci proverebbe, io non glielo permetterei mai, certo, però... ».

«Dimmi un po', per quanto tempo dovremo comportarci come degli amanti?».

«Hai qualche problema con gli amanti?».

«... signorina Yuki Akawa. Io gradirei moltissimo poter stare con te alla luce del sole e, no, prima che tu faccia l'ennesima battuta, so perfettamente che puoi gestire i raggi solari».

 

 

Era passata qualche settimana dal ballo organizzato per il compleanno di Ichiro Fukanishi, nobile vampiro, stupido come pochi; ma soprattutto, era trascorso del tempo da quando Yuki e Takeshi avevano deciso di non comportarsi come una coppia pubblicamente, e il secondo si era già stufato. Per questo, quella stessa mattina, a discapito del freddo del 1 Dicembre, erano saliti sul tetto della scuola, perché Takeshi voleva parlare a quattrocchi con lei – di quella situazione assurda.

Yuki non sapeva come spiegarglielo, ma era solo per il suo bene – tutto qui.

 

Incrociò le braccia al petto e lasciò penzolare le gambe dal bordo del tettuccio.
Stupido di un Takeshi. Adesso azzeccava anche le sue battute. «Dobbiamo solo aspettare un po'. Ci tieni tanto a fare una chiacchierata con mio padre al vostro secondo incontro? Fossi in te ci ripenserei». Si mise a ridere, reclinando il capo indietro. «Non è solo un padre, è anche un demone».

Takeshi abbassò le palpebre sugli occhi, fino a lasciare solo due spilli sottili di iride – beh, no, non ci teneva per niente; ricordava bene il loro primo incontro e il suo puro disinteresse, quasi davanti ai suoi occhi ci fosse... un sasso. Aveva lo sguardo più severo e freddo che avesse mai visto. Paradossalmente, si sentiva attirato da quell'uomo. Forse perché lui e Yuki erano pressoché identici. «Fammelo incontrare», disse lui. «Tutte le volte che vuoi. Senza esagerare, magari».

Yuki era sorpresa, ci voleva coraggio ad esprimere un desiderio come quello. «Ci tieni così tanto?».

«E tu?».

Sì, lui ci teneva tanto, aveva terribilmente a cuore questa cosa e Yuki poteva leggerlo nel baluginante sfolgorio dei suoi occhi cioccolato, cercava di stare a galla, audace come solo lui poteva essere. Però, ciononostante. «... non è importante. Voglio dire, non così... tanto... credo... ».

Takeshi la guardò, senza espressione, e ripeté lentamente: «Non è importante», che poi era l'unica cosa che lui aveva davvero sentito dalla sua bocca.
Inspirò profondamente, caricandosi i polmoni dell'aria frizzante di inizio inverno, con il suo caratteristico gelo che l'aveva costretto ad indossare un cardigan.

«Ho capito. Penso che, allora, possiamo evitare quest'argomento».

«Cosa? Evitare?».

«Sì, evitiamolo».

«Ma cosa inten– ah, Take! Dai, non fare così!», esclamò Yuki. «Non intendevo quello!».


Ah, no? E cosa intendevi?, pensò Takeshi.

 

Con un salto, si lasciò scivolare dal tettuccio, abbandonando il fianco della sua ragazza – o quantomeno, credeva che lo fosse; non poteva fare a meno di sentirsi come un ragazzino capriccioso mentre strepitava tanto per rendere veritiero ed ufficiale il loro rapporto, come se volesse vantarsi di Yuki Akawa. Ma non era così, dannazione, non era affatto così.
Si sentiva stremato ed erano appena le dieci del mattino, aveva qualche strana malattia? Diamine, ma lui era sempre stato così? Si era sempre arrabbiato così facilmente, gli era mai capitato di sentirsi attaccato a qualcosa a tal punto?

Ultimamente era sempre un po' meno Takeshi Katugawa. Non ne era sicuro di voler sapere chi stesse diventando, era tutto troppo nuovo per lui. A volte, sentiva il suo spirito staccarsi dal corpo e fluttuare alla ricerca del vero padrone, del vero lui. In casi come quelli, si sentiva incredibilmente nostalgico, malinconico, ma tuttavia calmo – prima o poi, quando nella sua testa ci sarebbe stata la pace, avrebbe pensato a chi era: a chi voleva essere.
Fino a quel momento, la sua vita era ancora uno scarabocchio e il colore non accennava a fermarsi.

 

 

«Cosa guardi?».

Takeshi sobbalzò vistosamente, trattenendo per miracolo un'imprecazione.

Abbassò lo sguardo e incrociò gli zaffiri incastonati di Sayumi, il suo viso sorridente; di fianco a lui, con le braccia incrociate dietro la schiena e questa leggermente piegata in avanti, nell'atto di individuare il volto dell'amico. Anche Sayumi indossava il cardigan, che le calzava un po' largo.
Dalla loro ultima avventura al party notturno di Fukanishi, il loro legame si era fatto ancora più stretto – potevano quasi prevedere le frasi stesse.

«Sei diventato autistico?».

«Ehy, tu», la beccò il moro. «non dire cose sgradevoli».

Sayumi sorrise di più – lui sospirò. La vide alzare gli occhi e guardarsi alle spalle, verso l'amica appollaiata sul tettuccio, con le gambe al petto e il mento sulle ginocchia. Poi, da un momento all'altro, il sorriso della ragazza si fece più intenso e malefico. «Yuuuuki-chan! Ho scoperto una cosa molto interessante, lo sai? – anche se è stato un caso».

Yuki alzò la testa. «Ah sì? Bene, buon per te».

«Già, già. Ma puoi immaginare di cosa si tratta, considerando che giorno è oggi?».

 

 

Per scrupolo, Takeshi decise di girarsi e osservare il siparietto fra le due amiche – e fu contento di averlo fatto: adesso, l'espressione imbronciata della mezzosangue era stata sostituita da una faccia di quasi disgusto. La cosa lo faceva ridere a crepapelle.

«Presto è il tuo compleanno, cara mia!», cantilenò Sayumi.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Mi sto davvero impegnando, ma ti giuro, non riesco a capire perché odia così tanto il suo compleanno. O meglio, l'idea del festeggiamento. Perché è così drammatica? Che problemi ha?».

 

Sayumi si portò una mano alla tempia, spingendoci contro due l'indice e il medio. Stava andando così da mezz'ora, tempestandola di domande di cui sembrava non voler risposte. Il ragazzo silenzioso e laconico era diventato una mitragliatrice di parole. «Takeshi», lo fermò, gentilmente. «Vuoi che ti risponda o stai solo parlando a caso?».
Lui allora si scusò, spronandola a rispondere come meglio credeva.

«Beh, fammi pensare... una volta le avevo chiesto del suo compleanno e lei aveva detto che non aveva importanza e che gli auguri li avrebbe “sentiti”», mimò le virgolette con le dita. «Non è che avessi capito granché... però, alla fine, potrebbe trattarsi di banale disinteresse. Nemmeno io stravedo per il compleanno».

«Quindi non hai una risposta», concluse lui.

«Oppure!» – e lo guardò di sbieco. «Ha passato dei brutti compleanni ed adesso li odia a morte. Magari vuole solo dimenticare il 2 Dicembre».

Takeshi scrollò le spalle mentre, man mano che sentiva le ipotesi dell'amica, perdeva le speranze di capire l'intricata mentalità della mezzosangue. Non sapeva che pesci pigliare e dubitava di poter avvicinare la famiglia per chiedere a loro. «Apprezzo lo sforzo».

«Okay, ma non fare quel sorriso triste».

«Ah-ah».

 

 

Yuki si era alzata dal tettuccio, un attimo dopo le parole pronunciate dall'amica, ed era balzata giù con un cipiglio irato. «Non parliamo di quest'idiozia, okay?», aveva detto. «Non conta niente, non cambierà la vita di nessuno e mi invecchierà di un anno che sulla pelle non... ». Si era fermata, abbassando lo sguardo con rabbia. «Non parlatene più».

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Non è che volesse arrabbiarsi o litigare con loro, non gli piaceva per niente, non era nata isterica – come sosteneva qualcuno che si credeva molto simpatico – ma quando spuntava l'argomento “compleanno” sentiva le sue sinapsi esplodere con un boato.


Ricordava che da piccola era un giorno molto felice.

 

Si svegliava la mattina, coccolata dall'abbraccio della madre; suo padre la portava con sé a cavallo, le permetteva di comportarsi come una vera bambina; più avanti, quando Ai fu più grande, riceveva sempre un disegno dalla sorellina come regalo di compleanno.
Era sempre stato così, fino ai suoi undici anni, quando suo padre aveva deciso che era troppo cresciuta per essere coccolata e viziata – e lei cominciava ad essere troppo arrabbiata.

Poi era successa la dichiarazione – lei si era dichiarata a Tetsuya proprio quel giorno; cosa le avrà mai detto la testa per fare una simile sciocchezza?

 

 

«Sono tornata», disse Yuki, varcando la soglia e chiudendosi la porta alle spalle.

«Bentornata, cara». Kazumi era appena spuntata dalle porte sulla parete destra; bella come sempre, indossava un lungo abito di raso, color glicine, e i capelli erano acconciati in una treccia che portava sul petto. Nella mano sinistra aveva un libro, “I cento giorni”. Sua madre aveva sempre adorato viaggiare e tutto ciò che poteva farle rischiare la vita; che fosse una gita nel deserto del Sahara o una nuotata nel Mar Mediterraneo, lei sarebbe corsa – questo fin quando non aveva incontrato Oseroth: adesso aveva delle persone di cui tener conto. «Ti sei divertita, a scuola?».

«Ah... sì», rispose Yuki, vagamente, mentre si avvicinava alle scale. «Credo di sì».

«Meno male– ah, tesoro, aspetta, devo dirti una cosa».

 

Yuki si fermò, col piede a mezz'aria, fissando il vuoto con la fronte aggrottata. Meccanicamente, aveva ruotato il busto per girarsi verso la madre, che l'aveva raggiunta sui gradini.

Stava sorridendo, ma tirando un po' troppo le labbra – era un sorriso un po' forzato. «Stai per compiere diciassette anni. Te lo ricordi, vero?».

«Beh, sì. Me lo ricordo», rispose l'albina, strizzando le palpebre sospettosa.

«Ormai sei diventata un'adulta, eh?».

«Non proprio, non sono nemmeno maggiorenne».

«Però sai che nella nostra comunità sei già abbastanza grande», ribatté Kazumi. «Il ché vuol dire partecipare di più agli eventi».

«... ah-ah. Dove vuoi arrivare?».

Kazumi incrociò le braccia al petto, inclinando la testa con un sorriso più dolce e naturale. «Voglio dire che è il momento di prendersi le proprie responsabilità: la mia è di assicurarmi che tu lo faccia. Ascolta, lo so che non vuoi e che odi tutto questo, ma se ti dimostrerai più gentile e, magari, accomodante, anche le aggressioni smetteranno e potrai vivere in pace».

«Ma–».

«Senza dover sposare Ichiro Fukanishi».

 

 

Yuki stava per ribattere– ma ehy, la frase che aveva appena detto Kazumi era molto interessante. Persino troppo per essere vera. «Ah, davvero?», mormorò, fingendosi disinteressata. «Credi che sia così? Mi basta semplicemente partecipare a qualche ballo, riunioni e cose simili?».

«Oh, ne sono convinta. Sei una grande risorsa, d'altronde», disse Kazumi. «Per questo sei viva. E anche perché sei forte».

La mezzosangue appoggiò una mano al corrimano, picchiettandolo con le dita. In questo modo, avrebbe potuto scartare uno dei problemi che attentavano alla sua relazione con Takeshi. Diamine, voleva mettersi subito a lavoro. Adesso sì che si sentiva carica. «Bene», disse. «Allora ascolterò il tuo consiglio. C'è qualche evento vicino a cui posso partecipare? Non c'è tempo da perdere».

Kazumi annuì un paio di volte, contenta. «Mi piace questo entusiasmo! E sì, c'è proprio un ballo, ed è molto vicino: il tuo, tesoro».

«... il mio cosa?».

«Il tuo. Il party per il tuo compleanno».

 

Ecco perché non voleva parlare con sua madre – la fregava sempre.

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

«Ti disturbo?». Tetsuya sorrideva mentre scavalcava la finestra, prima la gamba sinistra e poi quella destra, chiudendo poi la finestra e tirando le tende. Gli sembrava di essere tornato ragazzino. Quelle cose – come introdursi nella camera della sua migliore amica a notte fonda – le aveva fatte moltissime volte, ma era stato tanto tempo fa.
Tetsuya aveva lasciato la sua stanza al Consiglio alle 23.00 e aveva attraversato la città, le strade buie e desolate, con il freddo pungente sulla pelle che lui percepiva ben poco.

Come aveva sospettato, la sua finestra era aperta.

 

«Certo che no», sorrise lei, con dolcezza. Poi toccò col palmo lo spazio vuoto accanto a lei, dandogli qualche colpetto. «Vieni qui».

Immersa nel penombra, Yuki era seduta sulla cassapanca ai piedi del baldacchino, rannicchiata; il corpo snello era avvolto solo da una veste da notte color pervinca, sottile e lunga fin sopra le ginocchia, con un libro fra le dita; era proprio “I cento giorni”, che aveva preso dalla madre, incuriosita dal titolo.
A vederla così, gli era sembrata una fata.

«Da quando ti piacciono i libri storici?», disse Tetsuya. Macinò quei pochi metri, sedendosi accanto a lei, le gambe leggermente divaricate e i gomiti sopra.

Lei rise, richiudendolo. «Ah, a dire il vero, da mai. Il titolo mi piaceva e ho voluto provarci, ma... ».

 

Tetsuya la ascoltava parlare, col sorriso sulle labbra, sereno nel sentire la sua voce – turbato di non averla sentita per tanto tempo. La guardava mentre lasciava scendere la gamba sinistra e il piede nudo toccava il pavimento, oppure quando appoggiò la tempia sul ginocchio e lo fissava con occhi sorridenti. Poi, ad un certo punto, Yuki sollevò la testa. «Tetsu?».

«Ah, dimmi».

«Stai bene?».

Tetsuya distolse lo sguardo, ponendolo verso la parete di fronte. Si soffermò ad osservare l'armadio, la luce fioca che lo ricopriva. «Sì, sto bene», rispose. «Però volevo spiegarti delle cose».

Yuki appoggiò anche l'altro piede a terra, raddrizzando la schiena. «Ti ascolto».

Prima di cominciare, sembrò raccogliere tutti i pensieri, il coraggio, e solo allora poté creare un discorso. Prese un profondo respiro, senza distogliere lo sguardo. «I miei genitori si sono suicidati per un... motivo, se così possiamo chiamarlo. Non te l'ho mai detto, e mi dispiace, ma è stato difficile da digerire, ed è uno dei motivi per cui me ne ero andato. Questo e la scomparsa di mio fratello, come già sai. Loro, mio padre e mia madre... l'hanno fatto per seguire una regola di famiglia», disse il vampiro. «Questa regola – o meglio, è una sorta di tradizione – li obbliga a togliersi la vita quando si raggiunge l'età adulta».

Yuki batté lentamente le palpebre. «E per quale ragione... l'hanno seguita? Tu lo sai?».

«Io so tutto di questa storia e della tradizione perché me ne avevano parlato già in vita. Oltretutto, avevano lasciato una lettera d'addio». Sospirò profondamente. Era dura pensare che ci fossero idee così malate proprio tra i suoi parenti. Stanco, si passò le mani fra i capelli biondi. «La famiglia Tanigawa ha la concezione che vampiri e demoni siano abomini, scarti di un essere realmente perfetto; d'altro canto, credono che dobbiamo vivere per realizzare questa realtà, almeno per una parte della nostra vita. Per questo, ognuno di noi... », si fermò – e la guardò. «... deve uccidersi».

 

L'albina aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito dopo. Era senza parole.

Conosceva i genitori di Tetsuya da quando aveva solo cinque anni e loro erano... erano strani. Questo era vero. Avevano dei sorrisi enigmatici e magnetici, erano silenziosi ma dai modi gentili, ed erano molto belli, entrambi biondi, lui con gli occhi viola e lei nocciola.
Avevano una insolita aura intorno a loro – ma mai avrebbe pensato che fossero così.

«Ad ogni Tanigawa viene fatto il lavaggio del cervello sin dall'infanzia, e quando arrivano adulti non aspettano altro che quel momento. I miei genitori l'hanno fatto per anni anche con me e mio fratello, ma siamo riusciti ad eludere la cosa».

«Come?».

«Non è stato facile. Dovevamo collaborare per ricordarci a vicenda che non siamo abomini. Durante le sessioni di lavaggio del cervello, puntavano molto all'ipnosi. Dovevamo ferirci, farci del male per riuscirci, e... come puoi immaginare, non è molto facile liberarsi dall'ipnosi di due vampiri adulti».

«Capisco», Yuki gli prese la mano, stringendola dolcemente nella propria. Guardava Tetsuya negli occhi con apprensione e lui le restituiva lo sguardo, inizialmente mite, e poi stoico e malinconico. Allora, travolta dalla tristezza, l'aveva abbracciato forte – lui le aveva allacciato i fianchi, affondando il viso nella sua spalla. «Sei il miglior vampiro che abbia mai conosciuto. Sono orgogliosa di essere tua amica».

«Tu non sei solo mia amica, Yuki. Mi dispiace di essere sparito e di averti fatto soffrire», sussurrò il vampiro. «Sei la mia famiglia». Sorrise e scostò un po' il viso, per schioccarle un bacio sulla guancia. «Buon compleanno».

Lei si mise a ridacchiare, scompigliandogli i capelli con le mani. «Grazie».

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Quando la mattina del 2 Dicembre si svegliò, verso le undici di mattina, Yuki percepì una strana sensazione di intontimento che le aveva subito preso la testa e gli occhi. Non sapeva a cosa fosse dovuto, se al sonno pesante della notte passata o dal sole che filtrava dalle tende – ad ogni modo, sapeva bene di doversi alzare, anche solo per tirare meglio le tende. E controllare quel cellulare che sembrava quasi un giocattolo per la sua inutilità.

 

Erano già passati dieci minuti e lei, imperterrita, continuava a fissare un punto a caso del soffitto, con le lenzuola abbassate fino ai fianchi. Indugiava. Perché sapeva a cosa sarebbe andata incontro.
Passò qualche altro secondo, qualche altro minuto, finché non si degnò di allungare il braccio verso il comodino. Afferrò il cellulare e se lo portò davanti al viso, stringendo gli occhi.

Tre chiamate e due messaggi, pensò, pigramente.

Tastò svogliata con l'indice, mentre con l'altra mano reggeva il piccolo dispositivo; due di quelle chiamate e un messaggio erano di Sayumi – come al solito – mentre l'altra di Takeshi e l'altro messaggio di Hokori. Non amava trafficare con quel coso.

Finalmente si decise ad alzare la schiena dal materasso, sgranchendo il collo.

Bene, si cominciava. Spostò la chioma alle spalle e digitò, un po' assonnata, per poi portare il cellulare all'orecchio. Attese quelli che furono dieci secondi prima che, una voce maschile, familiare e dannatamente piacevole non le carezzò l'orecchio – il suo timbro di voce era un po'... nervoso? Frettoloso, mentre rispondeva con un “pronto” balbettato.

 

Yuki staccò il cellulare per accertarsi di aver chiamato la persona giusta. Sì, il nome di Takeshi splendeva sul display.

 

«Che... », increspò la fronte, fissando la porzione di gambe scoperte dal lenzuolo. «... tutto okay?».

«Asp-». D'altro capo del telefono si udì un rumore di oggetti cadere, un tonfo pesante e qualche imprecazione di sottofondo. Intanto l'albina, sempre più perplessa, raccoglieva le gambe al petto. «Senti Take, se eri occupato, potevi anche non rispondere e richiamarmi dopo, non... ». Che poi era una sorpresa; per quanto ne sapeva, lui odiava svegliarsi prima delle dieci e l'orario nel registro chiamate corrispondeva alle dieci circa.

«No, no!», seguì un'orchestra di sospiri e suoni simili a calci e poi, finalmente, il ragazzo sembrò ritrovare un po' di calma. «Ci sono, eccomi. Scusami, ma», sospirò un attimo. «sono tornato proprio adesso, la tua chiamata è arrivata mentre aprivo la porta. Mi sono trovato davanti un parete di scatole, a confronto il muro di Berlino è la staccionata di qualche casetta di campag- oh, ma stiamo scherzando?».

«Altre scatole?».

«Ora le prendo a calci».

Yuki rise, con qualche colpo di tosse. «Che diamine succede in casa tua?».

«Vorrei saperlo anch'io. Non credo avessimo in progetto di trasferirci. Magari se ne vanno loro. Il ché sarebbe magnifico».

«Ah... », flemmatica e con un fondo di curiosità malcelata, l'albina posò i piedi sul pavimento gelido e si alzò in piedi.

 

Se ci pensava, non sapeva praticamente nulla sulla famiglia del suo ragazzo; del suo legame con i genitori, se aveva fratelli. Se aveva un cane.
Conosceva Takeshi ma non sapeva niente sul suo passato o ciò che lo circondava e questo le dispiaceva. O la innervosiva? «... e perché sarebbe magnifico?». Senza nemmeno farci caso, aveva dato voce a quella domanda. Sperava solo che non fosse troppo impicciona. Mentre aspettava la sua risposta, era uscita dalla sua camera per andare nella porta accanto – uno dei bagni.

Improvvisamente, lo sentì ridere, spensieratamente. «Perché sono fastidiosi, come tutti i genitori che si rispettino. Non ti preoccupare, non c'è nessun passato oscuro».

Quella dolce, bassa e carezzevole voce. Si abbassò ancora di più, come un sussurro, come se volesse confidarle un grosso segreto, in contrasto con ciò che aveva appena affermato.
Era un tono che voleva annidarsi – lei lo ascoltò, appoggiata al bordo della vasca da bagno, il profumo dello shampoo nelle narici. «... però, pensandoci, non mi sarebbe dispiaciuto avere un passato travagliato. Avrei avuto una scusa per... farmi coccolare da te. Qualcosa come un paio di baci».

«... idiota».

«Di tanto in tanto, mia cara festeggiata».

Yuki mugugnò.

«Buon compleanno, Yuki».

 

Okay. Forse – ancora, forse – avrebbe sentito quella frase. Tipo, un migliaio di volte.

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Capitolo 6
*** Lugubre, ma dolce, ma nostalgico. ***


06.




«Non capisco perché tutte queste storie, a questo punto. Avete già detto che farete questo party, ormai è tardi per farsi indietro!».

 

Yuki infilò la testa sotto al cuscino, tirandosi su il lenzuolo, come un mantello. Logicamente, sapeva che Kukuri aveva ragione; erano le 17.48 e mentre in tutta casa Akawa volgevano preparativi e allestimenti per il party – che si sarebbe poi svolto alle 20.00 – lei aveva messo la testa sotto il cuscino, nel tentativo di evaporare in quell'istante.
Chiaramente non aveva funzionato.

Sospirando, sollevò il capo, arruffandosi i capelli argentei. «Cosa credi, lo so anch'io. Solo che adesso... sta diventando troppo reale per i miei gusti».

Kukuri sbuffò, appoggiando le mani sui fianchi. «Ho un déjà vu».

Yuki le lanciò un'occhiataccia e si passò una mano tra i capelli, per riordinarli. Okay, ci avrebbe dato un taglio – tanto ormai era fatta; si alzò dal suo letto e si avvicinò al centro della stanza, salendo sopra al piccolo podio rotondo. Mentre Kukuri ordinava i cosmetici posizionati sulla specchiera e dava un ultimo controllo all'abito della sua padrona, Yuki si sfilava il maglioncino crema e il pantalone nero, e rimaneva in biancheria – rabbrividì un po', stringendosi nelle spalle.

«Mi dovete promettere che farete attenzione», disse Kukuri. «È un vestito molto bello quindi sarebbe un peccato rovinarlo. Oltretutto, è il vestito delle vostra festa. Non rovinatelo». Aprì la zip della custodia in plastica, sfilando attentamente l'abito da sera.

«Ho capito, ho capito. Non lo rovinerò, vedrai – sempre se gli altri non me ne daranno motivo».

Kukuri, preoccupata, aveva guardato l'albina con la fronte corrugata. Nello stesso momento, si sentì un bussare leggero contro la porta della sua camera da letto. A quel punto la ragazza dai capelli neri roteò gli occhi, esasperata, e ripose l'abito all'interno della sua custodia.

«Solo un secondo», disse l'albina; scese dal piedistallo e afferrò una vestaglia da notte color panna, infilandosela in fretta e annodandola alla vita con la cintura. Poi si avvicinò alla porta e la aprì, trovandosi di fronte una delle cameriere, una giovane donna.

Lei fece un leggero inchino solo con la testa e un passo indietro. «Ha ospiti, signorina», disse.

«Ma chi, io? È un po' presto per gli invitati», si voltò verso Kukuri e poi tornò alla cameriera di fronte. «No?».

«È una ragazza di media statura con gli azzurri e... i capelli rosa».

 

Yumi, pensò di riflesso Yuki, sorpresa. «Vabbene, adesso andrò da lei. Ti ringrazio». La cameriera fece un altro inchino e si allontanò dalla porta per dirigersi al piano inferiore. Yuki rientrò nella stanza, infilandosi ai piedi delle pantofole. «Beh, Kukuri, devi scusarmi ma devo proprio correre a vedere cosa potrebbe mai... ».

«State tranquilla, non serve cercare di convincermi», rise l'altra, scuotendo la mano.

«Bene, perché non stava andando granché bene».

 

Ridendo – inaspettatamente – era uscita nel corridoio, toccando con la mano il corrimano in mogano mentre scendeva i gradini; l'ampia entrata era ricolma di cameriere e maggiordomi che facevano su e giù da una porta all'altra, o che spazzavano il pavimento, altri ancora pulivano i vetri delle sporadiche finestre. Yuki riusciva a sentire profumo di cibo già dalle scale.
Peccato che non sarebbe riuscita a mangiare granché durante la serata.

Continuò a scendere, finché non raggiunse il piano terra e la porta d'ingresso, lasciata socchiusa. Ci infilò velocemente una mano, e spalancò la porta.

 

«Ah, ciao!».

E infatti, era proprio Sayumi.

Sorridente e allegra, indossava dei jeans scuri e un cappotto di lana azzurro, con una sciarpa bianca intorno al collo; aveva il naso arrossato e gli occhi leggermente lucidi, i capelli ondulati come onde, e le mani nelle tasche del cappotto – sembrava un po' infreddolita. «Che vestaglia chic», disse, ridacchiando.

«Che bel cappotto azzurro», ribatté l'albina, inarcando un sopracciglio. «Se mi avessi avvisato, avrei detto alla servitù di lasciarti entrare al tuo arrivo. Entra, dai, avrai freddo».

«Oh, no. Vedo che dentro c'è un gran via vai e poi devo tornare al negozio per aiutare. Sai, la gente ha improvvisamente voglia di regalare piante e fiori, quindi siamo piuttosto presi». Fece una pausa, la sua espressione – per un solo secondo – sembrò diventare pensierosa, ma subito dopo sorrise. «È il tuo compleanno e non abbiamo modo di passarlo insieme, per cui volevo passare un attimo».

«Capisco... mi ha fatto molto piacere. A dir il vero, mi hai risparmiato la prova dell'abito, anche se solo per un po'». Yuki rise, per poi roteare gli occhi. «Le piante non sono male. Voglio dire, sono okay, se non pensi di dormirci insieme».

«E se non hai visto film horror che parlano di piante divoratrici».

«Esattamente».

 

Yuki si voltò, guardandosi alle spalle. Beh, probabilmente nessuno ci avrebbe fatto caso, se fosse uscita per qualche minuto – veloce, fece un passo oltre la soglia, e appannò la porta.

«Sei pazza, fa un freddo cane!», esclamò Sayumi. «O meglio, mi viene un freddo cane a guardarti».

«Non ti preoccupare, sto bene così. Non mi andava di parlare sulla porta, in quella casa anche i muri hanno le orecchie. Dai, camminiamo un po'».

 

 

Cominciarono a percorrere il sentiero che portava al cancelletto, molto lentamente, per godersi quel poco tempo che potevano passare insieme. Il cielo era già scuro, quasi nero, e c'erano parecchie stelle che lo addobbavano. Dalla casa di Yuki arrivava una forte luce calda.
«Mi dispiace non poterci essere», disse Sayumi. Teneva gli occhi bassi sui suoi piedi mentre calpestavano la strada sterrata. «Scommetto che ci saremmo divertiti tantissimo. Avremmo potuto tormentare Takeshi e Tetsuya tutto il tempo».

«Non è colpa tua», ribatté l'altra, sorridendo. «Potremmo, non so... rifarci l'anno prossimo. No? Voglio dire, il tempo per tormentarli di certo non ci manca».

Sayumi sollevò lo sguardo da terra per puntarlo sull'amica, accendendo il volto con un sorriso. «Mi sembra un'ottima idea», e tornò a fissare la strada davanti a loro – aveva qualcosa per la testa; più si addentrava – insieme a Takeshi – in quel mondo, più si sentiva smarrita e disarmata. C'erano novità ogni giorno.
Aveva il ricordo della sua amica ricoperta di ustioni, il volto trasfigurato dalle lacrime. Tetsuya, la mattina della partenza, le aveva spiegato che era stata colpa sua. Era stato lui a procurarle quelle ferite, infrangendo la promessa che aveva fatto a Takeshi. La cosa sembrava aver turbato il vampiro più di quanto si aspettasse. «Yuki-chan», disse. «Ho... delle domande, a proposito della notte prima della partenza da Kyoto».

 

Yuki aprì gli occhi e strinse le labbra. Rallentò il suo passo gradualmente, sempre più, finché non si fermò. La terra sotto i suoi piedi era un po' più morbida, a causa dell'erbetta. L'aria intorno era fredda e pungente e di tanto in tanto si alzava un leggero venticello, che smuoveva le chiome degli alberi.

«Mi rendo conto che è un argomento difficile per te», continuò. «È stata una notte dolorosa, d'altronde, e penso che la ferita sia ancora... aperta. Non sbaglio, vero?».

L'albina scosse il capo. «No, in effetti no. Se chiudo gli occhi, vedo ancora il suo volto. Da una parte vorrei dimenticare, ma è mia responsabilità non far svanire il suo ricordo come se... », si fermò. Se Sayumi ricordava il volto dell'amica coperto di ustioni, Yuki aveva stampato a fuoco Makoto – dentro di sé.

«... come se non fosse mai esistita», bisbigliò Sayumi. L'altra annuì. «Lo dici perché ti senti colpevole, ma non è colpa tua. Hai letteralmente fatto tutto quello che potevi».

 

Yuki guardò Sayumi, abbassando le sopracciglia – malinconicamente. Poteva aver ragione. Ormai, Makoto Aozawa non voleva più continuare la sua vita, e con ogni probabilità ci stava già pensando, prima ancora del loro incontro. Certo, le avrebbe fatto comodo pensarla così e basta. Ma ancora non se la sentiva.

«E poi, Tetsuya mi ha parlato delle tue ferite».

«Le mie ferite?», fece eco l'albina. Ah, si riferiva alle ustioni. Francamente le aveva rimosse dalla mente. «Non è che ci sia molto da dire, veramente».

Sayumi scrollò le spalle, sospirando. «È che si sente davvero in colpa per quello che è successo. Aveva promesso a Takeshi che non ti saresti fatta male, ma... beh, lo sai meglio di chiunque altro».

«Oh. Oh, capisco». Cavolo, non ci aveva pensato – nemmeno per un attimo; era stata così presa dalla fine di Makoto, dai suoi sentimenti per Takeshi e poi dal ballo di Ichiro, che... ma a lei non importava per niente. Okay, aveva fatto malissimo, il processo di guarigione era stato infernale. Ma non era stata colpa sua, era stata lei a buttarsi – stupidamente – fra le fiamme.

Scosse la testa, chiudendo gli occhi. «Non dovrebbe colpevolizzarsi, non era di certo sua intenzione».

«È quello che gli ho detto, ma non sono sicura mi abbia dato retta», disse Sayumi, passandosi la mano dietro al collo. «Ma non capisco una cosa; Tetsuya è un vampiro, e se ricordo bene, sono i demoni ad avere strani poteri. Giusto? Ecco, comincio a non vedere più differenza fra demoni e vampiri».

 

Yuki corrugò la fronte.

Si fermò un istante, pensando a come potesse spiegare all'amica la differenza tra le due razze. Alle sue spalle vide scorrazzare uno scoiattolo, rapido.

«Fammi pensare... okay, proverò a spiegarlo nel miglior dei modi; i vampiri sono controllati, calcolatori e molto perspicaci, ma tutte queste loro abilità sono circoscritte dalla frequenza con cui si nutrono. Alcuni vampiri, ma è un fatto molto raro, riescono a sviluppare dei poteri come quelli dei demoni, come ad esempio Tetsuya. Si dice che sia una predisposizione fisica», fece una pausa, mentre giocherellava con una ciocca sulla spalla. «I demoni, invece, sono quasi totalmente schiavi delle loro emozioni; sono astiosi, esagitati e impulsivi, ma anche loro sono forti e agili come i vampiri, e peccano di intelligenza. Per sfamarsi hanno bisogno di sangue», si fermò un istante, guardando Sayumi con le labbra contratte. «e della carne stessa».

«La... carne?», ripeté Sayumi. «I demoni mangiano... la carne delle persone?».

Yuki annuì lentamente. «Sì, è così. Inoltre, come già sai, hanno dei poteri che li conducono a impazzire dopo tanti utilizzi. Non sappiamo ancora il motivo e non so se lo scopriremo mai. Succede», alzò le spalle.

«Quindi ci sono ben poche differenze, alla fine».

«Sì, esatto. Esistiamo da secoli, eppure sappiamo poco su noi stessi. Alcuni credono che ci siano poche differenze perché vampiri e demoni sono nati nello stesso momento – tanto tempo fa. Altri dicono che siamo facce leggermente diverse della stessa medaglia. Da parte mia, credo che i nostri Imperatori ne sapessero molto di più di quanto volessero dirci».

«Tanto tempo fa... », ripeté Sayumi.

 

Tanto tempo fa, quando nessuno di loro quattro era nato nel mondo, vampiri e demoni dovevano lottare per capire quale era la loro vera natura. Era una cosa assurdamente triste, ai suoi occhi. Non c'era nessuno a spiegargli perché succedeva quello e perché succedeva questo.
Guardò verso la sua amica, il suo profilo le appariva improvvisamente forte e coraggioso. Era la sua migliore amica per un motivo. Erano nate per incontrarsi.

La vide chiudere gli occhi lentamente e tirare un respiro profondo.

Con il dorso della mano, la mezzosangue si sfregò gli occhi oro, più e più volte – fortunatamente non era truccata. «Yumi», sussurrò, senza togliere la mano. «Pensi che adesso stia bene?».

Sayumi sorrise dolcemente. Allungò il braccio, stringendo la sua mano. «Ne sono più che sicura».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Il vestito le stava a pennello, come se le fosse stato cucito sulla pelle. Lungo, fino a nascondere i tacchi, e di un luminoso color oro, in pendant con i suoi occhi, si apriva in un'ampia gonna; il corpetto le fasciava l'addome e il seno, più sopra di questo una scollatura bordata con dei ricami crema, mentre quella delle clavicole era di colore nero.
Il retro del corpetto era scoperto ma tutto intorno era un'intricata decorazione floreale, di colore oro metallico, con una scia di perline lungo la colonna vertebrale, poco sopra la cintura che divideva gonna da torso. Ancora una volta, non si era lasciata toccare i capelli, appuntandosi una ghirlanda di perle.

«Allora, come va?», disse Kukuri.

Yuki si sistemò i guanti lunghi fino a metà braccio, e scosse la testa, aggiustandosi l'anello al dito medio che collegava al guanto. «Sento un brusio provenire dalla sala da ballo».

Kukuri inclinò la testa, cercando di drizzare le orecchie – l'albina ne sorrise, mentre si spostava i ciuffi sulle guance. Non riusciva a stare ferma, si sentiva tesa come una corda di violino.

 

Non erano più nella camera da letto, bensì nella stanzetta che conduceva alla soffitta. Yuki aveva guardato la stanza, spoglia e illuminata solo dalla lampada da tavolo, e poi la botola attaccata alla parete, il filo che pendeva invitante.
Ma ormai era lì. Pronta, imbellettata e agghindata – e se fosse salita nella soffitta con quel vestito, Kukuri non le avrebbe perdonato quel gesto. Per questo, puntò gli occhi verso la porta chiusa, aspettando il bussare – che arrivò un istante dopo.

Kukuri raggiunse in fretta la porta e l'aprì, lasciando entrare Oseroth Akawa. L'uomo era nel suo abito elegante, nero come la notte, con tanto di cravatta annodata al collo e camicia bianca, un accenno di gilet che si lasciava intravedere.
Il suo viso era serio come al solito, ma le labbra avevano una piccola piega verso l'alto. Sembrava... orgoglioso? Elettrizzato? Difficile dirlo.

Yuki non osava muovere un dito. Immobile come uno stoccafisso e la mandibola serrata, teneva i pugni chiusi.

«Yuki, è arrivato il momento», disse Oseroth – chiamandola per nome, in via del tutto eccezionale.

«Di già?».

«Siamo in orario. Non siamo in anticipo».

«Ah, ma sei sicuro? Non vorrai mica arrivare prima per sbaglio, vero?».

«Sono sicuro». Oseroth sospirò silenziosamente, per poi allungare la mano verso di lei. Tra loro due c'era forse un metro di distanza, quindi alla figlia sarebbe bastato solo un passo per raggiungere il padre. E poi uscire dalla stanza. Ma le sembrava una grande impresa.
E Oseroth aveva capito che qualcosa non andava nella ragazza – così, era stato lui a fare quel fatidico passo, e ad afferrare la sua mano. Era un po' impacciato, ma la sua presa era ferma. «Adesso stiamo rischiando di fare tardi», borbottò. «Non ti lascerò da sola. Non devi preoccuparti di niente».
Yuki guardò la sua mano, stretta dall'uomo, e poi il suo viso – come se non riconoscesse quella persona. «Grazie», riuscì a dire, sottovoce. «Possiamo andare».

 

 

Oltrepassarono la porta insieme, apparendo sulla sommità delle scale.

Lei aveva appena appoggiato il suo braccio su quello del padre, mentre lui guardava fieramente davanti a sé, senza fare una piega.

La sala da ballo di casa Akawa era immersa nella penombra; l'ampio salone era stato liberato da mobilio non necessario, lasciando solo qualche tavolo per servirsi, decorati da tovaglie di lino, piene di ogni tipo di leccornia. Dal soffitto pendeva un imponente lampadario di cristallo, luccicante.
L'intera sala era stracolma di persone, ospiti di ogni tipo, tra vampiri e demoni. Stavano lì, con lo sguardo rivolto verso l'alto, a fissare la coppia che era finalmente apparsa, e molti di loro tenevano tra le mani un bicchiere di champagne. Quando Yuki e Oseroth si trovarono sui primi gradini, in cima, ci fu un grande e rumoroso applauso.

L'albina si sentì tremare le gambe.

Quella situazione la metteva in difficoltà più dei combattimenti in cui metteva in gioco la sua stessa vita.

Quello scrosciare di applausi continuò fin quando entrambi non raggiunsero l'ultimo gradino e non toccarono il pavimento della
sala. A quel punto, gli ospiti tornarono a parlare fra di loro, alcuni concitati, altri più calmi, mentre a turno si avvicinavano per parlare con il duo albino.


Yuki lasciò il braccio del padre, ma entrambi rimasero l'uno accanto all'altra.

 


«Signorina Yuki! Sentitissimi auguri!», proruppe un demone, avvicinandosi immediatamente insieme alla moglie.

«È davvero incantevole con quel vestito», aggiunse la donna.

Yuki indietreggiò con la schiena, e mosse un piede come se volesse fare un passo indietro. Oseroth le appoggiò una mano sulla schiena, fermandola.

«Grazie mille, siete entrambi molto gentili», rispose l'albina, tentennando. «Mi dispiace, ma devo salutare un bel po' di gente stasera. Spero di rivedervi durante la serata. Buon divertimento». La mezzosangue fece un piccolo cenno col capo e un sorriso, prima di sparire dal campo radar del padre e della coppia.

Non trovava Tetsuya, in mezzo a tutta quella folla, e la sensazione non le piaceva per niente. Ricordava un po' troppo il compleanno di Ichiro. Un po' agitata, continuò a camminare fra le persone alla ricerca dell'amico, ma veniva fermata ogni cinque passi.



«Congratulazione, adesso fa pienamente parte della nostra società».

«Si unirà anche lei al Consiglio, come i suoi genitori?».

«Ha gli stessi occhi della madre, ma i capelli del padre. Di viso assomiglia molto alla signora Kazumi».

«Ma di carattere è uguale al padre».

«Oseroth è un demone molto serio. A dir il vero, non sembra proprio un demone», faceva l'ennesimo vampiro che aveva fermato la ragazza. «È decisamente controllato per essere un demone».

«Però l'odor– voglio dire, è geneticamente un demone».

«Perché state parlando dell'odore di mio padre?». Si era trattenuta a stento dal gettare occhiatacce da una parte all'altra. Oseroth avrebbe potuto ucciderli tutti in un batter d'occhio e loro lo sapevano. Lo sapevano, altrimenti non si dimostrerebbero così gentili e rispettosi di fronte a lui. Distendendo l'espressione, Yuki continuò: «Non sarei io la protagonista di stasera?».

Dapprima, i vampiri avevano tentennato – cavolo, l'avevano fatta arrabbiare –, ma poi avevano sentito la sua frase ed erano scoppiati a ridere nervosamente. «Oh, le prendo qualcosa da bere», disse uno di loro.

«No, non– ».

«Quella è la signora Kazumi? Andrò a salutarla, con il suo permesso».

«Io... io... devo andare alla toilet. Vogliate scusarmi». Entro pochi secondi, il gruppetto di vampiri si era sciolto come un gelato al sole. Forse li aveva spaventati. Ma non aveva proprio resistito – solo a quel punto, Yuki si rese conto che era rimasta da sola.


 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Posso disturbarla?», disse una voce, vicina al suo orecchio. D'istinto, la mezzosangue si spostò rapidamente, coprendo l'orecchio per un secondo – stava già per fare una brutta espressione, quando i suoi occhi intercettarono il suo interlocutore.

 

Un uomo. Alto, slanciato, in un completo bianco doppiopetto. Folti capelli biondo scuro e una maschera veneziana che gli copriva il volto fino al naso, con dei buchi per gli occhi nocciola. Le labbra erano carnose, disegnate da un sorriso incuriosito.
Aveva una mano sul petto e la schiena leggermente piegata in avanti.

Yuki lo guardava attentamente, cercando di dissimulare la sorpresa sul viso – quell'uomo le dava una strana sensazione. Anche se era spuntato alle sue spalle in modo piuttosto fastidioso, non riusciva comunque a provare astio – verso quello che era un vampiro.

«Certo», rispose Yuki. «Non disturba affatto, anzi. Chiedo scusa, il suo nome è... ?», chiaramente, lei non poteva ricordarsi in alcun modo i nomi di tutti gli invitati, specialmente perché il 90% degli invitati erano degli sconosciuti.

Il vampiro aprì le labbra e sollevò gli occhi. «Ho un'idea, che a mio avviso renderà il nostro incontro molto più divertente. Vuole ascoltarla?».

Yuki inarcò un sopracciglio. «Perché no?».

«Bene, allora ascolti; io non le dirò il mio nome, chi sono e cosa faccio, ma al contempo non sarò un viscido che mira solo ad ingraziarsi la sua famiglia. Che ne dice?».

 

L'albina quasi si strozzò con la sua stessa saliva – ma quel tizio era totalmente fuori di testa! Mai vista tanta sincerità in una volta sola.

Yuki batteva le palpebre interdetta, e indecisa, perché francamente non aveva idea di come rispondergli. «Ah... ah», fece, balbettando. «Beh... come vuole lei. Voglio dire, io non... che dice, balliamo?». Con il cervello in panne, lei aveva proposto a lui di ballare.

«Ne sarei onorato. Non mi aspettavo una proposta».

E lei non si aspettava di farla.

 

Qualche istante dopo, il pianista al pianoforte cominciò a suonare le prime note di Claire de Lune*, avvolgendo l'ampia sala da ballo come un mantello di velluto.
Quando gli invitati sentirono la musica, cominciarono a formarsi coppie di ballerini. L'uomo dai capelli biondi allungò una mano verso la mezzosangue, sorridendo candidamente.

 

Il vampiro le mise la mano sinistra sul fianco mentre l'altra intrecciava le dita della ragazza. Lei, ancora un po' stordita dallo svolgersi degli eventi, appoggiò il braccio su quello dell'uomo. Mentre attorno a loro le persone ballavano, lentamente, come cullate dalle onde del mare, anche loro cominciarono a muoversi. «Le piace questo movimento?», chiese l'uomo, avvicinandosi per farsi sentire. «È il più famoso tra i quattro movimenti della “Suite bergamasque”».

«Ha un suo perché. Mi piace molto, in effetti».

L'uomo fece un cenno, flemmatico. «Buon compleanno».

«La ringrazio».

«Ha compiuto diciassette anni, se non erro».

«Sì, diciassette».

L'uomo batté le ciglia. «È felice?». Yuki increspò leggermente la fronte, mentre metteva un piede indietro, cercando di non darlo a vedere; quel tizio le aveva appena chiesto se era felice? Che domanda strana – ma sì, sprizzava gioia da tutti i pori.

«Sì, sono felice, la ringrazio per... la premura», rispose, distendendo il viso.

Lui ridacchiò. «Ti do un consiglio: non mentire in maniera così palese».

 

Yuki irrigidì le spalle. All'improvviso, l'uomo aveva deciso di abbattere ogni formalità. Le aveva dato direttamente del tu, e aveva capito subito che lei stava mentendo. Forse era un sensitivo, un mago, o le leggeva nel pensiero – l'ultima opzione, straordinariamente, era la più probabile.
«Non capisco perché dice così», ribatté. «Non sto mentendo. È bello quando qualcuno si preoccupa per noi».

«Ah, ma davvero?». Le sue labbra si incurvarono in un sorriso sornione, enigmatico. La maschera celava perfettamente l'altra metà del suo viso. Yuki, senza nemmeno farci caso, lo stava fissando con aria concentrata. Intanto, Claire de Lune continuava a venir suonata, ed era quasi lugubre alle orecchie dell'albina e, contemporaneamente, nostalgico e dolce.
Immersa nelle note, non si rendeva più conto del tempo che passava, si sentiva quasi assente. L'uomo di fronte a lei sembrava bello come un dipinto, nonostante una parte del suo viso era celata dalla maschera. Yuki aveva una mano sul suo braccio, a farsi condurre da lui in quel ballo.

Un secondo dopo, sembrò riscuotersi da quello strano torpore. Sollevò la fronte, fissandolo insistente, le sopracciglia inarcate. «Chi è davvero?», disse. «Non penso di averla mai vista. E perché quella maschera? Non avrete qualcosa da nascondere?».
«E tu, che mi dici? Hai qualcosa da nascondere?».

«Sta sviando le mie domande e, peraltro, nemmeno molto bene».

«Peccato. Pensavo di essere bravo».

«E invece no. Dunque cosa?».

«No, non ho niente da nascondere».

«Mi sembra strano da credere. È l'unico ad avere il volto coperto, qui».

«Ho gusti eccentrici, tutto qui», l'uomo dai capelli biondi e il completo bianco fece una pausa, sollevando gli occhi oltre la testa dell'albina. La ragazza ne seguì i movimenti, cogliendo le sue pupille dilatarsi all'improvviso.

«No, non è “tutto qui”. Senta un po', questa è la mia festa, e ho intenzione di far andare tutto per il meglio. Se lei è qualcuno di pericoloso, mandato, che so, dal Consiglio... allora farà meglio a dirmelo. L'hanno incaricata di uccidermi? Allora andiamo da qualche parte, solo io e lei, e chiudiamo subito questa faccenda».

L'uomo aprì le labbra, sorpreso, tornando alla mezzosangue. Aprì gli occhi, sollevando le sopracciglia. «Wow. Sei parecchio paranoica. Te lo ripeto, non ho niente da nascondere».

«E allora perché la maschera? Se non avete niente da nascondere», Yuki assottigliò le palpebre. «oppure c'è qualcos'altro sotto? Qualcosa che non ha a che fare con me».

 

I suoi occhi nocciola sorrisero – aveva degli occhi talmente espressivi da bastare, per farsi comprendere. Rimase così, per quelli che parvero anni, finché non inclinò la testa in avanti, con calma, con una lentezza estenuante. «È vero, signorina Yuki. C'è altro sotto», bisbigliò al suo orecchio.

 


“Signorina Yuki”.

 

Quel tono di voce. Lei lo conosceva. Sapeva di aver già sentito quella cadenza, quel modo di pronunciare il suo nome. «Ah, davvero... », disse. Ma non riusciva a ricordare dove – dannazione, era frustrante. Ce l'aveva lì, sul punto di uscire allo scoperto.

«Ma ti prometto che non è niente di cattivo», mormorò. «Ti prometto che non rovinerò la tua festa. Non potrei mai farti del male, Yuki, è sempre stato così».

 

Ma che stava dicendo?

Ah, che stava succedendo? – soprattutto; a sentire quel timbro, quella frase così rassicurante e quasi nostalgica, sentiva un'onda di calore affluire al suo petto. Sentiva di potersi fidare ciecamente delle sue parole.
A bocca aperta, Yuki lasciò che l'uomo si allontanasse da lei di un ampio passo, sentì le punta delle dita sfiorare quelle dell'uomo per un ultimo istante. Piegò la schiena, con la mano sul petto, in un inchino silenzioso. La musica era finita, e adesso c'era un gran vociare a riempire il vuoto.
Qualche istante dopo, l'uomo dai capelli biondi e il completo bianco era sparito dentro la folla di gente, nello stesso modo in cui era arrivato – silenzioso e incorporeo.

 

 

 

 

 


 

* claire de lune: movimento di Claude Debussy. Anche stavolta vi invito ad ascoltarla mentre leggete!

 

 

NOTA:
Salve a tutti! Capitolo sei, veloci e scattanti – o quasi.

Iniziano le preparazione per la festa di compleanno, e nel frattempo Sayumi sente il bisogno di parlare con Yuki di certe cose.

La festa inizia - Gesù che ansia - ed è un complesso di musica, ospiti e leccaculo gente che vorrebbe conoscere gli Akawa, ma anche gente che non aspetta altro se non criticarli. Tra queste persone, ne spunta una che sembra essere diversa, o almeno, il suo scopo ultimo sembra essere diverso.

L'uomo sembra risvegliare ricordi nella nostra albina, ma poi sparisce tra le figure senza volto del party.

Come sempre, spero vivamente che il capitolo vi sia piaciuto e vi invito a lasciarmi le vostre impressioni! Bye~

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Capitolo 7
*** L'universo è stato fatto per essere visto dai tuoi occhi. ***


07.



 

Yuki cercò di rintracciare quella figura bianca in mezzo alla folla, ma non ci riuscì. Nemmeno quando si infilò fra i ballerini che infestavano il centro sala, guardando in ogni dove, quell'uomo era sparito.
Anche i suoi sensi sviluppati non riuscirono ad aiutarla. Quell'ammasso di odori e suoni le rendevano impossibile capire da che parte fosse andato. Eppure, era assurdo pensare che si fosse semplicemente dissolto.

Forse sto esagerando, pensò, continuando a guardare da un lato all'altro del salone da 



«Yu, finalmente», disse Tetsuya, alle sue spalle. Sospirò esasperato, incrociando le braccia al petto. «Ti stavo cercando dappertutto. Mi era venuto il dubbio fossi scappata da qualche parte».

Yuki stava ancora fissando un punto vago della sala, oltre le finestre in fondo alla stanza, con uno sguardo preoccupato e deluso. Probabilmente quel tizio era già lontano, ormai le era scappato. Sbuffando dalle narici, si decise a girarsi verso l'amico, che indossava un bel completo blu scuro che si sposava a meraviglia con l'ametista dei suoi occhi. «Senti un po', hai visto da qualche parte un uomo vestito di bianco con i capelli biondi?».

«Ma stai parlando di Fukanishi?», disse Tetsuya, arcuando le sopracciglia.

«No, no, certo che no. Altrimenti ti avrei chiesto se hai visto "la piaga"».

«Giusto. Errore mio. Quindi, un biondo vestito di bianco?». Tetsuya lasciò scivolare le braccia lungo i fianchi e si guardò tutto intorno, lentamente, aguzzando la vista. Alla fine scosse la testa. «C'è qualcuno con i capelli biondi o vestito di bianco, ma... ».

«Ho capito», sospirò l'albina.

Ma nessuno che avesse entrambe le cose.

 

Yuki e Tetsuya, allora, si spostarono dal centro sala per avvicinarsi nei pressi della scala da cui lei era scesa. Quel punto era un po' più appartato e tranquillo, mentre la maggior parte degli ospiti si perdeva nei balli o al buffet. In via del tutto eccezionale, Yuki non era stata fermata altre trecento volte.
Si erano seduti vicino al sottoscale, sulle sedie imbottite, l'uno affianco all'altra. «Dovresti rilassarti», diceva il vampiro. «E poi, non penso che qualcuno qui rischi davvero».

«Sì, hai... hai ragione».

«Persino Ai è al sicuro. Ci sono le guardie, con lei».

 

Ai era ancora troppo giovane per partecipare a quelle feste, o almeno, così la pensava Kazumi; per questo, nonostante i capricci della ragazzina, la donna non aveva voluto sentire ragioni e l'aveva mandata a “dormire”.
Per una volta la mezzosangue albina si era sentita in dovere di spalleggiare la madre; era solo un compleanno, questo era vero, ma le persone che vi partecipavano – beh, quelle non cambiavano mai. Pensierosa, Yuki accarezzò il tessuto morbido della gonna, rivolgendo lo sguardo al lucido pavimento. Non era il momento adatto per pensare.

«Ti stai divertendo?».

Yuki si strinse nelle spalle. «Mah. Insomma».

«Ma come», fece lui, sogghignando. «non ti piace essere coccolata e vezzeggiata da vampiri e demoni di cui a stento sai i nomi?».

«È il mio hobby del fine settimana».

 

Tetsuya sorrise, e ridacchiò per qualche secondo. Mentre lei roteava gli occhi – ma divertita – il biondo appoggiava la schiena contro la sedia e faceva un sospiro rilassato. «Con un po' di sforzo riesco a ricordare i miei compleanni e quelli di mio fratello, quando venivamo festeggiati».
Yuki stava ancora guardando il pavimento. Aveva riflettuto sulla confessione dell'amico, la stessa notte in cui gli era stata fatta; ripensandoci, da sola, alcune cose dell'infanzia che avevano trascorso insieme prendevano un senso.
Il modo stesso in cui Tetsuya era cresciuto, come era cambiato, le espressioni indurite e stanche sul suo viso – quando era ancora un ragazzino. Il fatto che, a volte, c'erano settimane in cui non potevano incontrarsi; quando, all'improvviso, per Tetsuya e suo fratello non esistevano più i compleanni o le feste.

Tetsuya si voltò lentamente verso Yuki. «Era bello passarli con te e mio fratello».

L'albina sorrise, con dolcezza, annuendo leggermente. «Keiichiro assecondava sempre le nostre stupidaggini».

«Già, e poi si faceva prendere dall'ansia ogni volta».

«Perché aveva paura ci facessimo male».

Tetsuya fece una pausa, il sorriso che gli albergava sulle labbra. Il vociare delle persone era vicino, insistente, ma se da una parte era impossibile non notarlo, dall'altra riusciva comunque ad estraniarsi. «Penso che in parte fosse così per... », e si fermò.
Era davvero il caso di parlare di certe cose, proprio quella sera? No, non lo era. Avevano tutta la vita per parlarne, e sapeva che lui avrebbe potuto sfogarsi con lei. Forse, avrebbe potuto farlo persino con Takeshi e Sayumi.

«Per?», disse Yuki.

Il vampiro si alzò dalla sedia, senza rispondere. Si infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e ruotò i piedi verso la ragazza, rimasta al suo posto – con le sopracciglia leggermente basse sugli occhi. «Ho il tuo regalo di compleanno. Me ne stavo quasi dimenticando, tra l'altro».

Yuki accennò una risata. «Ma davvero? Sai che non dovevi farlo».

«No, invece. Dovevo. Specialmente quest'anno. È stato persino divertente, pensa un po'».

«Ah, beh– ». L'albina si alzò dalla sua sedia, sollevando appena la gonna del suo abito per non inciamparci sopra. Sollevò lo sguardo di fronte a sé, in tempo per vedere Kazumi spuntare nel centro sala; bella come un fiore, con i capelli rossi raccolti elegantemente con delle forcine, indossava un lungo abito borgogna che accarezzava la superficie del pavimento lucido.
Era stata trattenuta da un paio di persone, qualche uomo e ben poche donne, e lei parlava e si comportava con una tale grazia da sembrare una piuma.

Dietro di lei – e i suoi interlocutori – apparì Kukuri, con addosso l'uniforme elegante, e reggeva con una mano un vassoio d'argento. Si fermò nei pressi di Kazumi, allungando un po' il braccio in quella direzione. La donna le fece un sorriso d'intesa, per poi tornare agli ospiti.

 

 

«Yu?». La voce di Tetsuya la fece riscuotere. Ferma come uno stoccafisso, ad un passo di distanza dal vampiro biondo, teneva lo sguardo in un punto casuale della sala. Cosa le prendeva?

Si toccò la fronte con i polpastrelli e annuì, sbrigativa. «Sì, ci sono».

«Okay», disse lui, attentamente. «Così sembra. Allora, lo vuoi o no il tuo regalo?».

«A questo punto sono curiosa». Cosa era successo in quel secondo? La sua testa si era offuscata, le sue orecchie non ricevevano i suoni. Scosse la testa e si avvicinò a Tetsuya rapidamente.

«Sei sicura di stare bene?».

«Sono solo stordita dalla folla».

Tetsuya la osservò per qualche secondo e alla fine, indeciso, aveva annuito. Le appoggiò la mano sulla schiena e la sospinse delicatamente, per invitarla a camminare. «Vedi quel punto?», le disse, indicando di fronte a sé.

«Quale, la colonna accanto alla finestra?».

«Sì, quello. Devi andare lì».

L'albina corrugò la fronte e girò il volto verso il biondo.

«Dammi retta. Vedrai che non te ne pentirai. Vai lì, noi due ci sentiremo in un altro momento».

 

Yuki aprì la bocca nell'atto di ribattere, perché riteneva la situazione un po' strana, ma quando si voltò Tetsuya era già sparito. Lei si girò dall'altra parte, girando su stessa, ma l'amico era già parecchio lontano.

«Ma sì, non è affatto inquietante», bisbigliò tra i denti – passandosi la lingua sui canini.

Indirizzò gli occhi verso il punto che le aveva indicato e socchiudendo le palpebre, sospettosa, camminò in quella direzione. In qualche secondo arrivò alla colonna con accanto la finestra. Era lì. Con la mano, toccò la superficie liscia, come se si aspettasse di attivare qualche marchingegno misterioso. Ma non accadde niente, naturalmente.
Ruotò i piedi e appoggiò la schiena contro la colonna. Quando Kukuri le passò davanti, Yuki la fermò per prenderle un bicchiere di champagne. Si salutarono con un sorriso, e la mezzosangue tornò ad esaminare le punte delle sue scarpe alte, che spuntavano dal bordo del vestito.

 

Ah, se ci fosse stata Yumi avremmo potuto ridere insieme di tante cose, pensava, sorseggiando dal suo calice, e invece sono qui, abbandonata a me stessa. Pure quel mentecatto di Tetsu se n'è andato chissà dove. Ma non doveva accompagnarmi qui? E poi, quel tizio con la maschera...

 

 

 

«Voulez-vous un autre verre, chéri*?».

 

Al suono della sua voce – e a quel nomignolo, fastidioso come poche cose – sollevò la testa di scatto, rischiando di far cadere il calice che teneva fra le dita. Non poteva crederci. Non poteva crederci. «No... sto bene così», rispose, con un filo di voce.

 

Con la schiena leggermente piegata in avanti, nell'atto di avvicinarsi a lei, teneva in una mano coperta dal guanto bianco un bicchiere di champagne. Il petto era fasciato dalla camicia bianca, i cui primi due bottoni slacciati, e la giacca nera era lasciata aperta. I pantaloni neri gli stavano a pennello, perfettamente, e il lato sinistro dei suoi capelli era pettinato ordinatamente, lasciando scoperto l'orecchio decorato dal cerchietto oro – accentuò il sorriso, come il sole scoperto dall'eclissi. «Sei così bella che è stato facile trovarti».

«Tu sei pazzo. Come ti è saltato in mente? E da quando parli francese?».

Lo vide raddrizzare la schiena, abbassare la mano che reggeva il calice per portarselo alle labbra. I suoi occhi erano attenti mentre guardavano a sinistra e poi a destra, cautamente. «Da quando ero ragazzino», disse, tornando a lei. «E forse sono pazzo, ma ne è valsa la pena. Guarda come mi stanno bene i vestiti di Tetsu».

Ecco, appunto. Tetsuya era proprio il suo migliore amico. Solo lui avrebbe potuto fare una cosa del genere, coinvolgere un umano per il semplice fine di renderla felice. Ed escogitare tutto quel piano. Era il suo "regalo di compleanno".

Ancora non riusciva a credere di averlo davanti a lei. «Takeshi. È... », la sua bocca non riusciva a muoversi di più.

«Lo so, lo so. È già tanto se sono qui. Non dimenticarti di ringraziare Tetsu».

«Non mi dimenticherò, stai tranquillo. Una cosa del genere... ». Si fermò un istante, scrollando la testa, con un sorriso sulle labbra. «Non potrei mai dimenticarla, nemmeno volendo».

«Allora vuol dire che sei felice?».

 

Ebbe un attimo di esitazione. Era la seconda volta in tutta la serata che le era stato chiesto se era felice, ma adesso la risposta era così chiara che aveva paura fosse visibile agli occhi di tutti. «Sono così felice che non mi riconosco nemmeno», rispose, ridacchiando, cercando inutilmente di non farsi vedere.
Tirò il braccio indietro, lasciando il suo bicchiere sul davanzale della finestra, per poi avvicinarsi a lui di un microscopico passo, per non destare sospetti. Più lo guardava, più gli sembrava un miraggio, abbastanza bello da farle girare la testa; più lo scrutava, e più le sembrava di riuscire a vedere – sotto la pelle – la colonna vertebrale, il cuore battere ritmicamente e dolcemente, il suo sangue scorrere in tutto il corpo, caldo e denso. Non era nemmeno agitato, o spaventato.

Lentamente, la mezzosangue arrivò con lo sguardo fino al suo collo, perdendosi nella giugulare, nei nervi, nella trachea. Era così invitante.

Takeshi intanto le aveva parlato ma lei, di tutto quanto, non aveva sentito una parola.

«Yuki!».

«Ehy, sì, sono qui», balbettò l'albina. «Cosa, perché urli? Vuoi che ti sentano tutti?».

«No, ma vorrei che mi sentissi almeno tu», disse il moro.

«Mi ero un po' persa... ti ascolto».

«Ti stavo dicendo: scappiamo dalla festa».

«... aspetta. Mi sa che ero ancora persa».

«Yuki, sarebbe la terza volta che ripeto la stessa frase».

«Scusa, ma... mi hai appena chiesto di “scappare dalla festa”? Hai detto proprio questa frase? Non ho le allucinazioni?».

Takeshi fece un sorriso spavaldo. Si portò il bordo del bicchiere alle labbra, facendo un sorso di champagne, e poi lasciò il suo accanto a quello della mezzosangue. «Mi hai capito alla perfezione». A quel punto Yuki si chiese se non era tutto uno scherzo magistralmente architettato.

«Take, mi piacerebbe molto ma... ».

«Aspetta, mi sono spiegato male», la interruppe. «Non è una proposta. Io ti sto rapendo».

 

 

Due minuti dopo, Takeshi e Yuki stavano camminando più veloci possibile verso l'uscita della sala da ballo, la seconda trascinata dal primo; la mezzosangue si nascondeva dietro la figura del suo ragazzo, macinando metri, finché non raggiunsero la porta che li avrebbe condotti sulla passerella.
Takeshi mise la mano sulla maniglia e aprì la porta, sgusciando fuori, e quando lei stette per imitarlo, una mano le si posò sulla spalla.

Ecco, troppo tardi. C'erano talmente tanti demoni e vampiri che era quasi impossibile distinguere gli odori fra loro, poteva letteralmente essere chiunque – allora si voltò lentamente, indossando il suo miglior sorriso.


«Dove pensi di andare?». Ma di fronte a lei c'era Tetsuya.

 

Con un grosso sospiro di sollievo, Yuki si appoggiò una mano sul petto. «Mi hai fatto prendere un colpo».

«Volevo– », cominciò il vampiro biondo, interrotto da Takeshi oltre la porta. «Yuki, datti una mossa, prima che ti vedano!».

Yuki si voltò verso la porta, socchiusa, e poi di nuovo a guardare il biondo, totalmente indecisa su cosa fare. «Tetsu», bisbigliò – il vampiro le sorrise con dolcezza. Non c'era bisogno di dire altro, per lui.

Lo vedeva. L'aveva resa felice.

 

«Godetevi il tempo insieme. Ve lo meritate», disse, mentre le appoggiava sulle spalle dell'amica la giacca nera, che le andava abbastanza grande da sembrare un vestito molto corto. Yuki si guardò le maniche, le spalle e le braccia che sparivano dentro esse, e imbarazzata gli diede un abbraccio veloce.

«Grazie. Tornerò».

«E io ti aspetterò».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Più veloci della luce, avevano lasciato la casa Akawa, ed erano usciti in strada – sul marciapiedi, e nel pieno della notte, l'aria era fredda come una lastra di ghiaccio. Impazienti e saltellando sul posto, cercavano di riscaldarsi mantenendosi in movimento. Persino Yuki sentiva freddo, con la giacca di Tetsuya addosso.
Armati di spensieratezza – forse destinata a durare poco – avevano ricominciato a correre, mano nella mano, per le strade illuminate a giorno dalle vetrine e le decorazioni natalizie, mentre la neve continuava a scendere sopra le loro teste. Intorno a loro c'era ancora qualche persona, qualche coppietta, che li guardava con stupore – forse perché lei era in abito da sera e lui con il completo nero.

Il vento gli sterzava sul viso e l'ingombrante gonna rischiava di farla cadere ogni tre passi – allora si fermarono quando raggiunsero il negozio di fiori Ichinomiya, ormai chiuso da un paio di ore.

«Bene», Takeshi si piegò un attimo sulle ginocchia. I suoi capelli, che per una volta erano stati in ordine, si erano già disfatti. Si rimise in dritto, voltandosi verso di lei. «E adesso che facciamo?».

«Ah, non lo so. Sei tu il rapitore, no?».

«Vero».

 

Takeshi alzò il viso al cielo, socchiudendo le palpebre quando un fiocco di neve gli cadde sul naso. Accennò un sorriso; i fiocchi non avrebbero smesso di scendere per un po', e la cosa non gli dispiaceva affatto, sebbene facesse un freddo assurdo. «Allora, tanto per cominciare», la guardò sorridendo e aprendo le braccia. «ti prendo imbraccio come una principessa».

«Cosa?», esclamò lei, scoppiando a ridere. «Ma come ti vengono certe idee? Assolutam– Take, eddai!». Lei protestava, ridendo, mentre il moro già la sollevava da terra con un braccio dietro le sue ginocchia e l'altro alla schiena. Yuki si era aggrappata alla belle e meglio al suo collo.

«Comoda, spero. Ora possiamo riprendere». Takeshi aveva ripreso a muoversi, camminando velocemente, come se il peso della ragazza fosse nullo. «Adesso si corre!».

«Se cadiamo, Kukuri mi ucciderà!», protestò lei, schiacciando il viso contro la spalla del ragazzo.

 

Oh, cavolo, in realtà non era spaventata. Non si era mai divertita così tanto come in quel momento. Avrebbe solo voluto che la loro vita si fermasse in quel solo istante, con la neve che gli ricopriva la testa e le luci natalizie che brillavano accecanti nella rotonda con il grosso albero al centro.
Solo quando raggiunsero quel punto, al sicuro da vampiri e demoni, Takeshi lasciò scendere Yuki con cautela. «Ecco qua, chéri», lui sorrideva e tutto il suo viso si illuminava.

«La ringrazio, monsieur», gli fece eco la mezzosangue.

Takeshi ridacchiò. «Torno subito, aspettami qui».

«Come, dove vai? Non è prudente andartene da solo!».

 

Takeshi congiunse le mani, palmo contro palmo, in segno di preghiera, mentre già si allontanava di qualche passo. «Lo so, ma farò in fretta. Devo solo andare in quel negozio», disse in fretta, indicando poi il negozio di oggettistica di fronte all'albero.
Lei non fece in tempo a ribattere che il ragazzo stava già attraversando la strada – quasi ridendo, l'albina si chiese cosa avrebbero pensato le persone nel negozio vedendo un adolescente così ben agghindato. Da quel punto, Yuki riusciva comunque a vederlo chiaramente muoversi nel negozio, finché non sparì dietro ad uno scaffale. Chissà cosa doveva farci, lì.

Mentre lo aspettava, infilò le mani nelle tasche della giacca e sorrise, animando nuvole di vapore con il respiro. Era tutto talmente bello – che dentro di lei, aveva paura che qualcosa dovesse succedere. Qualcosa di brutto.

Per questo, cercava di mantenere la guardia alta. Ma era difficile con lui. Era proprio un distruttore.

 

 

«Ehy», al suono della sua voce, Yuki si riscosse e spostò lo sguardo davanti a sé. «Ti sono mancato? Hai visto? Ci ho messo due minuti».

«Sei stato un fulmine. Ma che cosa... », Yuki aggrottò la fronte e guardò le mani del suo ragazzo.

«È Natale», rispose Takeshi. Tra le mani, aveva due ghirlande natalizie. Attaccate c'erano bacche rosse e foglioline del medesimo colore, un fiocco argentato con un campanellino che pendeva, facendo rumore ad ogni minimo movimento. Takeshi alzò le braccia e con delicatezza posò la ghirlanda sulla testa dell'albina. «Eppure a casa tua non c'erano decorazioni e sicuramente non c'era aria di festività. Non potevo chiudere un occhio su una cosa simile. Non avevo in progetto di comprarle, ma... beh, non ho resistito», aggiunse ridendo, appoggiando sulla propria testa la sua ghirlanda, che sprofondò sui suoi folti e morbidi capelli.

«Bene, adesso siamo due scemi con delle ghirlande in testa».

«La tua festa è decisamente salita di livello».

«Davvero, mi hai salvato il party. Come potrò mai sdebitarmi?».

«Un'idea ce l'avrei».

«Non ti azzardare a fare qualche battuta stupida!», lo ammonì – tentando, imbranata, di fare la dura.

«No, in realtà... ». Lui sorrise, stendendo le labbra arrossate dal freddo. I suoi occhi erano luminosi e dolci, scuri e belli – come sempre, emanavano una luce tutta loro.

Yuki lo vide infilare la mano nella tasca sinistra e poi, lentamente, lo vide anche mentre cacciava una piccola scatoletta di velluto blu. Piccola e compatta. Poi lui l'aprì, facendola schioccare: un cerchietto sottile e color argento, con sulla sommità uno zaffiro viola.
Era un anello così bello che Yuki pensò di avere le allucinazioni. «Avevo in mente qualcosa di meglio che qualche battuta», disse lui, ridacchiando.

«Aspetta», balbettò. «Aspetta, mi stai chiedendo di sposarti?».

«Cosa? No, no», rise lui. «Non ti sto chiedendo di sposarmi, abbiamo diciassette anni!».

«E allora cosa... », strinse le labbra e guardò Takeshi negli occhi. «Voglio dire, che cosa significa?».

 

Takeshi scosse il capo, tentato di mettersi a ridere; gentilmente, le prese la mano sinistra e fece sfilare l'anello lungo il suo anulare, fino a raggiungerne la base. «Non ti sto chiedendo di sposarti. Ti sto dicendo che voglio tu sia la mia ragazza, ufficialmente, senza doverci nascondere come degli eremiti, senza se e senza ma. Yuki», fece una pausa – prima di avvicinarsi a lei.

«Io ti amo. E questo basta a giustificare le mie azioni».

 

Yuki sentiva, ancora una volta, le gambe tremare. Eppure in quel momento stava sorridendo, stordita dalla bellissima sensazione di amore e dolcezza, non era come quando aveva fronteggiato gli ospiti della sua festa. 
Senza pensarci due volte, si buttò fra le sue braccia, affondando il viso nel suo petto e circondandogli la vita con le braccia – dalle sue labbra uscì solo un sommesso "grazie". Lui, sorridendo, aveva allacciato le braccia intorno alla sua schiena, accarezzandole la testa.

Il calare soffice dei fiocchi di neve era passato totalmente in secondo piano. Tutto intorno a loro era diventato solo uno sfondo, messo solo per fare da contorno, anche se era così bello. Tutto si era fermato mentre Yuki staccava il viso e Takeshi abbassava il suo, prendendole il volto fra le mani – a quel punto, le loro labbra si toccarono. In un bacio lento e gentile, sfiorandosi piano, incastrandosi come i pezzi di un puzzle che non aspettava altro che farsi completare.

La neve, intanto, tornava dolcemente a scorrere.

 

 

 

 

 

 

 

* Voulez-vous un autre verre, chéri?: vuoi un altro drink, tesoro?

 

 

 

 

 

 

NOTA:
… Mio DiooooOOOOOO.
Ci ho messo una cosa come... ottantaquattro anni per aggiornare con il nuovo capitolo che, per la cronaca, era bello che finito, ma necessitava una controllatina perché è piuttosto importante.È importante perché è un passo decisivo per la relazione di Yuki e Takeshi e perché Tetsuya – come avrete capito – ormai non ha nessun dubbio, nessuna remora, nei confronti del loro rapporto.

Sono contenta, sono davvero contenta.

Mi dispiace molto per averci messo ben nove giorni ad aggiornare, non ho scuse sigh. In ogni caso, spero anche voi apprezzerete questo capitolo e come al solito vi invito a farmi sapere cosa ne pensate! Bye~

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Capitolo 8
*** La risorsa ultima. ***


08.



Quella mattina di domenica accadde qualcosa di incredibile.

 

Era passato qualche giorno dal suo compleanno ed erano state giornate talmente belle da rasentare la perfezione. Si erano tutti goduti quel periodo di pace e relax, approfittandone per mettere a riposo i nervi stressati.

Yuki aveva mostrato, il giorno dopo del suo compleanno, l'anello al suo anulare sinistro. Sulle prime Sayumi era rimasta in silenzio, con un espressione sorpresa in viso... ma poi, le sue labbra si erano incurvate in un sorriso sinceramente felice. Era stata felice di vederli insieme. Di vederli in quel modo.

 

Anche quella mattina, Yuki si era svegliata di buon umore, e si era stiracchiata come la buon vecchia Biancaneve. Si era crogiolata nel tepore del suo letto qualche minuto e alla fin fine, per riempirsi lo stomaco, si era diretta nelle cucine al piano terra, dove c'era già un bel viavai nonostante fossero appena le nove.

Quando aveva varcato la soglia della cucina, le cameriere, i cuochi e gli assistenti le avevano gettato degli sguardi attoniti e quasi incuriositi.

 

Yuki girava nella cucina, fra ripiani, penisole e dispense, fin quando non intercettò una cialda dalla macchinetta; la prese e andò a sedersi su un alto sgabello accanto al ripiano in mezzo alla cucina, di solito usato per impastare.

«Vuole dello sciroppo?», una domestica si era avvicinata, strofinando rapida le mani sul grembiule color panna della divisa blu scuro. «Se suonava il campanello le avremmo portato subito la colazione nella sua stanza, signorina».

Le guance piene, Yuki aveva scosso la testa, per poi deglutire il boccone. «No, avevo voglia di mangiare qui. Disturbo?».

«Assolutamente no! Anzi, siamo felici di averla qui».

 

Lei e le domestiche avevano chiacchierato per un po' – mentre i due cuochi non avevano abbandonato i loro compiti –, su argomenti tranquilli come il pranzo di quel giorno; poi avevano persino elogiato l'aspetto del cuoco più anziano, non era per niente male; e alla fine avevano pure organizzato un'uscita per andare a raccogliere dei funghi nel bosco intorno.
Dopo di ché, Yuki aveva bevuto un bicchiere di succo di spremuta e si era avviata verso l'uscita – quando la porta si era aperta, a pochi centimetri dal suo naso.

Suo padre era lì, e aveva la solita faccia rigida – ed era proprio questa la novità incredibile di quella mattina; potrebbe sembrare assurdo, ma per quei due, incontrarsi in casa e guardarsi in faccia era un evento piuttosto raro e sporadico.
Proprio per questo motivo l'uomo non aveva ancora potuto vedere l'anello e, d'altro canto, Yuki stava facendo molta attenzione a non farsi beccare.

 

«Ti stavo cercando».

«Bonjour a te».

Oseroth aggrottò la fronte e sospirò forte. Abbassò le folti sopracciglia sugli occhi e si girò di tre quarti, con l'intenzione di uscire dalla cucina. «Vieni. Avrai finito di blaterare con le domestiche, no?».

«Sì, signore e padrone, chiedo scusa, signore e padrone».

 

Yuki decise, in via del tutto eccezionale, di seguirlo senza fare troppe storie – alle sue battute avrebbe riso da sola, dato che quell'uomo non riusciva a cogliere la bellezza del sarcasmo; come sospettava, si diressero verso la passerella sinistra, quindi entrarono nel suo ufficio. Come sempre, l'unica fonte di luce era la sobria lampada sulla scrivania.
Oseroth entrò velocemente e lei fece lo stesso, chiudendosi la porta alle spalle. Non si erano nemmeno seduti che il demone cominciò subito a parlare. «Abbiamo poco tempo a disposizione, quindi dovrò essere breve. C'è una questione un po' fastidiosa al Consiglio. Non è niente di grave ma confido che il tuo brutto carattere potrà essermi utile».

«Il mio che cosa?».

«Non abbiamo tempo, ti ho detto. Preparati e andiamo. Hai un Consiglio da gestire».

 

 

 


 

***

 

 

 

 

 

Yuki aveva indossato dei jeans scuri, con degli strappi sulle ginocchia, un maglione arancio e una giacca nera, ed era filata via in tutta fretta con suo padre fino alla sede del Consiglio; mentre arrivavano lì, lui le diceva che Kazumi era già là da qualche ora, per occuparsi del lavoro che Oseroth non poteva sbrigare in quel momento – inoltre, sembrava che dovesse tenere occupato il Presidente.

In ogni caso, era una rottura per la donna.

 

Certo, era sempre meglio che partecipare alle riunioni dove i membri, solitamente, discutevano – o litigavano, per essere più precisi; i sette membri e il Presidente prendevano posto ad una grossa tavolata e parlavano, organizzavano, istituivano nuove leggi, aggiornavano la lista nera.
Il più delle volte discutevano come leoni, specie perché, a far parte del Consiglio, erano vampiri e demoni – nemici antichi, secolari; questi episodi capitavano un po' in tutte le sedi, sparse per l'Europa, in alcuni stati.

La sede principale risedieva in Persia sin dal 1470, l'anno dopo del matrimonio degli Imperatori; le altre sedi risedevano in Francia, Inghilterra, Germania, Romania e Giappone, e alcuni pensavano di ampliarsi anche in Cina e in Russia.

I rami del Consiglio arrivavano ovunque e di questo l'albina era tristemente consapevole.

 

 

Scesi dalla macchina, Yuki e Oseroth si trovarono di fronte ai loro occhi la facciata del Consiglio; l'esterno e la sua facciata apparivano come parte di una casa benestante, costruita su due piani, e aveva un aspetto quasi normale. Rinascimentale e di marmo bianco, aveva un portone a due ante in legno, massiccio, e un rigoglioso giardino tutto attorno. A precedere l'entrata, c'era un sentiero in selciato che i due percossero in fretta.

Di fronte alla porta, Oseroth infilò la mano nella tasca del suo pantalone gessato, estraendo un mazzo di chiavi. Ne prese una dal mucchio e la infilò nella toppa della porta, aprendola con due giri di chiave.

Yuki era stata in quel posto un paio di volte; quando era bambina e Kazumi insisteva per non lasciarla da sola in una grande, enorme casa, e quando era poco più di un adolescente. Dopo quell'ultima volta, non ci era più tornata. Non aveva senso farlo, d'altronde.

Stringendo i pugni, cercò di farsi coraggio e sorpassò la soglia della porta, entrando dopo suo padre.

 

L'interno era avvolto una coltre di pulviscolo e non c'era luce naturale, se non qualche spiraglio da sotto le porte; di fronte all'entrata c'era una rampa di scale che portava al piano superiore, a sinistra di questa un armadio a muro socchiuso, da cui si intravedevano giacche e cappotti appesi alle grucce. Alla destra delle scale, quella che sembrava una reception infilata in una stanzetta con bancone. Vuota.

Yuki, ferma dov'era, guardava verso quel punto con un senso di inquietudine.

 

«La sala è di sopra», le diceva Oseroth. Quando non sentì nessuna risposta, le mise una mano sulla spalla. «Yuki».

L'albina si riscosse sobbalzando. Spostò velocemente lo sguardo e si voltò verso il padre, infilando entrambe le mani nelle tasche dei pantaloni.

«Come ti aspetti che mi diano retta?». A lei, la sudicia mezzosangue senza diritti?

Eppure, a quanto diceva Kazumi, suo padre era ben consapevole della sua situazione.

«Sto confidando nelle tue capacità», Oseroth si picchiettò la tempia con l'indice. «perché è ciò di cui abbiamo bisogno, adesso. Non mi servono né la tua pazzia, né il tuo carattere indomito, ma la tua competenza nell'organizzazione. Chiaro?».


Yuki batté le ciglia, stupefatta. L'idea di mettere in riga quei tipi non le dispiaceva, tutto sommato, ma era molto sorpresa da tutta quella fiducia.

«E per quanto riguarda il Presidente?», chiese dopo.

«Come ti ho detto, tua madre si impegnerà a tenerlo distratto, in modo che non partecipi alla riunione».

«Sarebbe un problema se sapesse, non è vero?».

«Stai praticamente prendendo possesso del suo ruolo, al momento, quindi... sì». Yuki aveva la sensazione che se l'avesse scoperto, quell'uomo avrebbe usato quella sorta di pretesto per ucciderla – ci avrebbe provato, per lo meno. Il ché era quasi interessante.

«Okay, ma di che si tratta?».

«Te ne parlerò. Intanto saliamo. Qui siamo troppo scoperti».

 

Yuki annuì e il duo salì la rampa di scale di fronte a loro. Raggiunta la sommità, vi si paravano davanti un corridoio e una decina di porte, contenenti le stanze dove i membri più influenti del Consiglio rimanevano a riposare quando le riunioni si protraevano per troppo tempo. Spesso, là fuori, era molto più pericoloso di quanto si potesse credere.

Su sette di quelle dieci porte c'erano delle insegne placcate d'oro. Mentre attraversavano il corridoio, Yuki gettò delle occhiate verso le targhe dorate, dove lesse i nomi incisi: Akawa, Ichinose, Tachibana, Chou, Itou, Beaumount, Fukanishi. Eccoli lì, in tutta la loro magnificenza aristocratica.

 

Yuki si voltò, tornando a guardare la schiena di suo padre mentre attraversavano il corridoio. «A che servono le altre tre porte?».

«Per gli ospiti. Come Tetsuya».

 

Giusto, pensò distrattamente, Tetsuya sta vivendo qui.

La casa dei Tanigawa, tuttavia, era ancora in piedi. Forse non era nel migliore degli stati, perché abbandonata ormai da qualche anno, ma era comunque l'eredità di Tetsuya e Keiichiro. Entrambi avrebbero potuto reclamare quella casa e tornare a vivere lì.
Ciononostante, per loro non poteva essere così semplice.

 

«Stiamo avendo qualche problema», cominciò Oseroth, a voce bassa. Si fermò in mezzo al corridoio e ruotò i piedi per girarsi verso la figlia. «circa dispute sociali».

«Ho l'impressione di sapere dove vuoi andare a parare».

Oseroth alzò lentamente un sopracciglio, come se volesse dirle qualcosa. Alla fine però, roteando gli occhi, aveva alzato le spalle. «Non voglio andare a parare da nessuna parte. Ci sono problemi. E tu potresti esserci utile, in quanto mezzosangue, perché sei l'intermediaria più adatta al ruolo».

«Proprio perché sono una mezzosangue».

«Esatto». Oseroth annuì. «Onestamente, avrei preferito Ai, ma Kazumi non me l'avrebbe mai perdonato».

 

 

Yuki abbassò le palpebre, assottigliandole. Ah-ah. Avrebbe preferito una bambina di appena dodici anni per placare gli animi delle folle? Allora non era di fiducia che si parlava, bensì di disperazione.
Con questo pensiero, l'albina sorrise, sfacciata, e camminò di fronte al padre per superarlo.
«Sai una cosa?», iniziò, quando ebbe raggiunto l'altra rampa di scale, quella che li avrebbe condotti verso la sala delle riunioni. Non si sentiva una mosca volare. «Non è così che chiedi aiuto a tua figlia. Anzi, non è così che chiedi aiuto a chiunque».

«È proprio di questo che vuoi parlare?», sibilò il demone. «Del modo con cui ti faccio una richiesta?».

Yuki incrociò le braccia al petto, nervosa. «Certo! Se hai bisogno di me, sono disposta ad aiutarti. Infatti, sono qui. E poi, cosa? Mi vieni a dire come avresti preferito Ai, che è solo una bambina». Si fermò, con le mani che prudevano. Se non fosse stato suo padre, gli si sarebbe avventata contro. «Sono così inaffidabile che persino una bambina può fare meglio?».

Oseroth aprì la bocca – e la richiuse, rimuginando un istante sulle parole della ragazza. Poi scosse il capo, chiudendo gli occhi. «No, non è così», disse. «Tu sei affidabile, e io mi fido di te. Ma sei troppo ribelle, troppo arrabbiata e perdi di vista i tuoi doveri. Capisci cosa ti sto dicendo?».


La mezzosangue sciolse la braccia dal petto, interdetta, e le lasciò cadere lungo i fianchi. «Okay. Sì, ho capito cosa stai dicendo». Aveva capito, ma restava difficile – per lei – accettare una critica costruttiva da quell'uomo.

Rimaneva sempre difficile.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

«È un dannato scherzo, Oseroth?».

La voce di Fukanishi esplose nell'ampia stanza a forma ottagonale, espandendosi lungo le pareti di pietra, stordendo i timpani dei restanti sei membri.

Yuki si tappò un orecchio con la mano, socchiudendo le palpebre. «Amico, ti hanno mai detto che sei davvero molesto?».

 

L'uomo – il capostipite dei Fukanishi – increspò le sopracciglia in un espressione iraconda. Per un attimo, i suoi occhi lampeggiarono come tuoni. Era furioso, e questo era chiaramente visibile; talmente tanto che Oseroth lo interruppe prima ancora che l'uomo potesse aprire bocca.
«Non è uno scherzo, e non di certo dannato», ribatté. «Fammi iniziare: lei è Yuki, la mia prima figlia, e come ben sapete, è per metà vampiro e per metà demone. Voglio rammentarvi qual è il problema che ci sta affliggendo da ormai un mese: dispute civili. Vampiri e demoni di basso e medio ceto che continuano a darsi la caccia a vicenda, scioperi e atteggiamenti violenti e socialmente discutibili. Ripeto, Yuki è mezzosangue».

Ichinose ascoltava Oseroth con attenzione, gli occhi semiaperti, e una mano al mento. Nonostante Ichinose fosse un demone, era cento volte più calmo di Fukanishi. «Ritieni che sia adatta al ruolo di mediante fra le due razze», osservò.

Oseroth annuì lentamente.

 

Fukanishi, dall'altro capo del lungo tavolo di mogano, si era alzato in piedi e aveva sbattuto le mani. Solo dopo, ascoltando il discorso dell'Akawa, era finalmente riuscito a placarsi, ed era tornato a sedere sulla sua poltrona. Con un grosso sospiro, aveva chiuso gli occhi un istante. «Bene, Oseroth, ricordami pure del nostro problema. Adesso sarò io a ricordarti qualcosa: il compleanno di mio figlio. Ti dice qualcosa?».

Il pugno destro di Oseroth ebbe un fremito. «Mi dice tanto, quella notte».

«Ne sono lieto. Allora direi che puoi accompagnare tua figlia fuori da qui».

«Quella notte dice davvero molto, collega; mi dice come tuo figlio ha assalito la mia, di figlia; come l'ha ricattata e messa in una posizione di netto svantaggio, e come lei stessa sia stata in grado di gestire una situazione molto precaria. Mi dice come tuo figlio abbia allungato le sue luride, repellenti mani su di lei». Oseroth fece una pausa. Lentamente, un sorriso si disegnò sulle sue labbra. «Ti consiglio di far tenere d'occhio Ichiro, se ci tieni a lui».

 

Yuki spalancò gli occhi – oh, Dio. Non pensava che in una singola vita avrebbe mai potuto vedere uno scenario simile. E invece era accaduto. Suo padre l'aveva davvero difesa davanti al Consiglio e aveva sul serio minacciato il padre di Ichiro Fukanishi.
L'albina si chiuse nelle spalle, abbassando lo sguardo sulle punte delle scarpe. Si sentiva in imbarazzo, ma al tempo stesso... felice.

 

«Signori, signori», intervenne Tachibana, alzandosi in piedi. «Capisco che abbiate degli attriti di cui discutere, ma questo non è né il momento né il modo per farlo. Vi invito a farlo... », aggrottò la fronte, cercando le parole. «... beh, non qui, e non così. Adesso abbiamo qualcos'altro di cui discutere».

 

Oseroth e Fukanishi si schioccarono una lunga occhiata significativa e, alla fine, avevano distolto lo sguardo freddamente.

 

Tachibana era un vecchio amico di Oseroth dai tempi dell'adolescenza; era un vampiro gioviale e divertente, e proprio per questa ragione Yuki non capiva cosa accidenti ci facesse nel Consiglio – beh, e nemmeno cosa ci facesse con suo padre, a dirla tutta.
L'uomo guardò verso la mezzosangue, sorridente. «Vorresti dire qualcosa, Yuki?».

L'albina batté le palpebre, annuendo.

«Sì, già... dire qualcosa. Come no». Yuki tossicchiò un paio di volte e guardò prima la stanza e poi la tavolata. Le uniche fonte di luce erano le lanterne appese agli angoli delle pareti e una finestra in fondo alla stanza, piccola, che dava all'esterno. Il cielo era ancora chiaro e limpido.
Alla tavolata, lunga e dalla forma ovale, sedevano i sei membri del Consiglio, mentre Oseroth era in piedi accanto alla figlia. A capotavola c'era una grande poltrona, più maestosa rispetto a quelle degli altri; alla sinistra di questa sedeva Chou, un demone di origini cinesi dai lunghi capelli neri; accanto a lui c'era un posto vuoto, quello di Oseroth, e poi Itou, vampiro.
Dall'altro capo, alla destra, vi erano Fukanishi, Ichinose e Beaumont – rispettivamente due vampiri e un demone.

Yuki non sapeva bene cosa dire e da dove cominciare. Osservò i loro visi, uno ad uno. «Dite un po', ma voi come pensavate di calmare questa gente?».

«Come sarebbe?», rispose Chou. «Vuoi iniziare da una domanda? È questo il tuo piano?».

 

L'albina serrò le labbra e spostò la poltrona al capotavola. Poi, con somma sorpresa di tutti, vi si sedette, distendendo e accavallando le gambe sul tavolo.

«Ah-ah. Il mio piano è questo: sentire le vostre idee e capire dov'è l'errore. Di conseguenza, formularne uno nuovo».

I presenti indugiarono qualche istante, guardando perplessi la posa della ragazza.

«Ci avevamo pensato anche noi, ma non è facile pensarci obiettivamente».

«Non è facile perché non puoi accontentare tutti», disse la ragazza. «Se è questo che stavate pensando, scordatevelo. Non dovete farli contenti e felici se non ci saranno veri risultati».

«Cosa suggerisci?», disse Beaumont.

Yuki ondeggiò la punta del piede destro, rimuginando tra sé e sé. «Dunque... le persone si lamentano perché non vogliono condividere gli stessi servizi e men che meno essere messi sullo stesso livello. Vogliono essere distinti, invece. Tuttavia, “accontentarli” sarebbe solo un rimedio temporaneo. No, ci vuole qualcos'altro. Qualcosa che li costringa a vedere i pregi gli uni degli altri».

«Qualcosa del tipo... ».

«Una beneficenza», disse Oseroth, guardando la figlia.

«Per trovare la cura alla follia e al bisogno di sangue».

«Certo, ha senso», disse Itou. «Vampiri e demoni ne guadagnerebbero qualcosa».

Yuki sorrise, sorniona. «E tutti noi sappiamo quanto ci piaccia il guadagno, non è vero?».

 

I membri si guardarono tra di loro e poi, infine, puntarono i loro sguardi su Fukanishi. L'uomo era rimasto in silenzio religioso.

«Aaah, che scocciatura», commentò – sospirò. «Sì, mi sembra una buona idea. Facciamolo».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

La riunione, dopo che avevano stabilito il piano, si era prolungata in vari dettagli; avrebbero dovuto scegliere come allestire la beneficenza, quando e soprattutto come attirare in modo concreto il ceto aristocratico a partecipare.
Oseroth e Yuki erano usciti dalla sala, abbandonando la gabbia dei leoni per trovarsi nel corridoio. Solo lì, fuori e al sicuro, l'albina si lasciò andare ad un grosso sospiro di sollievo.

Aveva fatto tanto la spaccona, ma la verità era che aveva dovuto improvvisare – era andata bene, in qualche modo.

 

«Sei stata brava», le aveva detto Oseroth, con un leggero – quasi invisibile – sorriso.

Lei si era nascosta fra le spalle, per poi stringercisi. «Lo spero bene. Non vorrei dover tornare perché il piano non ha funzionato».

«Non penso che basterà, ma è sicuramente un buono modo per iniziare».

«E appianare gli animi».

«Precisamente».

Yuki sorrise a suo padre, allegramente. «Allora io torno a casa. Ormai qui abbiamo finito, no?».

«Sì, abbiamo finito, puoi... », ma Oseroth si fermò. Di fronte alla porta che dava alla sala delle riunioni, il demone aveva interrotto la sua frase come se gli avessero tagliato le corde vocali. Il suo sguardo si fece più serio, e impassibile, e l'ombra di quella serenità era sparita. «In realtà, non abbiamo finito. C'è una cosa di cui volevo parlarti».

La mezzosangue alzò le sopracciglia, sorpresa. «Okay, dimmi».

Oseroth indugiò. «Forse vorresti parlarne a casa».

«Ma chissà quando tornerai. E poi sembra qualcosa di serio. Dimmelo adesso».

«Yuki».

«Dannazione, dimmelo adesso», brontolò l'albina.

«Devi andare via di da qui, Yuki».

«Stavo per farlo, ma poi tu mi hai fermata».

«Intendo dire che devi sparire».

Yuki sbarrò gli occhi, socchiuse le labbra. «Mi stai... cacciando?».

«Ti sto dicendo che», l'uomo sospirò, profondamente. «devi lasciare il Giappone».

 

A quel punto, lei faticava a continuare ad ascoltarlo. Cominciava a sentire le gambe pesanti, il battito accelerare graduale. Quasi riusciva a sentire il “bip”. Tutto il suo organismo si rifiutava di ascoltare quella stupidaggine.

«C'è una scuola a Londra, un collegio misto. Tu sai parlare inglese, quindi non avresti alcun problema. È una scuola grande e facoltosa, fra le migliori di Londra. Ma, cosa più importante, lì non ti conosce nessuno e puoi ricominciare una vita. Il Consiglio non saprà di te e non subirai più attacchi o angherie di nessun tipo».

«No. No, no. Aspetta. Io non voglio andare a Londra. Di cosa stai... ».

«Non è un opzione», la interruppe. «sto cercando di spiegartelo con tutta la calma del mondo, ma non è un opzione. È un ordine».

 

Man mano che il discorso proseguiva, le gambe si facevano sempre più pesanti. Tonnellate e tonnellate di macigni, la sua anima stessa si appesantiva. Se si fosse buttata in mare aperto, sarebbe affondata come un derelitto.
Voleva parlare, voleva ribattere e ribellarsi, come faceva sempre. Ma la lingua le era morta. Perché? Perché non riusciva a ribattere?
Non sarebbe stata la prima volta – cosa accidenti c'era che non andava in lei?
Le tremavano le ginocchia. «No», bisbigliò. «Non puoi costringermi. Non puoi. No».

«Yuki– ».

 

Lei alzò gli occhi, lucidi e furenti, su quell'uomo dai capelli bianchi. Era talmente arrabbiata che il palmo della sua mano si mosse da solo; veloce, quello si sollevò e andò contro il volto dell'uomo per colpirgli la guancia.

Ma Oseroth, più rapido, più acuto – più forte –, aveva afferrato il suo polso a mezz'aria e aveva bloccato facilmente il colpo. «Smettila».

 

Yuki sbiancò. Lentamente, la presa attorno al suo polso si fece leggera, fino a diventare nulla – e quando fu libera, indietreggiò di un passo, tremante.

 

A quel punto era nel pallone più totale.

 

Cominciò a correre verso le scale. Rischiando di inciampare e caderci, scendeva più veloce che poteva i gradini, sollevando la polvere come un mantello di pulviscolo.
Le veniva da piangere. Proprio quando aveva pensato di aver costruito qualcosa con quell'uomo – lui decideva di mandarla dall'altra parte del mondo, cacciandola come un cane rabbioso. La odiava così tanto? Fino a quel punto? – sfuggendo dal suo controllo, una lacrima le rigò la guancia, rovente.

Era arrivata di fronte allo studio del Presidente, la porta era socchiusa. Yuki avrebbe voluto continuare la sua corsa sfrenata, ma la porta si aprì e Kazumi uscì, un'aria stanca e stizzita sul bel viso.

Quando però la donna si accorse della figlia sorrise, piacevolmente sorpresa, facendo un passo per avvicinarsi – ma poi vide la sua lacrima, la rabbia e la tristezza. «Tesoro, cosa– ».

 

Ma la mezzosangue non voleva parlare, non con lei.

 

I suoi occhi la fulminarono, selvaggi – con tutto l'intento di mangiarla. «Tenermi al sicuro, eh?», e le passò affianco, chiudendo le palpebre, nascondendo il suo sguardo pieno di rabbia.

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Capitolo 9
*** Il sintomo del veleno. ***


09.






«Ehy, Akawa. Che succede? Sembri più acida del solito. Cos'è, il fidanzatino ti ha lasciato?».

 

Meccanicamente, Yuki ruotò la testa verso la voce, alla sua destra. Serrò la bocca e la mandibola, abbassò le sopracciglia sugli occhi truci – con un'occhiata di fuoco e fulmini, il ragazzo che le aveva parlato fece un passetto indietro. «Chiudi. Quella. Fogna», sibilò, scandendo lettera dopo lettera, parola dopo parola. «Leva le tende prima del prossimo secondo».

Il ragazzo aprì la bocca per protestare ma poi, forse colpito da un improvvisa intelligenza, si allontanò velocemente dal banco della ragazza.

 

 

Di nuovo sola, Yuki tirò un sospiro rumoroso.

Londra. College.

Cos'aveva per la testa, quell'uomo? Pensava di poterla mandare dall'altro capo del mondo come un pacchetto postale? Se le cose stavano così, beh, si sbagliava di grosso. Al solo pensiero di separarsi dai ragazzi, un nodo si formava al centro della sua gola, soffocante, opprimente; sapeva che la fame di sangue e carne era in parte causa di quel nodo.
Dannazione. Non ci capiva più niente. Era totalmente aggrovigliata dalle emozioni e dallo scorrere degli eventi – la testa faceva male, martellava.

Non doveva pensarci, ecco tutto; almeno mentre si trovava a scuola, avrebbe tenuto per sé quella scocciatura. Non voleva che gli altri ne sapessero qualcosa, perché si sarebbero preoccupati ed intristiti – ed era l'ultima cosa che le serviva.
Le labbra serrate e lo sguardo attento, fissava la gente nell'aula. Da quando l'anno era iniziato, la parete in fondo era sempre più piena di cartelloni e manifesti – inerenti a progetti scolastici –, diventava sempre di più la loro classe.
Man mano che il tempo passava, lei aveva quasi cominciato ad affezionarsi ai suoi compagni di classe e, in parte, persino loro si erano adattati a lei e a Sayumi. C'era sempre qualche eccezione, qualche stupido che non voleva proprio saperne.

Tuttavia, non era male stare lì. Non era male vivere in quel posto – in quel paesino.

 

A quel punto, si alzò di scatto dalla sedia, producendo un rumore infernale.

Non ce la faceva più. Doveva uscire subito da lì. Per quanto si sforzasse, non riusciva a smettere di pensarci.

Camminando velocemente, raggiunse la porta che dava sul corridoio. Erano le 8.00 in punto e il professore che avrebbe condotto l'homeroom* non era ancora arrivato. Senza indugiare, svoltò a sinistra e percorse l'intero corridoio. In pochi secondi aveva raggiunto la fine e, con quella, le porte d'emergenza e le loro scale.

Spalancò la porta con violenza, spuntando sulle scale – e poi, appoggiando un piede ed entrambi le mani sulla ringhiera, si diede la spinta per buttarsi giù.

Con il vento che le sferzava sulla faccia, piombò come un proiettile umano sul terreno erboso che circondava la scuola, atterrando come un gatto. Piegata sulle ginocchia, si rimise velocemente in piedi, e con l'ennesimo salto si aggrappò all'estremità del muretto. Dandosi la spinta con i piedi, si issò rapidamente su, e scavalcò l'ultimo ostacolo che la separava dal bosco.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Farai come ti ho chiesto?».

 

 

Tetsuya prese la tazzina dal piccolo manico e se la portò alle labbra. Ne bevve un sorso abbondante, gustando in silenzio il sapore fruttato del tè caldo. La tazzina faceva parte del servizio da tè – di uno dei tanti – e aveva un elaborato disegno floreale tutto attorno, ad avvolgerne la porcellana.
Oseroth gli aveva fatto una domanda, l'ennesima da forse più di un'ora, e stavolta Tetsuya non sapeva davvero come rispondere. Tanto più, non aveva nessuna voglia di farlo.

Lentamente, appoggiò la tazzina sul piatto, producendo un leggero rumore.

Farà come gli è stato chiesto?

Era una cosa del tutto nuova per lui; sin da quando era solo un bambino, non aveva mai fatto come gli veniva chiesto – o peggio, ordinato.
Tetsuya soppesò qualche altro secondo la domanda di Oseroth e, alla fine, sospirò e scrollò le spalle. «Il problema è che... ».

«Il problema è che è testarda?».

«Sì, ma... ». Sì, ma non solo. C'erano tanti altri problemi, ma lui non poteva parlarne. O ne avrebbe creati degli altri. «Perché pensi che Londra sia una scelta più sicura? Posso proteggerla, basto io per questo. Sai che puoi fidarti di me».

Oseroth scosse la testa. Dopo qualche attimo di pausa, si alzò dalla poltrona, mettendo le braccia dietro la schiena. L'aveva convocato la mattina – troppo presto per una creatura notturna – perché sapeva che quello era il momento più conveniente per parlare da soli.

Aveva poi fatto condurre il ragazzo al secondo piano, verso la penultima porta della passerella sinistra. Quella stanza non veniva aperta quasi mai e, per tanto, era piuttosto in disordine; ampia, provvista di camino e un piccolo salottino di fronte, aveva in mezzo alla stanza un grande e lungo tavolo di mogano scuro. Tutte intorno, svariate sedie poste a casaccio, e sul tavolo decine di libri, fogli e cartine, calamai e inchiostro, il tutto abbandonato su una tovaglia dai motivi persici. Le alte e lunghe finestre erano in parte coperte da spesse tende di velluto rosso.

Oseroth si avvicinò ad una di esse, dando un'occhiata al vetro. Le sue pupille, affilate come lame, parvero restringersi per qualche istante.

 

«Sta arrivando. Devi andare», disse, senza voltarsi. «Io mi fido di te, Tetsuya, ma non voglio lasciare sulle tue giovani spalle un peso del genere. Ne hai già abbastanza».

Tetsuya aprì la bocca per protestare, ma le parole gli morirono in gola.

 


Lasciò quella camera – il cui utilizzo era oscuro a tutti, in quella casa enorme – con un senso di impotenza e frustrazione bruciante.
Si fidava di lui? No, non era la verità. Dentro di sé, Tetsuya sapeva che Oseroth non provava quella fiducia necessaria per lasciare la figlia nelle sue mani. Lo sapeva. Lo sentiva.

Scese le scale in silenzio, scortato da Sebastian. Quando fu fuori dalla porta, gli rivolse un ultimo cenno col capo, a mo' di saluto, e si allontanò dalla porta d'ingresso come se fosse solo un pericolo.
La strada sterrata dalla porta alla cancellata era irta di foglie e rametti spazzati dal vento. Il freddo in Giappone era sempre esagerato. Provava quasi mancanza per le terre che aveva visitato, per il loro calore.

 

 

 

«Tetsu?».

Il vampiro fermò il suo passo e, flemmatico, sollevò lo sguardo dalla punte delle sue scarpe.

Ad appena due metri da lui, Yuki era appena comparsa dalla fitta boscaglia, e stava spostando la chioma di un albero per oltrepassare quel punto – con una larga falcata, l'albina riuscì a raggiungere il sentiero sterrato.
Tetsuya si protese verso di lei e afferrò la sua mano per aiutarla. «Ehy», rispose il vampiro. «È un po' presto per te, scolaretta. Che ci fai qui?».

«Io... non avevo voglia di restare a scuola. E tu, invece? Cosa ci fai a casa mia?».

Tetsuya lasciò la mano dell'amica e inforcò entrambe nelle tasche della giacca. Ah, un'altra domanda scomoda. «Dovevo parlare con tuo padre».

Yuki fece un passo in avanti.

«Con mio padre, eh?».

«Già».

«Tetsuya, ascoltami», proruppe. «so che avete parlato di quell'idea idiota. Di Londra. Quindi non cercare di tenermelo nascosto – soprattutto perché non è così che funziona tra di noi. O forse mi sbaglio?».

«Aspet– ».

«È cambiato qualcosa? Beh? Non ci diamo più man forte? Se è così, allora– ».

«Stai zitta un attimo», esclamò il vampiro, afferrandola improvvisamente dalle spalle. «Stai parlando troppo, maledizione. Certo che te ne parlo, te ne avrei parlato tra un secondo, se mi avessi lasciato iniziare. Ma non possiamo farlo qui: dobbiamo andare da qualche altra parte».

 

A quel punto, Tetsuya lasciò la ragazza, che rimase imbambolata a fissare il bel viso del biondo.

A volte era proprio stupida.

 

 

Decisero di imboccare la strada che conduceva ad uno dei numerosi tempi del paese; dalla salita fino al tempio Sakuragi ci volevano venti minuti – camminando normalmente – e durante tutta la scarpinata, nessuno dei due aprì bocca. Gli unici rumori che animavano la scena erano i motori delle macchine o i suoni all'interno dei negozi e delle case, qualche cane che abbaiava, il frusciare delle foglie.

Dopo poco tempo, arrivarono ai piedi di una piccola gradinata. Yuki osservò la roccia degli scalini, ancora rinchiusa nel suo mutismo, fin quando le gambe di Tetsuya non entrarono nel suo campo visivo. Il suo sguardo trovò i polpacci, le caviglie, e i movimenti che fece per salire quei cinque gradini.

Lo seguì.
Oltrepassarono il portale rosso, e finalmente si fermarono, a pochi metri dal tempio stesso. Era abbastanza antico, tuttavia aveva un aspetto pulito e ben tenuto: si vedeva che c'era gente ad occuparsene.
Nel mezzo di uno spiazzo, a pochi metri dall'altare, Tetsuya si voltò lentamente verso la ragazza. Si sentivano gli uccelli cinguettare.

«Dimmi una cosa», esordì, infilando le mani nelle tasche della giacca blu. «Tu ti sei rifiutata di andarci, non è così? Non hai voluto sentire ragioni».

Yuki, ad appena qualche metro di distanza, corrucciò la fronte con aria piccata. «Certo. Ci mancherebbe! Non posso accettare una cosa del genere, non voglio essere spedita fin lì come un pacchetto postale».

«Non che sia questo il problema».

«Sì, invece».

Tetsuya sospirò. Lentamente, ruotò i piedi, e si voltò verso di lei – guardandola di traverso, provato. «Non prendermi per uno stupido. Il problema non è come vieni trattata: Takeshi e Sayumi sono il tuo ostacolo. Se non fosse per loro, tu potresti andartene a Londra e metterti al sicuro finché i tuoi genitori non risolvono la tua situazione». I suoi occhi si ridussero a due spilli. «Sarebbe molto semplice. Non capisco perché, a distanza di tutto questo tempo, tu continui ad essere disonesta».

 

 

Yuki indugiò. C'era qualcosa di strano nelle parole del vampiro. Erano dure, fredde, e si insinuavano come una lama. Non erano certo le parole che si aspettava dall'amico, ma erano proprio quelle che le aveva rivolto. Perché?
«Non è... », si fermò, per mordersi le labbra. «Non sto cercando la via più semplice, Tetsuya».

«Vorrei che tu ti rendessi conto di una cosa». Tetsuya scostò lo sguardo dalla ragazza e sollevò il viso, rivolgendolo alla volta leggermente ingrigita. Non era molto annuvolato, quel tanto che bastava per non accecare un vampiro o un demone. E quel vampiro biondo stava offrendo il suo viso – di quella immacolata ed eterna bellezza – alla luce del giorno. «Noi siamo eterni ed immortali. Non possiamo morire, ad eccezione per alcune circostanze. Tuttavia, tu stai sfidando te stessa e il tuo corpo. Più ti guardo, più passa il tempo, e più mi convinco che tu stia sottovalutando la tua precarietà».

Tetsuya abbassò la testa. Il suo viso, in parte colpito da un fascio di luce, era tornato verso di lei. «La sera del tuo party hai accusato un sintomo».

«Ma di che accidenti stai parlando?».

Tetsuya la guardò – chiudendo le mani in pugni. «Un sintomo della follia».

 

 

 

 


 

***

 

 

 

 

 

 

Per quanto Yuki si stesse sforzando, le parole del vampiro non riuscivano a penetrare la sua corteccia cerebrale. Forse perché la sua frase sembrava del tutto sconnessa, forse perché lei non voleva credere di essersi fatta macchiare dalla follia – sebbene si trattasse solo di un pizzico.

Sì, era stato solo un pizzico.

Il momento in cui si era alzata dalla sedia e aveva guardato la sala. La sua vista si era sfocata per un attimo, l'ossigeno era mancato improvvisamente. Tetsuya, che l'aveva superata di qualche passo, si era girato.
Tetsuya sapeva riconoscere bene i sintomi della follia di un demone. Aveva quest'occhio scrupoloso, intelligente, acuto. E l'aveva visto. L'aveva visto nella sua amica.

 

Ma si trattava davvero della pazzia di un demone? Era sempre difficile stabilirlo – questo aveva pensato, in quell'istante.

 

 

 

«Ma che stai dicendo?». La voce, anche se cercava di essere dura, tremava come una fogliolina. «Ma cosa diavolo stai dicendo?! Io non sto accusando nessun sintomo! Non dire eresie!», urlò.

 

«Yuki», disse Tetsuya, con l'ennesimo sospiro. No, non sarebbe riuscito a convincerla così. Avrebbe dovuto fare molto di più – allora, fece alcuni passi verso di lei, fino ad annullare quella distanza. Nel suo gesto usuale, la prese per le spalle, stringendole delicatamente. «Stammi a sentire–... ».

 

Yuki gli gettò un'occhiata riluttante, affondando le mani sul suo petto per spingerlo via da sé. «No, lasciami. Lasciami!», esclamò, premendo con forza per allontanarlo, piegando le ginocchia per sfuggire via da quella presa gentile. «Io sto bene! Sto bene. Sei tu che forse sei impazzito, perché sei d'accordo con mio padre. Come puoi farmi una cosa del genere? Dopo tutto questo tempo?».

«È ancora presto per te».

L'albina lo guardò, gli occhi sbarrati e confusi.

«Ti sto dicendo che è presto, non è il momento di farsi prendere dal panico. Era solo un sintomo leggero».

La mezzosangue assottigliò le palpebre. Lentamente, senza staccare le mani dal suo petto, si rimise dritta. «Non mi sto facendo prendere dal panico. Non ho paura».

Lui, di fronte alla sua sfrontatezza, sorrise quasi divertito. «Puoi ingannare chi vuoi, ma non di certo me. Io lo so che hai paura», indugiò sugli occhi dell'amica, il bel colore dorato. «di finire come Makoto Aozawa».

«Stai zitto».

 

 

Le mani di Yuki fremettero, le chiuse in pugni – si sentiva semplicemente morire. Oh, Makoto, dolce Makoto, un'altra povera vittima di quella maledizione.
Lei... la sua situazione era stata diversa, lei stessa era differente. Sfortunata. Il sonnambulismo la destava dal tepore del suo letto per spingerla ad usare i suoi poteri. Era stato deteriorante, distruttivo.
Non era stata una dolce distruzione. Proprio no.

«Lasciala stare, non nominarla».

Perché sennò avrebbe finito con l'odiare il suo migliore amico e non voleva questo. La faceva arrabbiare spesso, l'aveva fatta infuriare, l'aveva fatta sentire sola, a combattere delle ombre ostinate, ma... tutto sommato, era il suo migliore amico. Giusto?

 

Tetsuya sospirò. Sembrava stanco, sfinito. «Sentimi un secondo. Ci penserò io a quei due, okay? Li proteggerò a costo della vita. Quindi ti prego... ti prego. Basta», bisbigliò, prima di avvolgerla con le braccia in un abbraccio, solido e stretto. «Non usare più quei poteri. Non impazzire. Vai lì, vai a Londra, solo per un po'».

 

Resta te stessa, sembrava sul punto di dire.

 

Yuki, i palmi contro il suo torso, il collo contro la sua spalla e il viso reclinato verso il cielo – respirò lentamente dal naso.

Non impazzire, diceva. Non usare i tuoi poteri, diceva ancora. Ci penserà lui?

 

E chi penserà a te?, si disse lei, stringendo la stoffa della sua manica. Ci avrebbe pensato Yuki a Tetsuya. L'avrebbe fatto perché lo voleva con tutto il cuore – forse, alla fine, voleva finire proprio come Makoto, divorata dalla pazzia. Dopotutto, doveva essere questo il suo folle desiderio.

Allora scosse il capo e accennò un sorriso, finto e di plastica. «Vabbene», mormorò. «Come vuoi».

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Il giorno della sua fuga da scuola, un'ora dopo, Takeshi l'aveva chiamata al cellulare.
Il suo tono era apparentemente calmo, ma tradiva una certa preoccupazione, che forse voleva tenerle nascosta.

«Yuki? Ma dove sei finita? Tetsuya è venuto fin nella mia classe a dirmi che sei andata via da qualche parte. Stando a lui, non dovrei agitarmi, ma mi risulta difficile».

«Accidenti», aveva bisbigliato lei. «Hai ragione, mi dispiace da morire. In quel momento non ci ho proprio pensato. Ascolta, adesso non è il momento giusto per parlarne, e francamente non mi va nemmeno».

Takeshi aveva aggrottato la fronte, sorpreso. «Stai bene?».

«Credo di sì».

Lui, dall'altro capo del telefono, faceva una lunga pausa. «Okay», aveva detto infine. «Allora domani ne parleremo».

«Sì, te lo prometto. Domani ne parleremo».

 

Avevano chiuso la chiamata, e Yuki aveva guardato l'anello intorno all'anulare sinistro – con un piccolo sorriso intristito.

 

 

 

Il giorno dopo era tornata a scuola, e aveva avuto qualche grattacapo, tra i professori che l'avevano torchiata per essere fuggita e Sayumi che si era fatta venire un infarto – anche se era stata rassicurata da Tetsuya e Takeshi lo stesso giorno.
Appena l'albina aveva varcato la soglia della classe, l'amica le era andata incontro come un toro, ma Yuki le aveva chiesto di aspettare per parlarne in un momento più adatto. Peccato che poi era stata chiamata per andare dal preside.

 

Non era mai stata dal preside, ma era stato abbastanza divertente – una bella esperienza prima di essere spedita dall'altra parte del globo**.

«Allora, con permesso», aveva detto l'albina, dopo averlo soggiogato per bene.

A volte era davvero comodo.

 

 

Le restanti ore erano proseguite con calma. Era filato tutto liscio.

Almeno fino all'ora di pranzo.

 

 

«Stai scherzando?».

Sayumi aprì la bocca come se volesse dire qualcosa, ma la voce non uscì. Nella mano destra aveva le bacchette, e queste avevano appena afferrato un pezzetto di frittata. Frittata che avrebbe dovuto mangiare.
Ma quando aveva sentito quella rivelazione dall'amica, le mani avevano perso tutta la loro energia e le bacchette le erano scivolate via dalle dita come sabbia.

Dopo qualche secondo di silenzio, Sayumi si era riscossa con un sussulto. Allontanò il suo pranzo verso il centro del banco, le sopracciglia basse sugli occhi.

«Yumi», aveva detto Yuki, la voce vicina all'orecchio. «stai bene?».

La ragazza non sapeva bene cosa risponderle. «No, non proprio, non mi sento granché bene». Sollevò lo sguardo dal banco, meccanicamente. «Per quanto tempo devi stare lì?».

«Non... non lo sappiamo ancora», rispose la mezzosangue. Si stava torturando una ciocca sulla spalla, sembrava agitata. «O per lo meno, io non lo so. Dipende tutto da quanto in fretta i miei genitori risolveranno il problema delle aggressioni».

«Quindi potrei non vederti per... mesi?».

 

Sayumi aveva ormai abbandonato a sé stesso il suo cestino del pranzo. D'altronde, che importanza poteva avere il cibo, in quel momento?

Non era mai stata brava con gli addii. Per niente. Perché erano dolorosi, sciocchi, inutili. Ne aveva vissuto uno, anni fa, ed era stata un'esperienza terribile, che l'aveva gettata nella confusione più totale, e ci aveva messo tempo per riprendersi.
Adesso era in una situazione simile – in questo caso, sapeva bene cosa stava provando.
Paura, tristezza.

No, stava esagerando: non era un addio. L'avrebbe rivista molto presto. Non stava sparendo per sempre, presto o tardi sarebbe tornata. Giusto, era così.

«Yumi, mi– ».

«No, va tutto bene», mormorò l'altra. Con calma, la guardò negli occhi. «Devo esserti sembrata... disperata, non è vero? Ma non volevo, ecco, non era mia intenzione. Quindi per favore, fai finta di non aver visto nulla».

 

Yuki schiuse le labbra, leggermente stordita dalle parole di Sayumi, ma alla fine fece un piccolo cenno col capo per rassicurarla – chiuse gli occhi. «Tornerò presto».

«Certo che lo farai. Londra non sarà in grado di tenerti a bada».

 

 

 

 

Takeshi, fuori dalla porta secondaria della 2-B, appena a due metri dalle ragazze, aveva solo voglia di andare da loro e salutarle. Tutto qui. 
Invece, il destino era stato talmente avverso nei suoi confronti da farlo scontrare con quella verità.

Ah, ne avrebbe fatto volentieri a meno.

 

 

 

 

 

 

 

 

* homeroom: antecedente alla prima ora di lezione, è il momento in cui si registrano i presenti e si fanno annunci di vario tipo.

** globo: sta esagerando lei.

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Capitolo 10
*** Prima di fare la brava. ***


10.



Takeshi aveva uno sguardo cupo. I suoi stessi occhi, che lei ricordava come luminosi, dolci e profondi, adesso avevano un'aria tutto fuorché dolce.

Yuki stava in piedi, di fronte a lui, con le mani sospese a mezz'aria.

 

 

Takeshi era entrato nella classe – appena due minuti prima – e si era avvicinato, senza fare la minima piega, all'albina. Doveva dirle
qualcosa, e quindi erano usciti in corridoio, sotto sua esortazione. La mezzosangue aveva cominciato a sudare freddo. Che avesse sentito parte della conversazione? Non era sicuramente così che voleva intavolare quel discorso con lui.

 

 

In corridoio, lei aveva alzato le mani per prendergli il viso, ma il suo sguardo buio l'aveva fermata a metà strada.

«Cos'è che devi dirmi?», disse Yuki. «È qualcosa che Sayumi non può sentire?». Ma che, in compenso, il resto della scuola poteva origliare? Il corridoio non era infatti vuoto, per niente, ed era più che logico essendo la pausa pranzo. «Ma soprattutto... è tutto okay? Sembri... arrabbiato».

Lentamente, il viso del ragazzo si smosse, e un sorriso gli spuntò sulle labbra carnose. «Oggi, intorno alle 17.00, sei libera?».

«Sì, non penso di aver niente da fare. Perché lo– ».

«Allora vediamoci. Ti vengo a prendere io, a casa tua, alle 17.00».

«Eh? Ah, ma... okay», balbettò l'albina. «Certo, okay. Non fare tardi, eh».

Takeshi, nuovamente, sorrise – un bel sorriso ampio, molto più spontaneo di quello prima. «Non lo farò», le aveva detto, mentre si allontanava da lei indietreggiando, lasciandosi indietro una Yuki confusa e perplessa.

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Come aveva promesso, Takeshi si presentò a casa dell'albina alle 17.00, in punto – in perfetto orario.

 

 

Ormai, a nessuno dei due importava più se lui venisse visto o notato da qualcuno in quella casa; se qualcuno, lì dentro, avesse cercato di allontanarlo o fargli del male, Yuki non avrebbe accettato il fatto. Per nulla al mondo.
Per questo non aveva ribattuto quando lui aveva detto di incontrarsi davanti alla residenza Akawa.

Piuttosto, era stato il suo modo di invitarla che l'aveva lasciata stupita, ed anche la sua puntualità; erano già usciti qualche volta, da quando si erano messi insieme a Maggio, e né Takeshi né Yuki brillavano di puntualità, ma la cosa non aveva mai creato fastidi – nel loro ritardo riuscivano a trovarsi, come in una magia.

 

Yuki aveva indossato una maglia a righe nere, con lo scollo a barca, e dei denim. Quando Kukuri era andata ad avvisare la sua padrona dell'arrivo del ragazzo, Yuki stava rifinendo il mascara. A quel punto aveva dovuto abbandonare tutto, si era infilata la giacca nera e aveva annodato la sciarpa lilla attorno al collo – il regalo di Sayumi.
«Cavolo, decisamente troppo in orario», aveva detto fra sé e sé mentre scendeva in fretta e furia le scale e, finalmente, raggiungeva la porta d'ingresso.

 


Takeshi era di spalle, con le mani nelle tasche dei jeans blu scuro. Dalla giacca di pelle nera – lucida e ben tenuta – spuntava il cappuccio di una felpa grigia. I capelli castani venivano scompigliati leggermente da una brezzolina fredda.
Quando Yuki lo guardò, le venne da sorridere. «Ehy, forestiero», disse lei, spuntando al suo fianco.

Takeshi, dal canto suo, non aveva sussultato come sperato e aveva invece inclinato lo sguardo su di lei con calma. «Eccoti».

«Non pensavo che questo giorno sarebbe arrivato: il giorno in cui Takeshi Katugawa arrivò in orario ad un appuntamento. Non che io sia meglio di te, in questo contesto».

«In questo contesto?».

Lei ridacchiò, facendo un passo in avanti, e scuotendo la testa. Sciolse le braccia dietro la schiena e avvicinò la sua mano destra a quella del ragazzo – lui, dopo qualche istante, la prese nella sua sinistra.

 

 

Le dita intrecciate, uscirono dal sentiero e superarono la cancellata ormai arrugginita; da quel punto si diressero verso destra, a percorrere tutta la discesa. Per tutto il tragitto, Yuki aveva parlato a ruota libera di tutto ciò che le passava per la testa, e questo accadde solo perché era nervosa.
Percepiva nel moro brutte sensazioni. Teso, irrequieto, malinconia, e un pizzico di rabbia. Non le era capitato molto spesso di sentire in lui cose come quelle, e non sapeva come doveva comportarsi.
Allora, aveva cominciato a parlare di letteralmente qualsiasi cosa, come un fiume in piena, fin quando la gola non aveva cominciato a farle male.

Arrivarono nella piazza con la grande quercia e di tanto in tanto guardavano nelle vetrine. Proprio lì, tra i vari negozi di abbigliamento e oggettistica, c'era un bar con gelateria.

«Sto morendo di sete», disse Yuki. «Perché non prendiamo qualcosa da bere?».

«Certo, vabbene».

 

 

Dentro, il bar, era spazioso e aveva un'aria infantile e fiabesca; le pareti erano dipinte di bianco e di un rosa tenue, le ragazze si aggiravano tra i tavoli con divise molto decorate e in pattini da roller. Non molto alta, e nemmeno troppo bassa, c'era un po' di musica che animava maggiormente l'atmosfera. In quel momento stava andando una versione arrangiata di Sarishinohara.
I due si sedettero ad un tavolino, rotondo e color crema, che si trovava accanto alla vetrina del bar. Una luce calda e ambrata filtrava attraverso i vetri, riversandosi negli interni. Tutto intorno c'era un po' di gente, diverse coppie e qualche gruppetto di amici.

L'uno di fronte all'altra, l'albina aveva appoggiato i gomiti sul tavolino. «Volevo soltanto qualcosa da bere, ma adesso che siamo qui, un parfait non sarebbe affatto male. Magari potrei prendere anche qualche macaron, oppure una bavarese al cioccolato. Oh! Una mousse. Oppure una panna cotta», si fermò un istante, il mento sulle mani. «Ho deciso: li prendo tutti. E a te che va, invece?».

«Non lo so ancora. Dopo che avrò guardato il menù riuscirò a scegliere», sorrise, divertito. «Un solo dolce, però».

Lei si mise a ridere, dandogli un colpetto sull'avambraccio.

 

Qualche secondo dopo li raggiunse una delle cameriere, lasciando alla coppia due menù plastificati. «Prego, fate con comodo», aveva detto, prima di alzare lo sguardo e notare Takeshi. Si era fermata, piacevolmente stupita, ma poi aveva notato – lo sguardo incattivito della mezzosangue.

«T-torno subito».

 

Takeshi aveva inclinato leggermente la testa di lato, con l'ombra di un sorrisetto. «Non ti facevo così gelosa».

«Ma quale gelosia. Ho fame, e lei stava perdendo tempo, ecco tutto».

«Ah, sì?». Lui soppesò le sue parole, spostando lo sguardo dall'esterno, verso la quercia, fino a tornare sul viso della ragazza. Era davvero così?

Si appoggiò con le braccia sul tavolino, sporgendosi verso di lei, mentre la penombra oscurava la parte sinistra del suo bel volto. «Ora che mi ci fai pensare, probabilmente stai dicendo la verità».

Yuki sbatté le ciglia. Improvvisamente si sentiva a disagio. «In che senso?».

«Nulla di importante», rispose Takeshi, staccandosi. Tornò con la schiena alla sedia e alzò le spalle.

 

 

Il discorso morì a quel punto.

Yuki non se l'era sentita di indagare oltre.

Dopo aver ordinato una mousse al cioccolato e un frappé al melone, i due avevano mangiato in silenzio, senza dire più un'altra parola, se non qualche commento sulle loro ordinazioni. Poi lei si era avvicinata al bancone per comprare una bottiglietta d'acqua e Takeshi aveva pagato il conto per entrambi.

Poi erano usciti, e stavolta non si tenevano la mano.

 

Yuki fece un passo oltre il marciapiedi. A quell'ora non passavano mai macchine quindi poteva camminare sulla strada senza problemi. Giocherellando con l'anello, dava le spalle al ragazzo, che era rimasto davanti alla gelateria, con la schiena alla vetrina. Nessuno dei due parlava ancora. Ma cos'era quella strana tensione?

 

Takeshi la guardò da quel punto con le sopracciglia inarcate sugli occhi.

 

Cosa stai aspettando?, pensò – gli faceva male la testa. Era da quel pomeriggio, poco prima di uscire di casa, che gli faceva male. Alzò una mano e si premette la tempia chiudendo gli occhi, come se con quei gesti potesse farlo sparire per magia.
«Takeshi?». Quando ebbe riaperto gli occhi, l'albina era di fronte a lui. Quando era arrivata lì? Al solito, la sua natura non umana le permetteva di spostarsi rapidamente, con la stessa velocità del vento. Lui a certe cose, proprio come quella, non riusciva del tutto ad abituarsi. Forse perché si sentiva in netto svantaggio.

«Cosa?».

«Stai bene?», gli chiese – e con dolcezza, allungò la mano per toccargli il lato della testa, andando a sfiorare il suo orecchino col pollice. «Ti fa male la testa?».

«Yuki. Perché ho dovuto scoprirlo così?».

Yuki sbarrò gli occhi. Impietrita, gli accarezzò i capelli, spostandoli da un lato. «Ma di cosa parli?».

«Lo sai bene di cosa parlo», rispose il moro, immobile in quel punto. «Altrimenti non avresti fatto quella faccia così sorpresa». All'improvviso le bloccò la mano con la propria, fermando quella carezze così allettanti, che lo avevano quasi trascinato in uno stato di trance. Il Diavolo ghermisce l'anima.

«Dimmi la verità».

Ancora, la mezzosangue indugiò, la sua mano sospesa a mezz'aria – nella presa ferma di Takeshi. Guardò di lato, guardò a terra. Era così difficile. «Tu... », cominciò, sottovoce. Sospirò. «Tu sai che spesso e volentieri vengo aggredita. Mi danno la caccia da quando avevo quattordici anni. E... e mio padre vuole mandarmi a Londra, in un collegio misto, perché crede che lì non correrei altri pericoli. A detta sua», strinse le labbra, arrabbiata. «nessuno mi conosce e potrò rifarmi una vita tranquilla e al sicuro, fintanto che loro cercano di risolvere il problema. Me ne ha parlato Domenica mattina ed è per questo che Lunedì sono... scappata via in quel modo. Non riuscivo a riflettere. Non riuscivo a reggere quella notizia. Mi dispiace. Mi dispiace di non avertene parlato subito, ma la sola idea di... ».

 

 

La voce le morì in gola. Al suo posto, sentì un nodo, che si faceva man mano più grande ed ingombrante, impedendole di continuare a parlare, a scusarsi, impedendole di respirare. Dio.

La sola idea di lasciarlo la distruggeva. La mandava in pezzi.

Non poteva nemmeno pensarci.

 

Ma Takeshi sarebbe stato in grado di gestire una situazione di quel tipo?

 

Le lacrime le sgorgarono dagli occhi senza ritegno. Roventi e traslucide, le riempirono velocemente gli occhi color oro, mentre la bocca si imbronciava. «Take, io non... ». Un secondo dopo, il suo viso venne schiacciato dal petto di Takeshi e le sue spalle circondate da un abbraccio stretto, caldo ma disperato, dolce ma triste.

Le sue braccia l'avvolsero come un mantello, stringendosi dietro la schiena della ragazza, scosse appena da un tremolio. Non l'avrebbe lasciata per nessun motivo al mondo. Non avrebbe permesso a quelle lacrime di solcare il suo viso. L'avrebbe protetta.

«Avevo creduto», le sussurrò, nell'orecchio, piegando la schiena per arrivarci. «che non me ne avessi parlato perché non ti importava di farmelo sapere. Avevo creduto che non te ne importasse nulla. Sono un idiota. Uno stupido idiota. Non devi affatto scusarti». Affondò il viso sulla sua spalla, la guancia tra i lunghi capelli bianchi.

«No, Takeshi, non sei un idiota», balbettò. «Eri solo preoccupato».

Ma lui scosse la testa, testardamente. Ancora non accennava a lasciarla andare e lei non cercava nemmeno di muoversi. «Per quanto starai lì? Quando potrai tornare?». Nelle sue domande c'era un velo di angoscia. Ormai non si trattava più del solito, vecchio Takeshi: non esisteva più il vecchio playboy solitario, che si aggirava tra i corridoi della scuola spezzando cuori e creandosi le più disparate reputazioni.

«Ancora non lo so. Non lo sa nessuno. Ma Take, io te lo prometto: tornerò da te. Tornerò, costi quel che costi».

«È una promessa».

«Lo è, esatto». La mezzosangue sorrise, con l'animo più leggero, mentre si appoggiava al moro, si lasciava andare a quel suo affetto così grande. Si alzò un pochino sulle punte e con dolcezza gli baciò la curva della mandibola – e poi sullo zigomo, sulla guancia.

Takeshi si allontanò, finalmente, quel tanto che gli bastava per guardarla in viso e sorridere, anche lui – e baciarla sulle labbra.

 

 

L'albina, che aveva chiuso gli occhi, li riaprì e guardò oltre la spalla del ragazzo, arrossendo. «Take, ci stanno guardando tutti... ».

«Che guardino pure. Siamo o non siamo adorabili?».

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Il piede appoggiato sul bordo della cassapanca, l'albina piegò la schiena per allacciare gli stivali beige. Dopo che ebbe fatto lo stesso anche con l'altra scarpa, si rimise dritta e si avvicinò alla specchiera per guardarsi – aveva un po' di occhiaie, e la cosa non la sorprendeva.

 

L'aspettava un viaggio di dodici ore. Il solo ricordo le dava una sensazione di nausea.

Ma lo stava facendo per se stessa e per gli altri; la notte precedente, nel suo letto – nel buio fitto della notte – aveva fissato il soffitto riflettendo attentamente su ciò che avrebbe dovuto vivere. Allora si era resa conto che le aggressioni che subiva periodicamente da quasi quattro anni mettevano in pericolo Takeshi e Sayumi.

 

Vampiri e demoni non avevano pietà – la maggior parte si crogiolava nel pensiero di distruggere una vita. Se poi quella vita apparteneva ad un umano, ancora meglio. Perché ognuno di loro aveva già assaggiato la morte, il sangue, la carne.

Ormai non potevano più sottrarsi a quella voluttà.

 

 

Ma era così difficile.

 

Aveva indossato un vestito rosso, sopra le ginocchia, con un motivo tartan. Era il suo preferito e l'aveva messo per sentirsi un po' meglio. Le avrebbe dato coraggio, magari. Le collant nere fasciavano le sue gambe e gli stivali beige le calzavano a pennello. Era pronta.

Qualche metro più in là, accanto alla porta socchiusa, c'erano le sue valigie. Quando Yuki si voltò verso l'uscita, Sebastian e Kukuri erano già apparsi sulla soglia. La ragazza aveva un espressione malinconica, gli occhi dietro le lenti degli occhiali guardavano verso la sua padrona velati di malumore.
Sebastian sorrideva, leggermente, come a rincuorare entrambe. «È pronta? La limousine la sta aspettando. Ci sono anche i suoi amici».

«È arrivato il momento, eh?», bisbigliò la mezzosangue. «Sembra quasi la scena di un film».

«Mi occuperò di questa stanza personalmente, signorina», disse Kukuri, presa da un moto di emozione. «Al vostro ritorno non troverete nemmeno un granello di polvere. Potete contare su di me».

Yuki, dall'altro capo della stanza, sorrise – una sfumatura stoica. «Ti credo. Grazie, a tutti e due. Chissà quando rivedrò questa casa... », così dicendo, si avvicinò alla finestra accanto all'armadio, guardando attraverso lo spiraglio lasciato dalle tende.

All'esterno, la luce era chiara e limpida. Erano le 11.10 e dovevano recarsi fino ad Osaka dove si trovava l'aeroporto più vicino.

«Signorina».

«Sì», Yuki si voltò verso il due. Sui visi di entrambi c'era serietà. «L'ho sentito anch'io. Potete farmi un favore? Le valige, potreste cominciare a portarle in macchina? Fate attenzione».

Sebastian e Kukuri, in un movimento fluido ed elegante, piegarono la testa in un inchino. «Faccia attenzione anche lei», disse Sebastian.

L'albina gli fece solo un cenno col capo.

 

 

 

Si voltò verso la finestra e la tirò verso l'alto, spalancandola. Una forte ventata le scompigliò i capelli e agitò la gonna del vestito. Con una spinta, Yuki era saltata giù dalla finestra, come un gatto randagio. C'era una spropositata altezza di ben due piani a separarla dalla terra piena di erbacce e cespugli – atterrò, piegando le ginocchia, affondando la mano nel suolo per tenersi in equilibrio.

 

Un attimo dopo, l'aria intorno a lei cominciò a farsi burrascosa, una coltre di polvere si sollevò dalla terra oscurandole la visuale. Yuki scattò in piedi e poi di lato, schivando un vampiro che schizzò nella sua direzione. Il pugno del vampiro si era conficcato nel cemento del muro – il vampiro si voltò verso di lei ed estrasse il suo braccio. «Bimba mezzosangue», sibilò tra i canini affilati. «Ci stai dando troppe rogne... ».

Yuki socchiuse gli occhi e con l'ennesimo scatto afferrò le braccia che stavano per agguantarla di spalle. «Ma falla finita!», gridò, sollevando e lanciando il demone che era apparso alle sue spalle.

 

Un terzo nemico sbucò dall'alto, saltando da un albero e avventandosi su di lei. Troppo tardi, la mezzosangue non riuscì ad evitarlo e il demone afferrò il retro della sua testa per spingerlo contro l'asfalto.

Gli occhi le ribollirono di sangue.

 

Espirò dal naso e tutto il suo corpo si ricoprì di elettricità, come se stesse esplodendo dall'interno – la mano del demone si incenerì al contatto con la sua elettricità. Yuki ruotò i piedi verso gli altri due, il respiro affannato, gli occhi rossi. Più simile ad una bestia che un adolescente, la ragazza non aveva occhi che per i suoi nemici.

E per la morte che gli avrebbe impartito.

 

«Un ultimo pasto... », sorrise, esaltata. «... prima di fare la brava».

 

 

 

 

Dieci minuti dopo, le mani, le labbra e gli stivali erano sporchi di sangue. Nella mano destra, sollevato a mezz'aria, il collo di quel vampiro pompava energicamente sangue. Egli si dimenava, affondava le unghie nella mano della mezzosangue, la guardava con un odio che non conosceva confini.
Dietro di lui, l'uno accanto all'altro, giacevano in una pozza di sangue i suoi compagni di battaglia. «Un giorno qualcuno», ansimava. «ti ucciderà come hai fatto con tutti noi. Un giorno... un giorno... ».

Yuki sorrise.

Sollevò la mano sinistra e sfiorò i suoi occhi con questa; poi scese, con la stessa lentezza, fino alla mandibola, e l'avvolse con tutta la mano. Un istante dopo, in un movimento veloce e brutale, gli aveva spezzato il collo.
Il corpo cadde ai suoi piedi con un tonfo.

 

«Che spreco. Ma magari posso ancora... ». L'odore di sangue era così denso da farle girare la testa. Si piegò accanto al cadavere, percependo la temperatura tiepida allungarsi come una lingua di fuoco verso di lei. I suoi occhi, piccoli e paralizzati, avevano un solo impercettibile movimento.

 


Eccoli lì. I suoi ultimi sei secondi di vita.

 

«Sarai utile», bisbigliò Yuki, prendendo il suo braccio, scoprendolo dalla manica. «alla fine della tua vita. Sarai utile a qualcuno».

 

 

 

 

Non riusciva più a sentire niente. Se non un fischio insistente nelle orecchie.

Era continuo, come un mantra. Gli occhi erano ben aperti, spalancati, eppure era tutto appannato e velato di grigio. Anche la sua figura. Era un miscuglio di grigio e rosso, un colore che percepiva appena appena... ma sapeva a chi apparteneva.
La vide piegarsi sulle ginocchia, accanto al suo corpo, e prendergli il braccio destro. Quel piccolo movimento gli faceva venire da vomitare, nonostante il respiro fosse ormai un ricordo lontano – ah... così era la morte.

 

Gli veniva quasi da ridere. Sembrava un angelo della morte.

La vide afferrargli il polso e portarselo alle labbra e poi spalancare la bocca. I suoi canini crebbero in pochi secondi, a dismisura. Poi, con violenza, affondò i suoi denti di metà vampiro nelle vene del corpo.

E gli strappava via quell'attimo di vita.

 

 

 

 

 

 

 

 


 

NOTA:
Et voilà, capitolo 10 del secondo atto. Credo di star riprendendo un po' il ritmo con la pubblicazione??? Lo spero bene, perché sarebbe una conquista importante – per me, riuscire a portare a termine questa storia e la sua pubblicazione. Esiste da così tanto tempo che ormai mi è impossibile credere che possa davvero finire.

IN OGNI CASO.

La partenza è alle porte e Yuki e Takeshi passavano un ultimo giorno insieme. Lui non l'ha presa granché bene, ma d'altronde, sa che per lei è già abbastanza dura e non vuole appesantire ulteriormente la situazione.

Demoni e vampiri, invece, non sembravano accettarlo. Per questo decidono di andare direttamente a casa Akawa per una missione suicida. Che, come avete visto, non è finita affatto bene.

 

Adesso è il caso di tornare sul capitolo 11 anf anf. Come al solito, spero vi sia piaciuto e se vi va, lasciate la vostra impressione! Bye~

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Capitolo 11
*** Una tazza di tè nella terra innevata. ***


11.




«Signorina? Sta bene? Ha un colorito un po'... ».

 

Yuki aprì un occhio, mezza addormentata, e intercettò la figura di un hostess dall'aria preoccupata. Indossava una divisa blu e stava portando in giro tra i corridoi un carrello con medicinali di ogni tipo. Quando aveva visto quella ragazza dai capelli bianchi seduta da sola sul sedile, accanto al finestrino, aveva quasi pensato che fosse morta; d'altro canto, una ragazza dalla pelle così bianca e addormentata così profondamente avrebbe potuto far venire il dubbio a chiunque.

Certo, non era molto carino pensare di una persona che fosse morta – ma era stato in buona fede.

«Sono anemica», disse Yuki, laconica.

«Ah, adesso capisco. Beh, se ha bisogno di qualsiasi cosa, io sono qui intorno. Mi chiami, vabbene?». La hostess sorrise calorosamente, prima di tornare verso il suo corridoio.

 

 

Sarebbe stata la scusa perfetta: anemia. E nel caso in cui i sintomi della follia si fossero fatti presenti... era anche un po' stressata. Nel peggiore delle ipotesi, una psicopatica in piena regola. 
Sperava ardentemente che non ce ne fosse bisogno – altrimenti, che ci andava a fare fino a Londra?


Erano già diverse ore che stava rinchiusa in quell'aereo. Con la fronte appoggiata al finestrino che dava su un letto di nuvole, non aveva fatto altro che dormire, come un sasso. Così, adesso, stava morendo di fame – per intenderci, una fame che non includeva il sangue o la carne. Quella l'aveva ampiamente soddisfatta.

Con uno sbadiglio, si stiracchiò sul sedile, stendendo le braccia verso l'alto.

 

 

 

Un'ora e mezza dopo, il gigantesco veicolo che aveva sorvolato nel cielo per bene dodici ore abbondanti, era atterrato all'aeroporto di Londra, Heathrow, il principale del paese. Tutti i passeggeri non vedevano l'ora di scendere e lei non era da meno; appena scesa dall'aereo, nella mano sinistra una valigia e nella destra un'altra, attraversò a passo spedito il mastodontico e moderno aeroporto.

Fuori, il freddo era talmente intenso da sembrare di vivere in una palla di ghiaccio. L'aria era immobile, statica, ma tagliente e puntigliosa sulla pelle.

 

Questa è Londra, eh?, pensava, sollevando la testa per cercare un cielo nero, appena puntellato da qualche stella.
Ad aspettarla c'era una macchina nera, dello stesso modello che aveva preso in Giappone – una limousine di modeste dimensioni. Fuori dalla vettura, un uomo in completo nero e dalla pelle cerea l'aspettava, dritto e composto come una gazzella. «Prego», le aveva detto, non appena Yuki si era avvicinata in quella direzione. «La stavo aspettando. Mi occuperò io dei suoi spostamenti».

Yuki, a qualche metro dall'uomo, lo guardò con le palpebre socchiuse. «E tu chi dovresti essere?».

«Sono un servitore della vostra famiglia, signorina. Il mio nome è Alberich».

 

Yuki lo studiò per minuti infiniti, sospettosa, ma alla fine alzò le spalle: se era un cane del Consiglio e avesse cercato di ucciderla, avrebbe fatto come al solito. Si sarebbe difesa.

 

 

 

Dentro la macchina, sembrava di essere entrati in un mondo del tutto nuovo. L'interno era buio, riscaldato dal climatizzatore della vettura, e attraverso i finestrini oscurati le luci della città si proiettavano brillanti. Il centro di Londra era pieno zeppo di edifici storici, palazzi, negozi, e tantissime persone che riempivano i marciapiedi – non aveva mai visto così tante etnie tutte insieme.
L'automobile scivolava sulla strada silenziosamente, macinando km, fermandosi però ogni dieci o venti minuti per i semafori. Avrebbe dovuto abituarsi a quel sistema stradario così articolato.

 

Un'ora dopo, superato tutto il Tower Bridge, dopo un altro lungo viaggio erano finalmente arrivati all'Earl's College. Era molto vicino al Big Ben, l'enorme orologio che vegliava sulla città – da cui avrebbe sentito i suoi rintocchi rimbombare nelle orecchie, ogni giorno.

La macchina si era finalmente fermata ed il motore spento. Yuki aprì lo sportello, in fretta, e appoggiò i tacchi degli stivali sull'asfalto ghiacciato del marciapiedi. Finalmente era fuori, all'aria aperta, e poteva guardare con i propri occhi la sua maestosità.

 

Era talmente grande da far venire le vertigini. Abbracciato da un lussureggiante giardino alla francese, con fontane, panchine e minuscoli labirinti d'erba, l'edificio era costruito su una pianta ad u, con le braccia che si allungavano alle spalle del corpo centrale, avvolgendo un secondo giardino interno; proprio quest'ultimo era sviluppato su ben quattro ordini, con tante, tantissime finestre, la cui maggior parte emanava una calda luce gialla.
La facciata era in marmo bianco, rigorosa ed elegante, con qualche rifinitura rossa e dorata a decorare. Monumentale e al contempo delicato, Yuki stentava a credere che fosse una scuola.

Alberich condusse Yuki fino all'entrata – una bella scarpinata – e finalmente fecero il loro ingresso nell'edificio. Erano le 21.40, per cui non c'era quasi nessuno che si aggirava tra i corridoi, e benché meno nello spazioso e un po' freddo salone d'ingresso.

«Sarà stanca», disse Alberich. «Adesso la conduco nell'ala dormitori».

Oh, sì. Era così stanca che le sembrava di aver perso l'uso delle gambe e del cervello.

Da quel momento in poi non ricordava molto altro, specialmente perché non fece caso all'arredamento. Col senno di poi, era facile richiamare alla mente i corridoi infiniti, con i pavimenti di marmo granito, le luci soffuse alle pareti rosse, le colonnine classiche.

 

 

 

«Faccia buon riposo. Per ogni evenienza, questo è il mio numero», le aveva detto l'uomo in completo nero, lasciandole in mano un biglietto da visita.
Yuki aveva infilato la mano nella tasca del soprabito, e con uno sbadiglio aveva aperto la porta della sua nuova stanza. Era tutto buio, tiepido e affascinante. Yuki guardò di fronte a sé per qualche secondo e poi i suoi occhi ricaddero sul cordless sul mobile, subito alla sua sinistra.

Vorrei tanto... , pensò, ma poi scrollò il capo.

 

C'erano ben nove ore di fuso orario, tra il Giappone e Londra. Se avesse chiamato in quel momento uno di loro tre, indubbiamente si sarebbe spaventato, infastidito o persino arrabbiato.



 

Prima della sua partenza, si erano visti quell'ultima volta. Lei si era ripulita gli stivali, le mani e la bocca del sangue, e aveva sfoggiato l'espressione più serena e positiva che conoscesse. Si chiedeva se aveva davvero funzionato. Si chiedeva, tuttora, se gli altri – gli altri come lei – non avessero capito qualcosa. Non gli aveva ancora mostrato quel lato di sé, e non era sicura di essere pronta.

Lentamente, e con un sospiro, scivolò sulla moquette rossa, strisciando la schiena contro la porta – inspirò pigramente l'aria gelida della stanza, rabbrividendo.

Dio, sembrava che Londra non avesse mai conosciuto il calore.

 

Si avvolse il torso con le braccia e avvicinò le ginocchia al petto.

 

Era lì.
Era arrivata a Londra e solo in quel momento, nel silenzio assordante della solitudine inglese, riuscì davvero a capirlo; fuori dalla finestra, fra lo spazio delle due tende, vide i fiocchi di neve cadere lenti e inesorabili, atterrando e depositandosi sull'asfalto.

Era da sola. Doveva cominciare a farsene una ragione.

 

Fu quello il suo ultimo pensiero, prima di addormentarsi.

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Passi felpati, provenienti dall'esterno. Voci maschili, basse ma affrettate.
Il cigolio di una porta, il suono sommesso mentre veniva, probabilmente, richiusa. Il frusciare delle tende e... un calore eccessie sul viso di Yuki – istintivamente, sollevò le palpebre, con la sensazione di avere le ciglia incollate fra di loro.
La luce accecante del mattino, quasi bianca, cominciò presto a bruciare la retina degli occhi ambrati. Con un ringhio assonnato, si coprì la testa con il lenzuolo.

Ma chi era stato a scostare le tende? Che problemi avevano?

«Ah», mormorò una voce, un po' scocciata. «Alla buon'ora».

 

 

Con la testa annebbiata, l'albina non riusciva a capire che voce fosse. Aveva parlato in inglese, ma senza quel tipico accento che tanto li contraddistingueva, e poi... e poi era la voce di un ragazzo. Che accidenti ci faceva un maschio nella sua stanza?
E non era tutto, non riusciva assolutamente a ricordare quand'è che si era messa a letto – in quel letto; ricordava di essersi seduta a terra, con la schiena contro la porta, infreddolita e assonnata, e poi... poi non ricordava altro. Quindi doveva essersi addormentata lì.

Ma, in quel caso, la domanda cambiava: chi l'aveva messa nel letto?

 

 

Ad un certo punto, i passi di quella voce ritornarono in direzione della porta. «Ricordati di riportarmi gli appunti», disse, con tono sbrigativo, per poi aggiungere: «Sì, sì. È già arriv– okay, te la presenterò, se tanto ci tieni. Ricordati gli appunti. Ricordati!». Susseguì uno sbuffo, rassegnato, e la porta si richiuse.

 

Yuki socchiuse le palpebre, lentamente, come se avesse dormito un mese; rannicchiata nel letto ad una piazza, abbracciava le gambe con le braccia e la testa vicina alle ginocchia. Aveva percepito un leggero sensore di pericolo, ma era passato subito.
Tutto un tratto, il bordo del materasso del letto singolo si piegò in un lamento sommesso e un'ombra si proiettò sulla coperta che nascondeva l'albina. «Ehy. Se non vuoi fare tardi al tuo primo giorno, ti conviene alzare il fondo schiena».

“Chiudi il becco”, avrebbe voluto ringhiare lei alla voce che, in un cambio di lingua – dall'inglese al giapponese – sembrava farsi tranquillamente beffa di Yuki Akawa; invece, la sua pigrizia le concedette solo il lusso di togliere la testa dalle coperte e tirarsi a sedere. Le nocche della mano andarono a sfregare prima un occhio e poi l'altro mentre uno sbadiglio squarciava l'elegante bocca sottile. «Chi... ».

Stava per lamentarsi di varie cose ma, del tizio incriminato, non c'era l'ombra; la mezzosangue finì di allontanare le coperte, lasciandole sul bordo del letto. Aveva addosso il vestito della scorsa notte e i collant, ma non il cappotto e le scarpe. Lasciò scivolare i piedi sulla moquette. Almeno sapeva che non le erano stati tolti i vestiti.

 

 

Nel tentativo di inquadrare la situazione – e magari capire se la voce scocciata aveva poteri paranormali e per questo era sparito –, si alzò in piedi e diede lunghe occhiate tutte attorno a sé; era una stanza piuttosto ampia, abbastanza da contenere due letti singoli, l'uno accanto all'altro. Affianco ad ognuno c'era un piccolo comodino da due cassetti con tanto di lampade. Alla destra dei letti c'era una finestra a due archi dalle tende fiordaliso e, accanto ad essa, uno specchio a muro dal bordo dorato.
Verso l'altra metà della stanza, invece, c'erano due grossi armadi e al centro una porta.

Yuki tornò a guardare verso la finestra, aggrottando la fronte. Effettivamente, il tizio non aveva torto; a giudicare dall'intensità della luce, non era proprio presto. Yuki si fece più vicina al vetro, accostando il viso. Il cielo era limpido e bianco, privo di qualsiasi impurità.

 

 

«Non hai mai visto un cielo?».

Yuki serrò la mandibola – aveva sentito la sua mano poggiarsi sulla maniglia dell'altra stanza.

Staccò il viso dal vetro e si voltò, intercettando il ragazzo che si richiudeva la porta alle spalle – i capelli neri e folti catturarono l'attenzione dell'albina. Le ricordavano qualcosa.
Lo vide camminare tranquillamente verso lo specchio a muro, aggiustarsi la camicia bianca e le maniche del blazer verde smeraldo. I pantaloni neri gli cadevano perfettamente sulle gambe, quasi gli fossero stati cuciti addosso.
Quando ebbe finito di specchiarsi, si allacciò l'orologio argenteo al polso. Solo a quel punto si voltò in direzione della ragazza. «Beh? Sei ancora lì? Muoviti o ti lascio qui».

«Posso sapere chi saresti, coso?».

Lui sospirò, per forse la terza volta in mezz'ora. Poi, a passi larghi e fermi, giunse da lei e le porse la mano destra – l'orologio brillava arrogantemente. «Christian Yamashita. Chiamami Chris, e andremo d'accordo».

 



Yuki aprì gli occhi come due fari. Forse era stato a causa del risveglio, forse era semplicemente indifferenza, ma fatto stava che non le era passato nemmeno per l'anticamera del cervello un simile collegamento. Eppure, in un certo senso, avrebbe dovuto – perché si somigliavano come due gocce d'acqua.

Ora che le iridi ambra potevano indagare nei pozzi di petrolio di Christian, ornati da lunghe ciglia un po' a mezzaluna, gli zigomi alti, le labbra rosee e il ciuffo corvino dietro l'orecchio – dopo aver sentito il suo cognome. Yamashita«Ma tu... ».

«Io cosa?», sbottò il ragazzo.

«Ma tu sei il fratello di Hokori».

 

Christian aprì la bocca, stupito, e ritirò la mano come se si fosse scottato. «Conosci... ».

«Conosco tua sorella», disse lei. «Anche se non ci siamo conosciute nelle migliori condizioni».

«Che vuoi dire? Le è successo qualcosa?». Il ragazzo sembrava molto preoccupato dalla sorella. Certo, da parte sua era normale; avevano sempre avuto un ottimo rapporto, sia durante gli allenamenti per diventare cacciatori, sia nella vita “normale”.
Poi però, ad un certo punto, le loro vite si erano separate: avevano scelto due vite totalmente diverse e né lui né lei erano pronti a rinunciarvi. «Non vedo Hokori da una vita... ».

«Hokori sta bene, più che bene», rispose Yuki. «Non hai di che preoccuparti, sta andando alla grande».

«Bene... sono felice di saperlo».

 

Il ragazzo trasse un respiro profondo, come se si fosse appena liberato da un enorme peso. Si lasciò cadere sul materasso, lo stesso in cui Yuki aveva riposato fino a quel momento. Poi sollevò la testa e la guardò dritto negli occhi, con un bel po' di sospetto. «Senti un po'. Tu chi dovresti essere, invece?», disse, a bassa voce. «Ieri sera, quando sono rientrato nella mia camera, ti ho trovata che dormivi sul pavimento. Per poco non ti colpivo con la porta».

«Aspetta, vuol dire che non sapevi nulla? Sono nella 204, vero? Non ho sbagliato stanza».

«204, certo. E sì, sapevo del tuo arrivo; ma non mi aspettavo di trovarti sdraiata come una barbona, né so qualcosa sul tuo conto».

 

Yuki inarcò le sopracciglia sugli occhi, leggermente stizzita. «Non sono una barbona, avevo solo sonno!».

«Come no, certo. Adesso», Christian alzò le spalle, alzandosi dal letto e camminando fino al centro della stanza. Diede un'occhiata all'orologio da polso e poi, scocciato, tornò su Yuki. «datti una mossa e preparati. Abbiamo le lezioni».

 

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

«Allora? Pensi di uscire da lì, entro i prossimi trent'anni?».

 

 

Che sfiga. Proprio io devo occuparmi di questa palla al piede?, pensava il ragazzo, sbuffando, le braccia incrociate al petto, la schiena al muro. Stava aspettando in corridoio, immerso nella luce mattutina.

Le donne!

Per quale astruso motivo dovevano metterci così tanto tempo a prepararsi? Christian non riusciva a concepire quell'idea, e non era certo che la cosa gli interessasse davvero. Tuttavia, da quando l'aveva vista per la prima volta, fino a quella stessa mattina, aveva la netta sensazione che non fosse come le altre. Anzi, probabilmente non era nemmeno umana.
Il suo istinto – assopito – di cacciatore glielo sussurrava alle orecchie come un consiglio. E inoltre, le pupille dei suoi occhi erano fin troppo piccole e sottili.


«Wow, sprizzi simpatia da tutti i pori!», esclamò Yuki. Aveva spalancato la porta, sbuffando a sua volta, piombando nel corridoio.

Christian girò il volto verso la sua destra, osservando dalla testa ai piedi la figura della mezzosangue, per poi fare un sorrisetto strafottente. «Ma sì. Non sei poi così male».

 

Yuki, che era ancora intenta ad aggiustarsi la parigina sinistra, levò il collo per lanciargli un'occhiata assassina. Si rimise dritta, tirando un po' le maniche del blazer.
Doveva ammetterlo, la divisa di quel college era veramente bella e comoda; la gonna era pieghettata, a motivo tartan, e sotto al blazer verde veniva indossata una camicia bianca con taschino. La giacca stessa ne aveva uno a sua volta, che ritraeva lo stemma del college – due spade incrociate.

«Il blazer devi portarlo chiuso», l'ammonì lui, facendole un cenno col mento.

«Oh, sì? Perché, altrimenti la scuola prende fuoco?».

«Perché è il regolamento, Yu-chan».

Yuki arricciò il naso, in un espressione di ribrezzo. «È proprio necessario chiamarmi in quel modo? Non potresti far prevalere il tuo sangue inglese?».

 

 

L'albina si era poi presentata, pronunciandosi come Yuki Akawa. Prima di cominciare a vestirsi per andare a lezione, la ragazza aveva chiamato suo padre, Oseroth, e gli aveva chiesto delucidazioni sulla situazione.
Mentre percorrevano l'infinito corridoio, lei spiegò quanto aveva appreso dall'uomo. «Mio padre, Oseroth Akawa, mi ha obbligato a venire qui, dal Giappone. Ma non si era sprecato a spiegarmi in che scuola sarei stata o qualsiasi altra informazione utile», disse. «Beh, sembra che abbia un rapporto stretto con il preside del tuo college e per questo abbia chiesto, espressamente, che io venissi messa in stanza con te».

«Ma che c'entro io con questa roba?».

«Perché sei il fratello di Hokori. Presumo che, in cuor suo, mio padre volesse rendere il mio soggiorno più facile», dicendo queste parole, Yuki si morse le labbra. Se era così che stavano le cose, allora avrebbe – quantomeno – potuto avvisarla.

Non le piaceva l'idea di condividere la stanza con un ragazzo.

«Ma i dormitori non sono misti», ribatté Christian, gettandole un'occhiata. «E il preside ha accettato una cosa del genere?».

«Già, così pare. Questa sarà un eccezione, unica e rara».

«E scocciante».

«Senti», sbottò lei, roteando gli occhi. «La cosa non piace nemmeno a me. Per niente. Ma dovremo farcela andare bene, almeno per un po'. Quindi dacci un taglio».

Allora Christian, le mani nelle tasche, alzò le spalle con noncuranza. Okay, se lo sarebbe fatto andare bene. Ma solo fino ad un certo punto. Dannazione, era pur sempre la sua scuola, la sua vita, e lei non poteva pensare di arrivare e stravolgere tutto. «Okay», disse, nonostante i tremila pensieri che gli vorticavano per la testa.

 

 

 

Superata l'ala notturna e il dormitorio maschile, spuntarono in un corridoio con scale. Oltre la balaustra, in basso, si apriva un grande salotto con caffetteria, divanetti e camino. Ampio e rumoroso, c'erano tanti studenti che andavano e venivano, reggendo libri e zaini, borse e caffè in contenitori.
Scesero le due rampe di scale, e raggiunsero il piano terra. Per quanto Yuki avrebbe voluto mettere le mani su uno dei dolci esposti nella vetrina, Christian non aveva nessuna intenzione di fermarsi o rallentare il passo. Allora, a malincuore, superarono anche quel punto.

Oltrepassata la soglia della porta, uscirono in un enorme, sconfinato giardino; era simile a quello che aveva visto all'entrata, solo che questo era avvolto dalle braccia dell'edificio scolastico.

La luce era talmente forte da accecarla. La neve si era depositata un po' dappertutto, dalla notte passata, a partire dall'erba, alle panchine e sull'asfalto, sebbene in piccola quantità.
Christian si stringeva nel giaccone nero, che aveva messo sopra la divisa, respirando nuvolette di vapore. «Che dannato freddo», brontolò, strofinandosi le braccia. Poi gettò un'occhiata alla ragazza; anche lei aveva indosso una giacca, ma non sembrava soffrire la temperatura. «Certo che sei proprio una donna delle nevi».

Yuki accennò un sorrisetto. «Eccolo là. Lo stavo aspettando, in effetti».

«Che?».

«Il soprannome», rispose lei. Stirò le labbra in una linea dritta, guardando davanti a sé. «Ne avevo uno o due in Giappone, un po' me lo aspettavo anche qui».

Christian rimase in silenzio qualche istante, poi si voltò a guardare davanti a sé. «Sai, non è che ispiri grande simpatia».

Yuki alzò le spalle. «Che vuoi che ti dica? Non faccio niente di particolare. Mi limito a respirare», e abbozzò un altro sorriso, sarcastico.

 

 

Continuarono a camminare, passando sotto i portici che fiancheggiavano il grande giardino; di tanto in tanto, qualche studente squadrava la coppia con curiosità e un po' di sorpresa. Qualcuno – probabilmente amici di Christian – salutava il ragazzo o gli faceva un fischio, per sbeffeggiarlo, e lui rispondeva di rimando con un'occhiataccia.
A guardarlo così, l'albina non poté fare a meno di pensare che loro due avevano atteggiamenti simili, molto più di quanto lui avrebbe mai ammesso.

Quando ebbero raggiunto l'altro capo del giardino, erano quasi le 9.00, l'ora di inizio delle lezioni.

Superarono il portone, salirono la rampa di scale parallela e raggiunsero finalmente il piano in cui una schiera di aule erano colme di adolescenti.

 

«Ehy, tu», Christian si fermò di fronte alla porte, coprendo la figura della mezzosangue con la propria. Il suo contorno era illuminato dalla luce bianca del sole.
La guardò aguzzando la vista, con aria seria, spingendo le sopracciglia scure sugli occhi. «Non essere scorbutica. Sorridi un po' di più, che non ti uccide di certo. Presentati come si deve, dì qualcosa su di te».

Yuki aggrottò la fronte. «Cosa vorresti d– ».

«Sono dei... consigli. Ti sto dando dei consigli per non farti dare dei soprannomi anche qui, chiaro? Se ascolterai ciò che ti dico, vedrai che non avrai problemi. E magari, non ne creerai nemmeno a me – il ché è molto importante, quindi tienilo a mente».

 

Christian – per la prima volta da quando si erano incontrati – alzò gli angoli della bocca, in un sorriso un po' spavaldo, ma al contempo rassicurante e coraggioso. Esattamente come quello di Hokori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA:
Salve! Siamo arrivati nel pieno della “saga di Londra”. Devo dire che mi piace abbastanza come parte della storia, è bello entrare in nuove atmosfere come queste.

 

Facciamo la conoscenza di Chris.
… sì, ha un carattere un po' meh, un po' tanto, ma col tempo vedrete che saprà farsi conoscere meglio. Speriamo.

A proposito, volevo specificare che il college non esiste, è tutto inventato! Avevo fatto delle ricerche per trovarne uno che corrispondesse alle mie esigenze/gusti, ma francamente non riuscivano a convincermi. Allora ho deciso di inventarne uno. Quindi, se trovate qualche somiglianza o affini, sappiate che si tratta di un caso.

Detto questo, spero che il capitolo vi sia piaciuto!

 

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Capitolo 12
*** Sul filo della rabbia. ***


12.




Se c'è qualcosa che tutti gli studenti trasferiti odiano, è venir tempestati da una trivella di domande, appena dopo aver trovato il coraggio di aprir bocca.

 

Per lei era stato un po' diverso. Non aveva provato quel tipo di ebrezza, e ne aveva sentito un po' la mancanza, come se le avessero tolto una qualche sorta di diritto. Per questo, quando era entrata nell'aula, era stata colta dal nervosismo.
La stanza non assomigliava granché alle classi in Giappone. Era abbastanza spaziosa e ordinata, e c'era una cattedra di fronte alla lavagna. I banchi erano più grandi, di legno, e la porta era unica, parallela alla cattedra.

In piedi, di fronte ad una numerosa classe di studenti inglesi – tra cui notò qualche straniero – si era schiarita la voce e aveva detto il proprio nome.

A quel punto, la classe aveva cominciato a bombardarla di domande; se si trovava a suo agio, perché si era trasferita in un momento del genere, quali erano i suoi hobby. Avevano voluto sapere ogni tipo di cosa, forse in parte perché non avevano nessuna voglia di iniziare le lezioni.
Il professore aveva dovuto calmarmi, richiamandoli più volte. Christian, seduto al suo banco, con una faccia annoiata, si era alienato dalla situazione.

 

 

Il professore aveva assegnato all'albina il posto accanto a Christian, che si trovava nella fila in mezzo. Sulla parete opposta al corridoio c'erano quattro finestre, ognuna di loro chiusa, con una tenda verde scuro che scendeva. Tuttavia, le tende adesso non coprivano la luce che attraversava i vetri, e illuminava tutta la classe di una forte luce bianca – una volta seduta, Yuki dovette pararsi gli occhi per non farsi accecare.

La lezione era cominciata senza intoppi.

 

Il professore cominciò a spiegare l'argomento di quella mattina nel suo fluentissimo inglese, impeccabile, e con un forte accento britannico. Yuki conosceva molto bene la lingua, ma doveva ammettere che per capire ciò di cui stava parlando doveva metterci molta della sua attenzione.

È divertente, pensò, mentre guardava la figura dell'uomo di mezz'età, gli occhiali sul naso, che spiegava letteratura inglese, sembra quasi una sfida.

 

Di tanto in tanto, Christian le lanciava delle occhiate furtive.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Allora, Yuki!».

 

L'albina fece un salto sulla sedia. Mentre a sinistra sedeva Christian, impegnato a rileggere i suoi appunti di storia, alla sua destra sedeva una ragazza bionda, con le trecce, e occhi chiari. Il tono della sua voce era abbastanza alto da spaccare i vetri. «Posso chiamarti per nome, sì? In Giappone non vi prendete certe confidenze, vero? Ma come si suol dire, “quando vai a Roma, fai come i romani”. Beh, non siamo a Roma, logico, ma hai capito cosa voglio dirti». E parlava come una macchinetta. Accidenti. Come si spegneva, quella ragazza? «A proposito, non mi sono nemmeno presentata! Sono Emily», detto questo, l'inglese allungò la mano verso Yuki, che strinse con una certa riluttanza.

«Piacere».

«Complimenti eh, parli bene la nostra lingua. In ogni caso, ho una domanda importantissima da farti!». Emily alzò ulteriormente la voce, richiamando a sé i compagni di classe, perché voleva parlare di qualcosa con tutti quanti.

Una fetta abbondante di classe – eccetto qualcuno – si era allora avvicinata, formando una cinta intorno a quei tre banchi. Christian, la mano al mento, sbuffò esasperato.

 

«Ho una domandina per te, Yuki», disse Emily. «e penso proprio che interesserà ai nostri ragazzi».

«E cioè?», incalzò la mezzosangue, aggrottando la fronte.

Emily sorrise, chinò la schiena in avanti e, guardandola dritta negli occhi color oro, sussurrò: «... ce l'hai, il ragazzo?».

 

 

Per poco non si diede uno schiaffo sulla fronte. Ci era mancato davvero pochissimo – tutta quell'agitazione solo per chiederle se aveva o non aveva un ragazzo? Ma, alla fine, questo le aveva solo aperto gli occhi: le ragazze erano uguali in tutto il mondo.

La domanda, che le era suonata tanto stupida, in realtà interessava parecchio ai suoi nuovi compagni di classe. Persino Christian – detto Chris – Yamashita, ancora seduto per conto proprio, doveva ammettere di essere un po' curioso, e per questo aveva teso le orecchie come un cervo che ascolta i pericoli della strada.

«Sì, ce l'ho», rispose, laconica. «Hai finito? Sei assillante, sai?».

 

Una risata generale echeggiò nella larga aula. Le risate continuarono per qualche istante finché la voce annoiata e fredda del sanguemisto non si intromise, come un coltello. «Che tipo è?», disse.

Yuki inclinò la testa in avanti, alla ricerca dello sguardo del ragazzo, che sembrava essere parecchio attirato dalla lavagna. Lei sorrise, divertita. «Sei curioso?».

«Mah», borbottò l'altro. «Voglio solo sapere chi è che ha così tanto coraggio da mettersi con te, dal momento che sei davvero terribile».

«Spiacente, fratellino».

Chris le schioccò un'occhiata, riluttante e quasi astiosa. Le sue spalle si irrigidirono, per qualche istante, prima di tornare alla sua postura normale.

 

Dunque, che tipo era il suo ragazzo? Non era una domanda così facile. Takeshi aveva così tante sfaccettatura, così tante sfumature. Lei stessa non lo conosceva così bene – e in parte, pensava che una parte di lui non l'avrebbe mai capita a pieno, non come sperava.

«È un tipo strano, a mio avviso», esordì, spostando lo sguardo da Emily al gruppo di curiosi. «Di poche parole, e solitamente non si sforza di parlare, ma quando comincia non la smette di più. Non è granché ad esprimersi, a dirla tutta, il ché lo rende... tenero, immagino. A quanto pare – anzi, a quanto ho visto – è piuttosto ambito, tra le ragazze, ed è altrettanto odiato dai ragazzi». Il viso tra le mani, un sorriso spontaneo apparve sulle sue labbra. «È onesto, protettivo e gentile. E ha qualche tendenza da stalker».
Staccò il viso dalle mani, le quali appoggiò al banco. Con un cenno del capo, aveva concluso il suo discorso. «È questo tipo di persona», disse, per poi rivolgersi a Christian, con uno sguardo serio.

Christian soppesò il suo sguardo. Allora sai fare anche questo tipo di espressioni, pensò.

 

«Sembra proprio una persona ordinaria», commentò.

«Che c'è, Chris?», esclamò uno dei ragazzi. «Geloso?».

«Ma che stai dicendo?!», il ragazzo roteò gli occhi, appoggiando il gomito sullo schienale della sedia. «Voi vi fate ingannare dal suo bel faccino ma in realtà è odiosa. E la conosco da un'ora!».

«A me sembra spassosissima».

«Secondo me è successo qualcosa fra voi due».

Se sapessero quanto hanno ragione, pensò l'albina.

 

 

 

A quel punto cominciava la seconda ora di lezione. Le ore continuarono a scivolare senza grossi problemi; gli insegnanti cercavano di rendere le spiegazioni più comprensibili per Yuki, parlando più lentamente e usando termini più semplici – sebbene lei avesse rassicurato tutti quanti di non porsi il problema. Alle 12.00 suonò la pausa dalle lezioni, che sarebbe durata per le successive due ore.

Non appena Yuki si fu alzata dalla sua sedia, Emily era scattata come una molla e aveva afferrato l'albina dal braccio. Insieme a qualche altro compagno, era stata trascinata fuori dall'aula.

Emily disse che moriva dalla voglia di mangiare qualcosa e che Yuki doveva assolutamente vedere la sala mensa, che era una vera e propria oasi di felicità, l'apoteosi della gastronomia.

 

 

La mensa era una vasta sala rumorosa, gremita di ragazzi e qualche adulto errante; per lo più il suo spazio era occupato da tavolate che ospitavano almeno otto persone. Appena si varcava la soglia della grande porta, sulla parete sinistra si aprivano le cucine e i banconi, alle cui spalle le inservienti lavoravano instancabili. Sul lato destro, un po' più in fondo – accanto c'era una seconda uscita che dava sull'esterno, forse un cortile – c'erano distributori di cereali e varie tipologie di dolci.

Yuki rimase immobile, qualche metro dai tavoli, guardando con occhi determinati i distributori. Emily, al suo fianco, agitava un braccio in direzione di un gruppetto di ragazze ad un tavolo.

 

«Comincio a non sopportarti più», bisbigliò, tra i denti.

«Hai detto qualcosa, Yuki?».

«Muta come un morto».

«Sei davvero buffa. Vieni, ti presento alle mie amiche».

 

Accidenti, non sono brava in quest-, mentre pensava questo, Yuki aveva alzato lo sguardo perché, la coda del suo occhio, aveva appena percepito qualcosa. Qualcosa di tanto familiare quanto spiacevole. I suoi occhi avevano appena visto la sagoma, luminosa e pericolosa, del vampiro Ichiro Fukanishi.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Ichiro Fukanishi era lì.

 

Dall'altra parte della mensa scolastica, sulla soglia dell'uscita che sfociava nel cortile; indossava un pesante soprabito beige, in camoscio, e teneva le mani nelle tasche. Da sotto il soprabito spuntavano i pantaloni di un completo blu scuro. I capelli biondi erano ordinatamente pettinati in onde, una sciarpa nera gli copriva il mento. I suoi occhi verde brillante erano fissi su Yuki, senza nessuna particolare emozione. In mezzo alla ressa, l'aveva trovata subito, in un istante.

 

Sembrava più alto, ma forse era a causa delle suole delle scarpe. Ma a ben vedere, anche le sue spalle erano un po' diverse. Che ironia. Aveva desiderato così tanto incontrare un volto familiare... era stata appena accontentata, ma non per niente felice.

 

 

Yuki chiuse la bocca, in un movimento rigido e meccanico. Quella stessa scena l'aveva vissuta poche ore fa con Christian. La stessa luce, chiara e accecante, avvolgeva il suo profilo, ma non aveva proprio niente di rassicurante come era successo con il moro. Niente affatto. Tutt'al più, Yuki aveva subito percepito una sensazione di disagio, di oscurità – e un po' di pericolo.

 

 

«Ehy, Yuki? Ti sei incantata? Dai, vieni!», squittì Emily.

Yuki si voltò di scatto verso la bionda. Un rivolo di sudore le imperlò la linea della schiena. «Scusa, io», gettò un'occhiata al cortile. «devo andare un secondo al bagno. Ci metto un attimo, okay? Mangia senza di me, tanto non ho fame». Senza aspettare la sua risposta – che arrivò, molto vaga, alle sue orecchie– , l'albina si voltò verso la seconda uscita. Ichiro non c'era più.
Era sparito.

Quando? Avrebbe dovuto rendersene conto, ma non era stato così, il ché era strano; aveva ampiamente placato la sua fame e il dolore bruciante alla gola, era in piena forma, e i suoi sensi erano vigili.
Che si trattasse... della sua abilità? Che, forse, fosse in grado di celare la sua presenza? Se era davvero così che stavano le cose, il senso di inquietudine aveva ragione di crescere ancora di più.

 

Ruotò i piedi e uscì dalla mensa, tornando nel giardino interno. Si infilò sotto i portici, passando tra un gruppo di studenti e l'altro come una biscia. Non era preoccupata per gli umani. Lui non era il tipo di vampiro che aggrediva qualsiasi persona gli capitasse sotto mano. Per così dire, sceglieva accuratamente le sue prede – e diventavano le sue persone “preferite”.
Mentre ci pensava, Yuki percorse tutto il giardino, sotto i portici, fino a raggiungere l'altra metà dell'edificio. Entrò dentro la caffetteria, e senza fermarsi guardava i visi di tutti i ragazzi, ispezionandoli velocemente.

Anche qui è apposto, sembra, pensò, mentre saliva la prima rampa di scale, poi la seconda, e finalmente girava l'angolo che l'avrebbe condotta di fronte alle camere dei dormitori – finendo, inesorabilmente, per andare a scontrarsi con qualcuno.

Il suo naso e la sua fronte cozzarono contro quella persona, i suoi piedi vacillarono facendola indietreggiare. A quel punto, invece, un braccio scivolava dietro la sua schiena e l'afferrava, prontamente. «Sei proprio incredibile».

 

Yuki dilatò gli occhi. Christian l'aveva presa al volo. «Che prontezza di riflessi», bisbigliò lei, sorridendo leggermente, per dissimulare il senso di nervoso e di imbarazzo che l'aveva attanagliata. Nel momento in cui Christian l'aveva afferrata, i loro visi si erano trovati un po' troppo vicini.
Anche adesso, immobili in quella posizione instabile, la mezzosangue poteva guardare chiaramente il petrolio nelle sue iridi.

Lui fece una smorfia, roteando gli occhi, mentre l'albina metteva un piede indietro per raddrizzarsi.

«Non si corre nei corridoi», disse. «Ma in che razza di scuole andavi, per non sapere una cosa del genere?».

«Lo so che non si corre, grazie tante, ma ero davvero di fretta».

«Cosa? La scuola è andata a fuoco, alla fine?».

«Sarebbe... », … sarebbe un peccato, avrebbe voluto dire. Ma non continuò quella frase. Guardò Christian, con aria più seria. «Dimmi una cosa: hai visto un uomo da queste parti? Molto alto, capelli biondi e occhi verdi, cappotto in camoscio... ».

«Ah?», fece l'altro – poi inarcò un sopracciglio, facendole cenno con il mento. «Non è proprio dietro di te?».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«È bello rivederti».

 

 

La voce di Ichiro si infiltrò nelle sue orecchie come una lama – il tono con cui aveva parlato suggeriva che stava sorridendo. Cos'aveva tanto da sorridere? Non c'era niente di divertente.

«Ciao, piccola», insisté il biondo.

 

Christian, di fronte all'albina, alzò gli occhi per guardare il viso scolpito ad arte del vampiro. Wow, sembrava... un modello. Il suo viso era un miscuglio di eleganza, bellezza e maturità, ma era totalmente concentrato sulla ragazza, tant'è che non aveva degnato di uno sguardo il moro che stava assistendo a quella strana scena. A dir il vero, nemmeno lui gli sembrava particolarmente umano.

 

Lentamente, e un po' perplesso, Christian abbassò il viso per guardare quello di Yuki.

Ma... eh? Perché aveva quella faccia così turbata? Ad essere franchi, non pensava nemmeno che lei potesse fare quel tipo di espressione, sebbene fosse troppo presto per poterlo dire. «Allora... », riprese Christian, aggrottando la fronte. «Era lui che stavi cercando?».

 

 

Yuki fece un passo in avanti, mettendo una certa distanza fra lei e il giovane uomo, giungendo al fianco del sanguemisto con le spalle rivolte ad Ichiro. «Sì. È lui che stavo cercando». Ichiro sorrise, e l'albina continuò: «Possiamo parlare in camera, Chris? Possiamo prenderla in prestito?».

«La nostra camera?», ripeté lui, sbattendo le palpebre. «Okay, non è un grosso problema. Ma vedi di fare in fretta».

«Ho un'idea migliore», disse Ichiro. Parlava con questo tono basso di voce, un po' sibilante. «Perché non lo coinvolgiamo?».

Yuki gli lanciò un' occhiata di fuoco, molto eloquente, molto più minacciosa. «Cosa?».

«Certo, perché no? Credo che anche tu abbia capito chi è questo ragazzo, mia cara Yuki. Non posso credere che tu non l'abbia notato».

 


Sì, anche se non lo avesse notato, lei avrebbe semplicemente ricordato ciò che Hokori aveva raccontato sulla loro infanzia: entrambi erano stati cresciuti come cacciatori, e solo dopo le elementari si erano divisi. Quindi, a conti fatti, Christian Yamashita aveva tutti i requisiti per diventare un cacciatore di creature sovrannaturali.

Il ché comprendeva, ovviamente, anche Yuki stessa.

«Allora, Chris?», riprese Ichiro. «Vieni a farci compagnia. Sono molto curioso».

Christian sostenne il suo sguardo verde, col proprio nero come la pece, e infine fece un lungo e calmo cenno col capo. «Sia. Verrò con voi».


 

Il trio, in silenzio di tomba, imboccò il lungo corridoio. Passarono di fronte a quelle che erano schiere e schiere di camere, di cui la stra-maggioranza vuota, considerando l'ora.
Dopo qualche minuto di tragitto, raggiunsero la porta della stanza 204. Christian infilò la mano nella tasca del pantalone, estraendone una chiave piccola e compatta. La infilò nella toppa della serratura, facendo due giri, e aprì la porta.
«Permetti?», disse Ichiro, un secondo prima di passargli davanti ed entrare nella stanza.

Yuki e Christian si scambiarono un'occhiata. La prima continuava ad essere turbata, mentre il secondo cominciava ad infastidirsi. Ciononostante, entrambi fecero il loro ingresso, e Christian chiuse la porta.

 

Ichiro era in piedi, nel centro della stanza. Si guardava attorno con una certa attenzione, come un turista al Louvre. «Carino. Un po' primitivo».

«Hai finito?», sbottò Yuki. «Non sei qui per giudicare l'arredamento, o così voglio sperare, perché altrimenti– ».

«Ah, sì, lo so. Non hai nemmeno bisogno di dirmelo», si voltò verso di lei, arcuando un angolo della bocca in un sorriso. «ormai ti conosco bene». Ruotò i piedi, in modo da girarsi completamente, e fronteggiare il duo che era ancora vicino alla porta. «Tu sei violenta. Non perdi occasione. Lo so. Di certo, non rappresenta un problema, per te, minacciare qualcuno e... portare ad compimento le suddette minacce».

«Cosa stai cercando di dire?».

«Poco prima della tua partenza», Ichiro cacciò una mano dalla tasca della giacca, spostandosi una ciocca di capelli sull'orecchio. «hai ricevuto visita da tre persone. So che le hai piacevolmente accolte».

«Non potevo fare diversamente».

«In realtà, potevi eccome. Hai solo scelto di non farlo. Hai scelto di esagerare».

 

 

 

Yuki sentì le mani tremare.

Esagerare. Lei aveva esagerato? Loro le davano il tormento da anni ed anni, eppure... era lei ad aver esagerato? Sapeva che in quell'occasione aveva davvero dato sfogo a tutta la sua rabbia, alla frustrazione, e alla semplice fame che la stava attanagliando. Lo sapeva. D'altronde, era del suo corpo che si parlava.
Tuttavia... «E a quale scopo ne stai parlando, proprio ora?», sibilò.

Il vampiro alzò le spalle. «Mah, nessuno in particolare. Forse, in parte, voglio ragguagliare quel ragazzo».

«Che?», sbottò Christian, che aveva seguito il discorso con un velo di confusione. «Che c'entro io?».

«C'entri molto più di quanto tu voglia dare a vedere», rispose Ichiro, senza staccare il sorriso dalle labbra. «D'altronde, tu sei stato cresciuto per diventare un cacciatore».

«Eh?».

 

Christian, istintivamente, fece un passo indietro, come se volesse fuggire – ma no, non era così: non voleva scappare. Il fatto è che non se lo aspettava per niente. Quei due non sembravano umani e questo era assodato, ma che addirittura sapessero del suo addestramento... i brividi gli ricoprirono le braccia e il collo, a quel pensiero.
Si raddrizzò, tornando nella posizione di prima. Infilò la mano in una tasca del pantalone, squadrando il vampiro biondo – circospetto e ben poco fiducioso. «E tu chi sei?».

 

Ichiro, che fino a quel momento aveva svelato quel sorriso, ammaliante, quasi seducente – l'aveva finalmente abbandonato. Gli angoli della bocca virarono verso il basso, un'ombra fitta e maligna cadde sul verde brillante dei suoi occhi. «Io, ragazzino da quattro soldi, sono Ichiro Fukanishi, e tu farai meglio a guardarti bene dall'usare quel tono – con me».

«Smettila, Ichiro». Improvvisamente, Christian si trovò di fronte a sé i lunghi capelli bianchi della ragazza. «Non è il caso di creare disordini in questo posto».

 

Il biondo non rispose. Soppesò la situazione, le parole di Yuki, e alzò le spalle come se niente fosse. «Ah, ma certo. Ti sei affezionata a quel ragazzo. Quando si parla di umani, ti affezioni davvero in fretta, eh?»

Yuki arrossì leggermente, scuotendo la testa. «Dacci un– ».

 

 

«Yu-chan». Senza nemmeno pensarci, Christian le aveva afferrato il braccio. Era stato un gesto del tutto involontario. Per un attimo, il suo corpo era stato posseduto da qualcun altro.
Con occhi sconcertati e sbigottiti, il ragazzo cercava risposte in quelli oro di Yuki. «Anche tu... sei come lui?».

Yuki socchiuse le labbra – oh, già. Era come lui?

Sorrise, e scosse la testa. «No, sono molto peggio. Sono una mezzosangue».

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Christian si alzò in piedi.

Per qualche secondo rimase immobile, senza fare nessun movimento particolare; solo dopo qualche interminabile secondo, si staccò da quel punto per dirigersi al centro della stanza.

 

Yuki e Ichiro, che si erano seduti sui letti, l'uno di fronte all'altra, ne seguivano i movimenti come esperti giudici. A dirla tutta, lei era un po' nervosa. Si era affezionata al sanguemisto, e le sarebbe dispiaciuto se la novità avrebbe reso il loro rapporto improbabile, sul filo del rasoio.
Immersi nel silenzio, attesero.

 

Christian incrociò le braccia al petto, con un espressione pensierosa – alla fine, finalmente, fece un cenno d'assenso con la testa. «Sì, ha perfettamente senso».

L'albina increspò la fronte, perplessa. «Cos'è che avrebbe perfettamente senso?».

«Il fatto che tu non sia umana», rispose il moro, volgendo lo sguardo su di lei. «Certo, non sarei mai giunto alla conclusione che tu fossi entrambi – un demone e un vampiro. Ma fidati se ti dico che si capisce che non sei umana. E questo vale anche per te, Ichiro Fukanishi. Beh, si capisce per chi ha messo piede in quel mondo almeno una volta nella vita, logico».

«Perspicace», commentò Ichiro, sogghignando.

«E tu hai partecipato all'addestramento, insieme ad Hokori». Yuki abbassò lo sguardo sulle punte delle scarpe, osservandole con attenzione. Okay. Sembrava essersi risolto piuttosto pacificamente.

«In ogni caso», riprese Christian. «Non sarebbe stato male saperlo prima. Così avrei evitato tanti ragionamenti. Okay, magari avrei potuto scendere subito alla conclusione che tu non fossi umana, dal momento che ti è stato permesso di entrare in questa scuola a Dicembre. E come se non bastasse, ti hanno appioppata a me». Si fermò, tirando un sospiro rumoroso ed esasperato. «Che stress».

Yuki inarcò un sopracciglio. «Ora non gettarla sul melodrammatico».

«Fidati, per uno come me, che ha sempre voluto una vita calma e rilassante, questo è stressante».

 

 

L'albina allora alzò le spalle e vi si strinse, mentre Ichiro roteava lo sguardo verso il soffitto e poi assottigliava le palpebre. Il vampiro abbassò gli occhi, guardando la ragazza. «Allora?», disse. «Sciocchezze a parte, devo parlarti di una questione importante. Non ho molto tempo».

«Ah», fece la mezzosangue. Si passò la mano dietro al collo ed annuì. «Chris, senti un po'... ».

«Sì, sì. Ho capito. Dovete parlare da soli, non è così?». Il moro tirò uno sbuffo. Erano questioni in cui non poteva e non voleva infilarsi, quindi avrebbe lasciato quella stanza di buon grado. Tuttavia, gli dava fastidio tutto quel monopolio esercitato su di lui.

Fece spallucce e girò i tacchi. «Ma datevi una mossa. Vorrei fare i compiti, se non è chiedere troppo».

 

 

Dopo che Christian ebbe lasciato la stanza, il duo aveva aspettato qualche minuto, guardandosi seriamente negli occhi. Erano ancora seduti sui letti, Ichiro dava le spalle alla finestra.
Quando furono certi di essere soli e che nessuno fosse nelle immediate vicinanze, Ichiro cominciò a parlare; la sua voce era bassa, apparentemente calma, con un tono che tradiva sofferenza. Parlò per quelli che furono pochi minuti. Non aveva chissà quanto da dire, d'altronde.

Perché il concetto era chiaro.

 

 

 

«Alla fine», disse, in conclusione al suo discorso. «non è affatto una sorpresa. Per niente affatto. Non lo è per me, per te e per i nostri genitori, tuttavia... ».

«Tuttavia, non possiamo accettarlo e basta», ribatté Yuki. «Perché in questo modo manderemmo all'aria gli sforzi che i nostri predecessori hanno fatto in tutti questi secoli».

«La situazione era stata appianata con la serata di beneficenza che avevi proposto, ma non è finita qui».

«Questi idioti non riescono proprio a sopravvivere, non è così?».

«Così pare».

 

Vampiri e demoni erano lo specchio gli uni degli altri. Due razze più simili di quanto potessero accettare. Provavano la stessa adorazione per quel sapore scarlatto, che diventava come droga sin dal primo assaggio.

Yuki si passò i palmi sulle tempie, sprofondando le dita fra i capelli – provata. «... già. Ormai, c'è ben poco che si possa ancora fare», alzò il viso verso Ichiro. «Ciò che non capisco è perché quegli idioti dei cittadini vogliano una guerra. A che pro? Cosa credono che succederà? Per loro non importa cosa succederà in futuro. Vogliono solo sterminarsi a vicenda».

«Esattamente». Ichiro si alzò in piedi.

Sterminare era una parola forte. Il vampiro stesso la sentiva riecheggiare nelle orecchie, era più simile ad una maledizione che ad una parola. Chiuse le labbra in una linea.
Lei non poteva sapere, non poteva capire quanto ci avesse azzeccato.

 

«E cosa sei venuto a fare qui?».

 

Ichiro, che si era perso nei suoi pensieri, sbarrò gli occhi. Inclinò il collo, incontrando il viso della mezzosangue. Aveva le sopracciglia inarcate sugli occhi, gli occhi le brillavano, arrabbiati, come ogni volta che lei lo guardava.

«Io sono venuto per... », perché, in effetti? «... per informarti della situazione. Volevo che tu lo sapessi, anche se a loro non importava granché. E inoltre volevo assicurarti che– ».

«Cosa?». La rabbia si era fatta più intensa. La rabbia e l'oscurità sembravano fondersi nella sua voce. Cupa, agghiacciante, come unghie che si aggrappavano ad una parete, fredda e bollente – l'ombra di qualcosa che brulicava nella sua testa. «Mi assicuri di cosa? Ichiro, sto tollerando la tua presenza a malapena, in questo momento, quindi cerca di non farmi arrabbiare ancora di più. Tu non puoi fare nessuna rassicurazione – nessuna che sia utile. Tu non sei in grado di fare niente che sia giusto – stupido, ignobile di un vampiro».

 

Ichiro chiuse le palpebre, flemmaticamente, e trasse un profondo respiro, come se stesse cercando di calmarsi. Sebbene lui fosse in piedi e la sua ombra cercava di inghiottire Yuki, il vampiro si sentiva minuscolo. Quando riaprì gli occhi, quelli della mezzosangue avevano preso una tinta scarlatta. «Hai ragione. È vero, tutto quello che hai detto. Tuttavia, voglio fare qualcosa per ripagare al danno che ho commesso con te, e voglio aiutare la nostra società a sopravvivere. Permettimi solo questo».

 

In un piccolo meandro della sua mente, Yuki sapeva che, grazie al suo prestigio, Ichiro avrebbe potuto rendersi utile. Lo sapeva. Avrebbe potuto posticipare una stupida guerra – una lotta che avrebbe appestato i profumi del dolce.
E con ogni probabilità, gli umani sarebbero stati coinvolti in qualche modo.

«Okay. Okay, fai qualcosa. Ma per il resto», aprì la bocca, e sorrise. «vattene, e non avvicinarti mai più a me o ai miei amici».

 

 

Ichiro chiuse i pugni. Le braccia gli caddero lungo i fianchi.

Era inutile.

Si era spinto fino a Londra inutilmente – sul suo bellissimo viso, si dipinse un espressione di angoscia. Poi, un attimo dopo e in silenzio tombale, era fuori dalla porta.

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Capitolo 13
*** Ribellarsi, invocare, guardare. ***


13.

 



In quel posto – abbandonato da chiunque, persino da Dio – l'umidità era così intensa da far gelare le ossa. Ormai, quel luogo non veniva nemmeno più considerato come parte della città; non era altro che un vecchio garage, di un'altrettanta abitazione, fatisciente, situata vicino al ponte del fiume. Era una casa costruita su due piani, spaziosi e ampi. Il primo piano aveva parecchie finestre, e la maggior parte di quelle era a pezzi.

Takeshi ci aveva passato molto tempo, anni addietro, quando la sua vita si limitava a molti conflitti interiori. Ci era stato con i suoi "amici", se così si potevano chiamare, a non fare assolutamente nulla. Quei ragazzi, più grandi di lui di alcuni anni, ne avevano combinate parecchie.

Lui, un ragazzino appena entrato nelle medie, osservava freddamente le loro azioni – senza fare una piega.

 


Con quel giorno, era passata una settimana da quando ci era tornato. Era già una settimana che vi si recava.

Si piegò un istante sulle ginocchia, per poi rimettersi velocemente dritto. Nella mano destra, a circondargli le nocche, brillava il suo antico tirapugni di ferro.
Cercava di non pensare a lei; cercava di non concentrarsi su Londra e sulla distanza infinita che c'era adesso fra loro. In tutta quella situazione, la presenza di Sayumi e Tetsuya gli era di grande aiuto; la prima non perdeva occasione di trascinarli a mangiare un gelato – nonostante il freddo atroce –, a guardare un film, a passeggiare fra i negozi.

Ciononostante, quando Takeshi tornava solo, la rabbia gli ribolliva dentro – sferzò l'aria con l'ennesimo pugno.

Il tirapugni cominciava a diventare pesante nella sua mano destra. Stava esagerando.

Stava stressando il suo corpo, ma era più forte di lui: aveva bisogno di fare qualcosa. Qualcosa che potesse essere utile, in qualche modo.
Con un sospiro, la mano sinistra corse al bordo della canottiera nera, tirandola per scacciare il fastidioso strato di sudore. Scosse il capo, liberandosi anche i capelli.

 

Ah, che scocciatura, pensò.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Quindi, in breve, potete rimanere giovani e belli solo fin quando vi nutrite?».

«Ah-ah». Yuki fermò la mano che girava le pagine, sollevando lo sguardo. «Beh, la bellezza è... ».

«Questa pazzia di cui mi hai parlato», proseguì lui. «non ha senso nemmeno il modo stesso in cui è apparsa. Perché i demoni? Perché dovrebbero impazzire solo usando i propri poteri? C'è qualcosa che non mi quadra».

 

Yuki sospirò. Era seduta sul letto, con le gambe incrociate, da quasi un'ora – per cercare di rispondere alle domande del sanguemisto.

 

Intanto, il cielo di Londra era diventato arancione. La sua luce filtrava tra le tende, illuminando una piccola porzione del copriletto blu e un'altra del ginocchio di Yuki. Le lezioni erano finite da qualche ora ma Christian non era tornato subito; quando ormai erano le 17.00, la porta della camera si era aperta e il ragazzo si era palesato con un paio di libri sottobraccio.
A quanto pare, era stato per la maggior parte del tempo in biblioteca a studiare, ma non solo storia o letteratura inglese, fra i libri che aveva cercato c'era anche qualcuno che trattava il sovrannaturale. Aveva cercato nozioni su demoni e vampiri, ma molto di ciò che c'era scritto sembrava essere sbagliato, a quanto pareva, e questa cosa lo mandava in bestia.

 

 

«Osi sospirare?».

«Ah?».

Christian era seduto sul letto accanto, nella medesima posizione. Davanti a lui, sul letto, c'erano aperti due libri piuttosto spessi e un quaderno per appunti, al centro una penna a sfera. A calargli sul naso, un paio di occhiali dalla montatura nera. Chris si puntò il palmo sul petto, con aria orgogliosa. «Dovresti essere grata – tu e gli altri demoni – che qualcuno, un umano tra l'altro, si stia prodigando così tanto per capire il vostro problema. Quindi, non osare sospirare!».

«Senti, Chris», ribatté l'altra. «non è che non sia grata. L'unico problema è che sono più di sei secoli che stiamo cercando di capire la natura di questo fantomatico "sintomo della follia"».

«E quindi?».

«Eh?».

«E quindi, cosa? Sono più di sei secoli, mi stai dicendo, e allora?». Christian tirò un leggero sospiro e si sfilò gli occhiali, strofinando la lente sinistra col bordo della t-shirt, continuando a parlare. «È passato tanto tempo, sì, ma non dovete perdere interesse per questa faccenda, e nemmeno la speranza. D'altronde, non state certo per estinguervi, quindi ci saranno sempre demoni là fuori. Ci sarà sempre qualcuno per cui varrà la pena di continuare a cercare». Quando ebbe finito di pulire anche l'altra lente, sollevò gli occhiali all'altezza dei suoi occhi, e strizzò quest'ultimi per individuare la polvere.

 

Yuki rimase immobile, ad ascoltare il battito del suo stesso cuore. Batteva leggermente più veloce. Quello di Christian era regolare come una mare calmo. «Sei un ragazzo strano», sussurrò.

«Ma allora non hai capito nien– ».

«E intelligente». La mezzosangue chiuse la mano a pugno, toccando la carta del libro con le nocche, e sollevò il viso verso Christian. Quando incrociarono gli sguardi, lui sussultò, stupefatto – perché gli occhi oro della ragazza erano lucidi e lievemente arrossati. «Grazie. Per quello che hai detto. Per quello che stai facendo adesso».

 

 

Christian indugiò – imbarazzato. Oh, ci avrebbe scommesso qualsiasi cosa: era arrossito. Beh, non era colpa sua, ma di quella strampalata – lei che era strana. Con quale leggerezza riusciva a dire “grazie”? O rivolgergli quello sguardo, così forte, sebbene sul punto di crollare?
Ancora, il ragazzo tentennò. Aprì la bocca per parlare, ma ne uscì qualche frase sconnessa, spezzata.

 

«Io... », dentro di sé scosse la testa. Se doveva dire qualcosa, doveva farlo subito. Adesso. Sollevò il volto e finalmente parlò. «Yu-chan, io... !».


«Sto tornando in Giappone, in ogni caso».


Chris socchiuse le palpebre. «... Che?».

«Ah, beh», riprese Yuki, passandosi una mano dietro al collo. «non dovrei. Non mi è permesso tornare adesso, non ho bisogno nemmeno di chiederlo a mio padre. Per questo tornerò in Giappone di nascosto». Si fermò, e poi annuì. «Devo pensare ad un piano».

«Dimmi una cosa, Yu-chan».

«Ah?».

«Sei per caso diventata stupida?».

 

 

Yuki corrugò la fronte. Che razza di antipatico. Come si permetteva di darle certi epiteti? Piccata, l'albina schioccò la lingua. «No», rispose. «perché altrimenti avrei cercato di ucciderti sin da subito, dato quanto sei fastidioso».

«Sei sicura?», sbottò lui. Sciolse le gambe e scese dal letto, camminando fino al centro della stanza. Quand'era nervoso faceva così, gli permetteva di ragionare e riflettere lucidamente. Si voltò verso la ragazza, compiendo un passo per raggiungere i piedi del letto. «Ti rendi conto di che idea malsana è?».

«Quanto la fai lunga. È molto più attuabile di quanto credi».

«E perché non l'hai fatto prima, allora?».

 

Yuki richiuse il libro e sollevò le ginocchia per appoggiarci il mento. Con lo sguardo, guardò verso la finestra. Stava ricominciando a nevicare. «Perché... », era venuta fin lì per un nobile motivo. Erano passati due giorni dal suo arrivo, eppure voleva già mandare tutto in malora. «Perché volevo proteggere i miei amici – voglio proteggerli. E la mia presenza li metteva in pericolo. Metteva in pericolo loro e me».

Christian la guardò, serio. «Se è così che stanno le cose, non dovresti tornare in Giappone. Sbaglio?».

 

 

Non sbagliava. Almeno in teoria, non sbagliava. Ciononostante, la sensazione di alienamento che stava provando in quel momento – e che aveva provato sin dall'inizio – era talmente opprimente da soffocarla.
E poi, la guerra di cui aveva parlato Ichiro; poteva essere una menzogna inventata da lui per farla tornare in Giappone e così essere nuovamente nell'occhio vigile del Consiglio, non lo metteva in dubbio, ma... «Mi fido delle sue parole», bisbigliò.

«Che hai detto?».

Yuki si voltò, con occhi fiammeggianti. «Ho detto: mi fido delle parole di Ichiro».

 




 

 

***

 

 

 

 

 

Era passata una settimana.
Fuori era buio pesto da ormai diverse ore e l'aria si era fatta gelata. Per terra si erano formate vere e proprie lastre di ghiaccio, sottili, ma abbastanza scivolose da essere pericolose.
L'unico suono che si udiva, ogni tanto, era il soffio sinistro del vento. L'intero college era assorbito in un fitto silenzio – ma, d'altro canto, erano le 3.00 del mattino.

Yuki si era alzata dal suo letto mezz'ora prima. Non si era addormentata – aveva riposato dalle 18.00 fino a mezzanotte, e questo le bastava – e aveva aspettato che arrivasse la notte. Quando non aveva sentito più nessun suono e nessun movimento, solo a quel punto era sgusciata via dalle lenzuola come un serpente.
Aveva raccattato tutte le cose e si era diretta in bagno per cambiarsi; aveva indossato il vestito rosso con il quale era arrivata a Londra, come buon auspicio, e si era messa gli stessi stivali beige. Il suo sguardo era ricaduto sull'anello – presto li avrebbe rivisti, tutti loro.

 

Se da una parte non stava più nella pelle, dall'altra si sentiva inquieta e preoccupata.

Stava facendo la cosa giusta? No. Stava facendo la cosa sbagliata, tutt'al più.

 

Sospirò e aprì la porta del bagno più piano che poté, uscendo.

Si avvicinò al centro della stanza e fece per raccogliere il cappotto che aveva lasciato sul letto. A quel punto si fermò. Christian era seduto sul letto dell'albina e stava facendo un grosso sbadiglio.
Oh, bene, pensò, e adesso che dovrei fare? Dovrei rimetterlo a dormire?

 

 

«Pensavi di andartene senza salutare?». I capelli scompigliati, il sanguemisto guardò l'albina con le sopracciglia leggermente inarcate e la bocca chiusa in una smorfia di disappunto. «Sei davvero un brutto soggetto».

Yuki sorrise e allungò la mano sul cappotto. «In effetti era quello il piano», ma quando la sua mano toccò il tessuto dell'indumento, quella di Christian la prese per il polso. L'albina girò il viso verso il ragazzo, trovando un espressione di pura determinazione.
Aah, quel ragazzo... le dispiaceva, almeno un po', dovergli dire addio. Non era poi tanto male, alla fine. Yuki gli restituì l'occhiata, sebbene la sua fosse molto più pacata.

«Allora mi spiace – per così dire –, ma ho intenzione di infrangere il tuo piano». Gli occhi neri come il petrolio di Chris erano quasi abbaglianti, a contatto con la luce lunare.

«Ci tieni così tanto a salutarmi? Fai pure, allora».

«Se così vogliamo metterla».

 

Christian le lasciò il polso, con il solo intento di alzarsi dal bordo del letto. Con due passi, arrivò di fronte alla ragazza. Yuki levò il viso verso l'alto. Sulle prime, le era sembrato quasi basso, ma in realtà era più alto di lei di quasi dieci centimetri. Adesso, guardandolo da quella prospettiva, sembrava essere cresciuto tutto d'un fiato.

«Che c'è?», disse la mezzosangue, aggrottando la fronte.

Christian sorrise, scrollando le spalle. «Ahh, se fosse in mio potere, non ti permetterei di andare via dal college. Ma immagino che funzioni così con un demone. E un vampiro».

«Eh? Ma... », l'albina batté le ciglia, stupita. «Era... era questo che volevi dire oggi pomeriggio?».

«Ah, ma allora mi avevi sentito».

«Sì, ammetto che ti ho sentito, e ammetto che ti ho interrotto di proposito. Avevo paura di quello che avresti detto».

«Ma va», inarcò un sopracciglio, sornione. «allora hai finalmente capito con chi è che hai a che fare».

«Avevo paura che avresti detto qualcos'altro di carino e che poi mi sarei sentita ancora più dispiaciuta nel lasciare questo posto. Non voglio sentire altre emozioni, all'infuori del sollievo e della gioia di tornare a casa», Yuki chiuse gli occhi per un istante, per poi riaprirli e inchiodarli in quelli di Christian. «È questa la verità».

 

Christian alzò le sopracciglia, stupito - ma, alla fine, sospirò teatralmente e scrollò la testa. «Siete proprio stupide, voi ragazze. E se siete un demone o un vampiro è anche peggio».

«Ecco. Bravo. Così mi semplifichi molto il lavoro».

 

Christian rise, cercando di tenere la voce bassa – wow, era la prima volta che lo sentiva ridere. Dopo una settimana che avevano passato insieme, non pensava che avrebbe avuto questo privilegio. La stanza era tutta immersa nella fredda luce della luna, e colorava di un leggero e tenue blu la moquette e le coperte del letto. Per un secondo, il tempo era diventato rarefatto.

Per un secondo, Yuki aveva avuto l'impressione che Christian si stesse chinando verso di lei per baciarla.

Solo per quell'attimo.

 

Poi, si erano detti addio.

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Sayumi, daresti un'occhiata ai crisantemi? E dopo anche ai narcisi autunnali!».

«Ceeerto!».

 

Sayumi, seduta sui talloni di fronte alla vetrina del negozio di fiori, si rimise in piedi in una sola mossa. Si stiracchiò per bene, facendo suonare le ossa come un pianoforte, e guardò verso il cielo. Era una bella giornata di sole e persino il freddo era più gestibile degli scorsi giorni. Qualche giorno prima aveva nevicato moltissimo e la neve si era depositata sulle strade come un leggero mantello.

«Etciù– !», si chiuse la bocca e il naso con le mani, rabbrividendo. Come non detto.

Rientrò in fretta dentro il negozio e si diresse verso il fondo del negozio. Si piegò verso il penultimo scaffale per prendere le forbici e se le infilò nell'ampia tasca del grembiule verde scuro. Dopo di ché si girò e tornò vicino alla porta. All'interno, piazzati di fronte alla vetrina, erano stati sistemate tutte le piante che necessitavano molta luce del sole, tra questi i crisantemi e i narcisi autunnali.

Sayumi si avvicinò e ispezionò i petali dei crisantemi. «Bene, voi siete apposto. Sembra che non debba tagliare nulla», rifletteva. Si spostò di un basso e si inginocchiò, passando ai narcisi. «Oh, perfetto, anche voi state più che bene. Tra due ore vi verrò a spostare».

 

Sorrise, sfiorando con la punta delle dita i petali dei narcisi – si sollevò, premendo le mani sulla schiena per raddrizzarsi.

E fu così che notò Yuki fuori in strada. Fu solo per pochi secondi ma la vide passare di fronte alla vetrina, veloce come il suono, percorrendo la strada in salita.

 

«Yu... », aprì la bocca per urlare il suo nome ma era già troppo tardi. Sayumi batté le palpebre svariate volte e richiuse le labbra. In un gesto spaesato si portò le dita al mento, abbassando lo sguardo sulle piante.

 

Quella era... lei, vero? Non ho le allucinazione, vero?, pensava.

 

C'era solo un modo per capirlo.

 

 

Si slacciò il fiocco al collo che reggeva il grembiule e lanciò l'indumento sul tavolo dietro di lei, per poi uscire di corsa dal negozio. Fuori in strada non c'era nessuna traccia dell'albina.
Con ogni probabilità, si stava dirigendo alla residenza, o almeno questo era ciò che pensava Sayumi. Si fermò sul marciapiedi, di fronte alla porta del negozio, titubante; non sapeva perché ma aveva la sensazione che c'era un motivo se era corsa via senza fermarsi. Era appena passata di fronte alla vetrina quindi avrebbe potuto entrare e salutarla.

Perché ho la sensazione che sia in pericolo?, pensò, quasi in automatico – chiuse i denti, digrignandoli, e cominciò a correre verso la residenza Akawa.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Con un salto, Yuki scavalcò la cancellata di ferro e atterrò sul sentiero incolto. Di nuovo in equilibrio, ricominciò a camminare velocemente, percorrendo quel tanto nostalgico sentiero che l'avrebbe condotta a casa.
Come volevasi dimostrare, Oseroth non le avrebbe mai permesso di tornare a casa così facilmente; sin dal momento in cui aveva lasciato il college per dirigersi all'aeroporto, aveva dovuto fronteggiare diverse guardie al servizio di Oseroth. Fra questi, naturalmente, anche Alberich, che si era dimostrato molto forte. Con fatica era riuscita a metterli fuori gioco e aveva preso il primo aereo per il Giappone – ma da quel momento in poi aveva prestato il doppio dell'attenzione.

Aveva cercato di evitare i combattimenti il più possibile, e ci era riuscita, fino a tornare in città.

Proprio per questo si stava muovendo così velocemente; per quanto avrebbe voluto fermarsi da Sayumi, doveva raggiungere casa sua al più presto e parlare con suo padre.

Finalmente, era di fronte alla porta di casa, imponente come l'entrata degli Inferi.



Però non ho più le chiavi, pensò, colta da quell'illuminazione, da dove potrei entrare?

Sollevò la testa, ispezionando la facciata alla ricerca di un'entrata. Le finestre erano tutte chiuse e coperte dalle tende, quindi probabilmente era lo stesso per la sua camera. I sotterranei erano sigillati e fortificati, quindi era fuori discussione. L'unica alternativa che le rimaneva era quella di chiamare Kukuri o Sebastian. 

 

 

«Yu... ki... ?».

 

L'albina si voltò di scatto, pronta allo scontro – ma quando i suoi occhi li vide, le gambe le cedettero come gelatina.

A pochi metri di distanza, loro erano lì, scioccati ed esterrefatti quanto lei, aggrovigliati dalle stesse emozioni turbinose. Takeshi e Tetsuya, l'uno accanto all'altro. Le bocche aperte, gli occhi sbarrati, fermi nei gesti che stavano per compiere, sospesi nel tempo quasi.
Quando i suoi occhi li vede, si riempirono di lacrime roventi. «Takeshi... Tetsu... ».

Tetsuya si riscosse di fronte alle lacrime dell'amica, e appoggiò la mano sulla spalla di Takeshi, e il moro sobbalzo, le sue iridi sembrarono riacquistare colore. «Yuki... »

 

«YUKI-CHAN!». Sollevando un enorme polverone, Sayumi era apparsa dalla cancellata. Con un agile balzo riuscì a superarla e poi scattò come un fulmine lungo il percorso di terra incolta.

«Y-Yumi?!», esclamò la mezzosangue, rimettendosi faticosamente sulle proprie gambe. «Ma tu... voi... cosa ci fate qui?!».

«Questa è la nostra domanda!».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Kukuri aveva mantenuto la sua promessa: la stanza non aveva un granello di polvere.

Era pulita e ordinata come uno specchio; le lenzuola del letto e il copriletto non avevano nemmeno una piega; i vetri delle due finestre brillavano come stelle, la specchiera tersa; il pavimento privo di qualsiasi impurità.
Kukuri era una professionista nel suo lavoro e lo dimostrava giorno dopo giorno, secondo dopo secondo. Con un gran sorriso, Yuki entrò nella sua stanza e la cameriera la seguì, adagiando le due valige accanto alla porta; l'albina la ringraziò e le fece un cenno col capo, e subito dopo rimase da sola.

 

Aveva quasi la tentazione di lanciarsi sul materasso. Era sempre così morbido.

A ben vedere, quella camera era molto bella. Il suo piccolo regno.

 

 

«Disturbo?».

La mezzosangue si voltò e sorrise. Takeshi era appena apparso sulla soglia della porta, l'avambraccio sullo stipite; sebbene l'espressione fosse rilassata, il moro era allegro e felice come un bambino, e l'aria da playboy che aveva assunto era una piccola prova a dimostrazione.

«Ehy», rispose l'albina.

«Ehy». Si staccò dalla porta e se la chiuse alle spalle, senza girarsi. Sorrideva, un po' imbarazzato, spazzolandosi i capelli dietro il collo per mantenersi occupato. «Cavolo... ».

«Eh? Cosa?».

Takeshi inclinò la testa di lato, la mano ancora sullo stesso punto. «È che sembra un sogno... rivederti. Rivederti qui, in carne ed ossa, nella tua stanza».

Yuki schiuse le labbra con aria assorta. Sì, in effetti, stentava a crederci anche lei. «Mi sento un po' confusa... ».

«Sarà a causa del jet-lag».

«Ah, non pensavo che ne avrei mai sofferto».

Takeshi ridacchiò – soffermandosi poi a osservarla. «Sbaglio o non sei per niente truccata?».

«Cosa?». Oh, giusto, non le era passato nemmeno per l'anticamera del cervello di truccarsi. Istintivamente si toccò il viso con le mani, un po' in imbarazzo. «Non c'era il tempo per... ».

«Non importa», replicò Takeshi – che, all'improvviso, era già di fronte a lei. «Ti amo a prescindere. Da tutto».

 

 

Yuki sollevò il viso in un guizzo, con le labbra tremanti. Takeshi, con la sua figura, creava una grossa penombra che l'avvolgeva come un'ala. Il suo sorriso era così bello... emanava talmente tanto calore. Era più simile al sole di qualsiasi cosa.
Stendeva le labbra carnose, gli angoli si sollevavano verso l'alto e formavano piccolissime fossette, una piccola porzione di denti che si affacciava appena appena – e i suoi occhi diventavano ancora più luminosi.
Lei lo vide piegare la schiena e il collo e il suo viso farsi sempre più vicino, fin quando il respiro di Takeshi non fu ad un passo dalla sua bocca. «Takeshi», bisbigliò.

Le palpebre chiuse, lui rispose: «Sì?».

«Credo che Chris volesse baciarmi».

Takeshi aprì gli occhi. «Chris chi?».

«Christian. È il fratello di Hokori ed è stato il mio compagno di stanza durante la settimana a Lond– … per caso sei arrabbiato?».

«Per niente». Non gliene importava niente se era il fratello di Hokori, né perché il ragazzo si trovasse in Inghilterra. Quel ragazzo – beh, forse, non era del tutto certo – aveva cercato di superare la linea di confine. La stessa linea che lo separava da un trattamento molto, molto spiacevole. Takeshi, che aveva le mani sulla vita della sua ragazza, fece un lungo sospiro. Al Diavolo. Si sarebbe arrabbiato dopo.

 

Lei alzò il viso per guardarlo negli occhi e balbettò: «Take– », ma la sua voce venne schiacciata dalle labbra del ragazzo. Quel bacio era stato talmente fulmineo che per un attimo le mancò l'equilibrio e dovette aggrapparsi alle sue spalle, allacciandogli le braccia intorno al collo. «Tak– », niente da fare, Katugawa non aveva nessuna voglia di parlare.
Yuki si sollevò sulle punte e Takeshi le avvolse la vita, stringendola a sé con una dolce forza – lui si allontanò e lo schioccò delle loro labbra rimbombò nella sua testa.
Fece scivolare le mani dalla sua vita fino ai fianchi e sollevò la testa, per raddrizzarsi, ma la mezzosangue gli prese subito le mani e in un secondo vorticoso erano sul letto a baldacchino.

 

«Yuki», bisbigliò, piano, con gli occhi un po' aperti per lo stupore perché, tutto d'un tratto, si era ritrovato su un letto. Sotto di lui, la sua ragazza. Lei sorrise e lui la imitò, prima di avvicinare la bocca sulla sua guancia, appena accanto alle sue labbra, e poi scendere sotto la mandibola.
Sentiva che ogni suo bacio – sul collo, sulle clavicole, sulle labbra – riusciva a farle andare a fuoco la pelle, come se volesse rivestirla di lava, viva e ardente, e volesse prendere il posto del freddo dentro le ossa dell'albina – Takeshi si stava prendendo quel posto.


Sdraiata supina su quel grande letto, i capelli sparpagliati da tutte le parti, chiuse per un istante gli occhi. Nell'attimo dopo, in un altro scatto di velocità sovrumana, la mezzosangue aveva ribaltato la situazione e si era seduta a cavalcioni su di lui.

Il moro, in tutta risposta, le aveva lanciato un'occhiata – un sopracciglio inarcato, l'altro sollevato. "Ah, davvero?", sembrava dire il suo sguardo. Poi, con le mani sulle gambe, aveva abbassato gli occhi sulle mani di Yuki mentre gli percorrevano il torso, accelerando sui bottoni della camicia, soffermandosi sul marmo impeccabile dei suoi addominali, tracciandoli come una mappa. La vide piegare la schiena e avvicinarsi, fin quando non incollò le labbra su quelle del ragazzo.

 

 

«SIGNORINAAAAA!». All'urlo decisamente sgraziato della cameriera, Yuki e Takeshi fecero un balzo. L'albina alzò la schiena, ruotandola come una vite per guardare verso la porta alle loro spalle. Takeshi, sul punto di scoppiare in una fragorosa risata, si tappò la bocca con la mano. «Signorina, i vostri genitori la stanno aspettando!».

«E c'era bisogno di urlare per... », Yuki si bloccò, serrando le labbra.

 

 

Rimasero entrambi in silenzio, mentre lei continuò a fissare la porta. Dopo un minuto, la ragazza tirò un sospirone, e tornò verso il moro. «Scusa, non so proprio cosa le sia preso... ».

«No? Io qualche idea ce l'avrei», ribatté lui, ridacchiando. «Ad esempio, che magari hanno sospettato qualcosa».

 

Yuki sbatté le ciglia.

 

Takeshi incrociò le braccia dietro la testa, i capelli scompigliati, la camicia completamente aperta. Yuki era ancora seduta sul suo bassoventre, le guance rosse. «Piuttosto, me ne torno a Londra».

«Non pensarci nemmeno». Il suo tono era scherzoso e il sorriso anche, ma il significato era più che serio. Poi alzò le sopracciglia, guardando in basso. «Non è un problema, ma... credi di restare lì per molto?».

«N-non fare lo stupido. Sto scendendo proprio adesso, ecco».

 

Takeshi si mise a ridere, sciogliendo le braccia dietro la testa e sollevando il busto dal materasso. Dovendo essere onesto, gli dispiaceva parecchio che la situazione fosse finita così; d'altro canto, non si sarebbe sentito mai a suo agio – o meglio, al sicuro – in casa della sua fidanzata, c'erano fin troppe figure pericolose.
Paradossalmente quella cameriera gli aveva appena salvato la vita.

 

«Take... posso?».

«Eh? Cosa?».

«La camicia», bisbigliò la mezzosangue. «Posso richiudertela?».

«Wow. Intraprendente. Sicura che non perderai la concentrazione, mentre cerchi di abbottonarla?».

«... come non detto».

 

Nuovamente, Takeshi fece una risatina. «Dai. Mi farebbe piacere. Vieni qui». Di fronte alla reazione dell'albina, terribilmente prevedibile, non poté fare a meno di sorridere ancora di più. Alzata di spalle, sbuffata. Avrebbe potuto indovinarla ad occhi chiusi.

Lei si spostò sul bordo del letto, accanto a lui, e cominciava ad armeggiare con i bottoni della camicia. La vedeva inarcare le sopracciglia, come se ci stesse mettendo tutta l'attenzione dell'universo, arrossire leggermente quando si rendeva conto che fino ad un momento prima erano in tutt'altra situazione.

Dannazione. Non credeva di potersi sentire così felice.

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

Fuori dalla camera, sulla passerella, Takeshi si sporse dal parapetto, appoggiandoci le mani. Si voleva concedere qualche momento per osservare ciò che stava succedendo; il suo ritorno del tutto improvviso, l'intimità che avevano attraversato qualche minuto prima, il fatto stesso di trovarsi di nuovo dentro quella casa. Era forse la terza volta che si muoveva tra le sue mura, che sembravano respirare, che sembravano più vive di qualsiasi altra cosa.

Che fosse una casa particolare, era logico. Saltava all'occhio. Ma c'era qualcos'altro, qualcosa che era molto più insito... qualcosa che voleva capire, soprattutto.

 

«Take? Ti sei incantato?». Yuki, alle sue spalle, aveva appeno chiuso la porta. Fece due passetti, arrivando al lato destro del ragazzo, guardando anche lei di fronte a sé. Inclinò la testa, con una faccia confusa. «Cosa c'è di tanto interessante, là?».

Takeshi fece un sorriso, appoggiando i gomiti. «Molto più di quanto pensiamo».

«Molto più di quanto pensiamo... », ripetendo le sue parole, Yuki volse il viso verso il moro, guardandolo assorta per qualche istante. A proposito, ancora non sapeva perché lui e Tetsuya si trovavano proprio lì, in un momento come quello. «Ehy, dì un po'... perché eravate di fronte a casa mia?».

«Ah, quello, eh? Non te ne abbiamo ancora parlato, in effetti. Vedi, avevo intenzione di parlare con tuo padre e tua madre, a quattrocchi, e volevo farlo per conto mio. Ne ho parlato con Tetsuya e Yumi e... », il moro sospirò, con un sorriso beffardo. «... Tetsuya non voleva saperne di lasciarmi andare da solo».

Non voleva farlo andare da solo, pensò l'albina, perché sapeva quanto avrebbe rischiato la vita.

Sorrise. Quello stupido vampiro si era affezionato proprio per bene.

 

 

«Signorina Yuki, signorino Takeshi». Apparsa dall'angolo delle scale, con il respiro lievemente accelerato, Kukuri interruppe il flusso di pensieri di entrambi. La ragazza si aggiustò velocemente gli occhiali del naso, e fece un inchino con la schiena.

«Kukuri-chan», disse Takeshi, alzando le sopracciglia. «Ti prego. Non chiamarmi in quel modo, non sono nemmeno un aristocratico».

«Mi dispiace... non posso fare altrimenti. È questione di decoro, e poi voi siete una persona molto importante per la signorina, quindi... ».

«Lascia perdere, non riuscirai a farle cambiare idea», Yuki ridacchiò, per poi rivolgersi alla ragazza. «Dovevi dirci qualcosa?».

Kukuri sussultò, ricordandosi del suo compito, e annuì con un po' di imbarazzo. «Oh, sì; i vostri amici vi stanno aspettando nella Stanza delle Mappe. Il signorino Tetsuya mi ha chiesto anche di riferirvi che “dovete darvi una mossa, siete della dannate lumache”». Kukuri sollevò il polso, dando un'occhiata all'orologio da polso, e scrollò la testa. «Questo è tutto, adesso devo andare. Siamo un pochino in ritardo con la cena di stasera. Con permesso!». Dopo un altro inchino, la ragazza si voltò e con passo veloce scese le scale.

Yuki e Takeshi ne seguirono i movimenti per un tratto, finché il secondo non intervenne: «La Stanza delle Mappe?».

La mezzosangue annuì, staccando gli occhi dall'esile figura della cameriera. «Sì; è una camera che si trova sull'altra passerella. L'abbiamo chiamata così perché vi sono conservate tantissime mappe, carte e libri sulla geografia. Però, se devo essere sincera... ».

«Ha un qualche strano marchingegno?».

 

L'albina si mise a ridere. «Non che io sappia!», rispose. «Volevo dire che, ad essere sincera, non so bene che senso abbia o a cosa serve, specialmente perché abbiamo già una biblioteca».

«... questa frase è davvero assurda».

«Ah-ah. Vogliamo andare?».

 

 

Senza indugiare oltre, scesero le scale e si diressero verso la passerella parallela. Superate le prime quattro porte – sua sorella stava ancora dormendo, per lei era complicato stare sveglia durante il giorno –, i due arrivarono di fronte alla quinta. Yuki ruotò il pomello della porta verso destra e l'aprì, spalancandola del tutto.
Takeshi, che era alle sue spalle, inclinò la testa di lato per guardare all'interno; piuttosto grande e spaziosa, di forma rettangolare, aveva una lunga e grande tavolata al centro, stracolma di libri e cartine geografiche, penne e matite, e un candelabro appoggiato sul bordo, un po' in bilico. Al di sotto di tutta quella cianfrusaglia spuntava un drappo rosso dal motivo persiano, il cui bordo era tutto a frange.

La parete sulla destra era interamente occupata da una gigantesca libreria, fitta di tomi, e accanto a quella – tra il tavolo e la libreria – c'era un piccolo salottino, con un divano e una poltrona color sangria. A terra un tappeto dello stesso motivo del drappo e di fronte un caminetto spento, un po' impolverato.

 

«Alla faccia... », bisbigliò Takeshi, alzando l'angolo della bocca.

 

«Ragazzi!». Sayumi balzò dal divano, veloce come il vento, e corse dai due. Nonostante si fossero già salutate – calorosamente -, Sayumi non poté fare a meno di abbracciare l'amica, circondandole le spalle con tutta la forza che aveva.

«Yumi– », tossicchiò l'albina, battendole la spalla.

«Questa ragazza non conosce limiti, eh?», disse Tetsuya. Il vampiro si conteneva molto di più nelle reazioni, sebbene fosse davvero felice in quel momento. Si era appoggiato al bordo della lunga tavolata, con le braccia incrociate al petto, e osservava la scena con un sorriso sulle labbra.

«Nemmeno tu», rispose Takeshi, ridendo. «E non chiamarci “dannate lumache”, è rude».

«Ma è ciò che siete. Ci avete messo una vita». Il vampiro abbassò le palpebre, squadrando il viso del moro con sospetto velato – il suo sorriso si fece più intenso, con una punta di malizia. «Oppure abbiamo interrotto qualcosa?».

«Tetsuya!», quasi urlò Yuki, ancora immobilizzata nella presa di Sayumi. Appoggiò il mento sulla spalla dell'amica, continuando ad urlargli contro: «Sei davvero pessimo! Che insinuazioni fai!».

Takeshi non riusciva a smettere di ridere. «Se te la prendi così gli stai praticamente dando corda».

«Che c'è di male?», ribatté Tetsuya, chiudendo le palpebre e alzando le spalle. «Sono già sette mesi che state insieme. Persino io vi ho dato la mia benedizione».

 

Sette mesi? Era passato davvero così tanto tempo?

Se ci pensava un attimo, il periodo che avevano trascorso fino a quel momento era stato molto travagliato. Sostanzialmente, non c'era stata una settimana senza che qualcosa si mettesse fra loro. Sayumi si allontanò da Yuki, per poi guardarla negli occhi, tenendosi a lei per le spalle.

«Sembri più... », disse l'albina. «... adulta. Sei diversa, ecco». Infatti, lo sguardo nei suoi occhi azzurri si era fatto ancora più limpido. Anche mentre sorrideva, contenta di essersi ricongiunta con la sua amica, Sayumi aveva un qualcosa di serio e determinato... qualcosa che la faceva apparire come pronta a tutto.

Alle parole dell'albina, Sayumi inclinò la testa di lato. «Chissà?», disse. «Forse è così. D'altronde, durante la tua assenza, qualcosa è successo».

«Qualcosa... ? Ma», preoccupata, la mezzosangue lanciò delle occhiate ai suoi amici. «Stai bene? Non sarete stati attaccati, vero?».

«No, niente del genere», rispose Sayumi. «Ma te ne parlerò. Mi sembra giusto». Alzò il viso, spostando la sua attenzione su Takeshi per pochi secondi, rivolgendogli un sorriso stoico. Yuki seguì i movimenti dell'amica, la curva delle sue labbra. Non capiva. Non capiva per niente.

Ma andava bene così, Sayumi le avrebbe detto tutto.

 

Dopo qualche istante di silenzio, Tetsuya indicò alle sue spalle col pollice. «Perché non ci sediamo e non ci racconti qualcosa di Londra?».

Sayumi lasciò le spalle dell'amica e si voltò con una giravolta improvvisata, raggiungendo il vampiro. «Oh, sì! Non ci credo neanche morta che non hai niente da raccontare!».

«Ah, a dire il vero», cominciò l'albina, seguendoli fino al divano insieme a Takeshi. «Ho fin troppo da raccontarvi. La vostra curiosità sarà felicemente soddisfatta, miei sciocchi amici». Con una risata, si fermò in piedi di fronte al divano, su cui i tre si erano già accomodati, l'uno accanto all'altro, guardandosi fra di loro e guardando lei.

«Prima di tutto– ».

 



Ma a quel punto successe qualcosa.

 

La porta, che era stata richiusa, si aprì lentamente. Il suo cigolio echeggiò come un mantra, il legno della porta lamentò rumorosamente. Yuki non si era ancora girata, non ancora. Invece, il suo sguardo era ancora fermo davanti a sé, in quello interrogativo dei due esseri umani e in quello sconcertato del vampiro. A vedere il suo viso così turbato, le gambe divennero velocemente pesanti, come macigni – perché Tetsuya non si faceva prendere così alla sprovvista.
Allora, con la stessa lentezza della porta, Yuki ruotò i piedi di poco, quel tanto che le bastava per incontrare la porta.

 

E ritrovare così l'empia figura di Alyon Akawa.

 

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Capitolo 14
*** Il sangue più denso. ***


14.



 

Alyon Hendrik Akawa.

 

Era proprio lì.

All'ingresso della Stanza delle Mappe, le braccia incrociate al petto e la spalla contro lo spipite della porta. Era lì, davanti ai loro occhi, davanti gli occhi di Yuki – la sua figura, avvolta dall'oscurità.

Suo zio. Un uomo che non vedeva da cinque anni. Un uomo che solo con il suo sorriso metteva paura. Un essere che si trascinava uno strascico di morte come un mantello.

Yuki sentì l'aria venirle meno, il fiato farsi corto. Il panico, apparentemente senza motivo, stava sormontando come un'onda. Stava avendo sul serio un attacco di panico?

 

Nel corpo di un quarantottenne, suo zio sorrideva, come se stesse guardando qualcosa di estremamente divertente – cosa accidenti aveva da sorridere? Poi sollevò la mano sinistra, sfilandola dalle braccia conserte, e la agitò lentamente per salutare.
Era stato un gesto semplicissimo e quasi impercettibile, tuttavia la mezzosangue ci vedeva solo pericolo.

 

«Non ti azzardare», sibilò.

 

 

Alyon allora sollevò le sopracciglia, staccandosi dallo stipite per camminare verso la nipote, ad ampie falcate – fece solo qualche passo, tenendosi a debita distanza dai quattro. Non di certo per paura, ma per osservare i loro visi, studiare la giovinezza della loro pelle. Si soffermò su Tetsuya, e il vampiro biondo rimase immobile, in silenzio; egli era molto alto e slanciato, arrivando forse ad un metro e novanta, e possedeva una corporatura solida e ben piazzata.
La sua pelle era liscia come marmo e più scura di quanto ci si aspetterebbe da un vampiro, con qualche ruga attorno alla bocca; i suoi occhi, neri e trasparenti come un pozzo, erano marcati da profonde occhiaia.
Pensare che il tempo, nonostante i secoli che si portava alle spalle, non avesse intaccato il suo aspetto – faceva ben capire che stile di vita avesse condotto. Quante vite aveva strappato con quei denti.

 

Alyon aprì le labbra, sfoggiando un paio di canini lunghi e sporgenti. «Sei proprio una bambina».

Quella dannata voce. Non era più abituata al suo timbro. Al suo suono vibrante, alle parole indecifrabili che usava ogni volta.

Quando la sentì, la mezzosangue fece un ringhio, più simile a quello di una bestia che ad un animale – con un movimento fluido, si spostò di un passo, parandosi di fronte ai tre amici.

 

«Vuoi farti male? Vuoi che ti faccia del male?».

Alyon sogghignò brevemente, divertito dalle sue domande.
Il suo tono era ridotto al sibilo di un serpente, strisciante fra le caviglie della sua preda, silenzioso – voleva arrivare alla gola di quell'uomo per attorcigliarcisi.
Più lei guardava i lineamenti spigolosi del suo viso, le guance scavate e la chioma corvina e lucida sulle larghe spalle, più sentiva il sangue ribollire dalla rabbia. I canini fremevano abbastanza da farle male.

 

Sin da bambina, non l'aveva mai apprezzato; all'età di sei anni, gli unici sguardi che quel vampiro riusciva a ricevere erano di astio e sospetto. Era istinto a quel tempo, ben presto consapevolezza.
Ricordava quei tempi come se non li avessero mai lasciati.
Ricordava come Sebastian la prendesse per mano, con gentilezza, per portarla in un posto più tranquillo, ricordava come Tetsuya – poco più grande di lei – scrutava guardingo quel vampiro tanto antico.
Lei voleva solo che quella persona la smettesse di andare a casa sua e di infestare il salone da pranzo con quel ghigno. Voleva che andasse via e basta. Ora, invece, era diventata molto più egoista ed ambiva a ben altro.

Aveva sviluppato quello spirito combattivo che la teneva in vita.

 

 

«In qualche modo, tu mi conosci: sai che a prescindere dalla tua risposta, non mi tirerò indietro», parlando, Yuki fece un passo in avanti. «Tu sai che», un altro passo. «noi ti odiamo. Quindi, cosa ci fai qui? Cosa diavolo vuoi, ancora?».

 

C'erano solo cinque, importanti e vitali passi ad ostacolare uno scontro.

Ironicamente, Alyon non aveva ancora fatto niente per farsi ammazzare. Si era limitato a salutare sua nipote con un grosso sorriso e il resto della combriccola con la mano. Era stato fin troppo educato, evidentemente. Il punto era, infatti, che la mezzosangue non poteva sopportare nemmeno il suo modo di respirare.
Riusciva ad udirlo, a cinque passi di distanza, calmo e quieto. Non aveva nessuna paura, né delle minacce della nipote, né di trovarsi in un campo nemico.
L'uomo piegò il capo da un lato, lasciando scivolare i capelli neri oltre la spalla – non aveva ancora smesso di sorridere, con quella strana e inquietante eleganza. «Sì, ti conosco. Ma non ho ancora avuto l'onore di sapere perché tanto odio nei miei confronti».

«Forse perché ti porti dietro una scia di morte e distruzione. Da te non arriva mai niente di buono», ringhiò lei. «Mai

Serrò i denti finché non senti le gengive dolerle – poi, come risvegliata dal torpore di un sogno, ricordò che non era da sola in quella grande stanza. I suoi amici erano proprio lì, a qualche metro da lei, in pieno pericolo, così come Ai, che era a qualche porta da loro.

 

 

I loro occhi si incrociarono.

Oro e nero si scrutarono, si giudicarono e cominciarono ad attaccarsi, prima ancora del vero contatto fisico. Anche quell'uomo non si tirava mai indietro e vantava uno spirito combattivo piuttosto tenace.

Yuki ruotò i piedi, impercettibilmente, e da sotto la suola delle scarpe serpenti di elettricità iniziarono a diramarsi sul tappeto; fece allora un altro passo, percependo il suo elemento mentre vibrava sotto i piedi. Si infilava nel tessuto intrecciato del tappeto e cominciava ad espandersi, sempre di più, per formare un cerchio intorno a lei – l'elettricità stessa era consapevole di non potersi allargare più di così.

Alyon approfondì il ghigno e aiutò la nipote ad accorciare quella vitale distanza, compiendo un passo in avanti. Poi alzò la mano sinistra e... la porta si spalancò con forza, con un boato.

 

 

«Basta così».

Kazumi Akawa era entrata nella stanza.

 

Le scosse elettriche dell'albina si ritrassero velocemente ma indispettite, mentre Alyon metteva la mano sinistra dentro la tasca dei pantaloni, con un gesto disinvolto. Entrambi si voltarono verso il punto in cui avevano sentito la voce della donna, in direzione della porta.
Accanto a lei, Oseroth. Entrambi avevano i visi coperti da un velo di serietà.
Alla vista dei coniugi, il vampiro indesiderato scoppiò a ridere. «Ecco, proprio chi desideravo vedere! La mia carissima sorella e mio cognato. Lieto di vedere entrambi in salute».

Tetsuya si lasciò sfuggire uno sbuffo, basso e appena percettibile. Quell'uomo non faceva altro che mentire.

 

Yuki raddrizzò la schiena e prese una boccata d'aria.

Salvato in calcio d'angolo, pensò, e magari questo calcio ti arriva in c-

 

 

«Alyon, ti serve qualcosa? Ma soprattutto», Kazumi si allontanò dalla figura del marito e poi sorpassò la lunga tavolata, giungendo al fianco destro della figlia, senza staccare gli occhi dal vampiro per nemmeno un attimo. «come fai ad essere qui?».
Anche Oseroth si era intanto staccato dalla porta spalancata, a larghi passi, fino ad affiancare la figlia a sinistra. Quando li vide tutti e tre insieme, con la figlia al centro, Alyon si decidette a rispondere. «Domanda legittima, risposta semplice. Mi ero stancato di quel posto. Così sudicio, noioso. Credo che al Consiglio sfugga il significato di “tenere a modo”, sapete?», e alzò le spalle.

«In pratica, le cose ti andavano male e hai deciso di venire qui a farti uccidere?», proruppe Yuki. «Che ideona, bravo!».

«Sei molto più simpatica adesso che da mocciosa. Nipote, non vorrei fare il guastafeste, davvero, ma... c'è un abissale differenza fra me», sollevò un indice, indicando prima se stesso e poi lei, flemmatico – con le fiamme negli occhi neri. «e te».

«Non avevo dubbi», Yuki roteò gli occhi. «che tu fossi l'ennesimo pompato che vuole ricordare al mondo quanto siano miserabili i mezzosangue».

«Se fosse quello il problema... ma ti posso assicurare che non lo è. Non solo, per lo meno. D'altronde, anche lei era una mezzosangue».

«Lei?», disse l'albina, perplessa, aguzzando gli occhi. «Ma che stai farneticando? Lei chi?».

«Alyon», la voce di Oseroth era ferma, imponente, simile al rimbombo di un tuono. Avanzò di un passo e alzò il mento per guardare dritto negli occhi quell'anarchico vampiro, quell'apocalittico uomo.
I loro occhi si intercettarono, violenti e amici di un odio reciproco. «Vattene da casa mia e non farti più vedere».

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

 

In via del tutto eccezionale, Alyon non aveva risposto alle parole di Oseroth e, seguito da lui, era arrivato alla porta d'ingresso ed era uscito, in silenzio tombale.
Ormai era andato via. Adesso, erano al sicuro. Tuttavia, solo dieci minuto dopo i presenti riuscirono a sospirare di sollievo, chi più forte, chi un po' meno.

Sembrava essere finita, per il momento.

 

«Che tipetto», disse Sayumi. «Simpatico!».

«Visto che siete sotto la nostra supervisione, non avreste rischiato in ogni caso», ribatté Oseroth, quando fu tornato nella stanza. «Ma– ».

«Non poteva fare nulla», lo interruppe Kazumi. Il demone guardò la moglie, soppesando per brevi secondi le sue parole, poi annuì.

«D'altronde era da solo contro cinque».

Kazumi stava per condividere la sua frase quando si fermò per elaborare meglio la sua risposta – e socchiuse le palpebre guardandolo di traverso. «Hai contato Ai? Avresti davvero fatto combattere una bambina? Davvero?».

«Ai non è più una bambina. Ti ostini a vederla in quel modo perché sei sua madre».

 

I coniugi, probabilmente, avevano dimenticato che intorno a loro c'erano altre quattro persone e tra queste una in particolare aveva i nervi a fior di pelle. La primogenita aveva davvero grossi problemi a mantenere la calma in quelle situazioni, quando i suoi genitori cominciavano a discutere come se fossero da soli.
Si era seduta sulla poltrona singola di fianco al divano, con la gamba sinistra accavallata sull'altra e le braccia appoggiate ai braccioli. Le mani li stringevano come salvagenti. Lo sguardo irruente schizzava da una parte all'altra.

«Ai non è una bambina e ve lo posso assicurare. Sa usare i suoi poteri, come ha fatto con Tetsuya. Anche se questo non vuol dire che dovrebbe usarli, dal momento che conosciamo la conseguenze», disse, trattenendo a stento l'accidia.

Oseroth ruotò il busto verso la figlia. I suoi occhi erano tutto, fuorché felici. Erano arrabbiati, molto arrabbiati – il rosso scarlatto che brillava nelle iridi ne erano la prova. «Noi due dobbiamo parlare».

«Già», rispose Yuki. «Dobbiamo parlare».

«Caro, aspetta... ».

«No. Kazumi, ha disubbidito ad un ordine. Deve essere punita».

«Ma– ».

«Ma, niente. Non può fare quello che vuole e quando vuole, e tu non puoi proteggerla ogni volta. Deve imparare a– ».

«DACCI UN TAGLIO!».

 

 

Calò il silenzio. La bella e posata Kazumi aveva appena urlato. Quella scena era così surreale che Yuki fu tentata di darsi un pizzicotto.

«Yuki non è una bambina e non è di certo pazza, sa quello che fa. Lasciale fare ciò che ritiene giusto e smettila di fare il vecchio rimbambito!».

«Oddio», disse Sayumi.

«Oddio sì», fece eco Takeshi.

 

Oseroth guardò sua moglie, calmo, perché si aspettava che la donna avrebbe – primo o poi – reagito in quel modo. D'altronde, la conosceva da tre secoli – non per nulla. «Forse hai ragione. Sto esagerando», si voltò verso Yuki. «Ma tu vedi di fare attenzione. Non gira tutto intorno a te».

«Ah... okay, farò attenzione».

 

 

Tetsuya si schiarì la voce con qualche colpo di tosse. «Tornando al discorso di Ai, sicuramente è cresciuta ormai, ma i suoi poteri non possono permetterle di prendere parte a degli scontri così violenti. E Yuki non provare a negarlo, sappiamo entrambi che sarebbe stato un casino».
Tetsuya sapeva bene quanto spesso in quella famiglia c'erano pareri discordanti e che non era mai buona idea metterci bocca, ma... stavano parlando di Ai e non poteva star zitto. «Sarebbe come mettere un cecchino in prima linea, proprio di fronte al nemico».

«Quindi, come dicevo, dovrebbe stare al sicuro invece di prendere parte a certe stupidaggini».

«Kazumi–».

«Sto dicendo che è meglio aspettare che cresca ancora e diventi più robusta, se proprio deve infilarsi in certe situazioni», aggiunse Tetsuya.

 

 

Oseroth sospirò, girando il volto dall'altra parte. Odiava ammetterlo ma era d'accordo con il ragazzo; odiava ammettere che aveva più buon senso di due esistenze antiche come lui e sua moglie.
Ai doveva essere protetta; protetta da chi si arrischiava così tanto per possedere il suo potere. Oseroth non se la sentiva di escludere figure come Alyon e il Consiglio. In ogni caso, qualsiasi fosse la verità, doveva fare qualcosa.

«Credo che... », tornò a guardare Yuki. «... sia arrivato il momento».

«Per? Lucidare la scrivania?».

«Yuki».

«In realtà», Kazumi parlava sottovoce, guardando in basso. «Avremmo voluto aspettare una volta che io fossi morta, maa se Alyon è in libertà non– ».

«Cosa diavolo stai dicendo?», urlò l'albina, scattando in piedi dalla poltrona. «Di cosa accidenti state parlando? Perché dovresti morire? Voi due... ». Si fermò, scostando lo sguardo dal duo – che istintivamente ricadde su Takeshi.

 

 

Lo guardò.
Anche con quell'espressione dubbiosa e preoccupata, Takeshi era la sua ancora in mezzo all'oceano. Il suo meraviglioso punto di riferimento, la sua bussola.
Lui le stava restituendo lo sguardo, con gli occhi attenti e la bocca serrata. Adesso, Yuki poteva parlare con coraggio.

Si voltò, osservando i suoi genitori. «Voi due, naturalmente, avrete dovuto nascondere delle cose. Non posso farvene una colpa assoluta; siete intelligenti, devo ammetterlo, e avrete avuto i vostri motivi per farlo. Adesso sembra essere il momento giusto per rivelare ogni cosa. Basta segreti».

Oseroth e Kazumi si guardarono e, alla fine, annuirono lentamente. Basta segreti.

 

 



 

 

***

 

 

 

 

 

Contrariamente da come avevano sempre pensato Takeshi e Sayumi – gli unici a non aver familiarità con quella casa –, accedere a dei sotterranei era molto più semplice di quanto si poteva immaginare, addirittura più veloce che arrivare alla soffitta; bastava recarsi nel grosso ingresso, aprire la porta nel sottoscala e spostare un paio di cianfrusaglie dal pavimento.
Proprio lì, sepolta da secchi, scatole, vecchi stracci e spazzoloni, c'era una botola in acciaio.

Ovviamente, Sayumi non era più nella pelle di visitare quei posti.

 

«Come al solito», sospirava Yuki, le mani sui fianchi. «stai esagerando. Questa è praticamente la parte inferiore della casa, la parte umida, fredda e buia. Come fai ad essere così contenta?».

«Yuki, Yuki. Per te non saranno niente di ché, potresti persino odiarli, ma per qualcuno che ha sempre vissuto in una normalissima casa questo è decisamente interessante. E poi non sono una ragazzina da quattro soldi, un po' di freddino o di buio non mi ucciderà».

«Sì, sempre ammesso che non ci siano problemi, là sotto».

 

 

Oseroth, che era impegnato a spostare tutta quella roba ammassata insieme a Takeshi, aveva sentito le parole della figlia e le aveva lanciato un'occhiata di traverso, come se volesse ammonirla di andarci piano con le confidenze.
Già, qualche volta era capitato che quei sotterranei fossero stati presi in prestito da qualche imbecille che se l'era presa con l'albina; era successo due, tre volte, e ormai quel posto aveva raggiunto un certo livello di sicurezza.

Yuki alzò le spalle, con fare noncurante, mentre faceva un sorriso all'amica. «Se ti piaceranno anche dopo, potrei lasciarti questa casa come regalo, quando avremo levato le tende».

«Scherzi? Sul serio?».

«Yuki, cara, potresti evitare di lasciare i nostri beni in modo così sprovveduto... ?», aveva detto Kazumi, con un tono di voce a metà fra l'esasperato e il rassegnato.

 

«Ci siamo». Tetsuya richiamò l'attenzione delle signore, indicando poi il demone e il moro mentre sollevavano la botola dal manico, tirandola su fino ad appoggiarla contro il muro; tra sinistri cigolii, Oseroth era sceso per primo grazie ad una scala a pioli; poi c'erano stati Tetsuya, Takeshi e Kazumi.
Era giusto che Takeshi fosse in mezzo ai coniugi e all'amico vampiro perché sapeva che la prudenza non era troppa e potevano difenderlo. L'albina aveva invece aspettato, con l'intenzione di scendere per ultima, per guardare personalmente le spalle dell'amica.

 

 

«Ti seguo appena scendi, forza».

Sayumi annuì brevemente ed avanzò verso quello che, guardandolo dai suoi occhi, appariva solo come un largo buco nero, fitto di oscurità. Poteva distinguere a fatica le figure degli altri al di sotto. Poi sentì la voce di Takeshi, che la chiamò. «Yumi? Sei viva? Ci sei?».

C'era, sì che c'era. Solo che, all'ultimo secondo, si sentiva estremamente tesa – all'idea di gettarsi nel petrolio. E se ci fossero stati mostri terrificanti? E se doveva davvero preoccuparsi di qualche demone o vampiro introdotto di nascosto? E se – proprio mentre stava per porsi l'ennesima domanda, un piede le colpì leggermente il sedere. «Ahio!».

«E allora datti una mossa, non abbiamo tutta la vita!».

«Sì sì, vabbene!».
Due secondi dopo, stava scendendo traballante la scala a pioli, mettendo lentamente un piede dopo l'altro e infine, con molta attenzione, toccò il pavimento con la punta della scarpa.
Quando fu giù, come aveva immaginato, le tenebre erano così dense che non riusciva a vedere nemmeno i suoi piedi; tentennando e stringendosi le spalle con le braccia, fece un passo in avanti – in quel momento, una folata di vento proveniente dall'alto la fece rabbrividire.

Con la pelle d'oca, Sayumi aggrottò la fronte, cercando l'amica in mezzo al nulla. «... non potevi usare la scala? No, eh?».

Yuki si stava spolverando la gonna con qualche pacca, tranquilla, per poi alzare il volto verso Sayumi. La raggiunse con due passi, prendendole la mano saldamente, trascinandosela dietro per potersi avvicinare a Takeshi e prendere anche la sua.
Con le labbra leggermente incurvate, alzò le spalle. «Dal momento che non ci vedete un accidenti».

«Sembriamo bambini dell'asilo... ».

«Shhh, stai zitto! Godiamoci il momento prima che scappi via».

«Più avanti ci sono delle lanterne», aveva detto poi Tetsuya, dal cui tono si capiva quanta voglia avesse di scherzare.

 

 

I sotterranei vantavano una certa profondità. Le pareti di mattoni si univano al soffitto formando un arco e il pavimento era primitivo e pieno di polvere. Di fronte alle scale, c'era una porta grigia. Non c'era assolutamente nulla, lì.
Solo dopo un paio di metri più avanti, quando ormai gli occhi si erano abituati al buio, spiccò un tavolo con al di sopra quattro lanterne. Tutti, eccetto Oseroth e Tetsuya, presero una lanterna e l'accesero, continuando dopo poco il tragitto.

«Sei stata qui spesso?», disse Sayumi.

«No, non proprio... qualche volta, ma non mi sono mai allontanata molto dalle scale».

«E che ci venivi a fare?».

«Beh», fece l'albina, alzando le sopracciglia. «È un posto così interessante che bisogna scenderci ogni tanto, no?».

«Ah-ah. Ti ho capita, ora piantala».

 

 

Dopo un po' di tragitto, raggiunsero quella che era una porta a due ante; alta e stretta, fino al soffitto, ricordava un enorme albero per la sua imponenza. Su entrambe le ante vi era l'incisione a basso rilievo di una quercia, i cui rami si diradavano fino ai bordi. A giudicare dalla luminosità, doveva essere fatto di vero oro, mentre la porta era di un nero opaco.

Tutto intorno non c'era altro, nessuna uscita, nessuna strada secondaria.

Solo quella porta.

Kazumi e Oseroth vi si avvicinarono. La prima rimase ferma, di fronte ad essa, con una mano sul petto a tenersi lo scialle. Oseroth le era ad un passo di distanza e il suo sguardo si era fatto addirittura malinconico, una visione che nessuno si sarebbe sognato di vedere.
La mezzosangue non sapeva cosa pensare. Cos'era quella porta? Cos'era tutto ciò? Ci era scesa appena tre volte in quel posto e non si era mai spinta così in profondità. Ma se avesse saputo che lì sotto si nascondeva qualcosa...

 

Nel silenzio, la vampira dai capelli rossi appoggiò i palmi delle mani contro la porta e iniziò a spingere. Le due ante cominciarono lentamente a muoversi verso l'interno, producendo un intenso rumore, e per un attimo le pareti dei sotterranei vibrarono come durante un terremoto.
Istintivamente, Yuki alzò il viso verso il soffitto, mentre faceva qualche passo indietro – quel posto non le ispirava molta fiducia – e anche Takeshi e Sayumi si guardarono intorno.

 

 

La porta era aperta. Lo spazio era sufficiente per far passare una persona.

Kazumi tolse le mani e si girò, guardando la figlia con un espressione seria in viso. «Vieni, cara».

«Dovrei... venire là? Cioè, devo entrare in quella stanza?».

«Sì, esatto. In questa stanza», Kazumi annuì. «possono entrare solo le Akawa e tu, come tale, hai il diritto di farlo. Il diritto, ma anche il dovere».

 

Yuki deglutì e avanzò per raggiungere la madre. Non era per niente sicura di quello che stava facendo. Più guardava quell'albero, più si sentiva tesa – e lo sguardo austero della madre non l'aiutava affatto a scacciare quella sensazione maligna al petto.
Ciononostante, ormai era lì e doveva andare in fondo a quella storia. Quando le fu accanto, Kazumi le prese la mano ed entrò per prima attraverso il piccolo spazio fra le due ante. L'albina la seguì subito dopo, senza lasciare la mano della madre.

 

 

Una volta dentro, sentì la mano di Kazumi scivolarle via.

Era una stanza piccola. Il soffitto era abbastanza alto ma le pareti color crema, di fronte e quelle laterali, rimpicciolivano l'ambiente. Kazumi aveva premuto l'interruttore e il lampadario di bambù aveva illuminato la stanza, rivelando un tavolo basso e stretto di mogano al centro; sul tavolo c'era un pezzo di stoffa rossa e sopra questa un lungo contenitore di pelle, chiuso.
Alle spalle del tavolo, quello che sembrava un piccolo altare. Qualche candela, che emanava profumo di vaniglia e un quadro ad olio, di medie dimensioni, che ritraeva qualcuno. Una giovane donna, di appena vent'anni.
La donna era rappresentata seduta su una poltrona elegante, in un abito rosso dalle maniche a campana,con uno spazio scuro a farle da sfondo; seduta composta, aveva una mano in grembo e l'altra posata sul braccio della poltrona, e un sorriso leggero sulle labbra sottili.
I lunghi capelli biondi scendevano oltre i fianchi come una cascata di oro fuso e gli occhi, del medesimo colore, guardavano dritti davanti a sé senza la minima esitazione.
Ed era... la copia sputata di Yuki. Erano identiche.

Solo dopo, a quel punto, Yuki fece caso alla tiara che brillava sulla sommità del capo biondo – si voltò, guardando la madre con gli occhi sgranati.
Kazumi non diceva nulla, rimanendo invece a scrutare il ritratto – poi aveva indicato alla figlia il contenitore sul tavolo. «Devi aprirlo».

 

La mezzosangue serrò la mandibola e annuì lentamente. Sbloccò le chiusure del contenitore e sollevò il coperchio. 


Lì, immersa nel velluto, riposava una katana.

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Capitolo 15
*** Un'antica giustizia. ***


15.



Una nodachi*.

La lama era lunga 140 cm e la parte non temperata brillava di una luce azzurra; l'elsa era di pelle squamosa, bianca, intrecciata da un nastro rosso che fungeva da rivestimento. La guardia era bianca e doppia, e sulla parte piatta della lama c'erano delle incisioni non troppo profonde che rappresentavano delle fiamme e all'interno di esse spiccavano tre spinelli rosso scarlatto.
Steso accanto vi era il fodero nero, con un cordino rosso annodato verso la cima.

 

Yuki e Kazumi si ostinavano a guardare la katana; lo sguardo di Kazumi, in particolare, era come quello di un parente che guarda la tomba di un suo caro.
Quella katana stava esercitando... una strana attrazione. Yuki non sarebbe mai riuscita a spiegarlo a parole.

 

In quella piccola stanza, illuminata fiocamente dalla luce del lampadario di bambù, il silenzio era fitto e quasi rimbombante. L'albina non aveva la più pallida idea di cosa pensare, né tanto meno cosa potesse dire, e Kazumi era totalmente assorta.

 

«Hai capito chi è la donna nel ritratto, Yuki?».

La mezzosangue guardò di nuovo la donna del quadro. «Sarebbe preoccupante se non l'avessi capito. Quella tiara parla chiaro. La cosa che non capisco è... è perché ci somigliamo».

La vampira raddrizzò le spalle e la figlia si voltò verso di lei, aggrottando la fronte. «E poi, mi spieghi perché abbiamo un quadro dell'Imperatrice Lilith?». Alla sua domanda, Kazumi fece un sorriso, quasi trasparente, e la invitò ad avvicinarsi all'altarino. La ragazza accettò, un po' riluttante, e quando furono davanti all'altarino Kazumi toccò con la punta delle dita la tela, saggiandone rispettosamente la leggera ruvidezza.
Più l'albina la guardava, più sembrava di avere uno specchio di fronte.

«Il cognome dell'Imperatrice era Akawa».

 

A quelle parole, Yuki sentì la mandibola caderle ai piedi. Sentì uno scricchiolio, da qualche parte dentro di sé, le labbra le tremarono vistosamente.

Forse aveva sentito male.
Forse non aveva detto davvero... che l'Imperatrice era un Akawa. No, non era possibile. Sì, i suoi occhi erano color oro, ma questo non significava necessariamente che loro fossero... imparentate. No, non era possibile, semplicemente.
«Ma cosa stai dicendo?», sbottò. «Non è scritto in nessun testo che l'Imperatrice fosse della famiglia Akawa! Anzi, non è dato sapere nemmeno quale fosse il suo cognome».

«Pensaci un attimo. Tu sei sicura che sia così?», disse Kazumi, fissando i propri occhi in quelli della figlia.

«Beh... ».

Lo era? Non lo era?

Chiuse le mani in pugni. «Beh, sì. Ne sono sicura. Non è scritto in nessun testo, nessuno ne ha mai parlato, men che meno voi, per cui... ».

«Lascia che ti racconti meglio». La donna si allontanò dall'altarino e si sedette su una sedia posta davanti alla parete sinistra. Una volta sedutasi, appoggiò una mano in grembo mentre con l'altra si teneva lo scialle intorno alle spalle. Con lo sguardo un po' perso, cominciò a parlare. «Tutti noi sappiamo che Lilith era destinata a diventare la nostra Imperatrice e Bael il nostro Imperatore, è alla base della cultura sia dei vampiri che dei demoni. Ciò che tutti non sanno – eccetto poche, pochissime persone – è da quali famiglie provengono. Lilith... lei nacque sotto il nostro cognome».

Yuki scosse la testa. «Mi dici com'è possibile? È morta troppo giovane per far proseguire la stirpe».

«È vero, è morta giovane, ma è altrettanto vero che ebbero una figlia, di nome Rujiya».

«Gli Imperatori hanno avuto una figlia?», ripeté Yuki. Questo avrebbe permesso al casato di non estinguersi, in effetti.

«Sì, hanno avuto una figlia. Una figlia mezzosangue».

 

Yuki dovette appoggiarsi alla parete perché le gambe non riuscivano più a sorreggerla.
Una mezzosangue. Sì, ovvio, non è che lei e Ai fossero le uniche in tutto il mondo – in tutta la storia; ma pensare che addirittura un personaggio così importante dovesse fare i conti con una natura tanto distorta, beh, cambiava le carte in regola.
Yuki guardò la madre, pallida in volto, e andò a sedersi sullo scalino che precedeva l'altarino.

Lilith e Bael, Rujiya. «Quindi esiste una figlia».

«Esisteva. È morta da molto tempo. Ma anche lei, come i suoi genitori, ha conosciuto qualcuno e hanno avuto dei figli, tra cui una femmina, cioè tua nonna. Dopodiché, sono nata io e ho conosciuto tuo padre, come ben sai, nel 1848», disse Kazumi. «C'è un'altra cosa che dovresti sapere, a proposito della famiglia Akawa. Poco dopo la morte di Lilith, noi donne Akawa abbiamo iniziato a prendere il titolo di “Guerriera dorata”».

Yuki, che aveva messo la testa sulle ginocchia, sollevò il volto lentamente – perplessa. «... “Guerriera dorata”? Scusami ma... questo nome è un po' ridicolo».

«Non essere sciocca. È la storia della nostra famiglia, ne è parte integrante. Non è affatto ridicolo».

«E perché noi donne dovremmo portarci dietro questo... titolo?».

«Stavo per spiegartelo», Kazumi abbassò le palpebre. «Nella nostra famiglia, le donne hanno sempre posseduto un forte potere, questo lo saprai persino tu. Questo potere l'abbiamo ereditato dall'Imperatrice – colei che fu la prima fra tutte, la più tenace, la più antica». La vampira aprì gli occhi. Una luce brillava nelle iridi. «E fu in suo onore che venne creata la nomea di “Guerriera dorata” – e qualche volta, “Condottiera del sole”».

«In parole povere, è alla stregua del “cavaliere” o della “guardia reale”?».

«Sì, diciamo di sì».

«Ho capito», diceva di aver capito, ma sentiva la testa pesante e quelle informazioni non facevano che farla arrabbiare. Era imparentata all'Imperatrice – ma va, davvero? E lei che pensava di avere una famiglia strana e fastidiosa. E invece erano molto più di questo.

Poi, come un flash, le venne in mente qualcosa. «Aspetta. Tutta questa storia, questi legami, non ne sa niente nessuno perché c'entra il sangue misto? L'hanno tenuto nascosto per questo?».

Kazumi annuì lentamente. «Sì, bambina mia, purtroppo è proprio a causa di questo; quando nacque Rujiya non vennero sollevate polemiche perché le unioni fra vampiro e demone erano viste ancora come un atto naturale. Poco dopo... », si fermò un istante, chiudendo gli occhi, come se provasse dolore al ricordo – vivido sulla pelle, sebbene lei non fosse nemmeno nata all'epoca. «... quando gli Imperatori morirono, Rujiya lasciò il paese. Non ha voluto rievocare il suo diritto sulla corona. Mia madre mi ha raccontato tutto questo e lei, a sua volta, ha saputo l'intera storia da Rujiya in persona. Quindi, Yuki, questa che ti sto raccontando è la verità più attendibile che potresti mai ascoltare. La nostra storia non è stata scritta così accuratamente perché per gli altri è una vergogna. Il nostro dolore non ha conosciuto nessuno se non noi stesse. Mi dispiace».

 

Kazumi aveva un velo di rabbia sul viso, cereo e di porcellana, ma anche in quelle vesti era una bellissima donna. L'albina guardò sua madre e non sapeva cosa fare. Non sapeva cosa provare, arrivata a quel punto – doveva seguire il suo esempio ed arrabbiarsi?

Eppure, erano passati secoli, e sembrava troppo tardi per rivendicare un'ostilità tanto antica.

«E quella katana? Perché me l'hai fatta vedere?», chiese, sottovoce.

Kazumi allora sollevò il mento e indirizzò lo sguardo verso il contenitore lasciato aperto. Improvvisamente, scoppiò in una leggera risata, cristallina ma afflitta. «Quella è solo un'altra cicatrice della collezione; quella katana è stata forgiata poco prima della morte di Lilith in suo onore. Dentro la sua lama, dormono le anime di tutte le Akawa precedenti. Tutte noi, alla nostra morte, finiamo proprio lì dentro, per tutta l'eternità».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

La prima cosa che avevano visto era il suo viso segnato da un profondo shock. Era uscita dopo la madre, con lo sguardo che trafiggeva la pavimentazione primitiva dei sotterranei, gli occhi spenti e le labbra chiuse in una linea. Si era girata e aveva chiuso la porta, stavolta l'aveva fatto lei.
La seconda cosa che era spiccata alla loro attenzione era un oggetto nella sua mano destra. Una spada, la cui lama estremamente lunga tagliava l'aria ad ogni passo.

Poi erano tornati sopra, nella residenza, e Yuki aveva detto ai suoi amici di andare nella sua camera a parlare. Immersi nella penombra, si erano seduti sul letto a baldacchino e l'albina, con le spalle tremanti, aveva raccontato tutto ciò che aveva saputo da Kazumi.
Aveva cercato di farlo in modo chiaro. Aveva cercato di dare un senso alle sue parole. Ma tutta quella storia, di senso logico, non ne aveva nemmeno un grammo: perché era un'ingiustizia bella e buona.

Alla fine si era coperta il viso con le mani e aveva respirato profondamente. Sentiva che voleva piangere, ma sentiva anche che il pianto non le avrebbe risparmiato quella folle fine.

Dentro la lama di una katana? Che assurdità erano?

E lei e l'Imperatrice erano così simili; la stessa forma degli occhi, le stesse labbra, lo stesso tono di pelle, il colore delle iridi, l'ovale del viso.

 

 

«Hanno... legato le vostre anime... ad una katana», disse Tetsuya, lentamente, scandendo le parole. «Una strega ha fatto questo, è... è assurdo. No, è totalmente fuori dal mondo».

«Ma una cosa del genere, esiste davvero?», sussurrò Sayumi. «Le streghe esistono davvero?».

«Esistono. Ora lo sappiamo per certo», Takeshi si massaggiò il setto nasale fra le dita, chiudendo le palpebre.

«Quando pensavamo che i demoni e i vampiri fossero già roba da non credere. E come se non fosse abbastanza, sei strettamente legata alla vostra Imperatrice», sospirò Sayumi.

Scosse la testa e poi, con dolcezza, presa una mano dell'amica e la strinse. Voleva darle tutto l'affetto di cui era capace, ma... . «Mi dispiace. Questa storia è uno schifo ma tu stai sicura, stai sicura che non ti lasceremo da sola ad affrontarla. Non ti lasciamo nemmeno per un secondo. Mai».

«Yumi... non lo so. Non so se sia la cosa giusta. Più questa vita va avanti, più vengono fuori episodi sconcertanti. Succedono sempre queste cose assurde. Prima Makoto», gli occhi le si fecero lucidi. «poi quel bastardo di Ichiro, dopo vengo spedita come un pacchetto postale a Londra e adesso questo. Io, di questa katana, non so proprio che farmene!».

Si alzò, mettendosi sulle ginocchia; nella mano destra stringeva l'impugnatura e nella sinistra il fodero della spada, come se volesse piegarla in due. La luce calda dell'abatjour accarezzava la guardia bianca e la faceva risplendere lievemente, come il cielo alle prime ore del mattino.

«Io dovrei tenere questa robaccia? Com'era il suo nome?».

«Anima», sussurrò Sayumi.

«Anima, giusto. Ti chiami Anima. Cos'è, una battuta? Ti chiami così perché le nostre anime ci andranno a finire dentro, una volta morte? E poi cosa succede, rimaniamo lì in eterno a vagare, disperate, sole? E mia madre è venuta a dirmi che questo schifo di spada si passa da figlia in figlia. Non prendermi in giro. Mia figlia non avrà questa roba. Questa è solo una tomba».

Tirò le braccia indietro e poi, con violenza, la scagliò in avanti – la spada picchiò contro la parete, producendo un suono morto e poi un tintinnio.

 

Quel tintinnio era solo la lama.

Era solo la lama.

Non erano le anime che si agitavano, all'interno. Non erano loro.

 

Non erano loro.

 

Yuki si buttò sul letto, tappandosi le orecchie con le mani, raggomitolata come un cane bastonato – mentre i suoi amici le stavano vicino.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Era passata una settimana da quella sera.

Sayumi, quella notte, era rimasta a casa dell'albina per starle vicina, e avevano dormito insieme nel letto a baldacchino. Sayumi le aveva stretto la mano, osservando il suo viso, preoccupata.

Aveva avuto il tempo di elaborare e gestire quelle novità, di accettarle e rendersi conto che, ormai, erano fatti a cui lei non poteva porre rimedio. Aveva persino pensato a delle scorciatoie, qualche soluzione; magari avrebbe potuto rompere la spada – scioglierla, tritarla, demolirla – ma poi cosa sarebbe successo alle anime al suo interno?
Quindi, almeno adesso, aveva accettato quella realtà.
Eppure, la sensazione che si fosse svegliata di un secolo in ritardo rispetto a tutte le altre Akawa era vividissima.

 

 

Da quel giorno, aveva fatto dei sogni.

Aveva sognato l'Imperatrice e i suoi lunghi capelli lisci e biondi, aveva sognato una bambina che si faceva chiamare Rujiya e sua madre Kazumi da piccola, davanti ad un camino, mentre ascoltava quella storia con le lacrime agli occhi.
Aveva rivisto quel teatro immerso nel sangue e nelle grida.

 

Madida di sudore, il campanello l'aveva svegliata.

 

Ding dong.

Yuki spalancò gli occhi, come un cervo accecato dai fari. Prima di riuscire a mettere a fuoco il soffitto della stanza le servì qualche minuto, tempo in cui cercò di rendersi conto cos'è che stava succedendo – ah, ecco. Avevano suonato il campanello, giusto.
Il suono era riecheggiato per tutta la residenza come l'ululo di un fantasma, raggiungendo la camera della mezzosangue.

Pigramente, allungò un braccio verso il lato sinistro del letto, alla ricerca del cellulare che la notte prima aveva abbandonato – ricordava di averlo lasciato sotto il cuscino.

Lo agguantò, portandoselo davanti al viso: 06.10.

Le sei. E dieci.

 

Chi è il dannato imbecille che..., di nuovo, il campanello suonò, facendole vibrare le orecchie come se le fosse affianco. Yuki aggrottò la fronte.

Ding dong.

A quell'ora qualcuno doveva pur essere sveglio. Suvvia, non era possibile...

Ding dong.

 

«Li licenzio tutti. Questa è una promessa». Le sue imprecazioni risuonarono quasi più insistentemente di quel dannato campanello mentre si allacciava la vestaglia e scendeva rapida i gradini delle scale.
In qualche secondo, era giunta di fronte all'alta porta a doppia anta. Tossendo, si decise ad aprire, prima di dargli il tempo di suonare nuovamente quell'aggeggio; fuori dalla porta, con sua sorpresa, c'erano una ragazza e un ragazzo, di bell'aspetto.

Un po' troppo, pensò di riflesso lei, la mano appoggiata sulla porta.

 

Faccia a faccia, fu la ragazza sconosciuta a parlare per prima, con un sorriso educato sulle labbra e una voce delicata, «Buongiorno», mentre il ragazzo al suo fianco faceva un inchino, piegando il capo e la schiena.

Yuki, con un diavolo per capello, stava già per mettergli le mani al collo, quando lei infilò le sue nella borsa a tracolla che pendeva al fianco; un attimo dopo ne tirò fuori una lettera imbustata, nera come la pece, e la porse all'albina, senza mancare di sorriderle cordialmente.

«Da parte di suo zio».

«Mio zio? Ah, certo, ora capisco perché mi sento così arrabbiata». Alyon, oh; il solo suono del suo nome era sentore di problemi e fastidi, oltre che di pericolo. Il ragazzo arcuò le labbra, forse per rassicurarla, incitandola ad aprire la lettera. «Su, la apra».

Yuki sospirò e l'afferrò, cominciando ad aprirla con cautela. Poi la lesse ad alta voce:

 

Cara famiglia,

dal nostro ultimo incontro ho potuto, sfortunatamente, verificare la scarsa efficienza domestica della vostra residenza e dal momento che ho molto a cuore il nostro casato voglio regalarvene due davvero esperti. Spero che apprezzerete il mio regalo e che un giorno potremo rivederci in circostanze migliori”.

Alyon Akawa

 

 

 

Suo zio che aveva senso dell'umorismo, non come quel noioso di suo padre. Regalare delle persone, era proprio simpatico.
Sempre più arrabbiata e i nervi che friggevano, strinse la sottile carta fra le dita fino ad accartocciarla e ridurla a una triste e cupa sfera distorta. I due ragazzi non emisero un fiato né smisero di sorridere durante quegli attimi, immobili come statue greche. Quando l'albina si fu infilata la palla di carta in tasca, la ragazza esordì: «Signorina, io sono Juri Ishikiyo e da oggi sarò la sua cameriera personale. Non si faccia nessuno scrupolo e mi affidi qualsiasi compito».

«Mentre io sono Ryuu Tsukino, maggiordomo formato direttamente da suo zio». Lui guardò la sua compagna con l'espressione di chi aveva appena fatto il colpaccio, l'astuzia negli occhi; poi si chinò, appoggiando il ginocchio a terra – prese la mano di Yuki, la sostenne, vi posò le labbra.

E di fronte alla sua espressione perturbata, Ryuu sorrise. «Sarà un piacere servirla».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Juri era bella e piccola di statura, appena un metro e sessantasei; per questo assomigliava molto alle bambole di porcellana che si trovavano nei negozi d'antiquariato, appoggiate sugli scaffali leggermente impolverati.
Aveva lunghi capelli color mogano a percorrerle la schiena, poco più sotto la vita, a terminare con morbidi boccoli; gli occhi erano chiari, di una particolare tonalità che richiamava gli oceani, dalla forma rotonda. Aveva un aspetto e un comportamento da nobildonna; indossava un vestito lungo fino alle ginocchia, di tonalità marrone scuro e bronzo, con una gonna a campana e merletti.

 

«Vi rendete conto che siete stati praticamente... », Yuki aggrottò la fronte, cercando la parola giusta. «... buttati via da Alyon? Una cosa del genere può starvi bene?».

«Certo, signorina. Io e Ryuu siamo suoi e il padrone può far di noi quello che meglio crede».

«Precisamente».

«Voi due siete di sua proprietà?». Ah, ecco, adesso era tutto chiaro: Alyon li aveva resi vampiri e di conseguenza erano soggiogati al suo volere. Quindi, oramai, per loro non aveva più importanza se venivano abbandonati o se venivano sbranati – finché il loro padrone era soddisfatto. Yuki si toccò il mento, pensierosa per un attimo. «Quanti anni avete?».

 

Juri disse di avere ventiquattro anni mentre Ryuu ventisette; il secondo era alto, longilineo e slanciato, i capelli di un biondo scuro e affilati occhi nocciola. Sembrava fosse stato educato fino alla nausea per essere il più elegante e raffinato possibile, in modo da apparire avvenente ma affidabile allo stesso tempo. Il viso ovale era roseo e sorridente, le labbra carnose.

 

La mezzosangue aveva deciso, per lo meno, di farli entrare e parlare con calma. Il duo si era seduto sulle poltrone del salottino davanti al sottoscala, sotto esortazione di Yuki, ed erano composti e immobili come stalattiti in attesa.
Allora, a disagio, Yuki aveva svegliato il resto della famiglia – guadagnando qualche occhiataccia – e li aveva condotti nel salone all'ingresso, spiegandogli brevemente la situazione.
«Mi fanno un po' impressione», aveva detto al padre, allungandosi per riferirglielo all'orecchio. «Sembrano delle bambole. Questi ci pugnaleranno al petto».

«A me preoccupa che sia stato Alyon a mandarli qui», aveva ribattuto Oseroth, con i capelli spettinati – ovvero, con un ciuffo bianco che cadeva sulla fronte. Poi aveva guardato la moglie con un sospiro. «Ti viene in mente qualcosa?».

Kazumi, sospirando, scosse la testa. «No, non mi viene in mente niente di particolare. Lui non è più», sembrò indugiare, le mascella serrata. «il ragazzo che conoscevo tempo fa». Ai aveva stretto la mano della madre con dolcezza, rivolgendole uno sguardo preoccupato, e Kazumi le aveva carezzato i capelli amabilmente.

«Mi dispiace, Kazumi», Oseroth le fece un piccolo sorriso e poi tornò a guardare la coppia vampirica, che frattanto non si era scomposta di un centimetro, immobili al loro posto sui divanetti. Di tanto in tanto guardavano verso gli Akawa, sorridenti, e poi tornavano a fissare il pulviscolo nell'aria mattutina.

«Stando alla lettera», disse Yuki. «Questo regalo è pensato per riallacciare i rapporti. Certo, non ispira molta fiducia dopo l'ultima visita».

«Probabilmente avevi ragione quella volta; sta passando un brutto momento ed è tornato da noi».

«Dev'esserci qualcos'altro sotto. E se volesse puntare al Consiglio?».

«Intendi... distruggerlo?».

«Potrebbe essere una possibilità».

 

D'altronde, era stato il Consiglio ad imprigionare Alyon Akawa, quando ormai era divenuta una bestia incontrollabile.

Le labbra di Oseroth si piegarono in un sorriso mentre si inclinava un po' verso la figlia. L'albina, in via del tutto eccezionale, ricambiò il suo sorriso, sfumato d'intesa. «Qualunque sia il suo obiettivo, tuttavia... », cominciò il demone.

«... non gli permetteremo di mettere piede in questa casa», concluse la mezzosangue.

Oseroth annuì. Dietro di loro, tra una risatina e l'altra, Kazumi e Ai stavano parlando di qualcosa di non molto chiaro; padre e figlia si chiedevano cos'avessero da ridere in un momento tanto cruciale come quello e si voltarono, allo stesso tempo, ponendo loro la stessa domanda con lo stesso tono di voce.
La risata di Ai si fece più fragorosa mentre lo sguardo di Kazumi addolcito.

«Stavamo solo dicendo che siete proprio uguali, voi due».

 

 

 

 

 

 

NOTA:
… beh, wow. È passata una vita dall'ultimo capitolo. Credo... addirittura un mese?
Per questo motivo mi sembrava giusto scrivere una nota di fine capitolo. DUNQUE, SALVE. È trascorso un sacco di tempo dall'ultima volta, nonostante il capitolo fosse pronto fin dall'inizio, ma tra vacanze turbolente e la ripresa con la scuola... anf.
Per quanto riguarda ciò che è successo in Vampire Devil, beh, credo sia palese che ormai la situazione è parecchio controversa. Specialmente per Yuki e Ai.

Detto questo, spero vivamente che vi sia piaciuto e che continuerete a seguire fino alla fine! Bye ~

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Capitolo 16
*** Tutta la vita. ***


16.


Ryuu ticchettò il polpastrello contro la rilegatura del libro e poi lo premette in avanti, spingendo il libro nello scaffale, compresso dagli altri tomi. In cima a quella scala a pioli provava un vago senso di vertigini – tuttavia, non poteva proprio permettersi di rallentare il suo lavoro. Stava andando bene, non aveva commesso errori, e non aveva nessuna intenzione di commetterne qualcuno.
Guardò in basso, verso il tavolino. Mancavano altri cinque libri e poi avrebbe finito con la biblioteca; era una stanza di forma ottagonale, le cui pareti ricoperte da scaffali e scaffali di libri. Solo una di quelle era sgombra dai tomi e c'era solo un camino. Di fronte ad esso, una poltrona con un tavolino in mogano.

La signora Kazumi – una donna di una bellezza quasi eterea – aveva l'hobby di rinchiudersi nella biblioteca e leggere per ore e ore. Per questo, i libri si accumulavano sul tavolo fino a creare una pila pericolosamente in bilico. Questa era una delle abitudini che avevano imparato di quella famiglia.

Qualche volta, quando avevano il tempo, la signora Kazumi e il signor Oseroth leggevano insieme in quella stanza. Si sedevano di fronte al camino, due poltrone, due calici di vino, e leggevano. Lui si stancava molto prima della signora e quando smetteva, si limitava a richiudere il libro e ad appoggiarsi un pochino a lei.

Una strana coppia invero, pensò Ryuu, spolverando la copertina di “Carmilla”.

 

«Mi dispiace».

Ryuu girò il viso. Kazumi aveva varcato la soglia della porta, più silenziosa di un fantasma. I lunghi capelli rossi erano acconciati in una treccia che scendeva morbidamente sul suo petto.

«Mi scusi?», disse Ryuu, scendendo gli scalini.

«Mi riferisco ai libri», continuò la vampira. «Mi dispiace darti così tanto lavoro».

«Non deve, assolutamente. È il mio compito, si senta libera di comportarsi come preferisce». Ryuu si voltò verso la donna, rivolgendole un bel sorriso, ma che era totalmente assente da sincerità. Forse non se ne rendeva nemmeno conto. Kazumi non ne era certa.
La donna attraversò un pezzo della stanza, avvicinandosi alla poltrona, proprio accanto al vampiro.

«Mio fra– Alyon», disse Kazumi. «ha mai parlato di sé? Del suo passato?».

«Qualche volta. Ha accennato alla sua infanzia, ma non è mai sceso nei dettagli; noi, dal canto nostro, abbiamo pensato fosse giusto non insistere».

«È così, eh... ».

 

Lo sguardo della donna era lontano. Più simile che mai al sole. Luminoso, eppure distante ed intoccabile.

 

«Perché ha quell'espressione triste, signora? Lei», Ryuu assottigliò le palpebre. «sente la mancanza di suo fratello?».

Kazumi tentennò per un attimo, sbarrando gli occhi dorati, ma subito riacquistò la sua compostezza. Alzò il viso, indirizzandolo verso il ragazzo e rivolgendogli un sorriso leggero – imperscrutabile. «Sto cercando di capire chi siete in realtà voi due, Ryuu. La cosa deve esserti chiara e lampante. Tuttavia, posso scoprire solo la superficie delle vostre identità. Voi due... chi siete?». Lo sguardo di Kazumi era penetrante come una lama.

Ryuu, così come Juri, aveva già sentito parlare di quella famiglia, sebbene genericamente; le due figlie, la maggiore impetuosa e la minore astuta, il capofamiglia fermo come una roccia, e poi lei, la signora Kazumi. Una bellissima donna che ammaliava chiunque.

«Eravamo degli esseri umani», fu la risposta di Ryuu – quasi sussurrata, fra sé e sé. «e vivevamo in una società che non ci dava nulla. Agli esordi della prima guerra mondiale, avevo ormai capito che entrambi – io e Juri – saremmo morti di stenti o per la guerra. Non potevo accettarlo».

La vampira ascoltava, silenziosa.

«Non potevo lasciare che una guerra così stupida ci uccidesse».

 

 

Il ragazzo non disse altro. Sigillò le labbra in una linea dritta, con gli occhi bassi. Dopo qualche istante, sollevò lo sguardo per fissarlo in quello della donna – non era ciò che il suo padrone gli aveva insegnato: mai guardare dritto negli occhi i tuoi padroni.

Rimembrando le sue frasi, scostò subito il viso. «Chiedo scusa», disse, con voce dura, ma la rossa sorrise divertita.

«Sai... sono certa che voi non siate delle semplici bamboline create da Alyon».

 

«Mamma? La cena è pronta, sono venuta a... ». Ai, che si era accostata alla porta, si era guadagnata un sussulto da parte di Ryuu – si era talmente concentrato sul momento da non rendersi conto della presenza di Ai. «Sono venuta ad avvisarti».

«Grazie, tesoro», Kazumi le rivolse un cenno col capo e si voltò, dirigendosi verso la figlia minore accanto alla porta. Tuttavia, a metà tragitto, il suo passo si era già interrotto inevitabilmente. Senza voltarsi, con le braccia dietro la schiena, disse un'ultima frase. «Sono felice di avervi qui, entrambi».

E madre e figlia uscirono dalla biblioteca, lasciandosi alle spalle un ex essere umano.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Yuki Akawa era tornata a scuola.

 

 

La questione aveva sollevato parecchie domande, ma non un polverone. Quando era tornata in classe, il professore Yamato Okamoto pensava di aver avuto una visione. Si erano fermati a parlare, il ché aveva già dell'incredibile, e Yuki aveva vagamente spiegato perché era di nuovo in Giappone.
Anche qualche compagno di classe si era fatto prendere dalla curiosità e aveva attaccato bottone.

Perché hai deciso di tornare qui?, aveva chiesto una ragazza, perplessa.

«Immagino che... », aveva risposto l'albina. «... qui non sia male».

 

 

Quella stessa mattina, dopo tanto tempo che non l'avevano vista, era tornata Hokori.
Pareva che si fosse assentata anche nei giorni in cui l'albina era stata a Londra per continuare l'allenamento da cacciatrice, quindi mancava da quasi un mese tra i banchi. Era entrata nella seconda fase del suo allenamento, molto più intenso e molto più pericoloso, un periodo che si sarebbe portata avanti per i prossimi quattro anni – con ogni probabilità.

 

Yuki era stata contenta di vederla – come Takeshi e Sayumi – e non vedeva l'ora di raccontarle del fratello incontrato.
Si erano riuniti nella 2-B, tutti intorno al banco di Sayumi, e avevano cominciato a chiacchierare come vecchi amici. Quando la mezzosangue aveva tirato fuori il discorso su Chris, Takeshi aveva roteato gli occhi e serrato la mandibola. La questione del probabile bacio gli pesava ancora.

 

Dalle finestre si vedeva un cielo plumbeo.

 

 

«Fai sul serio? Cioè, hai conosciuto mio fratello?», Hokori, sbalordita, aveva sgranato gli occhi. «Ma che fortuna sfacciata! Anch'io voglio vedere Chris!».

«Andate d'accordo? Che tipo è?», chiese Sayumi.

«È gentile e intelligente, sempre disponibile per aiutare, atletico e il migliore del suo corso. Ogni tanto si scalda per piccole cose, ma per il resto è pressoché perfetto».

«Ripensandoci, forse quello che ho incontrato non era tuo fratello», disse Yuki alzando un sopracciglio.

«Che cosa vuoi dir– ehy!», sbuffò Hokori, mentre Sayumi e Takeshi si mettevano a ridere, di fronte al palese fastidio della cacciatrice. «Per lo meno mio fratello non prende il possesso dei corpi altrui».

«Ahia», fece Takeshi.

«Come come?», sibilò Yuki. «Forse non ho sentito bene».

«Che giornata grigia, eh? Guardate un po' il cielo, interessante, vero?», fece Takeshi, scatenando l'ilarità di Sayumi e Hokori, meno quella della mezzosangue.

 

 

Continuarono a chiacchierare per un po', del più e del meno; Hokori raccontò dell'allenamento, di come stesse progressivamente diventando più difficile e faticoso, ma che stava dando i suoi frutti. Di quel discorso, tuttavia, c'era qualcos'altro che le premeva. «Ho compiuto la mia prima missione, qualche giorno fa», disse – suscitando versi di sorpresa che echeggiarono tra le pareti dell'aula. «Un vampiro ricercato da un mese. Aveva proprio una brutta reputazione, in un mese aveva infranto metà delle leggi, non so dove abbia trovato tutta questa voglia di fare il criminale. Comunque, questo tizio si nascondeva dentro una cattedrale abbandonata a Kyoto, e l'ho trovato. Non ero completamente da sola, è vero, c'era il mio supervisore, ma non poteva aiutarmi a meno che non fossi sul punto di lasciarci le penne».

«Un po' drastico come sistema», osservò Takeshi.

«Cosa vuoi che ti dica, devi pur sempre imparare a cavartela da solo, no?».

«E poi com'è andata?», chiese Yuki.

«Non ti sarai ferita, vero?», fece Sayumi, titubante.

«Solo qualche graffietto, è andata meglio del previsto. L'unico problema è che quando l'ho avvistato nei pressi del campanile della cattedrale, ho... », fece una pausa. Le pupille nei suoi occhi si dilatarono per una frazione di secondo, mentre il suo sguardo si ancorava su un punto della parete. «... ho iniziato a provare un'adrenalina e un agitazione incredibile. Akawa può capirmi», Hokori si sgranchì le dita, una ad una, di entrambe le mani. «la sensazione che si prova poco prima di iniziare uno scontro potenzialmente mortale».

«Oh, sì».

«Non capisco se vi piaccia oppure no», disse Takeshi. «Voglio dire, rischiate le vostre vite».

«E Hokori l'ha scelto come lavoro, come se non bastasse», osservò Sayumi.

«Non penso che l'avrei scelto a prescindere; voglio dire, mi è stata presentata questa possibilità, oppure quella di condurre una vita normale e tranquilla. Ho già fatto un discorso simile con Takeshi, e da ragazzina la situazione mi è iniziata a pesare in fretta. Ma cosa dovevo fare? L'idea di vivere una vita come tante altre mi terrorizzava da morire». Si strinse nelle spalle, come se la cosa fosse successa e basta. «Quindi scelsi questo lavoro: la cacciatrice. Il ché mi ha fatto perdere anni di scuola e di adolescenza».

«Penso che mi sentirei come se mi stessi perdendo qualcosa di eccezionale», osservò Sayumi. «Da quando ho scoperto che certe cose esistono, è diventato tutto così... intenso».

«Ti senti in dovere di credere anche a Babbo Natale».

«Take, stai uscendo un po' dal discorso».

Il moro abbozzò una risata, alzando le spalle. «Scusami, ma è più o meno quello che intendevo. Ti senti in dovere di credere a cose a cui hai rinunciato da molto tempo. Da bambini, un po' tutti credono a cose come fantasmi, streghe e vampiri , ma noi... sappiamo che esistono davvero. Siamo privilegiati».

 

 

Yuki sorrise dolcemente. Le faceva piacere sapere che i suoi amici non stessero morendo di paura, nonostante sapessero dell'ipotetica guerra, nonostante stessero scoprendo tutte quelle cose; le faceva piacere sapere che forse avrebbero continuato a stare l'uno accanto all'altro.
Un giorno sarebbe stata risucchiata dentro una spada. Un giorno sarebbe successo. Ma fino a quel momento, lei era lì, insieme a loro – e a un vampiro di sua conoscenza che non frequentava nessuna scuola – e la mezzosangue, in cuor suo, aveva deciso molto tempo fa che li avrebbe protetti.
Allora Yuki, ripiombando nel mondo reale, guardò verso Hokori e col tono più tranquillo del mondo, le chiese: «Mi insegni ad usare la spada?».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Insomma, avete compagnia».

 

Normalmente, Yuki non si sarebbe sentita irritata ascoltando la voce del suo migliore amico ma, in quel momento, il suo tono era fin troppo divertito per passare inosservato.

 

Durante la pausa pranzo, dopo aver spazzolato i bentou, si erano riuniti tutti e quattro sul tetto della scuola, – eccetto Hokori che era dovuta andare in sala insegnanti – cioè l'unico posto dove poter parlare tranquillamente; Tetsuya, ormai, non aveva nessun problema ad entrare ed uscire dalla loro scuola, gli bastava soggiogare qualcuno e il gioco era fatto.
Quando Yuki e gli altri avevano aperto la porta, il vampiro si trovava già lì, appoggiato alla ringhiera, con indosso una giacca scamosciata sopra una maglietta rosso scuro e un paio di pantaloni neri.

L'albina aveva l'esigenza di raccontare ai suoi amici cos'era successo e aveva spiegato per filo e per segno dell'arrivo di Juri e Ryuu e della lettera da parte di Alyon. Aveva anche detto del loro modo efficiente di lavorare.

Quella stessa mattina, era stata Juri a svegliarla, sebbene non era stato un gesto voluto. L'albina aveva aperto gli occhi e aveva subito intercettato la figura della giovane donna accanto al suo letto, mentre adagiava un vassoio d'argento sul mobile lì affianco. Sopra, una tazza fumante di tè e svariati tipi di biscotti, un croissant e il contenitore con lo zucchero.

Ci aveva messo davvero poco per imparare.

 

«È inquietante che abbia imparato così facilmente le tue abitudini», disse Sayumi. «Inquietantemente competente».

«Già, a chi lo dici».

«E che mi dici di Kukuri?», intervenne Takeshi. «È l'unico essere umano lì in mezzo». Il moro non aveva per niente torto, c'era da riconoscerlo, e furono proprio le sue parole che ricordarono alla mezzosangue che Kukuri sembrava sparita nel nulla – dall'arrivo di quei vampiri. Che si stesse mantenendo a debita distanza?
Il dubbio cominciò a persistere. «Non la vedo da un po', in effetti». Rimase in silenzio qualche istante. Seduti a terra, con la schiena contro il muro, il freddo la scalfiva a malapena. Alla sua destra c'era invece Takeshi, che sembrava invece soffrirlo più del previsto, nonostante si fosse infagottato con il cardigan e la sciarpa. Sayumi stava accanto a Tetsuya, lei seduta a terra con le spalle alla ringhiera e la giacca di lana sulle spalle, il secondo in piedi con i gomiti appoggiati.

«Voi cosa ne pensate?».

«Cosa ne pensiamo di quei due vampiri?», disse Tetsuya. Yuki lo vide girarsi, dando le spalle al corrimano arrugginito, e guardare verso di lei con un espressione seria in viso. «Non mi fido. Per niente. E non dovresti farlo neanche tu».

«Certo, non lo faccio, e nemmeno mio padre».

Il vampiro sospirò, gravemente. «Sono due tipi apparsi dal nulla e affermano di essere mandati da Alyon per lavorare in casa vostra. Questo... la dice lunga».

 

Sui visi dei due umani – gli unici ad essere così invischiati in quelle situazioni – si formarono facce pensose. Stavano cercando di riflettere per dare i loro migliori consigli ed entrambi avevano assunto espressioni quasi buffe, con la fronte aggrottata e gli occhi rivolti al pavimento impolverato. La risposta non era scritta lì, avrebbe voluto dirgli.
Sayumi fu la prima a uscirsene con un'idea. «Oh! Perché non indaghi su di loro? Saranno anche vampiri, ma tu non sei certo da meno, no?».

«Oppure», fece Takeshi. «trova Kukuri e chiedile di cercare informazioni. Penso passerebbe più inosservata della loro stessa padrona».

«Sono entrambe opzioni valide», convenne Tetsuya.

 

L'albina sorrise – lo sapeva, quanto lo sapeva; parlare con loro era e sarebbe sempre stata la scelta migliore. La sensazione più rassicurante del mondo. Come facevano a creare quell'oasi di calma e serenità?
Sayumi – alias tornado – stese le braccia verso il cielo, stiracchiandosi per bene, per poi rabbrividire per il freddo. Gennaio stava diventando un mese infinito e freddissimo. «Ah, mi è venuta voglia di mangiare qualcosa. Ci prendiamo un gelato verso casa?».

«Gelato?», Yuki alzò le sopracciglia.

«Gelato?», ripeté il biondo.

«Ma sei impazzita?», esclamò Takeshi.

 

 

La mezzosangue alzò il mento, socchiudendo le palpebre, accecata dalla luce bianca – sembrava che stesse per iniziare a piovere, ma la pausa pranzo era iniziata da poco e non le andava di tornare dentro. Teneva gli occhi fissi al cielo, respirando nuvolette di ossigeno. Era così tranquilla in quel momento che non fece nemmeno caso alla sua testa che si appoggiava alla spalla di Takeshi.

«Sta dormendo?», sentì dire da Tetsuya.

«No, sono sveglia», ridacchiò.

«In ogni caso, io vado», continuò il vampiro. «Ne approfitto per riposarmi un po' finché è giorno. Se hai bisogno di qualcosa per questa faccenda, non esitare a chiamarmi».

 

Yuki aprì gli occhi come un falco e li puntò sull'amico, facendo un piccolo cenno con la testa. Un attimo dopo, tra le palpebre socchiuse, vide il suo amico scavalcare la balaustra e saltare giù. Sayumi ebbe un sussulto osservando la scena e tirò un sospirò profondo. Stava ancora cercando di abituarsi a quei salti nel vuoto. «Penso che andrò anch'io. Comincia a fare un certo freddo», disse Sayumi, alzandosi in piedi e spolverandosi la gonna. «So che non mi darete ascolto, ma cercate di non trattenervi troppo qua fuori, o perderete la sensibilità dei muscoli facciali».

«Non preoccuparti», disse Takeshi. «Ho già perso l'uso del naso e delle palpebre. Tra cinque minuti torniamo dentro, sempre ammesso che lei non si addormenti sulla mia spalla».

La ragazza ridacchiò. «Vabbene, allora. Ci vediamo dopo». Sayumi li salutò, con un sorriso raggiante, sparendo poi oltre la porta della terrazza.

 

La porta si richiuse con un cigolio sibilante ed improvvisamente calò il silenzio. Takeshi, con la schiena attaccata al muro e la testa della sua ragazza contro la spalla, guardava il cielo respirando nuvolette gelide. L'aria era calma e tranquilla, il freddo era pizzicante – ma il ragazzo non muoveva comunque un muscolo; forse per il timore di svegliare l'albina, forse perché quel momento gli sembrava intoccabile e perfetto. Anche lui, inesorabilmente, finì per chiudere gli occhi.

Passò qualche minuto – no, forse erano solo tanti secondi – quando Takeshi avvertì su di sé un'ombra, piacevole e calda come un fuoco. Lentamente, sollevò le palpebre, staccando le ciglia incastrate fra loro.
Yuki era di fronte a lui – e per un attimo gli era sembrata una visione; era in piedi con la schiena piegata, le ginocchia flesse e le mani su queste. Il suo viso era così bello. Takeshi non sapeva cosa dire. L'ombra proiettata su di lui aveva un ché di protettivo.
I suoi capelli albini scivolavano dalle spalle come una cascata. «Takeshi», sussurrò la ragazza. La sua voce si era fatta morbida.

Takeshi non rispose, mentre la guardava un po' assonnato. Yuki si sporse di più verso il moro, finché non toccò le sue labbra con le proprie. Era un bacio leggero e a fior di labbra, dolce e irresistibile. Lui alzò un braccio e infiltrò la sua mano sulla guancia della ragazza, avvicinandola a sé.

Qualche attimo dopo, si separarono lentamente. «Hai lo sguardo», bisbigliò Takeshi. «in allerta. Di chi si è accorto di qualcosa».

Yuki guardò di lato, verso la balaustra, e annuì. «Sì, è vero, ma stavo cercando di ignorarlo. Non volevo... ».

«Rovinare il momento?».

«Sì... esatto. Non abbiamo mai occasione di stare insieme così».

 

Takeshi sorrise, provocatorio e divertito; si sporse in avanti verso di lei, baciandole prima la guancia e poi sotto, sul collo, lasciandola con uno schiocco sonoro. Quando si fu allontanato, la mezzosangue aveva le guance rosse e un espressione confusa, quasi stordita. «Abbiamo tutta la vita davanti. Non ti preoccupare. Di certo non lascerò che qualche idiota ci rovini la nostra vita sentimentale», ridacchiò, appoggiandosi al muro. «Ora vai a vedere che succede. Fai attenzione, come al solito, okay?».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Yuki scendeva le scale in fretta. Aveva sentito l'odore tipico di un vampiro e, tra l'altro, aveva un tono familiare – come se l'avesse già sentito; lasciare Takeshi da solo dentro la scuola la spaventava, aveva paura che non si trattasse di un solo vampiro, che i suoi sensi l'avessero presa in giro. Quindi gli aveva chiesto, per lo meno, di entrare dentro e tornare in classe, dove forse sarebbe stato... più al sicuro.
Il problema adesso rimaneva Sayumi. Lei era rientrata prima ma quando l'albina era andata nella loro classe, non l'aveva trovata. Non era lì.

La pausa sarebbe finita tra tre minuti e Sayumi non perdeva mai tempo in giro per i corridoi, specialmente da sola, come Yuki stava sospettando.

Allora aveva fatto qualcosa che in genere non avrebbe mai fatto: aveva chiesto informazioni.

 

Fuori dalla 2-B, per fortuna, c'era sempre qualcuno che bazzicava.

 

«Ehy», fece l'albina. «Avete visto passare una ragazza con i capelli rosa e gli occhi azzurri?».

 

I due ragazzi – una femmina e un maschio – avevano strabuzzato gli occhi per un istante. Presi alla sprovvista, avevano cercato di riacquistare la calma. «Ah, stai parlando di Ichinomiya», fece subito la ragazza. «Ecco, in effetti penso di averla vista scendere le scale».

«Ha sceso le scale?», ripeté Yuki.

Scendendo le scale, sarebbero arrivati direttamente ai club del pomeriggio e alla segreteria.

Forse deve uscire prima da scuola, pensò la mezzosangue, magari si sente male. Però penso me l'avrebbe detto.

«Come vi è sembrata? Dava, non so, segni di malattia?».

«Malattia... ? No, non direi», rispose la ragazza, aggrottando la fronte.

«Aspetta, ma sbaglio o l'hanno chiamata?», fece il ragazzo.

Yuki inarcò le sopracciglia. «Cioè?».

«Due minuti fa, l'interfono. Diceva “Sayumi Ichinomiya è pregata di presentarsi in segreteria”. Penso proprio che sia andata lì».

 

E lei e Takeshi erano in terrazzo, semi addormentati, quindi non avevano sentito l'avviso nemmeno per sbaglio. Okay, quindi... Sayumi era in segreteria. Sembrava una situazione sufficientemente normale. «Bene. Grazie per le informazioni».
Sotto gli sguardi stupiti della coppia, Yuki imboccò le scale accanto alla classe, e cominciò a scenderle in fretta e furia. Sì, era stata semplicemente chiamata in segreteria, ma ciò non toglieva il fatto che in giro c'era – con ogni probabilità – un vampiro. Doveva avvisarla, quanto meno, e raccomandarle di aspettare al sicuro mentre lei sbrigava quella situazione.

 

In pochi secondi raggiunse il piano terra. Era vuoto, perché gli studenti – a quell'ora del mattino – non avevano nessun bisogno di aggirarsi tra quei corridoi. Solo poco più in là c'era la segretaria, seduta al suo posto di lavoro, con il suo bancone e un muro di plastica opaca intorno, un solo quadrato di spazio che dava verso l'esterno.
Yuki l'avvicinò subito, appoggiando le mani sul bancone e sporgendosi per farsi sentire dalla donna, una quarantenne con i capelli scuri e l'aria annoiata. «Mi scusi. Sto cercando Sayumi Ichinomiya».

La donna sollevò gli occhi, flemmatica. «Se non lo sai tu, che sei una studentessa di questa scuola... ».

«No, mi scusi. Lei ha chiamato Ichinomiya qualche minuto fa per farla venire in segreteria. Per questo le sto chiedendo di questa ragazza».

La donna tirò un sospiro stanco, appoggiando i gomiti sul bancone. «Senti, qui non è passato proprio nessuno, e io non ho chiamato nessuna Ichinomiya», rispose. «Non so proprio chi ti ha raccontato questa storiella, ma io non c'entro niente».

«Ah, capisco. Bene, grazie ugualmente».

 

Con qualche passo, Yuki si allontanò da quel punto. Infilò la mano nella tasca della gonna e digitò il numero dell'amica sul cellulare, per poi portarlo all'orecchio. «Il numero da lei chiamato non è al momento– ». Ringhiando, riattaccò la chiamata. Come al solito, Sayumi teneva il cellulare spento durante le ore di scuola.
Cominciava ad innervosirsi. Non era in segretaria, non rispondeva al cellulare – lo rimise in tasca e si voltò verso il corridoio. Questo terminava con una porta che sfociava nel retro della scuola, dove c'era il prato e qualche panchina. Forse poteva provare a dare un'occhiata.

 

Si mise subito in moto, macinando velocemente i metri tra lei e l'uscita.

Fu a pochi passi dalla porta – già aperta – che Yuki sentì due voci, entrambe femminili; la prima era calma e parlava lentamente, la seconda sembrava essere un po' spaesata. Tutte e due erano facilmente riconoscibili.
Erano Juri e Sayumi.

«Lei è una cara amica della signorina, non è così?», disse Juri.

Yuki si fermò accanto alla parete. Che domande faceva?

«Sì, certo», rispose Sayumi, aggrottando la fronte.

Juri sorrise, curvando le labbra in una piega enigmatica. «Molto bene».

 

Quella situazione non le piaceva. Yuki appoggiò la mano contro la superficie della porta e la spinse, facendosi strada per uscire nell'atrio. Il cielo si era rasserenato e una vasta luce dorata accarezzava il verde del prato.
«Signorina», esclamò Juri, con stupore.

Sayumi sobbalzò e si voltò. «Yuki-chan? Ma sei da sola?».

«Sì, non... Juri, che stai facendo qua?». Yuki fece un passo in avanti, calpestando l'erba, mettendosi di fronte a Sayumi. Non si fidava abbastanza di quella vampira da lasciarla da sola con la sua migliore amica.

«Beh, sono... ».

«Juri», sibilò duramente la mezzosangue, gli occhi fermi. «Non avevi detto di essere efficiente? A casa tutti sanno che non devono venire qui, a scuola. Perché tu non lo sapevi?».

«Ha ragione, signorina. Mi dispiace infinitamente per questa mancanza. Non accadrà più. Vado subito via».

 

Juri piegò la testa e la schiena, in segno di inchino. Per un attimo Yuki pensò che era tutto finito, l'odore del vampiro apparteneva in realtà a lei – e di questo ne era certa. Si era spaventata per nulla.

Così aveva pensato.

Ma un attimo dopo, Juri aveva raddrizzato la sua schiena e aveva spinto via l'albina in uno scatto troppo improvviso per essere previsto. Yuki era riuscita a rimanere in piedi, affondandoli nella terra, ma Juri si era già avvicinata a Sayumi.
In quello che fu un secondo, Juri aveva detto qualcosa a bassa voce, e Sayumi aveva sbarrato gli occhi – gemendo di dolore, la ragazza dai capelli rosa era caduta sulle ginocchia, e poi a terra, producendo un forte tonfo.

«YUMI– !». Yuki aveva urlato a pieni polmoni. Con uno scatto si era buttata verso l'amica, affondando le ginocchia nell'erbetta.
Sotto il corpo di Sayumi si stava allargando una grande macchia rosso scarlatto. Non riusciva a smettere di tremare. Era... sangue? Come aveva fatto a ferirla? Quando?

 

Yuki si voltò di scatto verso la vampira, gli occhi scarlatti. «Io ti ammazzo, TU– ».

 

Sayumi alzò il braccio, indicando dietro la mezzosangue. «Yu... dietro di te... !».

 

Ma era troppo tardi.
Alle spalle di Yuki, la figura alta e imponente di Ryuu era comparsa.
Con un colpo secco contro la sua nuca, il vampiro aveva messo k.o la mezzosangue – lasciandole solo un'ultima inquietante immagine. L'immagine del corpo di Sayumi steso sul fianco e la sua mano pregna di sangue che cercava di afferrare la sua amica.

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Capitolo 17
*** La sirena degli Akawa. ***


17.



Quel dolore non le permetteva di ragionare, quella poca lucidità che l'animava giorno dopo giorno si era dissolta nel momento in cui la sua carne era stata valicata dalla lama del pugnale. Era un dolore così forte e intenso da non poter fare altro che strisciare come un serpente in fin di vita, lasciando sotto di sé una frastagliata scia di sangue. La sua mano tremava incontrollata sul suo fianco, nello stupido tentativo di fermare l'emorragia – il sangue che colava indisturbato sulla sua divisa, tra le dita, sul pavimento.
In tutto quel dolore, in tutta quell'agonia – sentì dei passi, una camminata flemmatica e lenta, riconoscibile fra mille. Gli occhi strizzati, arrossati, Sayumi spostò la testa per trovare Takeshi mentre camminava verso di lei. Che ci faceva lì, al primo piano, a pochi passi dall'atrio?

I loro sguardi si incontrarono nello stesso momento. Lo vide sollevare il mento e aprire la bocca, e poi... sorridere.

«Che accidenti fai lì a terra?», si mise a ridere, divertito, le mani nelle tasche.

Che cosa?

Era impossibile che non avesse notato il sangue, la sua espressione agonizzante. Sayumi tossì, prima di riuscire a parlare, ansimando. «Stai... », sgranò gli occhi come un cerbiatto terrorizzato, serrando la mandibola. In fondo alla gola sentiva un sapore ferroso. «... stai scherzando? Sei diventato cieco?».
Furiosa, e forse grazie a questo, riuscì a tirare su il torso malridotto. «Non lo vedi che... mi hanno... trivellato un fianco?! Sto perdendo sangue a fiotti, aiutami invece di... ridere!»

 

Takeshi sbatté le palpebre. Passarono secondi interminabili e lei si era quasi dimenticata del bruciore lancinante, di quell'orribile sensazione – mentre il sangue ti abbandona.

Erano l'uno di fronte all'altra, pochi metri li separavano, Takeshi aveva assunto un espressione sbigottita. Lo vide aggrottare la fronte, spostare lo sguardo alla ricerca della ferita, poi attorno a sé.
«Yumi, ma... cosa stai dicendo? Non c'è una goccia di sangue, qua, e tu... non hai nessuna ferita al fianco».

«Cosa... ?».

 

Ecco perché se n'era quasi dimenticata: perché non lo avvertiva più.
Raggelata, Sayumi chinò lo sguardo verso la mano che premeva sul fianco. Era pulita, così come la divisa. Dietro di sé, non c'era nessuna macchia sul pavimento. C'erano solo lei e Takeshi.
Era semplicemente tutto sparito, come un macabro sogno – un vivido incubo; tutto quel dolore, quelle sensazioni, i pensieri... era tutto sparito.

«Ehy, stai... stai bene?», Takeshi si era avvicinato. Si piegò sulle ginocchia, cercando di incrociare gli occhi dell'amica. «Perché hai detto quella cosa?».

«Perché... quella Juri mi aveva... ».

«Juri? La ragazza nuova?».

 

Sayumi annuì piano. Doveva aver fatto qualcosa. Era opera sua e di quell'altro, Ryuu. La sua ferita non era mai esistita, era stata tutta una stupida illusione. Ma la scomparsa di Yuki, invece...

 

«Take, dobbiamo cercare Yuki».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Non ci voglio credere», aveva detto Takeshi, tra un'imprecazione e l'altra. «Quindi ciò che aveva percepito prima erano quei due? E meno male che le avevo detto di fare attenzione!».

 

Aveva detto alla sua ragazza che sarebbe andato di filato in classe, e così aveva fatto – per i primi cinque minuti; ma più rimaneva nel suo banco, accanto ad Hokori, più si agitava e sentiva i polpastrelli formicolare. Allora aveva chiesto di uscire dalla classe e si era ritrovato nel corridoio. Si era diretto nella 2-B, aveva aperto la porta di qualche centimetro.
Ma non c'erano né Yuki né Sayumi.
Si cominciava ad agitare. Era corso sul tetto della scuola, ma anche lì... vuoto. Allora si era diretto al piano terra, l'unico che mancava all'appello.

E lì aveva visto Sayumi – ma non aveva pensato subito che le fosse successo qualcosa. Per questo, vederla stesa lì l'aveva fatto un po' ridere.

«Eppure non capisco», disse lui. «Solitamente se la cava in queste situazioni. Forse non si aspettava che fossero tutti e due».

 

Non poteva credere che Yuki fosse scomparsa, così, dal nulla.

 


Stando alle parole dell'amica, era stata probabilmente rapita; ricordava, poco prima di svenire, di averla vista caricata sulla spalla di Ryuu, e poi tutti e tre erano spariti oltre il muro che cintava la scuola. I due avevano fatto un balzo che di umano aveva ben poco e poi puff, il buio aveva sopraffatto la ragazza dai capelli rosa. Dannazione, se fosse resistita un po' di più, forse sarebbe riuscita a capire dove erano andati...

 

«Che senso ha? Perché hanno rapito Yuki?». Sayumi si passò le mani lungo il viso, affondando le dita fra i capelli scompigliati. «E poi... ».

«Poi cosa?», incalzò il moro.

«Poi mi sento in colpa. Se non fossi stata lì, Yuki non si sarebbe distratta e non sarebbero riusciti a prenderla».

Takeshi socchiuse le palpebre. Una piccola parte di lui ce l'aveva con Sayumi. Una piccola, stupida e patetica parte della sua anima. Ma era ben consapevole che se fosse stato al suo posto, l'albina si sarebbe fatta prendere alla sprovvista ugualmente, pur di aiutarlo. Non faceva distinzione, lo sapeva bene.
Ma era preoccupato a morte. Aveva lo stomaco sottosopra e la nausea che gli ballava nell'intestino. Scosse la testa, sforzandosi di fare un sorriso per l'amica. «Non dire scemenze, non è colpa tua. Non puoi incolparti per una cosa del genere. Prima di tutto, nessuno è colpevole, se non quei due».

Parlavano guardandosi in faccia, seduti sugli scalini più vicini che avevano trovato, l'uno affianco all'altra. Sayumi aveva le ginocchia vicino al petto, abbracciate vigorosamente, ora che sentiva le forze. Takeshi i gomiti appoggiati sulle gambe e le dita intrecciate fra di loro, cercava di riflettere insieme a lei.

Non avevano perso tempo e avevano chiamato Tetsuya. Il vampiro, dal canto suo, si era dimostrato ragionevole e collaborativo e aveva promesso di arrivare lì in qualche minuto – tre minuti dopo, la camicia abbottonata storta, i capelli scompigliati e l'aria nervosa, aveva attraversato il corridoio del primo piano e aveva trovato Takeshi e Sayumi.

 

 

«Quindi quella ferita non era reale, ma un illusione?», chiese Sayumi.

Il vampiro annuì. «Sì, esatto. Quella Juri Ishikiyo deve padroneggiare l'illusione sensoriale, non c'è altra spiegazione».

«L'illusione sensoriale?».

«Esatto. Servendosi dei nostri sensi – olfatto, gusto, tatto, eccetera – può creare vere e proprie illusioni, talmente vivide e realistiche da condurti ad uno stato catatonico». Tetsuya si sistemò la camicia addosso. «Ti è andata bene: ti ha praticamente trattata con i guanti».

 

Sayumi si strinse in sé stessa, andando a tastare la pelle sul fianco. Persino la divisa non presentava nessuna traccia, né uno strappo né sangue, solo un po' di polvere raccattata dal pavimento.
Tetsuya guardò la ragazza con indecisione e si morse il labbro. Non sapeva farci con gli umani, questo era assodato, ma gli dispiaceva che avesse dovuto passare quella brutta esperienza. D'altronde era un'amica.

Voleva rassicurarla, ecco tutto.

Impacciato, allora, le toccò delicatamente la sommità della testa con la mano sinistra, in piccole carezze. «Su... su, stai tranquilla. Adesso va tutto bene. Ci siamo noi, vero?», si rivolse a Takeshi, lanciandogli un'occhiata in cerca di conferma – e un po' di disperazione.

Takeshi colse la palla al balzo e arcuò le sopracciglia, annuendo. «Certo, sì, ti proteggiamo noi».

 

Sayumi sorrise leggermente – stavolta si strinse nelle spalle con una punta di imbarazzo. «Grazie. Mi fido di voi. Ma adesso dobbiamo decidere cosa fare per Yuki-chan».

«Sì, ha ragione», Takeshi annuì e girò il capo verso il vampiro biondo. «E se chiedessimo aiuto ai suoi genitori?».

«Ai suoi genitori?». Tetsuya soppesò la proposta, sorpreso dalla sua intraprendenza. Un aiuto in più non avrebbe fatto di certo male, su quello non c'erano dubbi... forse l'albina non ne sarebbe stata molto felice ma, per quanto gli riguardava, poteva tranquillamente battere i piedi tutta la vita. D'altro canto, sebbene non lo avessero detto ad alta voce, i tre sapevano perfettamente la gravità della situazione.

Juri Ishikiyo e Ryuu Tsukino.

E, come se la situazione non facesse abbastanza schifo, Alyon Akawa.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

È il dolore tra capo e collo a svegliarla dallo stato d'incoscienza. Un dolore piuttosto fastidioso, insinuatosi nella testa come il ritornello di una canzone, che lei riuscì a scacciare solo dopo qualche minuto da quando aveva aperto gli occhi.
Lentamente, le ciglia superiori si erano allontanate da quelle inferiore e le iridi avevano incontrato un opprimente buio. Più nero del petrolio.

Sono morta?, era stato il suo primo pensiero. Avrebbe potuto darsi un pizzicotto ma quello valeva solo per i sogni. Chissà, magari si soffriva anche da morti. Dove accidenti... , scoordinati, i suoi pensieri facevano molta fatica a scorrerle sul viso, sentiva il cervello in panne, lento come un trattore.

Capì di essere sdraiata su quello che sembrava un divano, di velluto. Mosse i polpastrelli lungo il tessuto dello schienale, sollevando piano piano il braccio, fino a lasciar spuntare le dita oltre il bordo dello schienale del divano. Ma come mai era così buio? Possibile che si trattasse di una stanza senza finestre?

Okay, ricapitolando, pensò, sono in un qualche posto sperduto, al buio, con un dolore al collo.

Pensandoci, si ricordò del colpo di Ryuu, lo stesso che le aveva fatto perdere i sensi. Già... dopo di ché, non ricordava più nulla. La sua coscienza era andata alla deriva, bruciacchiata e consumata. E poi si era risvegliata lì, stesa supina.
Sollevò la schiena, gradualmente, lasciando scivolare i piedi a terra – aveva ancora indosso la divisa scolastica, un po' spiegazzata; pensava di familiarizzare con lo spazio intorno, così forse avrebbe trovato qualche indizio su dove si trovava, magari avevano lasciato la porta aperta... qualche secondo dopo, gli occhi si erano abituati alla fitta oscurità e Yuki riusciva finalmente a vedere i contorni della stanza, i suoi mobili e le pareti.

 

Non era molto grande; il punto del divano era il centro della camera, un tavolino di legno e vetro pochi centimetri più in là. C'erano un paio di quadri sul muro di fronte, i cui disegni e colori erano sconosciuti ai suoi occhi, e dietro di lei una tenda spessa copriva quella che forse era una finestra. Tutto qui, eccetto qualche oggettino di scarsa importanza.
Con uno slancio ben studiato, Yuki si alzò dal divano e ne giunse alle spalle, infiltrando le mani nella tenda per spostarla – al di là, toccò il vetro impolverato della finestra e incontrò qualche spiraglio di luce con l'iride dorata.

«Cosa stai cercando? Cosa speri di trovare?», una voce maschile la colse alle spalle. Con uno scatto nervoso, Yuki si girò, dando le spalle a quella piccola fonte di luce per incontrarne una più grande. Proprio sulla parete di destra nasceva una nuova stanza, illuminata a giorno da un lampadario, separata da una grossa lastra di vetro rinforzato.
L'altra stanza era bianca, asettica, composta solo da un tavolo al centro; le pareti grigie e il pavimento in marmo bianco, fin troppo simile all'interno di un ospedale.

 

«Ryuu», un sussurro era sfuggito dalle labbra dell'albina o, per meglio dire, un ringhio sommesso.

Già, Ryuu.

C'era proprio lui là dentro, protetto solo dal vetro; aveva dei pantaloni di seta, blu scuro, e una camicia bianca con al di sopra un gilet nero. Le mani nelle tasche, sorrideva con tranquillità. «Ci hai messo un po' a svegliarti, eh, signorina?».

«Mai quanto il tempo che ci impiegherai tu tra un attimo».

 

 

Ad una velocità alienante, Yuki scattò contro il vetro, andandoci a sbattere con le mani e le ginocchia. Quello aveva tremato e vibrato come la corda di un violino ma non si era nemmeno scheggiato, neanche un graffietto.
Iniziava a sentirsi arrabbiata. Intrappolata.
Una stanza chiusa e tappezzata, buia, priva di spifferi per l'aria o la luce. Era un topo in trappola.
«Fammi. Uscire. Subito», tartagliò, il respiro corto.

«Temo di non poterlo fare».

«Cosa hai fatto?», esclamò lei, battendo i pugni sulla superficie trasparente. «Perché sono qui? E dov'è “qui”? E... », chiuse gli occhi, ma riusciva a vedere comunque la sua espressione tranquilla, persino compiaciuta, stendergli i lineamenti del volto. «Sayumi. Non le avete fatto del male, vero?».

«Sayumi... ah, la ragazzina dai capelli rosa?». Si toccò il mento, pensieroso, come se stesse ricordando. Come se la cosa valesse meno di zero. «Beh, io no. Ti ho presa e me ne sono andato. Ma Juri, beh, Juri è un altro canto – che non mi riguarda, mi duole dirtelo».


Yuki sentì le vene ingrossarsi sul collo e il dorato dei suoi occhi venire divorato dal rubino famelico – non gli riguardava, diceva, gli doleva dirle questa verità. Chiuse velocemente le mani in pugni, la pelle sulle nocche che tirava, le unghie conficcate nei palmi. Stava per aprire la bocca e mettersi a dire qualcosa, forse qualcosa di insensato, qualche insulto, ma la luce al di là si spense all'improvviso, facendola ripiombare in quelle tenebre crudeli.
L'albina si staccò dal vetro, fece qualche passo indietro – e urlò a pieni polmoni tutta la sua rabbia, illuminando quelle quattro pareti con la luce dell'elettricità che uscì dal suo corpo.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Non vorrei mettervi fretta, ma», Takeshi aveva i palmi sul piano del tavolo, il suo sguardo che rimbalzava fra tutti i presenti. «possiamo darci una mossa?».

«Senti, ragazzo, capisco cosa provi, è mia figlia. Ma dobbiamo fare le cose per bene se vogliamo uscirne vivi e vittoriosi».

 

 

Vivi e vittoriosi? Sembrava uno slogan da militari o stupidaggini simili; Takeshi Katugawa non aveva tempo né voglia di ascoltare i loro piani strategici, voleva solo imbracciare il suo coraggio e andare a salvare la sua ragazza da chiunque l'avesse rapita – da chiunque la stesse tenendo contro la sua volontà. Non che il campo si ristringesse.

Tetsuya li aveva condotti a casa Akawa. Alla fine erano scesi alla conclusione che dovevano chiedere aiuto ai genitori dell'albina: Oseroth e Kazumi Akawa. Gli unici che, in quella situazione, potessero realmente aiutarli.
Allora erano andati, tutti e tre, alla residenza Akawa e si erano riuniti nella Stanza delle Mappe, alla lunga tavolata. Avevano spiegato cos'era successo nei minimi dettagli, Sayumi si era impegnata il più possibile per descrivere la situazione che aveva vissuto. Anche i due coniugi avevano concordato sul potere di Juri.

 

Era una brutta gatta da pelare, quella circostanza.

L'ipotesi più plausibile era indubbiamente Alyon, non ci pioveva; i rapitori dell'albina erano Ryuu e Juri, proprio i due vampiri spediti a mo' di pacco regalo dall'uomo, indi per cui era logico pensare che fosse lui la mente dietro al rapimento.
La domanda, a questo punto, era un'altra: perché l'aveva fatto? Takeshi aveva provato a rammentare i ricordi del loro incontro, quando lei era tornata da Londra, e gli era tornato alla mente il desiderio reciproco di ammazzarsi. Era saltato all'occhio.
«Ma allora, che senso ha mandare qualcuno a rapirla?», aveva chiesto Sayumi. «A questo punto, poteva tentare di ucciderla in qualsiasi momento e basta, no?».

Kazumi, avvolta dal suo scialle indaco, aveva annuito, concorde. «Non è nemmeno una novità che Yuki venga assalita».

«Possibile che volesse occultare le sue mosse?».

«Se così fosse, gli è riuscito parecchio male».

«Signora Kazumi», Takeshi lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. «Non è... scioccante, per lei, che suo fratello abbia fatto una cosa del genere?».

La vampira fece un sorriso storto, malinconico in ogni suo strato. Le dita strette dolcemente attorno alla stoffa dello scialle, fece di no con la testa, lentamente. «Ormai, c'è ben poco di scioccante nella nostra comunità. Ognuno di noi cerca, a modo suo», abbassò lo sguardo. «di rinforzarsi per non farsi più ferire da cose come queste. E poi... », ma Kazumi si fermò, in parte era indecisa se continuare. Dall'altra, invece, non si sentiva abbastanza forte da rievocare quei ricordi.

Mi chiedo se funzioni veramente, pensò il moro.

 

«Bene, allora», Oseroth fece un passo indietro, mettendo distanza fra sé e il tavolo a cui si erano riuniti. «Non c'è altro da dire. Io e Tetsuya andremo a recuperarla».

«Cosa?», esclamò Takeshi, sbattendo le palpebre. «No, scordatevelo: io vengo con voi».

«Takeshi, non dire stupidaggini, non puoi venire. Sei solo un essere umano», ribatté Tetsuya.

«Non sono solo un essere umano. Smettetela. Yuki non è umana, eppure è stata messa al tappeto. Fatto che potrebbe succedere a chiunque in questa stanza, il ché non ci rende poi così diversi. E soprattutto, abbiamo tutti lo stesso fine: riportarla a casa. Quindi potete strepitare quanto volete, ma io ho deciso. Io ci vado».

 

C'era silenzio. Gli occhi di tutti erano inchiodati su Takeshi. Forse sembrava un ragazzino, deciso a fare Superman, e in effetti l'aveva desiderato quando le sue mani erano il doppio più piccole. Ma quel desiderio era svanito, la sua carriera di supereroe si era auto-stroncata sul nascere. Adesso, senza un minimo di esitazione, voleva fare il guerriero – proprio come urlava il suo nome.

«Bene, come vuoi. Ma se ci rallenti, ti lascio indietro. Sono stato chiaro?». Oseroth Akawa lo stava rivalutando, il suo stesso corpo era stato vestito da una nuova luce, forse quella era l'impennata che quel ragazzo aveva bisogno – il demone allora sorrise, lasciando spuntare sul suo viso di bassa saturazione un briciolo di calore.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Mi devi promettere che non vi farete ammazzare. Lo devi fare perché altrimenti morirò di crepacuore. E so che un minimo vi importa di me».

 

Con una risata forzata, Sayumi gli prese la mano e la strinse fra le sue, con lo sguardo fisso su queste. Non riusciva a guardarlo senza provare paura. Non riusciva a non pensare che quella sera i suoi amici sarebbero morti, tutti e tre. Era più forte di lei.
Takeshi aveva sorriso, dolcemente, e le aveva alzato il volto dal mento con l'altra mano. Il viso esposto, aveva gli occhi lucidi e le tremavano le labbra, ma non piangeva, no signore, le lacrime non erano in programma.

Erano di fronte all'ingresso di casa Akawa, la carrozza pronta davanti alla porta, Oseroth già al suo posto, in attesa.
Dopo che avevano parlato, i tre si erano dati appuntamento davanti alla casa per le 19.00; ognuno di loro si era preparato a modo suo. Takeshi si era liberato della divisa scolastica per mettere vestiti in cui si sentiva più comodo, un paio di jeans e una maglietta a maniche lunghe. Prima di uscire di casa, aveva guardato dentro il cassetto della cassettiera e aveva preso ciò che c'era all'interno: un tirapugni e un coltello.
Certo, erano un idiozia. Cosa pensava di farci? Ma d'altronde, perché non prepararsi un minimo?

 

«Ti prometto che non ci faremo ammazzare», le promise, con un tono tragicamente solenne. «Così tu non morirai di crepacuore e potremo fare ancora gli stupidi insieme».

«Ma perché... », balbettò Sayumi. «... perché devi farlo? Perché devi andare proprio tu?».

«Perché è la nostra Yuki».

«Sì, no, lo so... ma c'è già il signor Oseroth e loro sono forti, hanno i loro poteri e tu... ».

«Yumi, Yumi, guardami. Guardami bene. Io salverò quella combina guai e la riporterò qui, da noi, e ti dimostrerò che non sono solo un essere umano come dite. Ti dimostrerò che puoi fidarti di me. Non lascerò che quelle persone rovinino tutto. Siamo noi quattro, Yumi. Noi quattro».

 

 

Sayumi lo vide salire sulla carrozza e cercò di imprimersi nella memoria la visione della sua schiena. Qualche istante dopo, il cocchiere aveva fatto muovere i cavalli che, tra mille strepiti, avevano cominciato a camminare velocemente – ed era rientrata dentro casa.

 

«Stavo pensando ad un ipotesi», aveva detto Tetsuya, una volta che furono in marcia.

L'interno della carrozza era, naturalmente, abbastanza angusto; i sedili erano di velluto, di colore amaranto, e c'erano tendine appese ai finestrini del medesimo colore. Un vetro separava la zona da quella esterna dove si riusciva a vedere la schiena del cocchiere.

«Cosa?», fece Oseroth.

«Riguardo a questo strano rapimento. Ci ho pensato e ripensato e continuavo a non trovare un valido motivo per averlo fatto. È strano sotto ogni punto di vista proprio perché smascherarlo è stato , beh, ovviamente facile e poi... se avesse voluto ucciderla, avrebbe potuto provarci in ogni momento. Come in questo caso».

«Sì, esatto».

Tetsuya fece una pausa, le braccia incrociate al petto. Guardò prima il ragazzo e poi Oseroth. «E se invece non la odiasse affatto?».

A quel punto, Oseroth aggrottò la fronte e poi scosse la testa. «Mi sembra impossibile. Sai bene che il loro rapporto era così già da quando Yuki era una bambina».

Tetsuya tornò di nuovo silenzioso, il sguardo ricadde sulle scarpe laccate di nero. Aveva un espressione che sembrava voler dire “io so qualcosa che tu non sai”. Rimase così per qualche istante, gli occhi cupi e le braccia nervose.
Takeshi sospirò esasperato e lo riscosse. «Ti prego, puoi dire cosa c'è che non va?».

Il vampiro allora sussultò. Di fronte all'espressione impassibile di Oseroth e a quella sensibilmente interessata del moro, si sentiva combattuto e in trappola.
Ma, in quel momento, decise che non aveva senso indugiare. «Il fatto è che non è proprio come dici tu, Oseroth. Sì, Yuki lo odia e ha sempre voluto toglierlo di mezzo, ma... Alyon si è comportato in un modo molto caloroso con lei. Lo so, perché ero quasi sempre presente. Faceva attenzione a cambiare atteggiamento solo quando non c'era nessun altro in giro, probabilmente pensava che io, un bambino qualsiasi, non avrei ritenuto la cosa strana». Ricordando, Tetsuya irrigidì le spalle. «Non ho frainteso niente. Lui era effettivamente più gentile; le scompigliava i capelli, provava ad abbracciarla, sorrideva molto, e qualche volta le ha portato dei regali».

«Stai scherzando?». Per la prima volta dopo decenni, Oseroth Akawa aveva alzato la voce. Gli occhi fiammeggianti, sembrava sul punto di staccare lo sportello della carrozza.

Anche Takeshi sembrava scioccato, lo sguardo sbarrato. «E Yuki?», chiese, con un filo di voce.

«Yuki reagiva sempre in modo scostante. Si allontanava o scalciava, faceva tutto il possibile per tenerlo lontano».

«E non ci ha mai detto una parola», constatò il demone albino. «Non una singola parola».

«Non penso ve l'abbia nascosto di proposito, penso piuttosto che avrebbe voluto parlarvene ma non era nella situazione di poterlo fare», rifletté il vampiro.

«Lei stessa ha detto “basta segreti”, Tetsuya, eppure ha continuato–... ».

«Signor Oseroth», proruppe Takeshi. «Con tutto il rispetto, come poteva dirvi che suo zio aveva quel tipo di intenzioni?».

 

Oseroth lo guardò per un attimo negli occhi, i propri sbarrati come fari, e per un secondo Takeshi pensò che il demone si fosse offeso per le sue parole; passò qualche altro secondo e poi, alla fine, Oseroth si lasciò andare allo schienale di velluto con un grosso sospiro. Si prese le tempie con una mano, stringendole leggermente, e poi diede un'occhiata fuori dal finestrino.

Stavano attraversando la foresta.

Davanti a loro, non c'era altro che cedri giapponesi, abeti e larici, piccoli pezzi di sentiero fangoso che sbucavano fra un tronco e l'altro, conigli e scoiattoli che scappavano spauriti all'arrivo della carrozza.
Infine, il demone si voltò. «Non puoi immaginare quanto mi secchi ammetterlo, ma», fece un lento cenno con la testa, chiudendo le palpebre. «hai ragione. Dev'essere stata davvero... dura, per lei».

Takeshi trattenne a stento un sospiro di sollievo. «Non era da sola».

«Sì, Oseroth, per quel che vale ho cercato di starle più vicino possibile».

 

Il demone annuì nuovamente, stavolta più veloce, come se volesse ringraziarli senza farsi sorprendere nel gesto. Ciononostante, li ringraziava dal profondo del cuore – da quel vecchio e grigio organo muscolare che pulsava, stanco, nel suo petto.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Grazie a Kazumi, sapevano dove si trovava la residenza in cui – probabilmente – stava vivendo Alyon Akawa in quegli ultimi tempi: la casa in cui era nata. La casa in cui aveva passato la sua infanzia, la sua adolescenza e una parte della maggior età. Poi lei se n'era andata e aveva viaggiato per tutta l'Europa, troppo curiosa e intransigente per rimanere in quel piccolo paesello.

Non erano certi che Alyon si trovasse lì. Era solo una possibilità.
Era già passata più di mezz'ora da quando erano partiti e persino il cocchiere sembrava cominciare ad accusare la stanchezza. Avevano superato già da molto la foresta e ormai si erano inoltrati nella campagna del paese, dove c'era solo qualche casa e piccoli campi. L'aria si era fatta molto più fredda e tutto era avvolto da una cappa di oscurità mista a nebbia. Solo la luna, alta e limpida, illuminava a fatica la strada sterrata.

 

«Il Consiglio potrebbe saperne qualcosa?», disse Takeshi.

Tetsuya ci aveva riflettuto qualche istante e poi, esasperato, aveva scrollato le spalle. «Potrebbe. Non voglio escluderlo. Potrebbero, in effetti, essere complici».

«Se Alyon non è qui», aveva detto Oseroth. «e il Consiglio è dentro questa storia... non ho idea di come faremo a trovare quel demonio, a quel punto».

Ma non era lui, il demone?, Takeshi non sapeva se fosse il caso di dar voce ai suoi pensieri.

«Credo sia questa».

 

 

Alla voce del vampiro, Takeshi e Oseroth guardarono verso il lato destro della carrozza e, attraverso il vetro del finestrino, videro quella che era una villa in piena regola; un cancello con sopra il disegno di un albero, chiuso solo da un catenaccio arrugginito, precedeva un lungo sentiero lastricato che arrivava a un ampia scalinata in granito. Da quella scalinata, qualche metro in là, si vedeva una fontana con la scultura di una sirena con una spada nella mano sinistra.
Tutti e tre rimasero immobili. Takeshi trattenne il respiro.

Stavolta, non era meravigliato dalla bellezza di una casa. Stavolta, aveva una corda al collo che aspettava di essere tirata.

«Sei ancora sicuro di voler venire?», sussurrò Tetsuya.

«Sono sicuro», rispose l'altro, senza staccare gli occhi dal vetro.

 

Scesero dalla carrozza, Oseroth disse al cocchiere di allontanarsi da quel punto e tornare fra tre ore – sempre se andava tutto per il meglio.

Riuscirono ad aprire il cancello facilmente. Il catenaccio era messo peggio di quanto sembrasse e con una spinta – brusca al punto giusto – questo si spezzò, cadendo a terra con un tonfo triste. Superato il cancello, attraversarono il sentiero lastricato. Intorno a questo c'era un giardino, la cui erba era secca e alta e, di tanto in tanto, veniva scossa da strani fremiti a causa degli animali nascosti all'interno.
Non si sentiva un alito di vento. Il freddo era intenso ma il silenzio anche di più.

Raggiunsero la fontana e Oseroth vi si fermò a guardarla con uno sguardo austero. La visione di quella scultura lo agitava. La sirena teneva la lama della spada vicina alla spalla, appoggiata. «Quella spada», disse a bassa voce il demone.

Takeshi arrestò il passo, proprio al fianco della fontana e sollevò gli occhi sulla spada che impugnava la sirena. Aggrottò la fronte. «Cos'ha che non... aspetta, ma... ».

«È la copia sputata di Anima», disse Tetsuya.

«Già. Ma c'era da aspettarselo, questa casa era di un Akawa, dopotutto». Oseroth la fissò ancora, nervosamente, e alla fine entrò nella fontana – ormai vuota da decenni; al suo interno, si avvicinò alla statua e allungò la mano. I polpastrelli saggiarono la superficie ruvida della coda, come se fosse fatta realmente di squame, e salì con la mano, lungo il fianco della sirena, come un pianista col suo strumento.
Alla fine, facendo un piccolo sforzo, raggiunse con la mano quella intorno all'elsa della spada e stringendola, come se si fosse spezzata, si inclinò in avanti di 40°, facendo puntare la lama verso il collo della sirena.

Qualche metro più in là, il grande e maestoso portone d'ingresso si aprì, lentamente e con un cigolio frastornante.

 

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Capitolo 18
*** Vedrai, sarai felice con me. ***


18.




Ryuu si stava rigirando tra le mani la chiave della stanza in cui avevano chiuso Yuki Akawa. La chiave, usurata dal tempo e macchiata di ruggine, sembrava molto pesante sul palmo ed emanava un forte odore di ferro. Ryuu la fissò allungo e poi la strinse fra le dita con forza, come se stesse provando a distruggerla.
Dopo quella amichevole chiacchierata, Ryuu aveva pensato, per un motivo che non capiva lui stesso, di farla uscire da quella stanza – chiusa e tappezzata come una scatola – per cambiare un po' d'aria.

Andiamo, lui non la odiava. Sinceramente non provava nulla. Per cui, che senso aveva farle passare un'agonia?

Ma Juri non era affatto convinta.

«Ma cosa ti importa se la signorina non si trova comoda?», con tono acido, aveva enfatizzato la parola "signorina" e si era seduta sul bordo del letto. Finalmente non doveva più indossare quella divisa e poteva tornare ai suoi bei abiti, femminili e merlettati, di buona fattura come piacevano a lei. Era stufa marcia di di quel gonnellone nero e il grembiule bianco.

«Niente, non mi importa niente», ribatté Ryuu, aggrottando la fronte. «Dico solo che non ci costa niente farle prendere un po' aria. Non credo proprio che sia un problema così grande».

«Ah, no? Ryuu, sentimi un po'», Juri tirò un sospiro esasperato, tenendosi la tempia fra l'indice e il medio. Non riusciva a credere che il suo compagno non ci arrivasse da solo. «Sai cosa succede se apriamo quella porta? Lei ci ammazza. Ecco cosa succede. Ci ammazza. E poi scappa, a gambe levate».

 

Ryuu rimase in silenzio, soppesando le parole della vampira. Lei sembrava sicura al 100% delle sue parole e, beh, c'era un fondo di verità abbastanza ovvio. Ciononostante, Ryuu faticava a pensare che quella mezzosangue li avrebbe semplicemente uccisi sul posto – se lo sentiva, a pelle; avevano passato poco tempo insieme, il giusto per portare a termine il loro compito, ma gli aveva trasmesso quella sensazione.

Il vampiro chiuse le labbra e alzò le spalle.

 

 

Il loro padrone, il loro signore – il loro creatore era Alyon Akawa. Lui gli aveva affidato quella missione: introdursi nella residenza e rapire la primogenita. Alyon non si era prolungato nei dettagli perché, fino a prova contraria, Ryuu e Juri non avevano il diritto di controbattere le sue decisione e men che meno di contrastarle. Tutto ciò che dovevano fare era ascoltare e ubbidire.
Alyon voleva parlare con Yuki di chissà cosa, ma non poteva farlo se attorno a lei c'era tutta quella squadra di bodyguard – questo aveva detto ai due vampiri e questo bastava ad entrambi. Non aveva certo chiesto di uccidere qualcuno o di fare azioni altrettanto ignobili.

«Solo un innocente rapimento», mormorò Ryuu, guardando verso le ginocchia di Juri, seduta di fronte a lui.

«Che?», sbottò la vampira. Sbuffò, roteando gli occhi, e si alzò in piedi. «Ryuu, ma dimmi una cosa: non sei contento di come stanno andando le cose?».

Ryuu si riscosse dai suoi pensieri. Se era contento? Lentamente, sollevò lo sguardo per puntarglielo addosso. «Sì», rispose, senza una vera e propria espressione. «Sì, sono contento».

«Ecco, sarà meglio, perché sei stato proprio tu a decidere di diventare un vampiro e io... ».

«E tu non volevi abbandonarmi a me stesso», disse Ryuu, sorridendo.

Juri annuì. «Non volevo e non potevo. Il mio dovere è quello di starti accanto, per tutta la vita».

«Per tutta la vita, eh? Juri... stai ancora continuando con questa storia?».

 

Ma la vampira non rispose mentre un luccichio animava il colore dei suoi occhi. Fece un passetto in avanti e si infilò nello spazio del giovane uomo. Piegò la schiena e appoggiò le labbra su quelle di Ryuu. Nel silenzio della stanza, si sentì un leggero e delicato schiocco.
Juri aveva chiuso gli occhi, ma non Ryuu – no, lui aveva aperto i propri e poi, dentro di sé, aveva sospirato.
Juri si allontanò, l'ombra di un sorriso sulla bocca, le guance un po' arrossate. «Ci vediamo dopo, okay? E non fare stupidaggini, te ne prego», velocemente, aveva aperto la porta ed era uscita dalla camera.

 

Ryuu aveva seguito i suoi movimenti con lo sguardo e quando era uscita, aveva premuto due dita contro le proprie labbra, scuotendo la testa. Faceva sempre così.
Non erano una coppia in senso sentimentale, si conoscevano da tanto – tanto, tanto – tempo e lui sapeva che Juri era innamorata di lui – lei gli aveva confessato i suoi sentimenti.
Ryuu non rifiutava i suoi baci – e non c'era mai stato altro – o i suoi abbracci, perché... perché?

Non sapeva ancora cosa provava per lei, ma sapeva di volerla proteggere.

«Ma che senso ha pensarci adesso?», si chiese, mentre anche lui lasciava il letto su cui si era seduto.

 

 

Quella era diventata la loro stanza quando il signor Alyon aveva deciso di andare a sistemarsi in quella casa: la stessa in cui aveva vissuto con la sua famiglia e la signora Kazumi.

Avevano bisogno di un posto dove stare e quello era il migliore – oltre all'unico disponibile – su tutti i punti di vista; una grande villa con numerose stanze e finestre, di carattere barocco, che si divideva in sotterranei, piano terra e piano superiore. Alle spalle della casa, c'era una grande serra per farfalle, ormai in disuso da secoli.
L'interno della casa era ormai ridotto al collasso più totale. I vetri delle finestre erano ricoperti di polvere, gli angoli degli infiniti corridoi tappezzati di ragnatele e se tendevano le orecchie potevano sentire i topi attraversare le tubature e le pareti stesse.
La cucina, al loro arrivo, era piena di cibo – ammuffito – ma nei sotterranei c'erano sacche di sangue e corpi conservati in una sorta di obitorio.

Oh , i vampiri e i demoni della vecchia scuola ci tenevano alla loro alimentazione.

 

La stanza stessa di Ryuu e Juri non era messa molto bene. Aveva due letti, singoli, separati da un piccolo comodino con sopra un abat-jour di ceramica, bianco, con dei fiori disegnati sopra. Sarebbe stato carino, se solo non fosse diventato la casa di un paio di ragni.

Ryuu uscì dalla stanza. Appena fuori, si apriva un lungo corridoio di fronte e uno a destra, breve, che si concludeva con una porta – sinceramente non si ricordava ancora la planimetria.
Prese il corridoio a destra e sorpassò la porta, sbucando in un altro corridoio. Cercando di fare mente locale, continuò a percorrere la strada, passando da una porta all'altra, fin quando non raggiunse un'altra a due ante; la aprì con fare scocciato, entrando in una grande stanza. Lì dentro, sulla parete di fronte, c'era solo un'altra stanza e tre finestre sul muro a destra.

La fissò per qualche istante, tentennando. Forse era proprio una cattiva idea. Forse avrebbe dovuto girare i tacchi e basta.

Ciononostante, si appoggiò alla superficie della porta, mettendoci contro l'orecchio – ignorando la vocina che gli dava dell'idiota. Non si sentiva niente, se non un respiro regolare e leggero. Forse stava dormendo... d'altronde, si era arrabbiata parecchio durante la loro chiacchierata, e aveva usato i suoi poteri a sproposito.
Dubito che volesse mettersi a dormire, deve aver cercato di rompere qualcosa, pensò Ryuu, ora che ci penso, sono almeno sei ore che sta nel totale buio.

Persino per una creatura sovrannaturale, dopo un po' di totale oscurità, la cosa cominciava a diventare pesante. Figurarsi sei ore.

 

Lentamente, Ryuu allontanò la testa dalla porta e cercò la chiave nella tasca del pantalone, toccandola con la punta delle dita. Senza ulteriori indugi, infilò la chiave nella toppa della serratura e fece un giro verso destra. La porta emise un suono quando la serratura fu sbloccata e cigolò rumorosamente mentre si apriva.
Davanti ai suoi occhi, il vampiro vedeva solo un salotto spoglio – e un divano capovolto. Sì, doveva essersi arrabbiata molto, ma forse non aveva effettivamente provato a scappare, il ché era strano.

Ryuu fece un passo all'interno, facendosi risucchiare dall'oscurità.

Ma lì... non c'era nessuno.

Oh no. Oh, no no no... , quello sì che era un problema. Se quella ragazza era fuggita, il signor Alyon non ne sarebbe stato contento. No, accidenti, doveva trovare Juri e–

 

«Fermo lì», disse una voce femminile. Ryuu rimase immobile, gli occhi puntati davanti a sé, verso la parete di vetro plastificato. Sentì i suoi passi, ammorbiditi dalla moquette, l'aria spostarsi mentre si muoveva.
Il vampiro non osava muovere una falange, il respiro gli si era fermato in gola. All'improvviso, accanto a lui, una forte luce si espanse come un fuoco fatuo.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Yuki Akawa era uscita dall'angolo dietro la porta e dalla sua mano scariche elettriche si diradavano come serpenti. Ad un passo di distanza, la mezzosangue teneva il palmo aperto, mentre col piede destro spinse la porta per accostarla.
«Certo che sei proprio stupido», disse. «Oppure molto depresso. Dammi la chiave. Ti ho sentito mentre la usavi».

«Aspetta», disse Ryuu. Alzò le mani, tenendole in alto in modo che lei potesse vederle chiaramente. «Io volevo solo farti prendere un po' d'aria».

«Un pensiero molto carino dopo tutte queste ore. Grazie tante. Come se avessi accettato». Yuki fece un passo in avanti, tenendo più dietro il braccio ormai pregno di elettricità.

No, non poteva lasciarla scappare o chissà cosa sarebbe successo a lui e Juri.

 

Tutto ad un tratto, Ryuu ruotò di scatto, alzando la gamba per sferrare un calcio verso di lei – ma Yuki si era già abbassata, aveva afferrato la sua caviglia e stretto le dita piene di elettricità sulla sua gamba. Un urlo di dolore partì dalla bocca del vampiro mentre tutto il suo corpo veniva trafitto da migliaia di aculei.

Yuki lasciò la sua caviglia e il vampiro cadde a terra con un tonfo. «Ci hai provato, te lo concedo», soffiò l'albina; si rialzò in piedi, per avvicinarsi all'uomo e guardarlo in faccia. Aveva gli occhi semiaperti, la bocca socchiusa e un tic continuo lo faceva sussultare.

Yuki lo fissò con freddezza. Nelle iridi non c'era altro che gelo – se l'era meritato.

A quel punto, senza indugiare ancora, gli diede le spalle per avvicinarsi alla porta, ma quando mosse il primo passo sulla moquette, si sentì afferrare il tacco dello stivale. L'albina si voltò in uno scatto di rabbia, digrignando i denti e mostrando un paio di canini aguzzi. «Sei insistente».

«Aspetta», ansimò il vampiro. «Aspetta un... attimo».

«Ne vuoi ancora?».

«No, devi.. devi ascoltarmi. La tua amica. La tua amica ce l'abbiamo noi... ».

 

Al suono di quelle parole, il colore rosso comparve al posto del dorato; lei si buttò sulle ginocchia e afferrò il bavero della maglietta dell'uomo, sollevandolo da terra. Faccia a faccia, il suo viso era quanto più simile a quello di un demonio. «Dove».

«Io non... ».

«Dove. Se non vuoi che ti ammazzi seduta stante, dimmi dove».

Ma Ryuu stava sorridendo, mostrando un accenno di denti. «Ti piacciono proprio... gli umani, eh?».

Yuki abbassò le sopracciglia sugli occhi. Stringendo la sua presa, lo spinse contro il pavimento, facendogli picchiare la schiena e la testa con forza – il vampiro cacciò un colpo di tosse e la voce gli morì in gola, sofferta dal dolore improvviso. «Parla. Non mi farò nessuno scrupolo ad ucciderti, sappilo».

Il vampiro respirava in modo irregolare, la vista gli si faceva opaca. Aveva fatto una stupidaggine enorme. Non avrebbe dovuto andare lì. Ma non poteva lasciare che lei fuggisse e in qualche modo... Yuki Akawa doveva rimanere in quella villa perché così aveva voluto il signor Alyon.
Allora Ryuu aprì meglio gli occhi e prese le mani dell'albina, stringendole nel tentativo di staccarsele di dosso. Era assurdo, quella ragazza avrebbe dovuto essere sfinita, a quel punto, eppure aveva una forza inimmaginabile.

 

Ryuu sbuffò dalle narici, cercando di allontanarla – mentre sentiva le vene sul suo collo ingrossarsi. «Perché tanta fatica per un essere umano?», tartagliò.

«Come fai a dire una cosa del genere?», esclamò lei. «Eri un umano anche tu, idiota».

«Non l'ho voluto io. Non volevo nascere come un... », si abbandonò alla sua morsa, tenendo le mani intorno ai suoi polsi. Come una bambola rotta, la testa ciondolò verso il pavimento. «... come un umano, un'insulsa creatura che non riesce a fare niente se non arrecare dolore. Io non volevo nascere così. Volevo solo essere forte e libero, per poter vivere la vita come meglio credevo. Insieme a Juri».

«E cosa c'entro io? O la mia amica? Cosa c'entriamo noi?».

«Voi non c'entrate niente».

«Allora dimmi dov'è!», urlò Yuki.

 

 

Ryuu spalancò gli occhi.

Nel profondo, il vampiro sapeva che non erano tutti così male. Un po' lo sapeva, eppure... lui voleva solo difendere se stesso e la sua Juri, tutto qui.
Per un attimo pensò di mollare tutto. Di lasciarla scappare, prendere Juri e fuggire via lontano, cosicché non dovessero più sottostare agli ordini di quell'uomo; li aveva accolti, era vero, li aveva trasformati quando loro gliel'avevano chiesto, era vero anche questo. Ed era stato anche gentile con loro.

 

Ma poi, basta.

 

 

«Ti è tornata la memoria?», sbottò la mezzosangue. «Dov'è la mia amica? Tu devi dir– ».

Yuki si fermò, come se avesse visto un fantasma; la presa al bavero si allentò tanto che Ryuu riuscì ad alzare parte della schiena, guardandola con sconcerto.
La vide mentre si portava una mano alla bocca e l'altra
alla gola – si piegò su stessa e tossì sangue sulla moquette. Improvvisamente, una copiosa colata di sangue fuoriuscì dalle sue labbra, ricoprendo il mento come una cascata.

Con la mano alla gola, la mezzosangue continuò a tossire, un colpo dopo l'altro, cercando di non strozzarsi nel suo stesso sangue – che accidenti le stava succedendo?

 

Il dolore che stava sentendo, l'affanno mentre cercava di respirare e mandare giù il sangue che affollava la sua gola – si buttò a terra, premendo la fronte sulla moquette, senza smettere di tossire bile di sangue.

 

 

Ryuu allora ne approfittò, spostandosi velocemente da quel punto e cozzando il collo contro il tavolino – mentre, finalmente, si rendeva conto che la porta era aperta e Juri stava sulla soglia, immersa nella luce del corridoio. Con una mano tesa verso Yuki Akawa, e i suoi occhi rossi e famelici.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Oseroth, Takeshi e Tetsuya stavano guardando la porta come se essa fosse l'entrata all'Inferno. Anche dopo che si era aperta, tutti e tre non si erano mossi di un centimetro, rimanendo fermi ai loro posti. Oseroth aveva tolto la mano da quella della sirena ed era uscito dalla vasca della fontana, scavalcando il parapetto. Lui e Takeshi si erano quindi avvicinati a Tetsuya, che era qualche metro più in là; salirono gli scalini che precedevano l'entrata e raggiunsero la grande e imponente porta di ferro.

Adesso che era aperta, potevano vedere bene o male cosa ci fosse all'interno.

Agli occhi di Takeshi quello non era altro che l'inchiostro più nero.

 

Dall'interno di quella casa – o meglio, dalla tomba di una gloriosa casa –, giungeva un vento freddo e sibilante, come la voce di un fantasma. Tetsuya sollevò il volto, osservando le finestre dai vetri rotti e le tende strappate e logore. «Questa villa non è stata abitata da molto tempo», osservò il vampiro. Abbassò il viso, rivolgendosi ad Oseroth. «Dopo che Kazumi è andata via, non ci ha vissuto più nessuno?».

«Kazumi mi aveva raccontato che i suoi genitori erano ancora in questa casa quando lei la lasciò. Dubito tuttavia che siano rimasti poi molto allungo».

«Che ragioni avevano per andarsene?», chiese Takeshi.

Oseroth non rispose. Si limitò a guardare la facciata della villa, con uno sguardo che non lasciava presagire nulla di buono.

 

 

Dopo essersi assicurati di non essere seguiti da nessuno, i tre entrarono dentro. Mettendoci un po' di forza erano riusciti ad appannare la pesante porta di ferro, rimanendo immersi nel buio. Takeshi aveva messo mano al coltello che teneva infilato nei passanti della cintura – ancora una volta, la consapevolezza che quelle armi erano inutili si affacciò nella sua testa. Tuttavia, era sempre meglio che rimanere del tutto disarmati.
Per il momento, pensava di poterlo lasciare nella cintura.

«Noi», esordì Oseroth, a voce molto bassa. «non riusciamo a rimanere per molto tempo nello stesso posto. Ci annoiamo in fretta».

Takeshi sollevò lo sguardo, trovando la schiena del demone di fronte a sé. «Mi sembra... giusto».

 

L'interno era gigantesco, più grande di qualsiasi casa il ragazzo avesse mai visto. Faceva parecchia fatica a distinguere qualsiasi cosa in quel fitto buio, ma riuscì almeno a distinguere l'assenza di mobilio – d'altronde, era una casa disabitata.
Si apriva un ampio atrio polveroso e in fondo ad esso un secondo cancello di ferro, da cui si intravedevano dei gradini; ad entrambi i lati della cancellata c'erano delle scale rettilinee, forse un tempo in legno, a cui mancavano svariate assi. Queste portavano al piano superiore, che da quel punto Takeshi non riusciva a vedere.
Tutto intorno c'erano svariate porte e corridoi che imboccavano in tetre vie – e potenzialmente pericolose.

«Da dove iniziamo?», disse Tetsuya, mentre si guardava intorno.

«Questo posto è enorme, potremmo provare a dividerci», propose Takeshi.

«No. È meglio stare insieme. Se disgraziatamente incroci qualcuno di loro, per te è la fine». Oseroth alzò il volto, verso il rosone che spiccava in alto. «Se fossi Alyon, dove rinchiuderei mia nipote?».

«La mia pericolosa, ribelle e violenta nipote, vuoi dire?», disse il vampiro biondo.

Oseroth aprì gli occhi. «Giusto, esatto. Pericolosa, ribelle e violenta. Fossi in lui, la lascerei in un posto resistente e ben nascosto».

«E difficile da trovare, persino per i miei complici», continuò Takeshi, annuendo – un ululato di vento gli fece socchiudere gli occhi; paradossalmente, in quel modo, la sua vista si era fatta abbastanza acuta da permettergli di vedere qualcosa in fondo, oltre la cancellata. «E quello cosa– ».

«Sta arrivando qualcuno, dobbiamo nasconderci».

 

Più veloci della luce, i tre si erano allontanati dal portone per infilarsi nel corridoio alla loro sinistra. Takeshi si piegò, appoggiando un ginocchio a terra e le spalle contro la parete, mentre gli altri due tendevano le orecchie per ascoltare.

Tap, tap, tap.

Il suono di quei passi era continuo come una cantilena. Riecheggiavano lugubri. Takeshi si sporse leggermente oltre l'angolo. Non ci vedeva ancora bene, ma sembrava un uomo. Senza dire niente, guardò Oseroth e Tetsuya e gli fece un cenno d'assenso.
A quel punto, entrambi uscirono dall'angolo in uno scatto fulmineo, e il nemico sobbalzò per la sorpresa; il biondo gli corse incontro fino a balzargli addosso, buttandolo a terra di peso. Il nemico sollevò un braccio per afferrare la gola di Tetsuya, ma Oseroth gli calciò il braccio, rompendolo come un ramo secco, e si piegò sulle ginocchia. Con un colpo deciso ruppe il collo dell'uomo.

A quel punto, Takeshi uscì dal corridoio e si avvicinò al corpo morto – quando gli fu vicino, ebbe un attimo di esitazione. Quell'uomo era appena morto, il suo cadavere era caldo come se fosse vivo.

Giusto. Loro uccidevano... si uccidevano tutti, a vicenda, e non potevano mostrare debolezze se volevano sopravvivere.

 

Socchiuse le palpebre e inspirò profondamente. Si piegò sulle ginocchia e cominciò a tastare il cadavere, cercando nelle tasche del pantalone, della giacca. Niente. «Non ha niente di rilevante, addosso», disse, rimettendosi in piedi.

«Buona idea perquisire», disse Tetsuya. «Stai bene?».

Takeshi serrò le labbra. «Sì, è tutto okay».

«Non c'è tempo da perdere», tagliò corto Oseroth. Ai loro piedi, il corpo si stava dissolvendo in polvere – era un demone, appurò Takeshi, guardando i granelli del suo organismo confondersi con le ragnatele. Oseroth ruotò i piedi verso la cancellata, da cui adesso arrivava una luce bianca che, a contatto con le pareti di pietra, creava un bagliore bluastro. «Proviamo da quella parte. Se volessi rinchiudere mia figlia, un posto come la cripta di famiglia sarebbe la mia prima scelta».

«Buono a sapersi», fece Takeshi.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

A pochi centimetri dalla porta, il corpo di Yuki era steso esanime, e del sangue che aveva tossito non c'era alcuna traccia. Juri, invece, era furiosa. La luce che giungeva dalle spalle della vampira era quasi accecante per gli occhi sbarrati di Ryuu.

Lui era ancora a terra, il collo contro il bordo del tavolino. La vampira dai capelli scuri si era piegata sulle ginocchia. «Cosa ti diceva la testa?», urlava, strattonandolo dal colletto della maglietta. «Cosa?! C'è un motivo se ti ho detto di non farlo! Perché lei ti ammazza, hai capito?!».

Ryuu guardò il corpo esanime dell'albina come se volesse attraversarlo con lo sguardo – poi, lentamente, tornò dalla sua compagna. «Juri», disse, a fior di labbra. «Andiamo via da qui».

Juri aprì la mano, aprendo gli occhi. «Che? Ma che stai–... ».

«Fuggiamo. Io e te. Andiamo via da qualche parte, purché sia lontano da tutto questo». Ryuu si sollevò da quel punto, rimettendosi lentamente in piedi. Prese Juri dai gomiti, facendola alzare con gentilezza – quando furono faccia a faccia, lui la guardò negli occhi. «A me non importa di niente, se non di te. Il mondo è enorme e noi siamo ancora... dai, siamo giovani. C'è tutto un universo da vedere e noi che facciamo? Seguiamo quell'uomo dovunque lui vada, dovunque ci dica di andare. Andiamo in Persia. Scozia, India, Francia. Dove vuoi, purché siamo solo tu ed io».

 

Juri si sentì le labbra tremare. Accanto ai loro piedi, però, c'era ancora Yuki Akawa.

Oh... perché gli venivano in mente certe idee, in un momento del genere? La vampira avrebbe davvero voluto, che so, infuriarsi per il suo pessimo tempismo – ma poi, alla fine, accettare. Però, tuttavia... lei non... chiuse gli occhi, riflettendo qualche istante.
Poi, puntò lo sguardo nocciola in quello di Ryuu. Il suo compagno. «Vabbene. Facciamolo», lui aprì le labbra in un grande sorriso, ma lei lo fermò, premendogli le mani sulle spalle. «Però, dobbiamo prima portare a termine questa... qualsiasi cosa sia. Finiamo questo lavoro, e poi ce ne andiamo dove vuoi. Affare fatto?».

«Affare fatto».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Alyon camminava facendo su e giù. Di tanto in tanto, i suoi occhi ricadevano sulla nipote, sprofondata in uno stato d'incoscienza; era stesa su un letto di pietra, le caviglie e i polsi costretti da corde ben strette, la sua uniforme scolastica ormai pregna di polvere.


Avevano dovuto spostarla nella cripta molto prima del tempo.
Sì, la possibilità che lei si ribellasse o gli tirasse qualche tiro mancino, beh... era molto alta. Per questo si era tenuto pronto. Per fortuna, Juri e Ryuu erano stati abbastanza bravi – dopo che Ryuu aveva fatto un danno – da intercettare il suo tentativo di fuga, ed era andata bene.

La cripta di quella casa era avvolta da un'aria umida e fredda, pungente sulla pelle. Dopo che si superava la cancellata, si continuava per un lungo corridoio di pietra, finché non si raggiungeva un grosso portone, pesante e antico. Da quello si entrava nel fulcro della cripta: un'ampia stanza di forma circolare, vuota, costituita da qualche rialzo di cemento. Sulla parete in fondo, c'era una grossa pozzanghera d'acqua, e le uniche fonte di luci erano delle lanterne che proiettavano luci bianche e blu. Al centro di quel posto, un massiccio rialzo di roccia, che fungeva da altare.
Ed era lì che Yuki era sdraiata.
Alyon si avvicinò a quel punto, appoggiandoci le mani per sporgersi. «Quando dormi sei più bella», disse. «Decisamente molto di più». Piano, l'uomo piegò la schiena, avvicinando il suo viso sempre di più a quello della mezzosangue. Riusciva a sentire il suono flebile del suo respiro. Regolare, sottile.

 

A quel punto, Alyon sorrise ancora una volta, allontanando il volto dalla sua cara nipote. «Vedrai, ti piacerà stare al mio fianco. Come una vampira completa».

 

 

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Capitolo 19
*** Furioso. ***


19.



«È un problema», commentò Tetsuya.

«Un bel problema», annuì Oseroth.

Takeshi arretrò lentamente e sollevò il mento verso l'alto, alla ricerca spasmodica di qualche indizio che potesse aiutarli. Niente da fare, solo in quel modo non avrebbe carpito niente da quella casa maledetta. Il buio inghiottiva le pareti come un lupo feroce.
«Dannazione», sbraitò il biondo, le mani intorno alle sbarre della cancellata. Per quanto la scuotesse, per quanto cercasse di spalancarla, non c'era verso. Neppure la forza sovrumana o il fuoco avevano sortito qualche effetto.
Tetsuya imprecò sottovoce e si rivolse ai due. «A questo punto non ci sono dubbi: questo non può essere un materiale comune».

Takeshi abbassò lo sguardo. «Aspetta... », in due passi, il moro si fece vicino alla cancellata, avvicinandoci il volto, fino a sfiorarla con la punta del naso. Proprio lì, ricoperto dalla ruggine di decenni, affiorava un bagliore giallognolo. Era appena appena visibile. «Che cos'è?».

«Quello è... oro?». Oseroth chinò il capo, aguzzando la vista. Le sue pupille, strette come aghi, si dilatarono per un istante. «Non ci sono dubbi. Si tratta proprio di oro».

Tetsuya digrignò i denti, passandosi una mano sulla tempia fino alla radice dei capelli biondi. «Per questo non riuscivamo ad aprire questo dannato cancello. Potevamo provare all'infinito, ma con la forza non si sarebbe mai aperto. Ma perché diavolo è fatto in oro?».

«L'oro è uno dei metalli più nobili», disse Takeshi – sebbene, in realtà, stesse riflettendo ad alta voce. «Ed è... strettamente legato al sole».

 

Oseroth si voltò verso il ragazzo. Sul viso aveva un espressione seria, impenetrabile, e apparentemente infastidita. Tuttavia, stava provando un vago senso di meraviglia, nei confronti dell'umano. «Precisamente. Il sole non ci ha mai dato la sua benedizione», ruotò la testa di lato. «e non ha mai accolto noi creature notturne. Potremmo dire, in breve, che si tratti di un nostro nemico e... rivale».

«E l'oro ha lo stesso ruolo?».

Il demone annuì. «L'oro è in grado di ostacolarci. Un'arma, se rivestita di quel metallo, potrebbe esserci fatale».

«Se le cose stanno così», disse Tetsuya. «ho ragione di credere che ci sia una chiave, qui da qualche parte, e che possa permetterci di aprire la serratura del cancello. Dobbiamo trovarla».

 

Ma era più facile a dirsi che a farsi. Quella casa era gigantesca, addirittura più delle sfarzose tenute dei Fukanishi, e Alyon aveva ovviamente nascosto per bene la chiave – sempre ammesso che non ce l'avesse lui.
Se fossi Alyon, pensò Oseroth, dove metterei una chiave così importante?
Ai propri sottoposti? Immobile in quel punto, il demone percepiva chiaramente la presenza di svariati vampiri, ma anche di demoni, che pullulavano in quella casa come formiche operaie. Naturalmente, Alyon aveva trasformato molta gente in vampiri, ma Oseroth dubitava che avesse lasciato la chiave ad uno qualunque dei suoi servi. Se lui fosse stato nella sua situazione, l'avrebbe lasciata alla persona più fidata.
In questo caso, l'unica risposta che gli saltava alla mente... «Quei due», bisbigliò. «La chiave ce l'hanno quei due, Juri e Ryuu. Certo, non ci scommetterei la testa, ma è l'unica opzione sensata che mi viene in mente».

 

Tetsuya si spostò fino al centro della sala. Da quel punto, se sollevava gli occhi verso l'alto, riusciva a vedere il secondo piano aprirsi in corridoi e porte. Era un vero e proprio dedalo. «Già, sono d'accordo. Propongo di dividerci, sempre se vogliamo chiudere la faccenda in questo secolo».

«Sia. Tu e... », Oseroth fece per continuare, ma si bloccò, puntando i suoi occhi sul profilo di Takeshi. Se gli fosse mai accaduto qualcosa, sua figlia non gliela avrebbe mai perdonato, né in quella vita e né nelle prossime a venire. «... tu e Takeshi andate insieme».

«Ah... okay», disse Takeshi, sorpreso. «Faccia attenzione».

Oseroth indugiò. «Anche voi. Sbrighiamoci».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Immersi nelle ombre del corridoio,Takeshi faticava ancora a focalizzare ciò che aveva di fronte. I suoi occhi non si erano ancora abituati a tutta quella oscurità, al contrario del vampiro, distante meno di un metro rispetto all'umano; Tetsuya camminava ad una lentezza esasperante, tenendosi incollato con la schiena alla parete, tastandone la superficie come se stesse cercando una porta segreta.
Takeshi si rendeva conto che in un luogo del genere la prudenza non era mai abbastanza. Dunque, il comportamento dell'amico era più che logico – tuttavia, non poteva fare a meno di provare nervoso: voleva andare da lei.

Le avevano fatto del male? Oppure, peggio ancora... l'avevano uccisa?

Stando al ragionamento di Tetsuya, no, non l'avrebbero uccisa – né ora né mai. Quindi Yuki doveva essere ancora viva e vegeta.

Se è così, allora non devo preoccuparmi. Sta bene, pensò, mentre lui e Tetsuya si fermavano all'angolo del muro.

Takeshi si era piegato sulle ginocchia, concedendosi un profondo respiro, mentre Tetsuya si affacciava all'angolo. Cominciava ad accusare la stanchezza. Indirizzò gli occhi verso il vampiro, guardandolo con una punta di agitazione.

«Tetsuya», bisbigliò. «riesci a vedere qualcosa, o qualcuno? Possiamo continuare?».

«No, non vedo nessuno. La strada è libera».

«E invece senti qualcosa?».

«In effetti sì».

«E cosa senti?».

«Te».

 

Takeshi lo guardò con la fronte corrugata e un evidente smorfia sul viso, ma la cosa l'aveva fatto sorridere un pochino.

 

Continuarono a camminare. L'ultima stanza in cui erano entrati e che avevano perlustrato si era rivelata un buco nell'acqua. Avevano ormai attraversato un bel pezzo di quel lato della casa, e nessuna delle stanze che avevano setacciato aveva la chiave che cercavano.
La possibilità che la chiave fosse nelle mani – direttamente – di Ryuu e Juri era sempre più alta.

Il corridoio, tappezzato da porte e qualche sporadico suppellettile malconcio, era giunto al termine. Erano arrivati in una grossa stanza rettangolare; sul lato sinistro c'era una fila di finestre e un paio di mobili d'arredamento, mentre sulla destra le due ultime porte.

Tetsuya si avvicinò alla porta più vicina. Appoggiò la mano sul pomello coperto da un leggero strato di polvere e lo ruotò lentamente. Esso emise un suono, molto più rumoroso di quanto avrebbe dovuto. Spinse la porta in avanti di un pochino, guardando nella fessura: un'altra stanza completamente al buio, come tutte le altre che avevano visto, ma questa sembrava più moderna, forse dei primi decenni del 1900; al centro della stanza c'era un tavolino, lungo e basso, e dietro di lui un divano scuro... capovolto.
Sulla parete di fronte erano affissi diversi quadri e quadretti.

«Tetsu», bisbigliò Takeshi dietro di lui. «Entriamo a dare un'occhiata. Male non farà».

«Qui è diverso dalle altre camere che abbiamo perlustrato. Sembra ci sia stata... una lotta».

«Una lotta?».

Tetsuya aprì ulteriormente la porta, lasciando campo libero anche al moro.

Takeshi si guardò intorno, socchiudendo le palpebre, riconoscendo in fondo una parete traslucida che dava in un'altra piccola stanzetta. «L'hai visto quello?», chiese Takeshi, indicando quel punto. «Dev'essere stata aggiunta di recente».

Il vampiro guardò in quella direzione e annuì. «Vuol dire che Alyon stava qui già da un po', per permettersi le “ristrutturazioni”», disse, aggrottando la fronte. «Aspetta».

Takeshi si voltò verso Tetsuya, staccando gli occhi dalla parete, notando la sua espressione quasi sconcertata.

«Che hai? Mi fai prendere un colpo!».

«Questo odore lo conosco», disse il vampiro. Tentennò un istante. «Forse mi sbaglio ed è tutto frutto della mia preoccupazione, ma... ».

«Ma?», incalzò il moro.

«Ma questo è l'odore di Yuki. Sono sicuro al 90% che è proprio il suo. Ah, non guardarmi così, non... ».

 

Tetsuya roteò gli occhi. Lo sguardo dell'amico si era decisamente insospettito, si era fatto addirittura aguzzo. Tuttavia, esso sparì piuttosto in fretta, lasciando il posto ad un viso più tranquillo. «Allora è stata qui – con o contro la sua volontà. E a giudicare dal divano... direi contro».

«Dobbiamo trovarla. Subito», sussurrò il vampiro.

 

 

I due si guardarono, entrambi certi di qualcosa: in quella stanza era accaduto qualcosa. Qualcosa che poteva essere stato un aggravante per l'albina.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Oseroth stava scostando una tenda quando alle sue spalle aveva udito dei passi. Con un movimento fulmineo, aveva scavalcato il parapetto della finestra – il cui vetro era ormai un vecchio ricordo – e si era calato giù, tenendosi in equilibrio sul massiccio cornicione che cintava il secondo piano della residenza. Inclinando la testa e la schiena, era riuscito ad accovacciarsi sotto la finestra, tendendo le orecchie come un pipistrello.

 

«Allora?».

«Allora cosa?».


Oseroth socchiuse le palpebre. Erano Juri e Ryuu. Le loro voci erano inconfondibili.

 

Ma soprattutto, sembravano di buon umore, allegri e spensierati come bambini; lei parlava divertita, ridacchiando di tanto in tanto, mentre Ryuu sembrava leggermente esasperato, forse proprio dalla ragazza.
Ah, chissà come facevano ad essere così rilassati. Avevano rapito una persona e si comportavano come se di fronte a loro si stesse diradando un parco giochi. Oseroth chiuse le mani in pugni talmente forte che la pelle sulle nocche stava diventando più bianca dei suoi capelli.
Sì, era furioso.
Furioso perché avevano osato rapire sua figlia, la legittima erede del casato Akawa.
E non era solo questo, per lui. Non lo diceva a nessuno, nemmeno a se stesso, ma quella ragazza era la sua amata figlia – non l'avrebbe di certo lasciata a quel depravato di Alyon.

 

«Guarda che non manca molto alla fine della missione, dobbiamo darci una mossa a scegliere la nostra destinazione», fece Ryuu. Il demone, che ascoltava il loro discorso, dedusse che dovevano essersi fermati nei pressi del suo nascondiglio improvvisato. «Anzi, in teoria è già finita; dobbiamo solo assicurarci che lei non scappi».

«E nient'altro?», domandò Juri, incalzante. «Sicuro?».

«Ah, sì: dobbiamo anche distruggere la chiave della cripta. Dannata chiave. Non ne posso più di portarmela in giro, sono sempre costretto a mettermi i guanti per non bruciarmi».

 

La chiave!

Dannazione. Non dovevano distruggerla, altrimenti entrare nella cripta sarebbe diventato il doppio più difficile – e con un umano a carico, non era proprio dell'umore per il pericolo.

 

«Già. Che palle».

«Che signora».

«Ma smettila», Juri scoppiò in una risata cristallina. «Come se fosse mai stato un problema. Adesso ci muoviamo? Dobbiamo fare le valige e tagliare la corda».

 

È così stanno per lasciare Alyon, pensò il demone, dopo avermi creato non pochi grattacapi.

L'uomo albino fece una gran fatica a trattenere i ringhi. Sentì Ryuu acconsentire, e il duo ricominciò lentamente a percorrere la moquette del corridoio – ma dopo appena due passi, Oseroth scavalcò il parapetto e tornò dentro l'edificio, flettendosi sulle ginocchia al momento dell'atterraggio.
I due vampiri si voltarono allo stesso tempo e alla vista del demone sbiancarono dalla testa ai piedi. Oseroth appoggiò le mani a terra e scattò verso i due, come un atleta ai posti di partenza.

«Ma cosa– », Juri, presa alla sprovvista, incrociò le braccia di fronte al viso e cadde sulle ginocchia, urtata da un violento schiaffo di vento. Arrancando, riuscì a gridare: «Ryuu! Prendilo!».

«Mi piacerebbe, ma... ». Ryuu, gli occhi rossi, respirava affannosamente. Oseroth Akawa era già un ricordo lontano. Non c'era. Dissolto nel nulla.

«... è sparito», tartagliò la vampira, le labbra tremanti. «Dannazione. Che accidenti è stato?».

«Dobbiamo subito... oh, no».

«Che c'è?».

Ryuu, nervosamente, si stava tastando le tasche dei pantaloni, tutte e quattro, a ripetizione. Poi, in un gesto rassegnato, si guardò i palmi delle mani e li richiuse, incidendo le unghie nella stoffa dei guanti. Il vampiro tirò un profondo sospiro e chiuse le palpebre, forse per rielaborare l'accaduto. Con rabbia, si rivolse alla ragazza. «Ha preso la dannata chiave».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

La mano bruciava. Più stringeva tra le dita quella chiave, più essa gli impartiva una punizione – e diventava man mano più cattiva. Ma non poteva fermarsi. Finalmente era riuscito a trovarla e non l'avrebbe di certo lasciata andare.

L'oro con cui era stata forgiata la chiave sembrava volersi infilare sotto la pelle di Oseroth, tanto per fargli un dispetto. Il demone però, non desisteva, non era proprio nelle sue corde un simile atteggiamento.
Era da molto tempo che non metteva in moto quella vecchia carcassa del suo corpo. All'esterno, esso appariva perfettamente in forma, sano e ben formato, ma all'interno non lo era più così tanto, complice i secoli che pesavano sulle spalle, il lungo tempo trascorso nell'immobilità; tuttavia, non era messo ancora malissimo e poteva continuare fregiarsi del titolo di spaventoso demone o, come qualcuno diceva di tanto in tanto, “Re albino”. Per lo meno, il suo sguardo intimidatorio faceva metà del lavoro.

 

Poco prima di scagliarsi verso Ryuu e Juri, aveva avuto il dubbio che non ce l'avrebbe fatta.

A paragone con due forze fresche – sicuramente più di lui – come quei due vampiri, Oseroth non aveva pensato di farcela. Tuttavia, quando aveva mosso le gambe, il suo intero corpo non l'aveva tradito. E ce l'aveva fatta.
Era riuscito a sottrarre la chiave dalla tasca di Ryuu in un batter d'occhio.

 

«Ma quello è– signor Oseroth». Il demone era spuntato dalle scale, il respiro appena affannato, e il palmo della mano ridotto ormai allo stremo. Una leggera strisciolina di fumo si levava dalla sua stretta. Il demone guardò di fronte a sé, Takeshi e Tetsuya si stavano avvicinando rapidamente. «Che fortuna essersi incontrati», disse Takeshi, con un espressione malgrado ciò preoccupata – poi però, i suoi occhi notarono quella sorta di fumo dalla mano dell'uomo e la sua espressione si aggravò. «La sua mano è... ».

«Oseroth», proruppe Tetsuya, un po' agitato. «Hai trovato la chiave?».

 

 

Oseroth chinò il viso e aprì lentamente la mano, dito dopo dito. Alla vista della ferita, che si faceva via via più brutta, entrambi i ragazzi reagirono con stupore.

«La dia a me», disse Takeshi. «Non mi farà alcun male, a differenza vostra. Per una volta, essere un umano è di qualche utilità».

Il demone non aveva nessun espressione, ma era palpabile il suo nervosismo. Per quale ragione, proprio adesso, si stava agitando? Era troppo irrequieto.
Spostò lo sguardo su Takeshi. Quel ragazzo, si era proposto per prendere la chiave, il ché sarebbe stato senz'altro utile – eppure, Oseroth non accennava a muoversi. I tratti induriti e seri, era immobile come una statua di sale.

«Oseroth, abbiamo trovato una stanza», disse, a bassa voce, Tetsuya. Lo guardava di traverso, come di nascosto. «E sono quasi certo di aver percepito l'odore di Yuki. Penso che l'abbiano tenuta lì per la maggior parte del tempo, ma poi hanno dovuto spostarla. Molto probabilmente... gli avrà dato del filo da torcere, a quegli altri. In un certo senso, è una buona notizia, non pensate?».

Takeshi fece un piccolo cenno con la testa, in un certo senso lo era.

«Dai pure la chiave a Takeshi», riprese il vampiro. «Non sembra, ma è molto sveglio. Non la perderà».

Il moro fu quasi tentato di lanciargli un'occhiataccia, ma lasciò stare, accontentandosi di un'alzata di spalle. Si girò verso Oseroth invece, attendendo una reazione da parte sua – ma non arrivò. Anche per il ragazzo, era chiaro che il capostipite avesse qualcosa che non andava.
Mal che vada mi ammazza, pensò Takeshi, per poi allungare il braccio e prendergli la chiave dal palmo, stringendola nel proprio.
Le pupille del demone ebbero un guizzo e si assottigliarono come lame. Esse si sollevarono, cupe e fredde, sul viso di Takeshi, e lo fissarono per svariati ed infiniti secondi.

«Andiamo al cancello». E questo fu quanto uscì dalla bocca di Oseroth.

 

 

 

I tre scesero le scale velocemente, il moro di fronte agli altri due. Erano già abbastanza vicini al cancello della cripta, per cui non ci volle molto per raggiungere il punto.
Oseroth aveva brevemente spiegato il suo incontro con Ryuu e Juri e che, purtroppo, era stato inevitabile farsi scoprire dal duo. Adesso dovevano stare molto attenti, perché era probabile che si stessero già muovendo verso di loro. Proprio lì, alla cripta.
Una volta raggiunto il cancello, Takeshi infilò la chiave nella serratura, malandata e corrosa, e dovette metterci molta forza per riuscire a sbloccarla. Fece qualche giro in senso orario e finalmente, con un rumore metallico, fu aperto.

Ci siamo, pensò Takeshi, spingendo in avanti la cancellata.

 

Fece un passo, appoggiando il piede sul primo gradino, ma una mano sulla spalla gli impedì di scendere anche il secondo.

«Non puoi stare in prima linea», lo ammonì Tetsuya, accigliandosi. «Ti metterai tra me e Oseroth».

«Mi sembrava strano che mi lasciassi andare, in effetti». Beh, non poteva farci niente. Il vampiro gli fece un sorrisetto, come a beffeggiarlo, e lo superò di un metro intero. Takeshi allora scese anche gli altri gradini, finché non raggiunse il corridoio della cripta. Essa era immersa in una fulgida luce blu, ricoprendo le pareti rocciose e la pavimentazione in selciato. Il ragazzo si guardò alle spalle – Oseroth era proprio lì.

«Questa sarebbe una cripta, eh?», bisbigliò il moro.

«In realtà, è solo un corridoio», disse Tetsuya.

«Mi sembra piuttosto chiaro».

«Quella cripta è vuota», disse Oseroth.

 

Vuota?, pensò Takeshi, e che senso ha, allora?

Ma la famiglia Akawa era ben lungi dall'essere compresa, benché meno da un essere umano che non aveva familiarità con quella tradizioni. «Perché?».

«Per svariati motivi. Gli Akawa, come molti altri di noi, non restano mai allungo nello stesso luogo – e bada, la nostra concezione del tempo è diversa dalla tua», rispose Oseroth, mentre il trio continuava a muoversi lungo le pareti, macinando metro dopo metro. «Di fatto, le cripte hanno solo un valore tradizionale». Poi si interruppe. Il suo sguardo, severo e attento, fissava di fronte a sé senza esitazione. «Senza contare che noi demoni, alla morte, perdiamo la consistenza fisica».

«La consistenza fisica... », furono le parole che Takeshi ripeté, come se stesse affondando le mani nell'etimologia stessa. In un certo senso, per lui, rimaneva un concetto arcaico – e al contempo, affascinante e assurdo.
In quei brevi secondi, in cui si era estraniato ed era uscito dalla villa, il corridoio era giunto al suo termine. Di fronte all'improbabile trio, si stagliava un portone a doppia apertura, rivestito di polvere e pesante legno di noce, ovviamente chiuso. In un certo senso, il colore scuro del legno stonava con quello delle pareti.
Tetsuya si avvicinò al portone, avvicinando un poco l'orecchio. Fece un piccolo cenno con il capo ad entrambi e, insieme ad Oseroth, agguantarono le maniglie e le spinsero in giù; la porta era pesante come un macigno e quando venne spostata cominciò ad emanare un sentore di muffa e vecchiume, disturbando ragnatele e famiglie di ragnetti. In un gesto istintivo, si coprirono naso e bocca, e Takeshi agitò la mano per scacciare la polvere che si stava sollevando.

 

Fu quando quella coltre si diradò che il ragazzo la vide. O meglio, quando la intravide, perché la sua vista non era mai stata particolarmente brillante.

Era sdraiata su un lungo e massiccio rialzo di roccia levigata, una sorta di altare improvvisato, e le caviglie e i polsi ben stretti dalle corde. La divisa scolastica era spiegazzato e i suoi capelli tutti sparpagliati. Nel vederla, seppur sfocata, Takeshi si sentì mancare il fiato in gola. Tetsuya e Oseroth stavano ancora armeggiando con la porta, nel tentativo di aprirla al suo massimo, e in teoria, lui non poteva prendere iniziative – in teoria, doveva aspettarli.

 

Ma non fu quello che accadde.

Le gambe si erano mosse prima ancora del suo cervello, i piedi erano scattati ad una velocità che non riconosceva come propria. In preda all'agitazione, Takeshi aveva varcato la soglia ed era entrato nella cripta della famiglia Akawa, e in pochi rapidi passi si era quasi gettato sull'altare.
Mandando all'aria qualsiasi forma di rispetto, si arrampicò sopra l'altare, appoggiandosi con le ginocchia accanto al fianco sinistro della ragazza.

Dio, ti prego, un miscuglio di sentimenti l'aveva preso all'amo, ti prego. Fa che sia viva. Ti prego, ti prego...

 

 

La mano sinistra accanto ai capelli albini, la osservò.
Le palpebre calate sugli occhi, il bianco niveo delle sue guance, il colore tenue delle labbra. Tutto ciò che vedeva e che aveva sempre guardato in lei, alla luce del giorno – e di quelle giornate in cui l'aveva scoperta – adesso gli suggerivano che era in pericolo di vita.
Che la sua vita... non c'era più. Il panico sormontò come un leone, mentre le dita della mano destra si avvicinavano al suo collo, verso il polso carotideo. I polpastrelli si posarono.

«Oh Dio».

 

C'era. Il battito c'era. Era lento, molto lento, ma era lì, forse un po' insicuro.

 

«Che accidenti credi di fare?!». La mano di Tetsuya gli afferrò la spalla, strattonandolo bruscamente, costringendolo a voltarsi verso di lui. «Ti abbiamo detto di non agire di testa tua o sbaglio? NON puoi fare come pare a te!». Negli occhi del vampiro c'era isteria. I suoi nervi stavano chiaramente friggendo.
Takeshi, che era ancora nella stessa posizione di prima, lo fissava di rimando con sconcerto. Increspò le sopracciglia, in un espressione di frustrazione, e con uno scossone si liberò dalla presa dell'amico vampiro, tornando al corpo esanime di Yuki, ricoprendolo con la propria ombra.

«Takeshi!», ripeté Tetsuya, con voce austera.

«Possiamo parlarne dopo? Sono vivo, o no? Pensiamo a portarla via, piuttosto». Invece, quella del moro era apparentemente calma. Il suo tono, per lo meno.

«È addormentata», osservò Oseroth.
Il demone – che non aveva nessuna intenzione di immischiarsi in litigi da marmocchi – era apparso dall'altro lato dell'altare, quello sinistro, e si era sporto sulla figlia per analizzare il suo aspetto. Annuì lentamente. «Non le hanno torto un capello. Non era loro intenzione», guardò i due. «Dobbiamo svegliarla».

Takeshi, senza perder altro tempo, si voltò verso Yuki e cominciò a chiamare il suo nome, ad incitarla a svegliarsi, mentre il vampiro e il demone si dedicavano alle corde. Tuttavia, Yuki ancora non si svegliava, i lineamenti del suo viso non accennavano a cambiare; agitato, la prese dalle spalle per scuoterla, più e più volte. «Non si sveglia», esclamò, col sudore freddo sulla fronte. «Che diavolo faccio?».

Oseroth tirò la corda, lacerandola come carta. «Schiaffeggiala».

«Signore, per fav– ».

«Schiaffeggiala».

 

Dio, non poteva credere che stesse davvero per...

«Take, datti una mossa, sento che sta arrivando qualcuno», esclamò Tetsuya strappando la seconda corda. «Sbrigati!».

 

Lui sgranò gli occhi e diede un'occhiata alla porta. Dannazione. Dopo lei gli restituirà tutto, non c'erano dubbi – allora alzò la mano destra, pregando tutti gli dei, e colpì la guancia della sua fidanzata con un bel ceffone.
Yuki spalancò gli occhi. Il colore oro brillò intensamente.
Con le braccia finalmente libere, si mise a sedere in uno scatto instabile, annaspando come se avesse trattenuto il respiro per tutto il tempo. Le labbra tremavano, lo sguardo era frenetico, le mani corsero alla propria gola e alla bocca. Ovviamente non c'era sangue.
Poi guardò di fronte a sé, trovando il viso di Takeshi, in totale apprensione. Suo padre e Tetsuya, ad appena mezzo metro di distanza.

 

E la porta della cripta che si apriva.




NOTA: 
Dopo un periodo lungo un'eternità - ma pure di più, mi sa - ho fatto ritorno su efp. Penso proprio che non abbandonerò mai questo sito. So che non è più tanto popolato come un tempo ma, per quanto mi riguarda, il semplice fatto di rendere pubblica questa storia rappresenta un importante traguardo e per questo, malgrado tutti gli impegni e i problemi, la pubblicherò fino alla fine. Difatti, il motivo per cui non stavo più pubblicando era un groviglio di impegni - tra cui la scuola -, di problemi, e anche un blocco particolarmente fastidioso, sigh. 
E niente, questo è tutto! Spero abbiate apprezzato il capitolo e se vi va, lasciate pure una recensione. Adios ~

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Capitolo 20
*** Insieme a te. ***


20.




L'antica porta si apriva producendo un lungo cigolio. Continuo ed echeggiante.

 

A nulla era valso lo sforzo di richiuderla, appena qualche minuto prima. Ma soprattutto, a nulla era valso lo sforzo di non attirare la sua attenzione, proprio in quel posto, proprio in quella situazione.
Alyon Henrik Akawa aveva afferrato e poi tirato verso l'interno entrambe le ante, con una facilità quasi imbarazzante, e Ryuu e Juri si erano premurati di farle adagiare contro le pareti, per poi posizionarsi poco più indietro rispetto al loro padrone.

 

 

Alyon fece un solo passo in avanti, varcando la soglia.

 

Incrociando le braccia al petto, teneva i suoi occhi neri incollati su Yuki. Pigramente, li spostò su Tetsuya, riconoscendo all'istante il vampiro biondo; si dedicò allora ad Oseroth, sorridendo strafottente.
Solo infine, con tutta la calma del mondo, guardò Takeshi. Lo guardava attentamente, con le sopracciglia basse sugli occhi e le labbra serrate in una linea.

Takeshi non mosse un muscolo. Sotto l'ispezione del vampiro ultra centenario, il ragazzo rimase immobile, ricambiando lo sguardo. Trascorsero una manciata di secondi prima che il ragazzo si voltò verso la mezzosangue, dando le spalle a tre pericolosi vampiri.
«Stai bene?», sussurrò, come se non ci fosse nessun altro, in quel posto. Le toccò le spalle con le mani, stringendola gentilmente. «Non ti hanno fatto del male, vero?». Solo l'umano aveva avuto l'ardire di pronunciare qualche parole, che morirono appena dopo, senza risposta. Tutti gli altri erano ancorati al loro silenzio, rotto solo dallo stillicidio dell'acqua.

 

Yuki sentì le labbra tremare.

 

Non riusciva a guardare Takeshi. Il suo sguardo lo trapassava, vitreo, e arrivava fino ad Alyon.

«Sì, sto... », lei deglutì, sforzandosi di guardare il ragazzo negli occhi. Accennò un sorriso, incerto, e annuì. «Sto bene».

«Per fortuna... », disse lui, sospirando per il sollievo. «Puoi camminare?».

«Sì, poss– ».

«Quale ingenua convinzione». Alyon rise brevemente, una risata bassa ma molto significativa. Attraverso le palpebre strette, il suo sguardo buio si faceva strada come una lama. «Cosa vi fa credere che potrete uscire da qui?». Sciolse le braccia al petto e fece un altro passo, entrando nella fredda cripta. «Nessuno, qua, riuscirà ad uscire vivo».

«Vogliamo scommettere?», ringhiò Yuki. Finalmente, riusciva a parlare.
Appoggiò le mani su quelle di Takeshi, scostandole con gentilezza, e si spostò sulle ginocchia. «Questo tuo gioco è durato anche troppo, Alyon».

Il vampiro chiuse le palpebre.

Per un po' rimase così, cercando di placare il suo sangue – mentre ribolliva e ribolliva. «Gioco?», ripeté, lentamente. «Un gioco... ». Spalancò gli occhi, di scatto, le iridi che brillavano di un rosso vivo. «STUPIDA INGRATA! Dovresti ringraziarmi!».

Yuki schizzò in piedi, flesse le ginocchia e si lanciò con un balzo su Alyon. Il vampiro le afferrò rapido l'avambraccio e ruotando su se stesso, la indirizzò nuovamente verso l'altare come se pesasse nulla. Tetsuya scattò verso di lei, prendendola fra le braccia per un soffio – lei fece per scendere subito, ma Tetsuya continuò a tenerla a sé, intrappolandola con le braccia.

«Dovrei ringraziarti?! Ma cosa diavolo stai dicendo?!», urlò Yuki, stretta nella presa ferrea dell'amico. «Sei solo un pazzo! Un dannato pazzo egocentrico!».

«Smettila!», ringhiò il biondo. «Ti farai ammazzare!».

 

Yuki lo guardò, agitata. Con un colpo di reni, riuscì a liberare le gambe da Tetsuya e a sollevarle in alto – dandosi la spinta, saltò dalle braccia del vampiro e atterrò sui propri piedi, piegandosi sulla schiena.
«Ryuu! Juri!», all'ordine di Alyon, i due vampiri scattarono in avanti, sollevando una grossa folata di polvere; Juri corse in direzione di Tetsuya per scagliargli contro un calcio, nonostante la pesante gonna riusciva ad essere agilissima e velocissima. Tetsuya si scansò di lato, appena in tempo, afferrandola per la caviglia con la mano sinistra e infiammando la destra per colpirla in viso.
Juri inclinò il capo, evitando il palmo di fiamme del biondo, e con una ruota all'indietro si allontanò di due metri.

Ryuu respirava profondamente. Oseroth non sarebbe stato un avversario facile. Il demone lo scrutava, di rimando, senza fare una piega, senza un minimo di esitazione. Ryuu sbatté le ciglia e in quel tempo, brevissimo e quasi nullo, il demone era sparito dal suo campo visivo.

Dove– , Ryuu si guardò velocemente intorno, non trovandolo da nessuna parte. Fu solo il suono dell'aria ad avvertirlo che Oseroth era appena sopra la sua testa.

Dannazione!, il vampiro scattò di lato in una capriola improvvisata e Oseroth atterrò su quel punto – sotto i suoi piedi, la pavimentazione incrinata.

Già, pensò Ryuu, con un misto di ammirazione e sgomento, quello è proprio il “Re”.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Perché non mi avete detto nulla di tutto questo?».

Ai sedeva sulla poltrona in biblioteca – dove di solito sua madre si sistemava per leggere per infinite ore –, e il suo viso era marcato da un espressione di disappunto, di fastidio. Tra le braccia, l'immancabile pupazzo. Col passare del tempo, quel pupazzo si stava rimpicciolendo. O almeno così sembrava ad Ai. «Avrei potuto esservi utile. Avrei potuto usare il mio potere per aiutarvi. E non venitemi a dire che non è così, perché lo sappiamo. Persino gli umani lo sanno!», esclamò la secondogenita, indicando con il dito indice la figura di Sayumi, accucciata di fronte al camino – che, alla frase della piccola, aveva sussultato.

«Nessuno lo mette in dubbio, ma tesoro», Kazumi sospirò. «ti sei dimenticata che in te scorre anche sangue di demone?».

«Sì, ma lei... ».

«Tua sorella tornerà da noi. Yuki tornerà, perché a salvarla è andato tuo padre». Ovviamente, Kazumi non stava dimenticando il giovane Tanigawa e nemmeno Takeshi Katugawa. Non aveva dimenticato il loro coraggio. Tuttavia, la donna era quasi certa che, di fronte alla forza matura di Alyon, i due potessero ben poco. Con ogni probabilità... Oseroth era l'unico.

«E Takeshi», bisbigliò Sayumi. «e anche Tetsuya».

Kazumi sorrise e annuì. «Sì, esatto», poi si voltò verso la figlia. «E ti posso assicurare una cosa».

«Cosa?».

«Posso assicurarti che se non tornano con Yuki, possono anche non tornare affatto».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Yuki raddrizzò la schiena.

Tra lei e suo zio c'erano due metri. Una distanza effimera – che entrambi avrebbero potuto annullare con pochissimo. Una situazione identica a quella che già accaduta nella Stanza delle Mappe: l'albina, tuttavia, non si muoveva più. Un rivolo di sudore le percorse tutta la schiena fredda, toccando la colonna vertebrale come un pianista. Intorno, suo padre e il suo migliore amico stavano combattendo contro Ryuu e Juri e lei, invece, restava lì imbambolata – non poteva muoversi, perché sentiva la presenza di Takeshi alle sue spalle. «Yuki».

Yuki chiuse le palpebre, strizzandole leggermente.

«Non pensare a me. Se devi combattere, allora combatti». Il moro la guardava, trafiggendola con lo sguardo deciso, e sulle sue labbra spuntò un sorriso, abbozzato, un po' stoico, a suo modo. «Tu ne sei capace. Tu puoi farcela».

La mezzosangue sorrise, forse influenzata da lui, ed annuì brevemente.

«Inoltre», aggiunse Takeshi. «ho un'idea, anche se dipende unicamente da loro».

«Un'idea?», ripeté Yuki, voltandosi verso Takeshi.

 

«È coraggio? Oppure, stupidità?». La voce di Alyon aveva lacerato il loro flusso di parole, riportandoli violentemente nella cripta. L'uomo aveva un espressione infastidita, ma il sorriso sornione riusciva a celarla più che bene. «Eh, umano? Qual è la risposta?».

Takeshi non pensava stesse parlando con lui, ma a quanto pare, era così. Contrariamente dal vampiro, il moro stava ostentando un viso fermo, quasi duro. Le sopracciglia basse sui bei occhi scuri, profondi ed emotivi, e la bocca dritta in una linea.
Anche il suo corpo non suggeriva sentimenti. Era controllato e calmo. «Nessuna delle due», rispose. «Ma, in una situazione del genere, questo è tutto ciò che posso fare».

Alyon lo ascoltò in silenzio, come se stesse elaborando ciò che aveva detto – che faccia tosta, quello là... non era per niente male. «Già», disse il vampiro, mentre la sua bocca si squarciava in un grande sorriso, e le sue zanne spuntavano al di sotto. «Ho preso una decisione. Dal momento che mi piaci, ti renderò mio». Sogghignò, lo sguardo vorace. «Ti trasformerò in vampiro».

 

 

Takeshi spalancò gli occhi, sgomento. Yuki ringhiò rumorosamente, furibonda. «Alyon... », soffiò. «Se solo lo sfiori con un dito... se solo tu... », era talmente furiosa da non riuscire a parlare. Le parole le si attorcigliavano sulla lingua e sparivano.

Alyon, tuttavia, sorrise con gaudio. «Tu cosa?».

 

La mezzosangue scattò con le mani sulla pavimentazione e dai palmi esplosero una moltitudine di scariche elettriche, che inondarono tutta la cripta. Takeshi scavalcò l'altare con un salto, evitando l'avanzare dell'elettricità appena in tempo.

«Yu– ».

«Idiota!», esclamò Oseroth mentre schivava con il capo un attacco di Ryuu. «Vuoi farci secchi a tutti e tre?!».

 

Ma Yuki non li ascoltava più. Le onde ricoprirono una buona metà della cripta, riducendo a granelli di polvere le ragnatele che infestavano gli angoli, macinando centimetro dopo centimetro.
Alyon fece un salto indietro uscendo dal raggio d'attacco dell'albina. Quest'ultima scattò in piedi e corse verso l'uomo, scagliandosi immediatamente con un calcio laterale. Alyon si piegò sulla schiena, scansandosi, e contrattaccò afferrandola per il collo – sollevandola da terra.
Ansimando alla ricerca di aria, lei alzò le gambe e con ambi i piedi gli calciò con forza il petto, riuscendo a liberarsi dalla pericolosa stretta. Alyon vacillò per il colpo, inclinando il capo.

Ah, pensò il vampiro, raddrizzando il collo, da quanto tempo.

 

 

 

Takeshi, inginocchio sull'altare, si guardò intorno. Dovunque guardasse, vedeva combattimenti. Oseroth e Ryuu, Tetsuya e Juri; il demone riusciva a tenere testa al vampiro e, piuttosto, Ryuu era in una situazione infelice, mentre tra il biondo e la ragazza lo scontro era quasi alla pari. Juri era più veloce e non poteva usare il suo potere alla leggera, perché aveva bisogno di concentrazione per utilizzarlo senza che fallisse, e Tetsuya si serviva del fuoco abilmente – ma era più lento, non essendo portato per i combattimenti da vicino.
Quando l'elettricità si dissolse, Takeshi scese dall'altare e gettò un'occhiata alla grande porta spalancata.

L'unica idea che gli era venuta. Questo era tutto ciò che poteva fare – concretamente.

 

«Ryuu, Juri!», gridò Takeshi, girandosi di scatto. «Forse non vorrete nemmeno ascoltare, ma in realtà è la cosa migliore che possiate fare! Se continuerete così, finirete per essere uccisi – da loro, oppure da Alyon Akawa! È tutto qui? Aspirate a questo, ad essere brutalmente uccisi dalla vostra stessa specie?».

Tetsuya lo guardò per un istante. Cosa vuole fare?, fu il suo fugace pensiero.

 

«Anche se farete tutto quello che vi dice, non avete nessuna certezza che lui non vi tradirà, un giorno o l'altro. D'altronde, cosa dovrebbe trattenerlo? Di sottoposti ne ha quanti ne vuole e può crearne altrettanti! Siete davvero così ingenui?! Volete davvero scommettere con lui?!». Lui per primo non aveva nessuna certezza che la coppia gli avrebbe dato retta. Lui, per primo, non aveva certezza che sarebbe sopravvissuto in quella fatidica notte. «Voi lo sapete», riprese, il fiato corto. «Sapete che lei vi perdonerebbe senza remore. Lei lo farebbe».

 

Juri rallentò il suo passo scattante – fino a ché non si fu arrestata del tutto, come se l'energia avesse gradualmente lasciato il suo corpo. Tetsuya aprì le labbra stupito, fermando il suo colpo, e guardò prima la vampira e poi Takeshi.

Non riusciva a crederci. Aveva funzionato?

 

Era vero. Juri non ci avrebbe scommesso neanche un pezzo di pane. Alyon si sarebbe stancato di lei e di Ryuu e un giorno si sarebbe disfatto di loro. Alyon non era un demone e tuttavia... la sua testa l'aveva abbandonato a se stesso già da molto tempo.

E la mezzosangue... li avrebbe davvero perdonati?

«Juri!», gridò Ryuu, afferrando l'avambraccio di Oseroth per bloccarlo. «Io mi fido di te! Qualsiasi sia la tua decisione, ti seguirò, anche se essa ci porterà alla morte!».

Juri si voltò con gli occhi lucidi. Ah, era per questo motivo che lei si era innamorata di lui... per questo motivo. Non l'aveva mai lasciata a se stessa. Aveva sempre creduto in lei. Sempre.

 

Si strofinò la manica sugli occhi, cancellando le tracce dell'emozione.

Aveva deciso e non si sarebbe tirata indietro. «Vi aiuteremo a scappare, a patto che voi non ci diate la caccia».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Yuki rotolò a terra con una capriola, impregnandosi della polvere sul pavimento, e quando cercò di alzarsi in piedi le gambe la tradirono a metà strada, costringendola ad appoggiarsi su un ginocchio. Le faceva male tutto. Riprendere a combattere da un momento all'altro – dopo lo scherzetto di Juri – era stato deleterio; tuttavia, non aveva avuto scelta.
Alyon, invece, era riposato e fresco come una rosa. I suoi eccelsi riflessi, la sua forza fisica senza paragoni e l'assenza di scrupolo lo rendevano un avversario temibile.

Faticosamente, la mezzosangue si sollevò, inspirando.

 

«Già stanca?», cantilenò il vampiro, apparendo fuori dalla cancellata della cripta, ormai lontani dagli altri. «Lo vedi?».

«Vedo cosa?».

Alyon ghignò. «Lo vedi che sei malriuscita?».

 

L'albina serrò i denti, le gengive soffrivano per la sua rabbia. «Sei come tutti gli altri – no, anzi: sei peggio. Molto peggio. Tu sei il mio dannato zio e ciononostante... ».

Alyon stava camminando verso il centro della sala con le mani nelle tasche dei pantaloni. «Non fraintendermi, non ho niente contro i mezzosangue. D'altronde, possiedo sangue demoniaco anch'io. Ormai lo saprai, non è vero?». Dato che la nipote non sembrava voler rispondere, l'uomo proseguì: «Noi siamo strettamente imparentati con quei due. Ragion per cui, ci trascineremo questo sangue misto fino alla fine degli Akawa. Per questo, ho pensato: mi sta bene? È questo che voglio?». Fece una pausa, socchiudendo gli occhi – il rosso brillava ancora. «E sono giunto alla mia conclusione».

«Alla tua conclusione?», ripeté Yuki.

«Già», sibilò Alyon. «Voglio trasformarmi in un vampiro al 100%».

Yuki raddrizzò la schiena e si strattonò il fiocco rosso della divisa, allentandolo. «E questo cos'ha a che fare con me?».

Alyon sollevò la mano sinistra, lentamente, ticchettandosi la tempia. «Semplice. Tu mi servi per non far finire il casato degli Akawa. Tu, che sei l'erede diretta di quella forza della natura di Lilith, sei ciò che mi serve. Ma non così. Così no. Mi servi come vampira».

La mezzosangue, con un brivido sulle braccia, indietreggiò di qualche passo. «Ma... questo è... », balbettò, gli occhi spalancati. «Tu sei completamente andato».

«Ma non capisci?!», urlò l'uomo, di punto in bianco, causando un sussulto nella ragazza. «Vivresti cento volte meglio, saresti cento volte meglio! È un concetto tanto difficile per la tua testa?!».

 


Yuki chiuse le labbra, troppo sconvolta per rispondere a... a quello che ricordava come uno zio. Non l'aveva mai amato, non aveva mai provato niente di simile ad affetto per lui – ma, almeno, credeva che l'uomo possedesse un minimo di buon senso. A quanto pare, non era così.
Yuki temeva che avesse perso quella logica già da molto tempo. Con le mani serrate e la bocca sigillata, non gli schiodava lo sguardo di dosso – circospetto e rosso – per nemmeno un secondo.

Ah, certo. Non riusciva nemmeno a capire qual era il reale problema del suo intento. Ormai, era troppo tardi per lui.

 

L'uomo si passò una mano tra i capelli. Cercava di ritrovare la calma. «Se tu– », riprese, per poi interrompersi di scatto, rimanendo con la bocca schiusa. Spostò lo sguardo verso sinistra, richiudendo le labbra lentamente e, alla fine, fece un sorrisetto. «Non avevo nessun dubbio».

Yuki, confusa, inarcò le sopracciglia. «Ma che stai dicendo?».

Alyon si voltò verso la nipote, con un espressione apparentemente beffarda in volto – ma, proprio lì, in mezzo alle pieghe del sorriso strafottente, c'era... malinconia? Era proprio malinconia, quella lei aveva intravisto?

La sua domanda non riuscì a trovare risposta perché l'uomo fece un balzo, del tutto improvviso, schivando un flutto di fiamme cocenti.

Quelle fiamme sono di Tetsuya, pensò l'albina. Infatti, subito dopo, apparì Tetsuya con le mani pregne del suo fuoco, seguito subito dopo da Oseroth e Takeshi e... .

 

«Ryuu e Juri?!», bisbigliò la ragazza, strabuzzando gli occhi. «Sono... insieme?». Yuki, che li stava fissando con stupore, incrociò lo sguardo con Juri. La vampira le riservò uno sguardo fermo, deciso, eppure un po' colpevole. Fu uno scambio così breve da essere impalpabile, perché il gruppo di vampiri – e Oseroth – si scagliarono contro Alyon, che si trovava al piano superiore della casa.

«Yuki!», esclamò Takeshi mentre correva verso di lei.

«Take... cosa avete combinato?».

«Qualcosa di buono, forse», il moro trasse un profondo respiro, indicando verso il gruppo di creature sovrannaturali, impegnate in uno scontro fuori dal mondo. «Abbiamo convinto Ryuu e Juri a tradire Alyon e a collaborare con noi. Se tutto va come previsto, allora dovrebbero riuscire a eliminarlo una volta per tutte».

Yuki si voltò verso l'umano, incredula. «Come accidenti avete fatto a convincerli? Quei due sono al suo servizio da molto tempo, lo sai?».

«Ah sì?», Takeshi sorrise, inaspettatamente sornione. «Allora posso darmi delle arie. Tutto merito della mia retorica, cherì».

Era incredibile. Quel ragazzo era incredibile – scoppiò a ridere, rilasciando tutta la tensione in un colpo solo. «Non puoi essere uno qualunque».

«Ma va? Non te lo sto dicendo sin dal nostro primo incontro?». Takeshi incrociò le braccia al petto. «Ah, no, forse non l'ho fatto. Ti ho solo dato il tormento».

«Smettila di farmi ridere», lo ammonì l'albina.

 

Si rimboccò le maniche dell'ormai distrutta divisa scolastica e si ravvivò i capelli con le mani, puntando, come un falco, le iridi rubino su Alyon. «Io vado ad aiutarli», poi guardò verso Takeshi, mortificata. «Lo so che la cosa ti fa preoccupare a morte, ma non posso... ».

«Non puoi lasciarli combattere da soli. Lo so. Ti conosco bene», disse. E poi, forse per scongiurare un tragico finale, forse perché non lo faceva da troppo tempo, la strinse fra le braccia più forte che poté, saggiandone il suo inconfondibile profumo. «Vinci». Stretta nel suo abbraccio, la mezzosangue annuì lentamente e quando lui la lasciò, si voltò dall'altra parte.

 

In tempo per vedere il volto dilaniato dal panico di Tetsuya, mentre urlava a pieni polmoni: «TAKESHI!».

 

 

Yuki si voltò.

 

Alyon si era avvinghiato a Takeshi come un avvoltoio, con un braccio a cingergli stretto il collo e l'altro intorno al torso, a bloccargli gli arti.
Impossibilitato a muovere anche un solo muscolo, Takeshi si mordeva forte le labbra, respirando nervosamente.
«Fermo», fu il bisbiglio dell'uomo all'orecchio del ragazzo. «Stai fermo». Lentamente, l'avambraccio che gli serrava il collo si spostò, e la mano salì fino alle labbra tappandole con il palmo. La pelle di Alyon era fredda come il ghiaccio ed era completamente inodore – il respiro di Takeshi, intanto, si faceva sempre più frenetico, mentre un rivolo di sudore gli scendeva lungo la tempia, toccando il pollice dell'uomo.

 

«ALYON!!».

«Ah-ah! No, nipote». Alyon ghignò. «È proprio una pessima idea».

 

Yuki si fermò appena in tempo, impuntandosi con tutte le sue forze, trafiggendosi le labbra con i canini aguzzi.

«È una cattiva idea sotto molti punti di vista», disse Alyon, ruotando il viso verso quello dell'umano. «Vuoi uccidermi? Allora dovrai travolgere tutti e due – perché io non lo lascio». Il suo sorriso, man mano che i secondi passavano, diventava più intenso, più violento. «Te l'avevo detto: questo umano mi piace».

«Tu non puoi– », per quanto urlasse, il vampiro non avrebbe lasciato andare Takeshi. Perché non avrebbe avuto niente in cambio di egual valore. Consapevole di ciò, l'albina si zittì, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi.
Il sapore di sangue persisteva sulle labbra, ferroso. «Okay, Alyon. Okay», sibilò la mezzosangue.

«Yuki», disse tra i denti Oseroth, afferrandole la spalla.

Ma la ragazza aveva già deciso. Avrebbe fatto tutto, qualsiasi cosa in suo potere, pur di salvarlo.
Con lo sguardo fisso su suo zio, la mezzosangue faticava a respirare a causa di un nodo alla gola. Lentamente, gli occhi incrociarono quelli scuri e profondi del ragazzo, e in cuor suo gli sorrise, nel miglior modo possibile. «Volevi trasformarmi in una vampira e continuare il casato degli Akawa, non è così?», chiuse le palpebre e trasse un profondo respiro. Quando li aprì, il colore era tornato di quel caldo dorato. «Sia. Trasformami in una vampira, porta a termine il tuo piano».

Alyon la ascoltava in silenzio, senza l'ombra di un espressione.

 

«In cambio, devi lasciarlo andare. Lui e tutti quanti, compresi Ryuu e Juri».

 

 

 

Il duo si lanciò un'occhiata – colpevole, dolorosa – e si voltarono poi in direzione del loro ex padrone. Lui ricambiò la lunga occhiata. Quel lungo saluto.

«Sei sicura, mia cara nipote?».

«Mai stata così sicura».

L'uomo abbozzò le labbra in una curva. «Capisco. Allora, vieni qui. Vieni da questa parte».
L'albina fece per muoversi, ma la presa alla spalla di Oseroth la trattenne. Lei lo guardò tra le palpebre socchiuse, in un misto di freddezza e calma completa. Oseroth, forse per la prima volta da decenni, era spaventato a morte. «Yu–...», balbettò il demone – ma la figlia, delicatamente, gli prese la mano per spostarla dalla sua spalla, e si voltò verso Alyon.

«Avanti», esclamò. «Non sta certo andando al patibolo. Forza, nipote: non abbiamo tutta la notte».
Yuki fece il primo passo, poi il secondo, con le gambe più pesanti di sempre. Compì il terzo passo e dopo il quarto, infine il quinto ed ultimo passo, trovandosi finalmente di fronte al vampiro. 
«Vedrai», sibilò – con quegli occhi che brillavano. «sarai felice, accanto a me».

L'istante dopo, una folata di polvere e vento si sollevò da terra come un tornado, così violenta da spostare la ragazza di qualche centimetro.

 

«Voi– !», esclamò Alyon mentre il rumore prodotto dal vento gli tappava le orecchie e la vista.

«Adesso!», urlò l'albina.

 

Takeshi strinse i denti dal dolore mentre piegava la mano ed estraeva il pugnale dalla cintura e in un colpo secco trafiggeva l'addome dell'uomo alle sue spalle. Alyon lo liberò all'istante, gettandolo via per premere la mano sulla profonda ferita; la folata di vento e polvere finalmente si assestò ma proprio a quel punto, quando tutto sembrava essersi placato, le figure di Ryuu e Juri apparirono di fronte ai suoi occhi.
Il duo gli si era lanciato, con un urlo agguerrito, pronti a tutto pur di farlo sparire dalla faccia del mondo. Alyon aprì gli occhi e gli specchi scarlatti si riempirono di ira – le pupille guizzarono, deformandosi un paio di volte, e dalle mani dell'uomo dai capelli neri si materializzarono distorte forme di acciaio.

 

In quell'istante, in cui i due vampiri gli andavano incontro, il tempo parve arrestarsi. La polvere che tornava al pavimento, i lunghi capelli di Juri sospesi in aria, un fischio sordo nelle orecchie.

 

Le distorte forme d'acciaio si tramutarono ben presto in pugnali.

 

Il tempo riprese a scorrere e Ryuu e Juri rallentarono, finché non si fermarono del tutto.

Sui loro petti, grandi e frastagliate macchie rosse – il duo cadde a terra, con un tonfo, le palpebre socchiuse. Gli occhi vuoti.

 

 

 

 

Dalla gola di Yuki partì un urlo – un ultimo, violento e distrutto grido, mentre lei e Takeshi venivano trascinati via da quel sepolcro.

 

 

 

 

 

 

 

NOTA:
Cosa posso dire, esattamente?

Non ero granché affezionata a Ryuu e Juri (ai loro personaggi) e non saprei dire per quale motivo, forse perché all'epoca non avevo ancora trattato bene il loro background.
Adesso mi dispiace tantissimo averli uccisi e ho un po' il cuore spezzato.

Con il prossimo capitolo, si chiude un altro ciclo del secondo atto, che penso sia davvero importante. Spero davvero che quei due vampiri scemi vi siano stati a cuore perché, sotto sotto, era ciò che desideravano anche loro. (invece Alyon è uno psicopatico oh yes).

E con questo è tutto! Ci rivediamo al prossimo capitolo! ~

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Capitolo 21
*** Il Re. ***


NOTA:
Ragazzi, ci siamo. L'ultimo capitolo. Ho scritto la nota qui sopra perché sono particolarmente emozionata e in hype [?] quindi perdonatami se stona, proprio qua sopra, e... niente. Spero che vi piacerà. (vi consiglio l'ascolto di If you say so di Lea Michele)

 


 

 

21.

 

La carrozza si fermò a qualche metro dal piccolo orticello, alle spalle della casa, e l'uomo alla guida – un demone decisamente di poche parole – attese un paio di minuti prima di congedarsi; si assicurò che tutti furono scesi, diede una revisione veloce al veicolo e poi tornò al suo posto.
Oseroth si avvicinò all'uomo, mettendogli in mano un pesante sacchetto di tela. L'uomo lo ringraziò e dopo un veloce saluto, ripartì celere.

 

Oseroth osservò la carrozza allontanarsi e fece un piccolo sospiro.
Tornò dagli altri tre e nel farlo si soffermò ad osservare la figlia, avvolta da un giaccone nero che le calzava decisamente grande. Il ragazzo dai capelli bruni la stringeva a sé con un braccio attorno alle spalle, guardandola con occhi attenti, premurosi, vivi. Tetsuya, affianco a loro, teneva gli arti incrociati al petto in attesa, e circospetto ispezionava la boscaglia.
Con la mano sinistra, l'albina chiudeva il giaccone sul petto. Al suo anulare sinistro, Oseroth notò un luccichio.

Non che sia una sorpresa, pensò.

 

«Tetsuya», disse il demone, una volta che gli fu davanti. «e anche tu, Takeshi Katugawa. Vi invito a pernottare a casa nostra, per stanotte. Lo stesso vale per la ragazza umana».

Yuki sollevò la fronte, increspando leggermente la fronte.

«Ma no», rispose subito Takeshi. «Vi arrecherei solo disturbo».

«No, non hai compreso. Hai appena sconvolto i piani di un potente e odioso nemico. Direi proprio che non ti conviene passeggiare per la città in piena notte».

«Sono le due di notte», disse Tetsuya, adocchiando l'orologio del cellulare. «Indubbiamente, non ti conviene».

«... già. Ripensandoci, accetto volentieri l'invito».

Oseroth, in via del tutto eccezionale, sorrise. Era un sorriso talmente leggero da sembrare un miraggio. «Entriamo in casa», disse, velocemente, facendo sparire quella curva.

 

 

Ben volentieri, seguirono il consiglio di Oseroth, e si avviarono verso la porta d'ingresso. Calpestarono l'erba bagnata dalla rugiada, che scricchiolava sotto le scarpe, e girarono l'angolo svoltando a sinistra, arrivando dunque alla porta. Oseroth infilò la chiave nella toppa, composto come al solito, e quando sentì lo scatto secco della serratura fece per aprire la porta – quando venne letteralmente travolto da qualcosa.

O meglio, da qualcuno.
Kazumi era apparsa, così all'improvviso da generare scompiglio nel demone, con al seguito Ai e qualche metro prima Sayumi, che le raggiungeva affannata. La donna aveva letteralmente sovrastato il marito, gettandosi fra le sue braccia con un'energia unica, stringendolo forte. «Siete tornati», esclamò, soffocando il viso nella spalla del marito – del tutto impreparato a una forma d'affetto così... onesta.

Goffamente, le cinse le spalle e la vita, accarezzandole la testa con una mano. «Siamo a casa, Kazumi», fece una pausa, alzando gli occhi al cielo. «Sarebbe il caso se salutassi anche nostra figlia».

«Ma certo!». Con un nuovo e altrettanto vivace scatto, Kazumi si allontanò di fretta in furia da Oseroth, sorpassando i due ragazzi per arrivare all'amata figlia - con dolcezza, le prese il viso fra le mani, sollevandolo per guardarla negli occhi oro. «Figlia mia», sussurrò, lo sguardo ansioso. «Sei tornata da noi... ».

Ma a quale prezzo?

 

 

Intorno a lei, i suoi cari si abbracciavano e a tratti si consolavano; Sayumi aveva le lacrime agli occhi, voleva salutare la sua amica, ma stava aspettando, per non rovinare il momento tra madre e figlia. Ai era corsa al padre e l'uomo l'aveva rassicurata, chinandosi ad abbracciarla.
Stavano tutti bene. E lei era tornata a casa sana e salva.
Ma, ancora, a quale prezzo?
Quei due erano morti per farla scappare. Con un pugnale al cuore, fianco a fianco. Se si chiudeva in se stessa, riusciva a vedere nitidamente il loro sguardo spegnersi. Vacuo, grigio.

 

«Tesoro? Stai bene?», chiese Kazumi.

La mezzosangue si riscosse con un sussulto. La vampira dai capelli rossi era, se possibile, ancora più impensierita. «S-sì, sono solo stanchissima», si attraversò i capelli con una mano, un sorriso storto. «Mi dispiace che ti sia... preoccupata, tu e... tutti quanti».

«Non importa. E poi, non è stata colpa tua, ma... », la donna sospirò. «È... assurdo... doverlo dire, ma è stata solo colpa di Alyon»

«Ti ha fatto del male?». Yuki scostò lo sguardo, puntandolo su Sayumi, una mano sul petto. Aveva gli occhi rossi e lucidi e sembrava combattere con il sonno e la stanchezza. Anche lei, come l'albina, aveva ancora indosso quella stupida divisa scolastica. «Ti ha... ferito?».
L'albina scosse il capo, sorridendo mestamente, e si avvicinò a Sayumi. Le braccia la circondarono, tremanti.

 

«In un certo senso, lo ha fatto».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Il letto a baldacchino della mezzosangue era grande, molto grande, per cui poteva ospitare facilmente due persone adulte. Yuki, sebbene fosse stanca morta, aveva trovato la forza di farsi un bagno; aveva polvere sui vestiti, nei capelli e negli occhi, disgustosi residui di ragnatele e soprattutto di battaglia. Le ferite si erano rimarginate già da un po', lasciando qualche macchia di sangue e il suo tipico odore acre e ferroso – trattandosi solo di graffi e tagli, era stato un processo veloce e indolore. Allo stesso modo si erano comportati tutti gli altri e, anche se si erano sentiti parecchio a disagio, anche Takeshi e Sayumi non avevano resistito al richiamo della vasca da bagno e ad un sacco di schiuma.

Finalmente, l'albina poteva disfarsi della divisa e lasciarsi cadere nel letto.

Era felice che Sayumi le avrebbe fatto compagnia, quella notte – o meglio, essendo quasi le tre, si parlava di mattina.

 

Tutte e due si erano messe sotto le coperte, testa sul cuscino, stringendosi la mano senza parlare. Sayumi aveva spezzato quel silenzio complice.

 

 

«Ehy», sussurrò Sayumi, piano piano. «Sei ancora sveglia?».

Yuki mosse leggermente le palpebre, senza aprirle. «Sì, sono sveglia», rispose, con voce altrettanto bassa. Restò ancora qualche secondo con gli occhi chiusi e dopo un po', si decise ad aprirli. «Non hai sonno?».

«Sto morendo».

L'altra sorrise. «Allora perché non ti vedo dormire?».

Sayumi restò in silenzio, sollevando i due occhioni blu verso la testata del letto, come se lì ci fosse la risposta a qualsiasi dubbio – ovviamente, per quanto antica potesse essere quella casa, non c'era nessun sacro sapere. «Ho decisamente sonno», disse, muovendo appena le labbra. «Talmente tanto che potrei cadere a terra come un sacco di patate. Ma non voglio dormire. Ho paura che se chiudo gli occhi, al mio risveglio tu sarai sparita. E... », si fermò, riportando lo sguardo – calmo, concentrato – sull'amica. «... ho il presentimento che, da un momento all'altro, dovrà succedere qualcosa di ancora più brutto».

Yuki schiuse le labbra: aveva lo stesso presentimento. «Io non... », inspirò, quindi cacciò un sospiro. «Io non ho tutto questo ottimismo da pensare che nient'altro accadrà, da ora in poi. Non posso pensare una cosa del genere». Non che in genere avesse mai provato ad essere ottimista. Nossignore, non era nelle sue corde. «Tuttavia... se dovesse davvero succedere qualcosa, qualcosa di brutto», le teneva la mano, più forte, più coraggiosamente. «te lo giuro: vi proteggerò al costo della vita. Non lascerò mai che vi succeda niente. Mai».

Ma non era ciò che voleva Sayumi. Il suo sguardo si fece ansioso, piegato sotto la paura di perderla. «Io... », era così spaventata. Lo era stato per tutto il tempo, da quando l'aveva vista sparire oltre quel muretto. «Non voglio che tu ti faccia male. Non voglio che tu vada più da nessuna parte».

«Yumi... ».

«Quando ero molto piccola, mi successe una cosa. Una cosa che mi ha portato via i miei genitori, e mi ha lasciato da sola, completamente da sola, in un posto sconosciuto. Così è stato per anni e pensavo... », la voce le si ruppe per un istante. «Pensavo che non ne sarei uscita viva. Pensavo che sarei morta, l'ho pensato notte e giorno, l'ho pensato con rassegnazione – la paura era passata in secondo piano. E invece, eccomi qui, in carne ed ossa, a parlare con la mia migliore amica alle tre di notte, sotto le coperte in un letto caldo. Ad un certo punto, ho smesso di pensare. Non pensavo a niente, se non a sopravvivere. Ma poi, alla fine, sono stata salvata, e sono tornata a vivere». Si fermò. Se per un attimo si era sentita incapace di continuare, adesso le parole fluivano come un torrente in piena, e non voleva più fermarsi. «È a causa di ciò che successe a quel tempo che ho tinto i miei capelli di questo colore», disse infine, abbozzando una risatina.

 

Yuki la ascoltò senza interromperla, religiosamente, guardandola negli occhi – forse cercando un motivo per preoccuparsi? Non lo sapeva bene. Quando concluse, prendendo fra le dita una ciocca rosa, l'albina sorrise dolcemente. «Sei stata forte», bisbigliò. «Sei stata forte. Lo sei tutt'oggi. È per questo che mi fido di te, e mi fiderò sempre di te. Grazie».

Sayumi si sciolse in una risata, i bordi degli occhi umidi.. «Prego, non c'è di ché».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Take, sei qui?».

 

Takeshi stava allacciando la cintura dei jeans quando l'albina aveva aperto la porta, in modo molto noncurante – fra l'altro. Si era, per lo meno, premurata di bussare un paio di volte prima di fare il suo ingresso nella camera degli ospiti. Peccato che aveva aperto senza aspettare la sua risposta.

Il ragazzo aveva vistosamente sussultato, più per lo spavento che per l'imbarazzo. «Con il corpo sì, ma non posso dire lo stesso per il mio spirito», rispose, infilando la cintura nel passante dei jeans. Ruotò i piedi verso l'albina, sulla soglia della camera, e incrociò le braccia al petto. Ogni volta che faceva così, i bicipiti e i tricipiti alle braccia si gonfiavano piacevolmente. «Tanto vale aprire la porta con un ariete, che dici?», disse, sorridendo, e inclinando la testa obliquamente.

«Scusa tanto», replicò lei, raggiungendolo con qualche passo. Quando fu di fronte a lui, gli appoggiò le dita sugli avambracci, emulandone l'espressione. «È che ho sempre voluto farti prendere uno spavento».

«Tu sì che sei strana».

«Ti crea qualche problema?».

«Mi crea più problemi della tua natura di vampiro-demone», alzò un sopracciglio. «Pensa un po'».

Yuki ridacchiò, allungando il collo per appoggiare le labbra su quelle di Takeshi. Il ragazzo si inclinò verso l'albina, accogliendo il bacio.

 

 

Erano le dieci del mattino e in casa Akawa c'era più movimento del solito; un po' perché stava ospitando tre persone in più del solito, un po' perché camerieri e maggiordomi erano felici di rivedere la loro padrona viva e vegeta ed erano allegri. Quando Kukuri aveva visto l'albina, non era riuscita a trattenersi e l'aveva travolta tra lacrime e abbracci, mentre Sebastian le aveva dato una pacca rassicurante sulla spalla – un po' di contegno ci voleva.

«Allora siete sicuri di non voler restare ancora?», chiese ancora la mezzosangue. «Non dobbiamo neanche andare a scuola, oggi». Poi però guardò il ragazzo in viso e si sentì avvampare. «C-cioè, non lo sto dicendo perché voglio stare con voi. Lo dico perché mi sembra pericoloso gironzolare da soli, credo sia logico, no?».

Le labbra carnose di Takeshi si piegarono verso l'alto, un angolo della sua bocca in particolare, dando vita ad una piccola fossetta. «Dillo pure che ti mancheremo. O meglio, che ti mancherò». Abbassò il viso verso il suo, proiettandoci un'ombra calda. Così vicino, Yuki riusciva a vedere le lunghe ciglia sugli occhi scuri, puntellati dalle svariate tonalità marroni. «Ne sarei felice».

Ogni volta che lui faceva così – che improvvisamente annullava la distanza fra di loro – lei tornava ragazzina. Lo stomaco si attorcigliava, le gambe diventavano di gelatina e un forte calore affluiva alle guance.

Era bello. Si sentiva spensierata. «Takeshi», disse, contro le sue labbra.

Lui le sorrideva con gli occhi, affettuoso. «Mh?»

«Li ha uccisi».

Takeshi non rispose. La guardò, per qualche secondo, senza dire nulla. Alla fine, annuì lentamente.

«Non è giusto. Non sarebbe dovuta finire così». Per un istante, Yuki aveva sentito la propria voce incrinarsi, la tentazione di piangere. Tuttavia, aveva stretto le labbra in una linea e le pupille sottili come lame su Takeshi – e invece no.
Invece, non avrebbe pianto. «Ho preso una decisione. Ho intenzione di vendicarli, entrambi. Voglio... », socchiuse le palpebre, espirando. «Ringraziarli».

 

 

Takeshi sollevò la mano destra, posandola sulla sua guancia, accarezzando i capelli argentei. «Non potevo aspettarmi diversamente da te», il suo viso si accese in un sorriso, più caldo del sole, più luminoso della luce. «Penso che sarebbero felici di sapere che tieni a loro, ma... non mettere a repentaglio la tua vita più di quanto già non fai. Ricordati che qui, da questa parte, c'è qualcuno che ti aspetta ogni giorno».

Lei annuì. «Non lo dimenticherò», rispose. «Te lo prometto».

Lui le sfiorò l'angolo dell'occhio con il pollice, pian piano. Poi si piegò verso di lei, baciandola sulle labbra, godendosi quel minuto di intesa. Nella loro bolla.

 

 

«Signorino Takeshi!».
Con un movimento fluido e naturale, il ragazzo si era allontanato dalla mezzosangue, lasciandole un'ultima fugace carezza vicino all'orecchio, tra le ciocche che scivolavano sulla guancia.
Subito dopo, Kukuri apparì sulla porta della stanza, gioviale e spensierata. «Oh, signorina», esclamò, alzando le sopracciglia. «Non pensavo foste insieme, vi... vi ho per caso interrotti?».

«Stavamo solo parlando, Kukuri-chan», disse Takeshi, accogliendola con un sorriso – aveva un ché di misterioso. «Gli altri sono pronti per andare?».

«Oh, sì, esatto! Sono venuta ad avvertirvi che il signorino Tetsuya e la signorina Sayumi stanno aspettando all'ingresso».

Mh? Però, quando sono arrivata, non ho sentito nessuno parlare, pensò Kukuri. Anche se non era sicura al 100%, la cameriera lasciò scivolare il pensiero, tornando al duo. «Vi sollecitano a “non metterci una vita come al solito”».

«D-di... nuovo? Ci stanno prendendo gusto», osservò il ragazzo.

 



Mentre Kukuri si occupava di rassettare la camera degli ospiti, i due ragazzi si avviarono verso le scale, percorrendo la solita passerella. Come aveva detto Kukuri, gli altri due erano già al centro dell'ampio ingresso, e stavano chiacchierando con tranquillità.
Il vampiro biondo reggeva nella mano destra una valigetta in pelle, molto familiare. A ben vedere, era la valigetta scolastica di Sayumi. Probabilmente lui gliela stava reggendo.

Entrambi – così come Takeshi – indossavano i vestiti della sera prima, ma erano lavati e ben stirati e sembravano uscire direttamente da una boutique. Yuki, invece, aveva approfittato della calma e si era cambiata, indossando un maglione rosa antico sopra ad una gonna nera pieghettata.

«Stavolta siete stati veloci», osservò Tetsuya, che aveva percepito la loro presenza da subito. «Bravi. Vuol dire che stavolta non eravate occupati a fare niente di importante».

«Quando la pianterai con questa storia?», ribatteva l'albina, mentre Sayumi scoppiava a ridere e Takeshi si sforzava di non imitarla.

«Oh, scusa. Ho ferito il tuo delicatissimo animo di principessa?».

«Stai scherzando con il fuoco– ».

«Il fulmine, semmai», intervenne Sayumi.

«Aahhhh! Basta!», esclamò Yuki, spazientita. «Non ne posso più! Ritiro ciò che ho detto, è meglio se ve ne tornate a casa vostra!».



«Stai dando spettacolo», irruppe un'altra voce, maschile.
Oseroth stava scendendo gli scalini retrostanti, con tutta la calma del mondo, il palmo della mano che scivolava lungo il mancorrente. Come sempre, l'uomo era elegante e senza un capello fuori posto. Il suo portamento era impeccabile e preciso, come quello di un aristocratico. «Alle volte faccio davvero fatica a crederti mia figlia».

Yuki si voltò, le sopracciglia inarcate sulle palpebre e il broncio pronto al suo posto. «Ah-ah».

«Signor Oseroth», esclamò Sayumi con tono stupito. «È venuto a salutarci?».

 

Il demone raggiunse il quartetto di fronte al portone, di qualche centimetro indietro rispetto all'albina, e fece una leggerissima smorfia con le labbra. «Diciamo di sì. Era mia moglie a volervi fare un saluto, ma doveva recarsi al Consiglio. Vi raccomanda di fare attenzione».

«La signora Kazumi è di una gentilezza senza pari», cantilenò Sayumi, allegramente. «E anche lei, grazie molte per averci ospitato».

Il demone scostò il viso. Di fronte a quella ragazza – al suo modo diretto, innocente ed onesto – Oseroth si sentiva un po' disarmato; non aveva un confronto così sincero con un essere umano da tempo immemore e, sinceramente, non si aspettava che sarebbe successo... proprio nel ventunesimo secolo. Ad aggiungerci, non si aspettava che sarebbe successo con un'amica della sua figlia maggiore.
Incrociò le braccia contro lo sterno, serio. «Non era niente di rilevante».

«Wow, che reazione affascinante», commentò Yuki.

«Signor Oseroth», disse Takeshi. «Devo ringraziarla anch'io, per avermi permesso di venire con voi, la scorsa notte».

Oseroth lo guardò con la coda dell'occhio, facendo un cenno con il capo. «Hai fatto un buon lavoro, malgrado la tua debolezza».

Tetsuya si issò la valigetta su una spalla, rivolgendosi ai due umani. «Direi che è arrivato il momento di andare», per poi salutare il demone. «Arrivederci, Oseroth».

«Sì, arrivederci».

 

 

I tre allora si diressero verso la porta, già aperta, mentre la mezzosangue li salutava sventolando la mano. Oseroth si protese in avanti, afferrando la parte superiore del braccio di Takeshi, tirandolo leggermente indietro. «Domani sera tornate qui. C'è una cosa importante di cui devo parlare con te... Takeshi».

Lui si voltò, sgranando gli occhi con stupore – qualcosa di importante? Cosa voleva dire quell'uomo? Proprio a lui...

 

Per quanto volesse tempestarlo di domande, il bruno si limitò ad un cenno veloce – l'albino allora gli lasciò il braccio e le loro strade, per il momento, si divisero.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Takeshi infilò la chiave nella serratura della porta di casa e l'aprì con uno sbadiglio.

In casa sua regnava silenzio. Probabilmente tutti gli altri componenti della sua famiglia erano occupati fuori, in città.

 

In città... , pensò, impalato all'ingresso. Non si era nemmeno tolto le scarpe e aveva in mano la chiave che, come al solito, non aveva ancora unito insieme a tutte le altre, nonostante sua madre continuasse a ricordarglielo ogni santo giorno.
Adesso che era tornato alla normalità, si sentiva stordito, sballottato, e faceva fatica a concentrarsi su un unico pensiero – ma chissà per quanto?
Aveva passato la notte precedente a scontrarsi contro demoni e vampiri, sebbene a debita distanza.

Takeshi piegò il braccio verso la schiena ed estrasse l'arma bianca dai passanti della cintura. La lama era lucida e pulita, il sangue di Alyon era un vecchio ricordo – un vivido incubo, purtroppo. Aveva davvero accoltellato qualcuno. Non pensava che l'avrebbe mai usato... non ci aveva mai pensato, tanto meno quando l'aveva preso.

 

Ma la cosa che più mi preme, pensò, è quell'Oseroth.

Perché l'uomo voleva rivederlo? E non solo, aveva invitato a tornare anche Sayumi. Il bruno capiva perfettamente Tetsuya – era un vampiro e un amico di lunga data, d'altronde – ma loro due?

L'unica cosa che mi viene in mente è che voglia avvertirci, fu la sua riflessione mentre, finalmente, si decideva a sfilare le scarpe, oppure, minacciarci. Ormai ci siamo dentro fino al collo, specialmente dopo la scorsa notte.

 

 

E forse, al Re non faceva piacere.
Per Takeshi, l'intromissione di uno o due creature sovrannaturali nella sua vita non era un problema; ma sì, aveva messo parecchio pepe in più alla sua esistenza, lui stesso si sentiva rinato dalla testa ai piedi. Rischiava la vita quasi quotidianamente, ma c'era lei. C'era lei e questo era più che abbastanza – e quei due, Sayumi e Tetsuya, che erano diventati i suoi migliori amici senza che nemmeno ci facesse caso, senza che nemmeno facessero qualche sforzo.

Mentre Takeshi entrava in cucina e si versava un bicchiere d'acqua, il cellulare nella tasca posteriore vibrò. Lo estrasse, sbloccò lo schermo e sorrise di fronte a quella sorta di lettera digitale.

“Hai mantenuto la tua promessa e volevo dirti grazie. … Meno male, aggiungerei, non volevo proprio morire di crepacuore”.

 

Mandò giù l'ultimo sorso d'acqua – una gioia per la sua gola – e rispose al messaggio dell'amica, per poi lasciarsi sprofondare nella morbidezza del suo letto.


 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Takeshi digitò velocemente sul tastierino del cellulare, per poi portarselo all'orecchio, schiacciando l'orecchino color oro che pendeva un po' sotto l'elice con l'apparecchio – gli venne spontaneo sospirare, spostando il peso da un piede all'altro.
Mentre il cellulare squillava e lo lasciava ad attendere per infiniti secondi, il ragazzo richiamò alla mente quella stessa mattina; non credeva che l'avrebbe mai pensato – o detto – ma era stato bello tornare a scuola. In un posto che mai avrebbe considerato divertente o felice.
Aveva guardato i suoi compagni di classe, la fantomatica 2-C, chiedendosi se fossero anche solo lontanamente consapevoli di vampiri e demoni; certo, ogni adolescente, a meno che non avesse vissuto sotto un sasso, conosceva quelle creature.

Ne esistevano a bizzeffe di film, libri, serie tv, qualsiasi tipo di media aveva affrontato il tema.

Ciò che forse non sapevano, era il loro lato peggiore, quello che li spingeva ad uccidersi a vicenda, che fosse per istinto di sopravvivenza o per vere e proprie rivalità – e ciò che lui e Sayumi avevano scoperto, il loro lato migliore. In Juri e in Ryuu, lui aveva scorto il loro lato migliore, anche se per poco tempo.

 

 

«Ehy, Take!».

«Alla buon'ora», rispose il ragazzo. «La mano stava cominciando ad addormentarsi. Io sono di fronte al negozio, sei pronta per andare?».

«Quante storie», brontolò Sayumi. «Pensavo non fossi il tipo da lamentarsi dei ritardi. Mi devo ricredere», la ragazza ridacchiò quando sentì il lamento rassegnato del moro, per poi aggiungere: «Sto scendendo in questo istante. Arrivo».

 

La chiamata si chiuse.

Il ragazzo ripose il cellulare nella tasca dei jeans neri e nascose le mani nella giacca di pelle, con tanto di pelliccia intorno al cappuccio.

 

 

Tagliato dagli edifici, il disco arancione profilato all'orizzonte era sul punto di scomparire completamente. Erano passate le 18.00 da un pezzo e l'appuntamento a casa Akawa si faceva sempre più vicino – o incombente, come stava pensando Takeshi.
I dubbi che aveva provato il giorno prima non erano scomparsi né si erano affievoliti. Era una situazione troppo strana. Ad aumentare la sua irrequietezza, la strada in discesa era desolata come un deserto. Si sentiva il vento fischiare sottovoce, in compenso.

Forse sto diventando troppo catastrofico?, pensò, guardando di sbieco il tramonto, socchiudendo le palpebre di fronte alla luce abbagliante del sole. Eppure...

 

«Eccomi qui! Pronta e carica!».
Il moro si voltò verso la vetrina del negozio di fiori Ichinomiya, incurvando le labbra carnose in un sorriso divertito. «Certo, ci hai messo solo venti minuti, d'altronde».

 

Sayumi si imbronciò, sporse il labbro e increspò la fronte. Sorpassò la soglia della porta, per poi voltarsi e chiudere per bene la porta del negozio; ancora in silenzio, la ragazza tornò da lui, raggiungendolo con due ampi passi. Poi, cogliendolo alla sprovvista, gli diede uno schiaffo sul petto, mettendoci parecchia forza. «Sei antipatico».

 

Takeshi sobbalzò per la sorpresa.

Si piegò improvvisamente, appoggiando una mano al ginocchio e l'altra contro il petto, annaspando come se stesse cercando di recuperare aria. Sayumi, a quella reazione, quasi si prese un infarto.

«Oddio», balbettò, piegandosi velocemente su di lui. «Oddio, scusa, non pensavo di... ti ho fatto male? Stai bene? Riesci a respirare–... ».

 

Per tutta risposta, il ragazzo ruotò il viso verso sinistra, sfiorando il naso di Sayumi con il proprio. Sulle labbra spiccava lo stesso sorriso di prima, stavolta più strafottente, ma tanto vivido – intenso.
«Sei dolce», disse, a bassa voce, perché a quella distanza non c'era alcun bisogno di alzare il tono. «a preoccuparti per me». Ma purtroppo per Sayumi, era troppo ben piazzato per soffrire per uno schiaffo come quello – ma niente gli poteva impedire di giocarle uno scherzetto, no?
«E fai bene, dopo uno schiaffo come quello», aggiunse.
Si risollevò, mettendo dritta la schiena e... constatò che la ragazza dai capelli rosa si era praticamente pietrificata. Con la faccia rossa come il fuoco.

«Yumi?».

«Cretino».

«... Scusa».

ma che ho fatto di male?

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Per fortuna, Sayumi non si era davvero arrabbiata per il suo scherzetto; a ripensarci, probabilmente si era solo imbarazzata, anche se non si spiegava perché.

Dopo che lei gli aveva fatto promettere di non farlo più – altrimenti gliela avrebbe fatta pagare molto cara – i due amici si erano diretti verso casa Akawa. Erano già abbastanza vicini quindi dopo una manciata di minuti avevano raggiunto il cancello di ferro, quell'inutilissimo aggeggio che bastava spingere per aprire.
«Yumi», disse Takeshi. «Cosa credi che vorrà dirci, Oseroth?».

«Non ne ho la più pallida idea. Spero solo che non sia niente di brutto... l'altro ieri è stato già abbastanza pesante», rispose la ragazza, stringendosi un po' nella giacca azzurra. Poi girò il capo verso il moro e sorrise raggiante, mentre intorno a loro calavano le tenebre più fitte. «Qualsiasi cosa sia, l'affronteremo tutti insieme, proprio come abbiamo sempre fatto».

Lui le sorrise a sua volta, annuendo.

 

Finito il percorso circondato dal bosco, erano arrivati di fronte al portone della residenza. Takeshi allungò un braccio e premette il campanello per un paio di secondi. Non aveva fatto nemmeno in tempo a staccare l'indice che la porta, di punto in bianco, era stata aperta.
Da Oseroth.
In cuor suo, il ragazzo si era appena beccato un infarto fulminante – allontanò immediatamente il dito dal campanello, e inforcò di nuovo le mani nelle tasche. Sayumi fece un inchino flettendo la schiena, imitata dal ragazzo, e poi sorrise allegra. «Signor Oseroth, buonasera!».

 

Oseroth Akawa, la mano destra al pomello, guardò Sayumi; le sopracciglia leggermente basse sulle palpebre e la bocca in una piccola piega, tutta seria. In parte, l'uomo sembrava in difficoltà, come se non sapesse... come comportarsi.
Restò in silenzio e spostò la sua attenzione su Takeshi, poi di nuovo su Sayumi. «Ben... ben arrivati», disse, non proprio sicuro. Sottovoce, al limite dell'udibile, aggiunse: «Sì, ho detto bene».

Con un grosso punto interrogativo sopra la testa, il duo ringraziò il demone, incerti a loro volta, e fecero il loro ingresso dentro la casa, lasciandosi l'aria fredda dell'esterno alle spalle.
Non appena misero piede dentro il grande salone ampiamente illuminato dal lampadario al soffitto, si ritrovarono Kukuri di fronte, apparsa dalla cucina con notevole velocità. «Buonasera», disse la ragazza dai capelli neri. «Prego, datemi pure il soprabito e la giacca».

«Ciao, Kukuri!», trillò Sayumi, mentre si spogliava del soprabito azzurro e lo consegnava alla cameriera. «Sei sempre così diligente».

«Ah, ma no. È che mi piace il mio lavoro, anche se non sono brava come... ».

Takeshi le gettò un'occhiata, ripetendo: «Come?».

Ma Kukuri non rispose. Poco più in là, Oseroth la osservava, gli occhi calmi.
La ragazza scosse leggermente il capo, scompigliando i capelli corti, chiudendosi nelle gracili spalle. «Chiamatemi se mai aveste bisogno di qualcosa!», disse, con le giacche imbraccio – dirigendosi in fretta verso l'armadio a muro.

 

Takeshi si voltò verso Sayumi e i due ragazzi si scambiarono un'occhiata dubbiosa. Era già la seconda persona a comportarsi in modo strano da quando erano arrivati, c'era forse qualcosa che non andava? Pieni di dubbi, sia lui che lei si rivolsero ad Oseroth, con l'intenzione di chiedergli cosa avrebbero fatto a quel punto, ma l'uomo si stava già incamminando su per le scale.

«Che... bizzarria», bisbigliò Sayumi.

«Forse sono sempre stati così. Di fronte a noi, invece, si sono comportati... diversamente». Aggrottando la fronte, il ragazzo si morse il labbro. «A questo punto, possiamo solo seguirlo». Ma proprio quando stavano per muovere un passo, ci fu una nuova apparizione, stavolta molto più rassicurante.

«Oh, Yuki-chan!».

 

 

La mezzosangue chiuse la porta della sua stanza dietro di sé, seguendo il movimento con gli occhi, ma al suono di quella voce si animò tutto d'un tratto. Con un piccolo scatto, si volse sporgendosi dal parapetto della passerella, con un grande sorriso a disegnarle le labbra sottili. «Ragazzi! Ma che ci fate... ?». L'iniziale tripudio , dopo qualche secondo di riflessione, fu sostituito dalla sorpresa e da un pizzico di confusione.
«Un attimo, arrivo!». Così dicendo, l'albina percorse velocemente la passerella e scese le scale, fino a raggiungerli di fronte al portone. «Cosa ci fate qui?», ripeté.

«Questo è il colmo», esclamò Sayumi, spalancando gli occhi. «Non sapevi che il signor Oseroth ci aveva invitati a venire qui, questa sera?».

 

Per tutta risposta, l'albina inarcò un sopracciglio, alzando l'altro – una bella smorfia a distorcere i bellissimi tratti del suo viso. «Stai scherzando?», balbettò, trattenendo un risolino. «Mio padre vi avrebbe invitati?».

«Così pare», rispose Takeshi. «Tetsuya non c'è? Dovrebbe esserci anche lui».

«Oh, Tetsuya... », Yuki si premette il labbro con l'indice, annuendo. «In effetti è qui. È nella Stanza delle Mappe con mio padre e mia madre, se ho ben capito. È arrivato dieci minuti fa e adesso stavo per raggiungerli, quando vi ho visti... », fece una pausa, pensierosa. «Quello là sta indubbiamente architettando qualcosa».

«Ho pensato lo stesso. In realtà, ho pensato a tante cose. Direi che è arrivato il momento della verità», mormorò il bruno, facendo un sorriso storto.

La mezzosangue sembrò soppesare le parole del ragazzo, stringendo le labbra, in apprensione. Forse – con ogni probabilità – Takeshi aveva pensato che il demone volesse separarli. Scrollò la testa con forza e afferrò le mani di entrambi, stringendole a sé. «Andiamo, okay?».

 

Tutti e tre si diressero verso la Stanza delle Mappe, il cuore che ballava nella gola.

«A proposito del signor Oseroth», proruppe Sayumi, rompendo la tensione. «Prima, quando è venuto ad aprirci la porta... ecco... sembrava un po' strano. Vero?».

«Già».

«In che senso?».

«Non saprei, però sembrava che stesse cercando di essere... socievole?».

«Oh, parli di quello», Yuki sorrise, socchiudendo le palpebre. «A quanto sembra, mia madre ha cercato di convincerlo a sciogliersi un po'. Gli ha detto, “di cosa ti preoccupi? Non è che possono farci del male, quindi diamogli una chance, cerchiamo di evolverci”. Lui, apparentemente, non era sicuro. Ma se mi state dicendo questo, allora... ».

«Allora», riprese Takeshi, un angolo della bocca alzato. «vuol dire che non dobbiamo preoccuparci».

 

Yuki annuì e Sayumi si illuminò, rassicurata.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Raggiunta la porta che dava nella spaziosa – e altrettanto misteriosa – Stanza delle Mappe, Yuki posò la mano sulla maniglia, artigliandola con un dito alla volta. Una leggera pressione, un sonoro clunk, e la porta era spalancata; in fondo alla camera, come aveva predetto, i tre si erano riuniti di fronte al camino parlando con voce bassa e calma, ma anche, in un certo senso, affiatata e felice.
Yuki li osservò, senza riuscire a muoversi da quel punto per un paio di secondi.
L'albino se ne stava in piedi, dietro di lui una poltrona di velluto rossa e la finestra, nella camicia bianca che spiccava dal lucido nero del suo panciotto. Accanto allo scoppiettante fuoco c'era Tetsuya, appoggiato con la spalla alla credenza del cammino, anche lui in piedi.
Kazumi, bella come un fiore, sedeva di fronte ai due uomini con le gambe accavallate, il gomito appoggiato al bracciolo e il mento sulla mano.

Sembravano un quadro.

Con un pizzico di rammarico, Yuki aveva rotto quella calda atmosfera. «Allora? Che storia è questa?».

 

Tutti e tre si voltarono verso la porta, con differenti reazioni; Kazumi sorridente, Tetsuya rassegnato e Oseroth impassibile.

 

«Cosa fai, inviti i miei amici a casa nostra e non me lo dici neanche?», riprovò la ragazza.

Oseroth, le palpebre socchiuse, le fece un cenno con il mento. «Prima di tutto, venite qui».

 

Ormai erano in ballo e non si sarebbero tirati indietro. I tre attraversarono la moquette, e Takeshi e Sayumi si trovarono ad ammirare di nuovo il mistero che quelle pareti offrivano, sopprimendo a stento i versi di stupore. Superata la tavolata ricolma di testi di ogni tipo, strumenti geografici e mappe usurate dal tempo e dalla polvere, arrivarono in fondo, fino al piccolo salottino.
Yuki lanciò un'occhiata dubbiosa a Tetsuya, che le rispose con un sorriso ad occhi chiusi – ma tu guarda quel traditore.

Adesso, figlia e padre erano faccia a faccia. Alla sua sinistra e destra, Sayumi e Takeshi.

 

Il demone, nonostante l'aria determinata della figlia, non faceva una piega. Nei suoi occhi c'era la medesima luce – vivida, talmente concreta da poterla toccare. «Ho invitato i tuoi amici e Takeshi», fu la prima, emblematica frase che sussurrò.

«Che?».

«Ho la certezza matematica che questo ragazzo», e guardò il moro. «non è un tuo amico. E il tuo anulare sinistro non fa che aumentare la mia certezza».

 

Yuki ebbe un fremito alle spalle. Era ovvio. Non aveva fatto niente per nasconderlo, d'altro canto; suo padre non solo era un ottimo osservatore, ma era anche un demone, e niente gli sfuggiva. Tuttavia, sentirglielo dire a voce alta, in modo così diretto...

Ruotò il capo verso Takeshi. Aveva un espressione di pura risolutezza.

 

L'albina sentì un calore alla mano e a scoppio ritardato si rese conto che lui la stava stringendo. Le sue dita lunghe abbracciarono quelle più piccole della ragazza, avvolgendole e intrecciandosi.
Yuki si rivolse al padre. «Sì», disse. «È così. Io e Takeshi siamo fidanzati. Sia Sayumi che Tetsuya possono confermarlo».

«Yuki». Oseroth la guardò. «Ne sono felice».


Silenzio.

 

«Sono felice che tu stia insieme ad un umano come lui. Ha combattuto, ha dato tutto se stesso... per salvarti. Questo mi basta per capirlo», il Re albino aprì le labbra, quelle labbra che non si dispiegavano più in grandi sorrisi – ma stavolta lo fece, stavolta sorrise. «Avete la mia bene– ».

 

Un fischio, accompagnato da un fruscio. Oseroth si voltò di scatto verso la finestra – mentre questa si infrangeva in pezzi e una freccia lo trafiggeva.

 

Cough.

 

Un rivolo di sangue scivolò lungo il mento del demone. Flemmaticamente, Oseroth staccò la mano dal bracciolo e si toccò la bocca con le dita, sfumandola di rosso. Poi, con la stessa fiacca, guardò in basso, in direzione del suo sterno. La cuspide di una freccia di metallo spuntava dal suo petto, alla sinistra di quest'ultimo.

 

Plick.

 

Il sangue picchiettò sui pantaloni.

Una chiazza, frastagliata e scura, si allargò a macchia d'olio sulla camicia bianca. Con un colpo secco di tosse, Oseroth si piegò su se stesso, sfiorando la punta della freccia con il palmo della mano. Indietreggiò, barcollò – fino a che non raggiunse la poltrona.

«Cosa... ». Alla voce tremante della moglie, Oseroth girò il volto verso di lei. Pallido e imperlato di sudore, l'uomo la guardò con la bocca sporca di sangue. «Kazu–... ». Ma dalla gola arsa, uscì solo un respiro singhiozzato. Allora, le sorrise. Sorrise a lei e all'albina.



L'istante dopo, Oseroth Akawa era sparito, lasciando al suo posto un cumulo di polvere e cenere.

 

Il Re albino era stato spodestato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA:
AH!!! SCHERZONE!! Pesce d'Aprile in ritardo. Ah ah. Ah.

Madonna ma perché sono così cogliona

Okay, torniamo un attimo seri, che qui la situazione è alquanto critica.
Sono in lutto. Ho fatto tutto io, ai fini della trama, ma sono in un lutto. Non ce la posso fare.

Ecco qua, il 21° capitolo, con tutta la sua angoscia. ;)
Ci ho messo un po' a finirlo, non riuscivo a proseguire, forse perché scrivere della sua morte era un vero dolore... e volevo descriverlo con il massimo impegno, al meglio. Spero solo di esserci riuscita, è davvero importante.

Oh, ovviamente Vampire Devil non è ancora finito! Manca ancora un bel po', quindi non abbandonatemi ancora!
Ci vediamo con il prossimo capitolo! ~

 

Ps. Potrei eventualmente tornare su questo capitolo per cambiare qualcosina, a livello narrativo.

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Capitolo 22
*** Stupida, stupida di una figlia. ***


22.




Quando la freccia mi attraversò il petto, un dolore accecante mi pervase dalla testa ai piedi, strappandomi il respiro come il peggiore dei ladri. Le forze mi scivolarono via con una velocità brutale, un coagulo di sangue si arrampicò fino alla mia gola – tossii, riversandolo inavertitamente sul mento.

 

Le mie gambe cedettero presto. Quelle gambe su cui avevo sempre fatto affidamente, quelle forze di cui mi ero spesso fidato, adesso mi stavano abbandonando. Indietreggiai, fino a ché non incontrai una poltrona, e privo di energie mi lasciai cadere su di essa.

Questa non è una freccia normale, pensai, deve essere intrisa di oro...

 

Sfiorai la sua cuspide con i polpastrelli e con gli occhi cerchiati di rosso cercai di capire cos'era appena successo, ispezionando l'arma bianca e la ferita che si era aperta nel mio torace – quando, la sua voce, tremante e ghiacciata, balbettò qualcosa.
Sollevai lo sguardo, incrociai i suoi bellissimi occhi, la sua espressione stropicciata dallo sconcerto.

Credo che non si fosse ancora resa conto che stavo per morire.

Il mio battito cardiaco accelerò velocemente, rimbombandomi nel letto. Serrai la mandibola.

 

Stavo per morire. Non mi sentivo più le gambe.

 

Di fronte a me, una platea stava osservando la mia fine. Sui loro volti vidi terrore, angoscia, sbigottimento, tristezza. Su quello di mia figlia rabbia.

Lei corse verso di me, urlandomi qualcosa di ovattato. Mia moglie mi prese le mani, inginocchiandosi contro la poltrona, le guance rigate dalle lacrime.
Persino lei... persino mia figlia stava...

 

«PAPA'!».

Sorrisi, felice. Mi aveva chiamato papà, alla fine.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Il loro rapporto non era mai stato facile, in nessun modo, in nessuna situazione; molti pensavano fosse un fatto strano proprio perché quei due erano talmente simili, esteticamente e caratterialmente, da sembrare più gemelli che padre e figlia. Eppure, non era mai stato facile. C'era indifferenza, c'era sarcasmo, c'era fastidio – e tanto dolore per entrambi.
Non erano immuni l'uno per l'altra. Si percepivano, si sentivano – ma non erano mai stati in grado di parlarsi, forse proprio a causa di quella grande somiglianza.

 

Ed ora, faccia a faccia, davanti ad una poltrona scarlatta – era così tardi per iniziare. Dolorosamente tardi. Lui non c'era più. Davanti ai loro occhi, davanti ai loro occhi colmi di terrore, era sparito. Al suo posto, c'era solo un cumolo di polvere color ebano.

Yuki, in ginocchio di fronte a quella dannata poltrona vuota, premeva la fronte contro il bracciolo gelido, le dita serrate intorno al velluto. Alle sue spalle, gli umani impietriti, incapaci di parlare. Tetsuya tentò un passo barcollante, ma quello andò a vuoto, e il vampiro dovette sorreggersi al camino – le palpebre sbarrate.

 

Lei non capiva. Non capiva cosa era appena successo. Non capiva perché una freccia aveva trapassato il cuore di suo padre, uccidendolo entro pochi secondi. Chi era stato, perché l'avevano fatto? Non capiva perché lui era morto così in fretta – perché avesse sorriso in quel modo, proprio in quel momento.
Le dita artigliarono il tessuto più forte, fino a ché le nocche non diventarono bianche. La freccia giaceva sulla seduta della poltrona. La sua cuspide brillava di un dorato intenso, proprio come... il sole. Proprio come il dannato sole.

Quello è... oro...

Un freccia, la cui punta era rivestita – imbevuta, plasmata – di oro... un'arma così fatale da essere spaventosa.

 

Yuki si lasciò scivolare ancora di più sul pavimento, aggrappandosi a quella poltrona che conservava solo un lieve ricordo del suo profumo.

 

Mi dispiace”, quelle parole colavano dalla pallida bocca di Yuki ed erano forti e travolgenti, rimbombavano nella testa tanto da far male. Avrebbe voluto urlare, che la smettessero di farle così male perché non riusciva più a gestirle.
«Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace. Mi dispiace... mi... ». Le dispiaceva, ma non era stata un po' lenta? Non era un po' tardi? Inutile? «Papà».

Lui aveva sempre desiderato in modo talmente palese d'essere chiamato così – “papà”. Un suono così dolce, delicato. Eppure, nonostante il desiderio fosse forte e sincero, i suoi “ehy" – irritati, scocciati e arroganti – se li era fatti andare bene; i suoi sporadici sorrisi di complicità, quando cercava di non odiarlo troppo: gli era sempre bastato e avanzato tutto. Ne era sempre stato felice. Perché lei era la sua adorata prima figlia.

 

«Yuki, tesoro... ».

Kazumi era rotta nelle lacrime, singhiozzava incapace di parlare – Yuki si voltò, guardò la madre, vide le sue guance rigate dalle lacrime. Vide la bocca tremare tanto da non riuscire a dire una singola parola in più. Sembrava improvvisamente minuscola – soffriva da morire e lei non sapeva cosa fare. Non sapeva cosa fare.
«Andrà tutto... », tutto come? Come sarebbero andate le cose, da lì in avanti? «Andrà tutto bene, te lo prometto». Era la più grande bugia che avesse mai detto, sentiva la lingua ritorcersi contro di lei. Ma guardando Kazumi – la strinse a sé, l'avvolse in un abbraccio stretto, con le braccia che tremavano.
Kazumi non aveva nessuno, nessuno che le avesse mai dimostrato quell'amore, a parte suo marito. Oseroth Akawa l'aveva fatto, segretamente, le aveva dato un tale affetto da farle sentire la vita nelle vene.

 

Yuki la teneva ancora stretta, tentava di abbracciarla mentre la testa pulsava e la vista si sbiadiva – ma la tenne a sé, forte, affondando il viso sulla spalla della madre.

«Mi prenderò cura di voi. Mamma, andrà tutto bene... e mi dispiace, mi dispiace».
Non poteva ancora piangere. Non ancora.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Il rimbombo dei suoi passi era funereo.

Si era lasciata alle spalle la Stanza delle Mappe, quasi sdradicando la porta, e con un salto aveva scavalcato il parapetto della passerella, atterrando a cinque metri dal portone.
Nella mano sinistra, reggeva distratta l'arma che gli aveva strappato suo padre. Dietro di sé, sentiva i richiami di Tetsuya, ma erano lontani e sfocati, come se stesse parlando da dentro una bolla.

 

Di fronte alla porta d'ingresso, Yuki si fermò, i piedi ben divaricati. Strinse la presa sul corpo della freccia e sollevò il pugno, guardandolo con il gelo negli occhi.

Qualcuno, là fuori, aveva scoccato quel dardo. Qualcuno si era appena inimicato le persone sbagliate.

«Adesso è troppo tardi», bisbigliò, tra i denti.

 

Allacciò le dita attorno al corpo del dardo, serrando la stretta – continuò a stringere, a chiuderla, fino a che la freccia non si ruppe in due parti uguali sul palmo della sua mano. Yuki fissò le due parti rimanenti, con freddezza artica, e scagliò i pezzi sul pavimento come immondizia.

«Yuki», esclamò il vampiro, apparendo alle sue spalle all'ultimo istante. «Che intenzioni hai? Là fuori... ».

 

Là fuori stava accadendo qualcosa.

 

Yuki pose la mano sul pomello della porta d'ingresso e trasse un profondo respiro. Aveva bisogno di riempire il caricatore se voleva sparare. Ruotò il pomello verso destra e la porta cominciò ad aprirsi, tra cigolii e scricchiolii – la voce di Tetsuya venne coperta in parte dai rumori.
Adesso, il suo cervello aveva ripreso a carburare, tutti i ricordi, le immagini, e poteva pensare lucidamente – poteva riprendere da dove aveva lasciato.
I suoi occhi furono lo sparo. Il loro rosso inghiottì lo scenario al di fuori della porta.

 

 

Una distesa, sebbene accennata, di puro bianco, un velo leggero che scendeva dal cielo oscuro.
Il genere di oscurità che celava le mostruosità, le bestialità. In quella stessa oscurità, fiochi puntini rossi comparivano all'orizzonte, un orizzonte fin troppo vicino – ma non erano pochi, quei puntini rossi. Il duo era sommerso.

 

Fuori dalla casa, si chiusero la porta alle spalle, determinati a non far passare nessuno.

«Yuki».

«Lo so».

Lo sapeva, lo sentiva. Era una sensazione disgustosa, erano come vermi, come parassiti. Sentiva la loro fame, la voracità stessa li stava consumando, scalpitavano all'idea di affondare i denti e le unghie nelle carni di chiunque. Vampiri e demoni circondavano la residenza Akawa.
Non vedevano l'ora di pregustare la loro vittoria – con ogni probabilità, erano stati pagati per ucciderlo, per vivere la loro stupida vita in agiatezza.

A discapito di suo padre.

 

«So che è difficile, ma», la voce di Tetsuya era ancora lontana. «devi mantenere la calma. So che puoi farcela, devi farcela». Dispersa, oppressa dal lento calare della neve – nel bianco il suo rosso brillava come una fiamma.

«Oh, sì, certo. Li ammazzerò tutti... con grande calma». Ormai non era solo un mero desiderio o una stupida vendetta: dal suo sguardo che bruciava, era diventata la sua ragione di vita.
Mentre i suoi lineamenti si accartocciavano sotto l'ira del demone, i canini da vampiro sporgevano dalla bocca come diamanti e le pupille si facevano sottili e affilate. Avanzò, affondando i piedi nella neve.

«Non fare la stupida, così finiremo male! Dobbiamo rientrare subito. YU!».

 

Ma lei non faceva la stupida.

Perché Tetsuya non poteva capirlo? Voleva solo usare quei suoi maledetti poteri fino a perdere la sanità mentale. Fino a sporcarsi le unghie di sangue. Fino a sentirsi... immonda.

«Dannazione», sbottò il vampiro. «Ti vuoi fare ammazzare? Hai deciso questo?!».

«Non io, loro–».

«Verrai uccisa! E verranno coinvolti tutti! Vuoi questo?! Yuki!». I fiochi di neve si posavano sui loro capi, dolcemente. Che ironia, in quel momento c'era tutto, eccetto la dolcezza. Tetsuya chiuse i pugni, trafiggendosi i palmi con le unghie. «Ai deve perdere anche sua sorella, dopo suo padre?».
Yuki si fermò, come un robot tristemente spento.
Oh, giusto, Ai. La sua piccola sorellina – lentamente, si volse a guardare l'enorme casa abbracciata dal buio della notte, le luci al piano superiore spente, il terrore che filtrava dalle pareti. Poi, pian piano, lo sguardo le ricadde su Tetsuya; era in piedi davanti all'ingresso, fermo come uno stoccafisso ma determinato a fermare la pazzia della sua amica. Allora Yuki scrollò le spalle e iniziò a pensare.

Se la residenza era circondata, allora dovevano escogitare un piano per andare via – vivi, se possibile.

 

 

«Hai ragione. Andiamo». Ma restò ferma, ancora, a guardare il cielo costellato da stelle: sperava ancora che una voragine risucchiasse ogni cosa. Una voragine della pace e, alla fin fine, tutto si sarebbe rivelato come un grande, ignobile incubo.
Avrebbe aperto gli occhi, si sarebbe preparata per la scuola e, mentre percorreva le scale, quell'uomo l'avrebbe aspettata davanti alla porta.

Forse, nonostante tutto, le avrebbe sorriso – forse, le avrebbe detto “ti voglio bene, stupida figlia”. Forse il suo respiro gli avrebbe riempito ancora la cassa toracica.

 

Ma, per il momento, Oseroth era morto.

Suo padre era ancora morto.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Cosa facciamo?».

Nei momenti difficili come quelli, Yuki ringraziava il cielo di essere circondata da persone così forti e intelligenti, dal momento che in quelle occasioni non poteva proprio perdere tempo a rassicurarli. Davanti a lei – mentre nel palmo della mano destra teneva ben stretta la katana Anima – c'erano tutti, meno Tetsuya che sorvegliava l'entrata e le finestre. Il suo fidato braccio destro.
«La situazione fa piuttosto schifo», esordì l'albina, guardando i volti di ognuno, uno alla volta. «Fuori da qui, a nord, ovest, est e sud ci sono fila di vampiri e demoni – con chiare intenzioni ostili. Penso che loro siano colpevoli di... », si fermò, inarcando le sopracciglia. «Non possiamo pensare molto. Sappiamo per certo che, tutto intorno alla casa, siamo circondati da quei cosi... dunque non possiamo uscire dall'entrata. Ci vuole un'uscita più nascosta».

«All'incirca, un centinaio, tra vampiri e demoni», disse Sebastian, dalle scale.

 

Yuki, gli occhi ancora impregnati dal rosso, annuì.

«Sono abbastanza sicuro che voi abbiate qualche uscita d'emergenza», disse Takeshi – la mezzosangue non si era data il tempo di rifugiarsi nella sua gentilezza. Fra le braccia del ragazzo, c'era Ai, stretta fermamente, che teneva gli occhi chiusi. Era sveglia e lucida ma si rifiutava di aprirli.

 

Ai aveva sentito la vita del padre spegnersi, improvvisamente.

Era nella sua camera quando l'aveva avvertito. Il flusso di energia vitale era semplicemente scomparso e lei... aveva capito che qualcosa era successo.

 

«Infatti. Il piano migliore che mi è venuto in mente», continuò Yuki. «è di disfarci di almeno una piccola quantità degli imbecilli, se non vogliamo rischiare di averli alle calcagne. Ragion per cui, avrò bisogno dell'aiuto di... », si guardò intorno, osservando gli amici; naturalmente doveva escludere a priori Takeshi e Sayumi, mentre Ai e Kazumi non erano assolutamente nelle condizioni di aiutarla. «... Tetsuya e Sebastian».

I due annuirono, affiancandola di fronte alla porta d'ingresso. Fuori dalla casa, i suoni dei passi e il rumore che producevano spostandosi era sempre più forte. Era chiaro che non avessero una vera e propria disciplina.
«Noi cosa dobbiamo fare?», chiese Sayumi.

«Voi dovete andare a rinchiudervi da qualche parte... nella mia stanza. Quella è abbastanza spaziosa e non avrete problemi a spostarvi se foste... attaccati».

«Bella prospettiva, eh... vabbene, faremo come dici».

 

Yuki accennò un debole sorriso – era quasi certa che non stessero puntano agli esseri umani. E sentiva di aver inalato la tensione stessa. «Allora ci rivediamo qui tra mezz'ora, chiaro? Nel caso non dovessimo tornare, dovete andare via da soli – e dovrete fare molta più attenzione. Mamma, tu-», lei aveva bisogno della forza di sua madre e forse, in un'altra situazione, l'avrebbe addirittura costretta ad aiutarla. Ma adesso, guardando le iridi vitree – era un manichino smontato, sorretto da dei fili invisibili. Se Sayumi non l'avesse sorretta sarebbe caduta a terra come un corpo senza vita.

Sentendosi chiamare, Kazumi sollevò la fronte e guardò Yuki, con gli occhi cerchiati di rosso. «Io aspetterò in camera da letto». Sfuggì dal sostegno di Sayumi con delicatezza e si volse verso le scale.

«Kazumi, aspe-».

«Non fa niente, lascia che vada».

 

 

Yuki restò a sorvegliare la sua figura. Sembrava accartocciarsi ad ogni passo, come se ogni suo osso si polverizzasse per lo sforzo. Yuki pensò che la sua anima si trovava già dentro l'elsa di Anima – guardò la katana, l'elsa stretta nella sua mano. L'anima di sua madre e sua sorella sarebbero finite lì? E persino la sua? Chissà quando sarebbe accaduto.
Forse quella stessa notte?

«Takeshi, prendi Anima e usala, se necessario», si avvicinò al moro, mettendogli in mano la spada; fu un gesto talmente improvviso che Takeshi riuscì solo ad afferrarla, il più saldamente possibile. La mano stava saggiando il peso dell'arma bianca, con qualche difficoltà, mentre con entrambe le bracciava reggeva Ai.
Se gli aveva lasciato Anima, le possibilità di successo dovevano essere davvero basse.
«Fai attenzione», sussurrò, guardandola negli occhi. «E torna da me. Capito?».

 

Tornare da lui era una delle sue priorità. E lei era sicura che ce l'avrebbe fatta, per se stessa, per lui, e per la salvezza di tutti quanti. Fece un leggero cenno col capo, sorridendo.

«Cristallino».

 

 

 


 

***

 

 

 

 

«Alla fine hai lasciato Anima a Takeshi. Ma sei sicura? Sarà anche pericoloso, ma ho l'impressione che così lo sarà ancora di più... ».

 

Yuki stava guardando davanti a sé. Aveva smesso di nevicare.
Comprendeva i dubbi dell'amico: era giusto lasciare una katana di quel calibro, con quei poteri insidi, ad un essere umano che non ne aveva mai maneggiato nulla del genere? E non era solo questione di potenza. Erano passati secoli dalla sua nascita e il suo valore superava era smisurato – un oggetto maledetto, di quella portata...



«Sì, sono sicura. Mi fido di lui».

Tetsuya sorrise. «Già, anch'io. Proteggerà le ragazze». Ma il sorriso sulle labbra del ragazzo vacillò molto in fretta, sostituito da un tremore. «Yuki... Oseroth è... ».

Tetsuya lasciò la sua frase sospesa nell'aria, fredda, congelata dalla nevicata. Non riusciva a continuare. Chiuse le labbra in una linea netta, voltandosi a guardare di fronte a sé – così come la mezzosangue.

 

 

C'era silenzio. Il tipo di silenzio che faceva da prologo ad uno spettacolo.
Persino la neve, il vento, avevano smesso di cantare la loro malinconica sinfonia, in attesa.
Yuki, Tetsuya e Sebastian stavano aspettando. Quest'ultimo esordì, mentre passava il palmo della mano sulla canna del fucile a pompa, nell'atto di lucidarlo. «Ha qualche preferenza in merito alla pulizia, signorina? Tenendo conto dell'arma in mio possesso, naturalmente». Con un gesto secco – che non mancava di eleganza, – l'uomo tolse la sicura e sollevò la bocca del fucile davanti a sé.

Yuki sorrise. «Il più dolorosamente possibile. Grazie dell'interessamento. Ed ora, miei cari assistenti... ». Il rosso esplose nei suoi occhi, un folata di vento graffiò la sua pelle. «Possiamo ammazzarli tutti! AVANTI! Vi stavamo aspettando, idioti!».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Takeshi non aveva fatto in tempo a battere le ciglia che di Yuki e gli altri due si erano volatilizzati. Erano stati straordinariamente veloci e la cosa, se possibile, lo preoccupava ancora di più. Sperava solo che non facessero stupidaggini a causa della fretta.
Rinsaldando la presa su Ai, si voltò verso le scale alle loro spalle. Yuki aveva suggerito la sua camera per nascondersi e, ricordandoselo, cercò velocemente di fare mente locale della planimetria della casa. In un'altra occasione, ci sarebbe riuscito ad occhi chiusi.
«Yumi, tienimi un po' questo affare», disse poi, passando Anima all'amica, reggendola dall'elsa – lei aggrottò la fronte, afferrandola con entrambe le mani. «Pesantuccia, cavolo. D'altro canto, al suo interno ci sono giusto un paio di anime... ».

«Ora sì che mi sento più rilassato».

Sayumi abbozzò un sorriso, per poi indicare le scale con un cenno del capo. «Andiamo».
Per fortuna, entrambi avevano una corporatura e una resistenza fisica che li agevolava largamente, erano in grado di correre molto velocemente senza risentirne, il ché capitava a fagiolo dato che Takeshi portava imbraccio una bambina di undici anni.
Corsero su per le scale del salone e svoltarono a destra, superando le prime due stanze per poi introdursi nella terza: quella dell'albina. Sayumi spalancò la porta e lasciò entrare Takeshi, chiudendosela alle spalle il più piano possibile – non si sapeva mai, poteva esserci qualcuno lì fuori ad aspettarli.
Poi si spostarono verso il lato sinistro del letto, a passo felpato, e i due si erano scambiati i compiti; lui si mise accanto alla finestra, nella mano Anima, e scostò la stoffa pesante della tenda con una mano, con la costante paura che gli scivolasse dalle dita – stavano sudando.

 

Ai era dovuta necessariamente scendere dalle braccia di Takeshi, sarebbe stato un impedimento ai suoi movimenti, e Sayumi si era occupata di farla sistemare sul letto di Yuki, le gambe raccolte al petto e gli occhi semi aperti.

 

«Vedi qualcosa, da lì?», Sayumi si piegò sulle ginocchia, sedendosi su un tallone e riparandosi sotto la finestra. Takeshi era di fronte a lei, con la schiena contro il lato dell'armadio e lo sguardo fisso fuori. Era concentrato.

«No... è buio pesto là fuori. Sembra di stare dentro una boccetta di inchiostro».

Sayumi sorrise. «Sei molto poetico».

Takeshi le diede un'occhiata di sbieco, un rimprovero gentile, per farle sapere che non se la sentiva di scherzare poi così tanto.

 

La situazione aveva fatto molto in fretta a degenerare. Proprio come due notti fa, quando era andato a salvare la sua fidanzata dalle grinfie dello zio. Era uguale. Di nuovo, non sapeva se avrebbe rivisto tutti quanti – se avrebbe rivisto la sua Yuki. Che stranissimo dèja vu, pensò, stringendo il pugno libero.

Le due Akawa, però, avevano la certezza che non avrebbero più rivisto il padre.

Non riusciva ancora a credere che fosse stato assassinato, di fronte a loro... non riusciva a capacitarsene. Aveva davvero visto quell'uomo, apparentemente imperscrutabile, diventare polvere e cenere? Quando solo due giorni prima lottava come un leone?

 

Con questo pensiero in testa, Takeshi staccò la schiena dall'armadio e si fece vicino ad Ai, sedendosi sul bordo del letto. Non si soffermò molto a riflettere, a farsi venire il dubbio che la ragazzina volesse rimanere chiusa nella sua bolla; con delicatezza, le posò la mano sulle sue, poste sulle ginocchia – quelle di lui erano giganti, al confronto, e coprivano quella della ragazzina facilmente.
Ai non fece una piega, come se non l'avesse neanche sentito.
Rimase immobile, lo sguardo vitreo e la bocca chiusa. Era ancora più simile ad una bambola di porcellana – ma respirava, esisteva, ed era una realtà che non poteva cambiare. Non poteva finire così, non poteva trasformarsi in un oggetto senza anima. Non così facilmente.

 

«Ehy, Ai. Posso farti una domanda?». La bambina non rispose. Sarebbe stato, probabilmente, un monologo. «Hai paura? Hai paura di perderla?».

Al suono di quella domanda, qualcosa nelle sue iridi ambra sembrò smuoversi. Era stato un movimento impercettibile, talmente piccolo da essere quasi invisibile, ma c'era stato.
«A dire il vero», riprese Takeshi, stringendo lievemente le dita della bambina. «ho paura anch'io. Una paura folle. Mi tremano le gambe come gelatina. So che mi prenderesti in giro, in un'altra circostanza... e sai come faccio ad esserne sicuro? Perché vi somigliate. Vi somigliate come due gocce d'acqua e proprio per questo... so che voi potete riuscirci: potete sopravvivere a tutto questo».
Allora Ai girò lo sguardo e i suoi occhi erano già rossi – si fecero lucidi, e molto in fretta si riempirono di lacrimoni roventi. La bocca e le spalle tremavano e la chiudevano in spasmi spauriti. «Io... io ho... non posso... ».

 

 

Ma in quell'attimo di distrazione, il vetro della finestra alle loro spalle andò in frantumi.

Il frastornante suono del vetro che si spaccava e infrangeva in mille pezzetti si infiltrò come un verme divoratore. Sayumi gridò per lo spavento, buttandosi con la schiena contro l'angolo vicino alla finestra, mentre Ai indietreggiava scalciando.

 

«TAKESHI!», fu l'urlo terrorizzato di Sayumi.

Il moro era scattato in piedi e si era girato – ma troppo tardi, troppo tardi per il suo nemico.


All'improvviso, Takeshi si trovava faccia a faccia con un demone, supino sul baldacchino, Ai proprio lì affianco; il demone aveva spalancato la bocca, nell'atto di morderlo, con i denti aguzzi grondanti di saliva e di fame – gli occhi neri che si stavano già servendo con le carni dell'umano. Takeshi aveva fatto appena in tempo a sollevare la spada per usarla come scudo e il demone aveva afferrato la lama della katana con entrambe le mani, l'unico muro tra i due.

Takeshi era con la schiena sul letto, una mano sull'elsa e l'altra pericolosamente vicina alla punta di Anima.
Sentiva il fiato caldo e furibondo di quell'essere sul viso, il proprio sudore impregnargli la fronte e le mani. Come aveva temuto sin dall'inizio, le mani erano troppo sudate per avere una presa ferrea.
Avvertiva già l'elsa scivolargli, la lama cominciare a penetrare nella pelle – quel demone ci stava mettendo forza, stava combattendo per poterselo mangiare. Voleva saziare il suo appetito; eppure, nonostante avesse fame, si stava ancora trattenendo, forse per la semplice soddisfazione di vederlo lottare per sopravvivere.

Takeshi tirò un respiro strozzato – e tutto un tratto, il demone non stava più premendo con veemenza.

 

Lentamente e meccanicamente, il demone lasciò la lama, si mise dritto, e fece un cauto passo indietro, come se qualcuno gli stesse puntano una pistola alla nuca.
Takeshi strabuzzò gli occhi, col fiatone, Sayumi si sollevò in piedi, strisciando la schiena contro l'angolo. Poi, battendo i denti per la paura, ruotò lo sguardo – e trovò Ai in piedi sul letto, nel suo vestito nero dai mille merletti. Gli occhi dorati avevano perso la loro lucentezza per cederla ad un rosso scarlatto e protendeva la mano verso il demone, davanti a lei, con le dita ben separate fra loro.

 

«Ai... ma tu... », bisbigliò Sayumi.

 

Ai espirò. «Vedete di non abituarvi... a farvi salvare da me», sussurrò, lentamente, nel tentativo di non perdere la concentrazione; Takeshi si alzò dal letto con uno scatto, avvicinandosi subito all'amica per trascinarla via dall'angolino e sbucare verso il centro della stanza – senza staccare gli occhi dalla piccola mezzosangue. Non la perdetterò mai di vista, nemmeno quando dalla sua bocca uscì un ordine e quell'uomo – quell'essere spaventoso decise di buttarsi giù dalla finestra distrutta, per un valzer con la morte.

 

 

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Capitolo 23
*** La casa degli spettri. ***


23.





Con un salto all'indietro, Yuki schivò il morso feroce di un vampiro – a quel punto, tornò all'attacco con un calcio laterale. Non era stata buona di certo, con quel calcio che gli aveva torto la testa, facendola girare come quella di un gufo. Subito dopo, era balzata da quel punto, affondando i piedi nella soffice neve, scontrando la schiena contro quella di Tetsuya.
Proprio dal vampiro partì un calore di portata immensa. La sua mano immersa in fiamme rosse non si fermava un secondo, sparando getti di fuoco come una pistola, mentre Sebastian faceva partire due colpi di fucile verso sinistra e poi in alto, contro un povero sprovveduto.

 

Quel campo di battaglia era un ammasso di suoni e odori. Lo scatto metallico della ricarica del fucile, il fischio dei proiettili che si accasciavano, l'odore di carne carbonizzata e le voci, talvolta le grida, dei vampiri e dei demoni. La massa informe di nemici ululava inferocita.

Esattamente, quanti ne avevano uccisi? Quanti erano collegati all'omicidio di Oseroth?

 

«Mi sta venendo una mezza idea», proruppe Tetsuya, scuotendo rapidamente la mano per accendere una nuova fiammata.

«Oh, Tetsu, spero sia la stessa a cui ho pensato».

Il vampiro biondo sollevò l'indice della mano sinistra e lo puntò verso un vampiro – schioccò un'occhiata di sbieco all'amica, dubbioso. «No. Non penso proprio. Ma direi che ne abbiamo uccisi più che abbastanza». Sparò il suo colpo, lo sguardo attento. «È arrivato il momento di tornare dagli altri».

«Devo concordare con il signorino», aggiunse Sebastian, mentre premeva il dito sul grilletto e un'altra esplosione di piombo partiva dalla canna. «Oltretutto, mi duole avvertirla che le cartucce stanno scarseggiando sempre più, signorina Yuki».

Yuki ringhiò, serrando i denti in una morsa dolorosa. Dannazione. L'unica cosa che potevano fare – l'unica che avesse un po' di senso, per lo meno – era esattamente quella di levare le tende. Ma la sola idea di lasciarli continuare a vivere impuniti, la faceva impazzire come il più spregevole dei demoni. Se fosse dipeso da lei, sarebbe rimasta nella neve ghiacciata, fin quando essa non le avesse raggiunto le ginocchia, e avrebbe continuato ad ucciderli. Fino all'ultimo.

 

Strinse i pugni e annuì, toccando poi le spalle dei due con un colpetto. «Okay, rientriamo».

Dentro la nuova casa degli spettri.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

«Avevi consigliato la tua stanza, giusto?». Tetsuya si girò un attimo, senza smettere di affrettarsi dentro casa, per guardare l'amica mezzosangue che confermò; mentre Sebastian informava tutto il personale di fuggire da lì al più presto, tramite i sotterranei – se era loro possibile –, Yuki e Tetsuya tornavano dagli altri. Tetsuya richiuse le porte, sbarrandole con una poltrona del sottoscala, e poi entrambi si avviarono in fretta verso le scale. «Brava, è stata una buona idea», disse lui.

 

Yuki pensò solo al fatto che non sapeva come faceva ad essere così calmo. Lui sì che era un vampiro, si disse. 

Magari, anche di fronte al suicidio compiuto dei suoi genitori, Tetsuya aveva mantenuto la stessa compostezza.

 

 

Arrivati di fronte alla porta Yuki la spalancò furiosamente, quasi staccandone il pomello – e la prima cosa che i suoi occhi videro fu purtroppo la finestra distrutta, con i cocci sparsi dappertutto, fin sulle coperte del letto.
Allarmata, si guardò intorno alla ricerca dei tre, per poi ritrovarli accucciati al lato sinistro del grande letto. Sayumi e Ai erano abbastanza nascoste dal baldacchino, ma anche dalla figura di Takeshi, che in confronto era imponente come quella di un leone. Troppo alto per riuscire a nascondersi allo stesso modo, si era piazzato di fronte alle due ragazze, improvvisandosi come scudo.

 

L'albina soppresse a stento un singulto.

Corse verso i tre, quasi gettandocisi sopra. «Ditemi che state bene. Vi prego», balbettava, nervosamente. Takeshi riuscì a non perdere l'equilibrio solo per miracolo, girandosi verso la mezzosangue per abbracciarla con tutta la forza che aveva, sul punto di soffocarla.

«Stiamo bene».

Dio che sollievo vederla tutta intera. Aveva qualche graffio, qualche taglio ed era sporca di sangue, ma... sembrava stare bene.

Era salva, nuovamente – dietro di lei, Tetsuya vigilava la porta e le finestre, senza perdersi in commozione e lacrime. Beh, nemmeno Takeshi l'avrebbe fatto. Si allontanò da Yuki mentre anche Sayumi e Ai si accingevano ad abbracciarla. Sotto l'ala protettiva della sorella, Ai annuì più volte. «Sì, stiamo tutti bene».

«Grazie a te, Ai-chan».

L'albina allontanò gentilmente l'amica e la sorella per guardare tutti e tre. Voleva capire cosa era successo, sebbene quello non fosse il migliore dei momenti. «In che senso?».

«Un tizio», rispose Takeshi, mentre lui e le ragazze si rialzavano dal pavimento, ricongiungendosi con il vampiro. «ci ha effettivamente attaccato, entrando dalla finestra».

Tetsuya socchiuse gli occhi. «Ora si spiega perché è in quelle condizioni».

Lui annuì mentre, tutti insieme, si apprestavano a raggiungere la camera da letto dei coniugi Akawa nell'altra passerella. Sebastian – insieme a Kukuri – aveva dovuto separarsi dai ragazzi per preparare tutto il personale all'incombente pericolo e alla fuga. Tutti, lì, erano stati scelti con un certo criterio. Dovevano essere in grado di difendere loro stessi e, alla strana e improbabile occorrenza, anche i loro padroni.
«Poco ortodosso. Non penso ci avesse ragionato granché», continuò Takeshi.

«Quello era un demone», disse Ai, inacidendo la voce per un istante. «Non aveva proprio idea di cosa stesse facendo. Aveva solo fame e questa situazione era la più succulenta, per il suo stupido cervello bacato».

 

Yuki guardò un attimo la sorella, uno sguardo fugace. Aveva undici anni. Aveva undici anni e sapeva già riconoscere un demone da un vampiro, le era già chiaro quando il primo fosse sull'orlo della follia, quando il secondo iniziava a diventare vorace, pericoloso. Ai sapeva già come muoversi.
Forse è normale, in realtà, pensò, con l'impulso di prenderla fra le braccia e stringerla il più forte possibile. Invece, mentre si avvicinavano verso il fondo della passerella, all'ultima porta, continuò a chiedere spiegazioni. «E poi?».

«E poi, Takeshi era proprio davanti alla finestra», aveva ripreso Sayumi, rimembrando la paura che l'aveva attanagliata. Si era immobilizzata come una statua di sale. «E quel coso gli si è gettato addosso... stava per... ».

«Stava per uccidermi. Direi che non ci sono dubbi».

 

Se Takeshi e Sayumi fossero stati uccisi da quel demone e se poi anche Ai avesse fatto la stessa fine, incapace di usare i suoi poteri, Yuki stessa li avrebbe raggiunti dopo pochi minuti. Lei stessa sarebbe finita incastrata sotto i suoi denti, intrappolata tra una gengiva, un molare. «Sì, se non fosse stato per Ai», disse infine Takeshi, sorridendo. «Ha usato il suo potere su quel pazzo furioso e ci ha salvati. A noi due e a se stessa».
Ai stava tenendo la mano a Takeshi quando, quei quattro “grandi adulti”, si voltarono per guardarla, per osservare il suo candido viso – il viso di una stella.

«Grazie, Ai».

Yuki fece il sorriso migliore che avesse nel repertorio, almeno in quel momento, alla sua cara e prodigiosa sorellina. Poi, senza perdere altro tempo, appoggiò la mano sul pomello e aprì la porta della stanza. Al posto della madre, però, trovò solo una vistosa macchia di sangue sul pavimento e una finestra spalancata.

Il vento soffiava.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Dopo dieci minuti, Yuki e i ragazzi erano ormai fuori dalla residenza Akawa, in una carrozza d'emergenza. In lontananza, se si tendeva l'orecchio, le urla, gli strepiti e rumori di oggetti distrutti era ancora udibile, anche quando ormai erano a qualche km di distanza. Dopo quasi un'ora di tentativi, di abbracci e di parole rassicuranti, Yuki si era finalmente calmata. Perché non riusciva ad accettarlo. Non poteva accettarlo.
Suo padre era morto su quella poltrona, la freccia conficcata nel suo petto, il sangue che sgorgava dal petto e dai colpi di tosse – e sua madre? Non c'era nemmeno il suo corpo. Non era nemmeno lì. Solo quella lordura di sangue che incrostava il pavimento.

No, si diceva, aveva urlato ai suoi amici, non è morta. No. No. No. Il suo corpo non c'era, è sicuramente scappata. Sarà stata ferita, ma guarirà. Sta bene. Lei è viva. Viva.

 

Urlava e si infuriava, scalciava nel vano tentativo di liberarsi da Takeshi e Tetsuya e tornare alla residenza per trovare Kazumi. Ai la guardava con paura. Vedeva il bellissimo viso di sua sorella trasfigurato dall'angoscia e provava paura.
E la verità era che se l'albina ci avesse messo tutta la sua forza, allora sarebbe riuscita a liberarsi dei due ragazzi senza nessun problema, ma questo avrebbe implicato fargli del male. Solo dopo, alla fine, Tetsuya aveva perso qualsiasi briciola di compostezza e pazienza e le aveva mollato un ceffone.

 

La guancia pulsava.

Gli occhi si stavano già riempiendo di lacrime – ma no, aveva serrato le palpebre, e mandato giù il pianto isterico.

Si era rimessa seduta sul sedile, composta, tracciando le calze con le unghie.


 

Accanto a lei, Sayumi la guardava con apprensione, tentata di prenderle la mano per stringerla.

«Io sto vivendo al Consiglio», esordì Tetsuya. Le braccia annodate al petto, lo sguardo impenetrabile di chi aveva tutto sotto controllo, sedeva di fronte all'albina. «ed essendo possibili sospettati, non è il caso che Yuki e Ai vadano a rifugiarsi proprio lì. Abbiamo inoltre stabilito che casa di Sayumi è troppo piccola per altre due persone, ma che per te non sarebbe affatto un seccatura».

Sayumi annuì, un paio di cenni.

«Perché ne stiamo anche parlando?», proruppe Takeshi, accanto al biondo, il tono della domanda un po' troppo scattante. «Yuki e Ai verranno a casa mia».

«Puoi ospitare due persone?».

«Piuttosto che abbandonarle, butto fuori la mia famiglia».

 

L'albina sollevò gli occhi, lentamente. Gli altri, di fronte a quel cenno di vita, aspettarono in silenzio. Ai, invece, stirava e arricciava un lembo del vestito, accanto a Sayumi, le pupille vitree come uno spettro. Entrambe avevano risposto in modo diametralmente opposto alla situazione.
«Ah, è così?». Lo sguardo di Yuki, fisso sulla figura del fidanzato, non era quello amorevole di una ragazza innamorata. Niente affatto. «La tua famiglia conta così poco, per te? Buono a sapersi».

«Yuki-chan, lui non voleva intendere... ».

«Sì, sì. Non voleva intendere quello. Nessuno intende mai fare quello che dice». Nella sua testa, c'era troppa rabbia e troppa confusione per potersi mettere a discutere sanamente con loro. Decise di tornare nel suo silenzio, le braccia incrociate al petto, la fronte attaccata al finestrino.

 

Le pupille che, uguali a quelle della piccola Ai, si dilatavano e contraevano senza fermarsi.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Takeshi premette l'indice sul tasto al citofono e, dopo qualche secondo, accompagnato da passi energici, la porta d'ingresso di casa Katugawa si aprì lentamente.
Ad aprire la porta era stato un bambino. O meglio, un ragazzino, forse poco più grande di Ai.

 

Non era molto alto e aveva una corporatura piuttosto delicata – quella di un bambino, per l'appunto; i grandi occhi nocciola, ornati da folte ciglia nere, guardavano i visi dei tre, partendo dall'albina al ragazzo ad Ai. Si soffermò sull'ultima, sbattendo le palpebre con curiosità, osservando la sua espressione assente e lo sguardo, vacuo.
Anche i capelli, relativamente in ordine, avevano un tono scuro, un castano simile a quello di Takeshi ma più scuro. Rimase a guardare la bambina per qualche secondo, con le labbra carnose socchiuse, come se fosse molto sorpreso. Poi, dopo qualche istante, fece un passo indietro e puntò lo sguardo verso la mano di Takeshi – che stringeva quella di Ai – con un espressione spaesata.

A tenere l'altra mano della rossa era invece Yuki, rigidamente in silenzio e in attesa, ripulitasi dal sangue dei graffi – ma soprattutto da quello dei suoi nemici.

 

Takeshi aveva un'aria stanca, troppo stanca per mettersi a spiegare al ragazzino cosa stesse succedendo e cosa stesse osservando in quel momento. Il colorito impallidito e gli occhi socchiusi ne erano la prova. Alzò le spalle. «Ho dimenticato la chiave della porta. Avevo solo quella del cancello».

«Ma mamma non ti dice sempre di mettere le chiavi tutte insieme?».

«Hai ragione, lo dice ogni volta. Poi lo faccio». Guardò per un attimo l'albina con la coda dell'occhio, per poi tornare sul ragazzino. «Ah, Shin, a proposito. Loro sono Yuki e Ai Akawa. Trattale bene, okay?».

Shin piegò il capo di lato. «E perché dovrei trattarle male? O trattarle, in generale?».

«Beh, doveva– ... ».

«Non sono una persona cattiva, fratellone. E poi sembrano piuttosto distrutte», Shin aggrottò la fronte, spostandosi dalla porta per far passare i tre, per poi aprirsi in un luminoso sorrisone. «Piacere di conoscervi».
Yuki abbassò leggermente le palpebre sugli occhi, proiettando ombra sugli zigomi. Non aveva mai amato i bambini, le loro grida, i loro pianti, le risate esagerate. Erano rumorosi, troppo sensibili. Ma quello era... Shin Katugawa. Non aveva la più pallida idea che il suo ragazzo avesse un fratello più piccolo e, in un'altra situazione l'avrebbe preso in giro, magari sarebbe rimasta stupita.
Takeshi non aveva mai voluto parlare della sua famiglia.

 

Alla fine, però, lei si limitò a fare un cenno col capo, in un tacito saluto. Ai continuava ad avere la stessa occhiata assente.

Takeshi si rivolse al fratello minore, quieto. «So che non sei cattivo. Lascia stare. Dov'è mamma?».

«È qui a casa, sarà da qualche parte».

«Vabbene. Voi ragazze», si girò verso Yuki e Ai, con un piccolo sorriso. «andate pure a rinfrescarvi, io intanto parlerò con mia madre». La maggiore era sul punto di rispondere al sorriso con il migliore che avesse, ma quello le morì sulle labbra, prima ancora di nascere, rimembra di ciò che aveva detto in carrozza a Takeshi. Era stata gratuitamente cattiva e proprio con lui, che si era offerto di ospitarle all'istante.

Non era giusto – allora, si limitò ad annuire e a sparire nel corridoio insieme alla sorella.

 

 

La casa era abbastanza grande, certo non quanto la villa da poco abbandonata; oltre la porta di ingresso, adorno di mobile per pantofole, si apriva la zona giorno con il salotto e la cucina, separati da una penisola bianca; la cucina rimaneva per lo più in penombra la sera, se non accendevano l'interruttore da quel lato, mentre il salotto era ampiamente illuminato da una grande vetrata che ricopriva tutta la parete sinistra. Al centro della stanza, a meno di un metro dal lungo tavolo di massello, due divani color crema, una grossa tv a schermo piatto; accanto a quest'ultima faceva sfoggio di sé un costoso impianto radio.
La parete perpendicolare invece aveva una sola porta che conduceva al corridoio, dove si entrava nella zona notte; la prima porta a sinistra portava alla camera di Takeshi, la seconda a destra poco più in là a quella di Shin e poi, di fronte, quella dei coniugi – in fondo il bagno.

 

«Bentornato! Non ti avevo sentito entrare. Sei diventato un ninja?».

Takeshi si era seduto sul divano, la tv spenta davanti ai suoi occhi, persi nei pensieri e nella fiacca. Shin era lì affianco a lui, fissando il fratello con una certa insistenza – curioso come un topolino. Solo il suono di quella voce femminile, rassicurante e nostalgica, fece riscuotere Takeshi che, con un sussulto, sollevò la testa. I capelli scuri disordinati sulla fronte. Non si era nemmeno tolto la giacca. «Ehy... sì, sono tornato».

La donna aveva un viso piccolo ma rotondo, appena puntellato dalle rughe – vicino agli occhi, alla bocca rosea; aveva gli stessi capelli bruni dei due Katugawa, setosi e pettinati ordinatamente, in un caschetto sopra le spalle e una frangia sottile, un ciuffo dietro l'orecchio. Era bassina, forse un metro e sessantaquattro, e aveva una corporatura piccola, tipica delle donne giapponesi. Misaki, all'epoca, portava fieramente il cognome Ide, prima di incontrare il padre di Takeshi e innamorarsene follemente, arrivando a lasciare la sua famiglia e il suo lavoro per stare con lui tutta la vita.

La donna sorrise al ragazzo. Misaki conosceva bene i suoi polli, specialmente se il pollo in questione era uno dei suoi figli.

Il più grande nascondeva bene ciò che provava, si riusciva a celare come un'ombra – ma lei era pur sempre sua madre ed era nota per avere un fiuto infallibile. Sorridente, spensierata, si sedette alla poltrona affianco al divano, incrociando le dita in grembo. Takeshi alzò appena le sopracciglia, pretendendo di fingere che nella sua testa non ci fosse nessuna battaglia, che non fosse sporca di sangue.
Adesso, oltre a Shin, anche Misaki aveva iniziato a fissare il bruno, senza vacillare nemmeno per un istante.

Alla fine, con un sospiro esasperato, Takeshi si abbandonò contro lo schienale. «Per l'amor di Dio», disse. «Dovete guardarmi così per molto ancora? Sono stanco, per favore».

«Sì, lo vedo che sei stanco. Ma non sembra una stanchezza normale, sai?».

«Sei andato in campeggio, fratellone?».

«Mmh», Misaki si sfiorò il mento con l'indice, l'ombra del divertimento sulle labbra. «No, tesoro, non penso che tuo fratello sia andato in campeggio. Non mi pare amasse molto il campeggio. Troppo “improvvisato”, per citare una delle sue».

«Infatti, non ci sono mai andato. Anche quando insistevi».

«Quindi, cosa è successo? Ti va di parlarne?».

 

Takeshi roteò gli occhi sulla madre, senza staccare la schiena dal dorsale del divano, come un paraplegico, come una statua greca improvvisamente animata e viva. No, non aveva voglia di parlarne. Piuttosto si sarebbe mangiato la sua stessa lingua – ma, ovviamente, non poteva lasciare quell'aroma di confusione. Non voleva nemmeno rischiare che il piccolo Shin cominciasse a fare domande a rotta di collo alle due Akawa, nella fattispecie ad Ai. Aveva manifestato abbastanza interesse per la bambina – anche troppo per essere sopportabile.
Allora Takeshi si staccò dallo schienale e si schiarì la voce con qualche colpo di tosse. «Le cose stanno così: sono successe un sacco di cose brutte e spiacevoli a Yuki e Ai, le due ragazze che hai visto tu, Shin, e... tra queste cose brutte, la loro casa non è più... abitabile». Si pose le mani sul viso, a coprire la bocca e il naso. Lentamente, le lasciò ricadere. «Non posso dirvi niente di più su quello che è successo, perché non sono affari miei e non ho il diritto di parlarne e penso che questo lo capiate entrambi. Il punto è che hanno bisogno di aiuto. Al momento, hanno bisogno di tutto l'aiuto possibile, ed io... voglio fare qualcosa per loro. Ospitarle qui, a casa nostra, per esempio».

Misaki non disse nulla, quindi Takeshi aggiunse: «... se per te non è un grosso problema, certo».

 

La donna guardò suo figlio per una manciata di secondi, le labbra schiuse ma gli occhi vispi socchiusi. Poi si voltò verso la porta del corridoio. Si sentivano i passi delle due che tornavano dal bagno. Misaki tornò al figlio, annuendo con calma, sorridente. «Certo. Non è affatto un problema».

 

La porta del corridoio si aprì, un attimo dopo che Takeshi si fosse lasciato andare ad un sospiro di sollievo.

Interessata, Misaki non riuscì ad evitare di girarsi, per guardare e conoscere almeno visivamente chi avrebbe ospitato per quel tempo indefinito – e per un attimo, ebbe l'illusione di avere davanti un dipinto incredibilmente malinconico. Misaki non poteva staccargli gli occhi di dosso, a nessuna delle due; non poteva fare a meno di rimirare i visi immacolati delle sorelle, l'aspetto albino della primogenita e l'atteggiamento aristocratico della seconda. Non parlavano, avevano uno sguardo perso nelle tenebre, e si stringevano la mano.

Misaki si alzò dalla poltrona, più per richiamarne l'attenzione che per volere.

Sorrise, cordiale e gentile, piegando un poco la schiena – da brava padrona di casa. «Sono molto felice di conoscervi. Io mi chiamo Misaki Katugawa e sono la mamma di Takeshi e Shin. Per qualsiasi bisogno, non esitate a chiedere!».

 

E finalmente, dopo un tempo infinitamente lungo, Yuki riuscì a parlare. «Il piacere è nostro, signora Katugawa. Io sono Yuki e lei è mia sorella Ai». Rispose al piccolo inchino della donna con il proprio, slacciando la stretta alla mano della rossa per posarla sulla sua spalla. Poi Yuki, – decisamente più lucida di prima – pensò che quella notte sarebbe stato il caso di rilassarsi, il più possibile, e sarebbe stata ardua con indosso quei vestiti scomodi.

«In effetti, avrei bisogno di chiederle un favore».

«Ma certo, dimmi pure».

Yuki piegò lo sguardo sulla rossa mentre parlava: «Mi spiace molto per il disturbo, ma vorrei domandarle in prestito dei vestiti per la mia sorellina».
Misaki annuì prontamente e, dopo qualche tentennamento e attimo di sfiducia, Ai si staccò dalla sorella per seguire la donna verso il corridoio – persino quel corridoio sembrava un luogo spaventoso ai giovani occhi di Ai Akawa.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Dopo qualche battaglia e un sacco di insistenza, Misaki aveva convinto Yuki a seguire l'esempio della più piccola e a cambiarsi anche lei, togliendosi quei vestiti che odoravano di morte e tragedia. Le era stata subito riconoscente, non appena aveva saggiato la morbidezza e la comodità di un caldo maglione bianco e degli altrettanti leggins neri, un po' larghi sulle sue gambe. Quando aveva raggiunto Takeshi e Ai nel salotto, si erano fatte ormai le 22.00.

Lui era seduto – quasi stravaccato, a dirla tutta – con le lunghe gambe sul tavolino di fronte al divano. Ai si era sdraiata, le palpebre socchiuse, la testa sul petto dell'umano. Lui le circondava le spalle con un braccio.

A quella visione, la ragazza si sentì sollevata. Per un attimo, persino leggera.

 

 

Li aveva raggiunti, prendendosi anche lei la libertà di stendere un minimo le gambe e di appoggiare la testa sulla spalla di Takeshi. Ai, dopo poco meno di dieci minuti, era sprofondata in un sonno profondo. Sembravano quasi una bella famigliola – i due sposi e la figlioletta.

 

Qualche lacrima era sfuggita. Silenziosa e rigida, coraggiosa in un certo senso. Nel modo in cui stringeva i denti e i pugni, nel modo in cui resisteva per star vicina ad Ai, perché adesso si trattava solo di loro due. E Takeshi le accarezzava i capelli, le guance, le asciugava quelle fugaci lacrime, le dava un bacio sulla fronte. Non parlavano. Ascoltavano, aspettavano.

 

«Sei sicura di voler dormire sul divano?», bisbigliò il bruno, sfiorando una ciocca bianca con i polpastrelli. «Non sarebbe meglio se dormissi insieme ad Ai nel mio letto?».

Yuki riuscì solo a scuotere la testa, lentamente, quasi avesse paura che potesse cederle dal collo. Erano accadute così tante cose tutte insieme che, alla fine, il rischio esisteva. Proprio lì, sulla sua spalla, come un fedele compagno, tale e quale ad un avvoltoio, e sembrava sul punto di iniziare a rosicchiarle la pelle e la carne, fino a raggiungere l'osso. Istintivamente, si portò le dita alla spalla, massaggiandola piano.

«No, vabbene così, non avrò problemi a dormire... Piuttosto che io, non staresti tu con lei?». Si fermò un secondo, per ascoltare il respiro regolare della sorella, addormentata. «Oggi è... è stato troppo, per Ai... e voglio che possa sentirsi al sicuro, almeno per una notte. Accanto a te».

Le sue braccia erano davvero il luogo più sicuro che lei conoscesse. Lo guardò, la ruga sulla fronte che gli disegnava un espressione preoccupata. A volte riusciva ad essere trasparente.

Alla fine, Yuki lo vide tornare in quella stanza, con lo sguardo su di lei; l'angolo della sua bocca si alzò, andando a creare un debole sorriso, mentre annuiva. «Certo».

 

 

 

 

 

 

 

NOTA:

Salve, hello, bonjour.

Non c'avevo voglia di fare una nota oggi (?), ma mi sono resa conto che a breve sarò in vacanza a Torino, ragion per cui non aggiornerò per due settimane. Niente, quindi è un avviso, così, sparato a random. Eventualmente, aggiornerò con il 23° capitolo prima del 17, ma non prometto niente. ;;

Passando al capitolo... siamo entrati (in realtà siamo già entrati) nella cosiddetta “saga dell'invasione”; come avevo già accennato eoni fa, tendo a soprannominare certi periodi della storia in questo modo sin dalla tenera età di 11-12 anni.
Questa è la penultima saga. Poi la fine. Poi boh.

E comunque, abbiamo due new entry: Misaki e Shin, rispettivamente la madre e il fratello minore del nostro beneamato Takeshi. Vi aspettavate questi personaggi? Forse sì.

In ogni caso, spero vi sia piaciuto il capitolo e come sempre, se vi va, lasciate una vostra impressione. Bye. ~

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Capitolo 24
*** La famiglia Katugawa. ***


24.




Ai si era infilata nel letto, piccolo in confronto a quello che aveva lasciato a casa sua. Era il letto di Takeshi. Lei ci entrava tranquillamente, con le coperte fino al naso, lo sguardo fisso sulla parete. Poco più di cinque minuti dopo, era già in dormiveglia. Sentì i passi silenziosi del ragazzo, la coperta che si scostava e il suo calore che l'avvolgeva immediatamente, il suo respiro farsi quieto e regolare.

Ai aprì le palpebre e ruotò la testa verso l'umano, guardandolo fra le ciglia – con gli occhi chiusi, sembrava già addormentato, ma la piccola mezzosangue sapeva che non era così. Lo capiva dal battito del suo cuore, ancora troppo veloce, o il respiro non abbastanza costante.

Stava cercando di rimanere sveglio?

Ai girò di nuovo la testa e chiuse gli occhi, lasciandosi sprofondare nel buio del sonno – desiderando una notte insipida. Era tutto ciò di cui aveva bisogno, in quell'istante: una notte vuota e senza sogni. Così, forse, avrebbe potuto dimenticare tutto.

 

Tuttavia, lei non aveva fatto niente per meritare un sonno ristoratore. Lei non aveva realmente aiutato durante quella sorta di invasione, se non in quell'unico caso nella stanza di Yuki. Proprio per questo, doveva essere punita.
Doveva vedere il volto di suo padre, bianco come un lenzuolo, ora immerso in una pozza di sangue scarlatto; doveva vedere sua madre smontarsi pezzo per pezzo, come un manichino, le ossa scivolare via dal suo corpo; doveva assaporare la morte della sorella – una morte fittizia.

 

 

Spalancò gli occhi, tappandosi la bocca con le mani per trattenere un urlo terrorizzato – ansimando contro i palmi sudati.

Era la quarta volta che si svegliava, il cuore artigliato dagli incubi. Tremava.

Perché era sola? Dov'era sua sorella? Dov'era Yuki?

 

«Hai fatto un altro incubo?».

Lei ci mise più tempo del dovuto a capire a chi appartenesse quella voce. Dolce, rassicurante, calda come il sole. Era la sua voce. «Va tutto bene», bisbigliò, mentre le sue braccia la stringevano con gentilezza. «Era solo un brutto sogno». La proteggeva. «Sono qui. Sono qui con te».

Ai si sentì salire le lacrime agli occhi.
Quello stupido, ingenuo di un umano. Quello stupido di un Takeshi la proteggeva come il più ambito dei tesori.
Gli occhi dorati si sollevarono nel buio spaesati, ansiosi, finché non incontrarono le sue palpebre calate, le labbra socchiuse, i capelli scapigliati sulle guance e sulla fronte. Lui era... sfinito. Lo era, decisamente. La sua umanità gli dava in omaggio una batteria e, sfortunatamente, questa si consumava molto in fretta. Ma lui era testardo, stupido, la sfruttava bruciandola fino alle fondamenta. Era così provato – eppure, riusciva a stringerla saldamente. Riusciva a rassicurarla.

Chissà se l'avrebbe fatto anche per la quinta volta.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Quando il livello di stanchezza e di stress supera quel confine di non-ritorno, al punto da non riuscire a sentirsi nemmeno la pelle addosso, probabilmente una gettata di acqua ghiacciata ti aiuterà a darti un po' di vita – o almeno, questo era ciò che aveva pensato Yuki, la mattina seguente.

Erano appena le 9.00 quando aveva aperto gli occhi, stordita da un'ondata di luce che non si era affatto aspettata – allora si era ricordata della grande vetrata; si era alzata, meccanicamente, e da una parte non era stato nemmeno tanto male: almeno avrebbe potuto aggiustarsi un pochino prima di farsi vedere da Takeshi – forse era sciocco preoccuparsi di qualcosa di simile, in un momento come quello, ma quel tipo di pensiero l'alleggeriva un minimo.
Vedersi allo specchio, rendersi conto che il suo giudizio estetico aveva ancora una sorta di importanza per lei – un piccolo, storto sorriso apparì nel riflesso dello specchio del bagno. Chinò la schiena, raccogliendo l'acqua dentro i palmi delle mani, affondandoci subito il viso. I capelli corti sulle guance si erano immersi nell'acqua insieme al viso, ma li aveva ignorati.

Ah, che bella sensazione.

Era come gettarsi nelle braccia della freschezza stessa, come appisolarsi su una nuvola, una doccia fredda in un'estate torrida. Era possibile, per caso, passare l'eternità a sciacquarsi il viso?

 

Stava per rispondersi – che assurdità stava pensando, voleva forse indebitare quella famiglia per la bolletta dell'acqua? – quando la porta dell'unico bagno di casa Katugawa si aprì. Così, in automatico.

O quasi.

 

 

Per un lungo attimo, Yuki aveva sinceramente creduto che fosse Takeshi – quello di fronte ai suoi occhi sorpresi, meravigliati; ma la persona che aveva di fronte era solo molto simile al suo ragazzo. I suoi capelli molto più corti, scuri, più ordinati del ragazzo, e gli occhi screziati di verde scuro con le folte ciglia scure ad ornarli come una seria cornice. Ecco, era proprio questo. Aveva uno sguardo troppo rigido per essere Takeshi.

Yuki aggrottò la fronte, dubbiosa. Certo, aveva un ché di incredibile – l'aveva riconosciuto per lo sguardo e non per le rughe che adornavano i suoi occhi. Quell'uomo... doveva essere il padre di famiglia, dunque.

Naturalmente, le stava già antipatico.

 

«Aspetta, è– ». Ed ecco il suo ragazzo, il figlio maggiore di famiglia. Di fretta e furia nei gesti, con un principio di panico nel viso, il bruno si era affacciato alla soglia della porta, vicino alla spalla del padre.

Quest'ultimo se ne stava in piedi, la mano sulla maniglia, lo sguardo fisso sull'albina, ostinato nella sua posizione ingombrante. Come se lui fosse il gatto e lei l'esile topino. Povero illuso, avrebbe detto la mezzosangue, sfoggiando il solito sorriso, divertito e provocatorio, scuotendo la testa. Questo avrebbe fatto.
Invece, con gli abiti che aveva dovuto accettare da Misaki, si sentiva estremamente a disagio. Riuscì solo a raddrizzare la schiena e a ruotare le spalle, faccia a faccia con quell'uomo. Il silenzio era opprimente.

Solo il sospiro, pesante ed esasperato di Takeshi, riuscì a smuovere le acque. «Lei è Yuki Akawa», disse. «E lui è Takahiro Katugawa. L'uomo che non sapeva bussare».

 

L'albina sorrise amabilmente, scoprendo una fila di denti piccoli e immacolati, con i canini che sporgevano – ugh, stava per ridere, gli avrebbe riso in faccia, se lo sentiva. Yuki piegò la testa e la schiena, in un piccolo ma rispettoso inchino.

«È un piacere conoscerla, signore».

Era assurdo ma, in quello sguardo duro e giudicatore, non c'era nemmeno una briciola di suo figlio – e sembrava un po' irritato, a dir il vero; sdrammatizzando, avrebbe detto che Takeshi doveva essere stato adottato.
L'uomo fece un veloce cenno con la testa. «Gokingenyou*». La sua voce era bassa ma fresca, con una pronuncia netta e decisa, scandiva bene le sillabe.
Yuki inclinò il capo di lato. «Immagino abbia bisogno del bagno– cioè, che le serve. Insomma, ecco... prego». Tra mille balbettamenti, si appiattì contro la parete, quasi volesse uniformarsi ad esso, e scivolò fino dall'altra parte – fuori da quell'angusto bagno. Takahiro aveva seguito i suoi movimenti con la coda dell'occhio e, senza rispondere, aveva richiuso la porta alle sue spalle lentamente, gettando una leggera ombra nel corridoio, precludendo la luce che proveniva dalla finestrella in bagno.

 

Dio, che ansia, pensò. Sicuramente sarebbe andato d'amore e d'accordo con Oseroth, non c'erano dubbi. Già se li immaginava, con le braccia incrociate, in piedi: due mummie che si fissano a vicenda.

«Beh, hai conosciuto mio padre, adesso».

Yuki si voltò, scostando la sua attenzione da quella porta – lo vide, ne studiò l'espressione quasi d' impaccio.

«Che bello, eh?», il moro fece una pausa, sul punto di sospirare. «Mi dispiace».

«Perché dici così? Lui non... », ma non sapeva come continuare, quindi si zittì. Non sapeva perché lui si fosse scusato, per una volta che lei non gli stava rimproverando nulla – non lo sapeva, non ancora.
Ma intanto, sul viso di Takeshi, sotto i bei occhi scuri, facevano bello sfoggio di sé ombre violacee. I capelli erano più arruffati del solito, un esplosione di ciuffi ribelli, e le labbra erano leggermente arrossate. Era chiaro che il ragazzo si fosse svegliato e alzato da poco e probabilmente di fretta. Dopo averlo guardato per qualche secondo, rendendosi conto della stanchezza del ragazzo, l'albina piegò le labbra in una smorfia di dispiacere. «Tutto... okay?», disse, in un sussurro.

Takeshi la guardò, inizialmente con sorpresa, annuendo. «Certo», ma ben presto il suo viso si sciolse in un sorriso affettuoso quando, incapace di trattenersi, sollevò la mano per infiltrarla tra i capelli di lei. «Potrei anche abituarmi all'idea di svegliarmi e incontrarti... a casa mia».

D'istinto, la mezzosangue piegò la testa contro la mano del ragazzo, premendoci la guancia – gli occhi dorati, vispi, lo fissarono. «Quindi non ti disturbiamo troppo?».

«Niente affatto. E poi», Takeshi strofinò dolcemente il pollice sul suo zigomo. «è il minimo che possa fare, dopo che voi mi salvate la vita così spesso».

«Agenzia tuttofare Akawa, al tuo servizio».

 

Lui ridacchiò, prima di prenderle la mano. «Vieni con me», disse, per poi condurla verso la sua stanza, attraverso il corridoio buio. La porta della sua camera era socchiusa e attraverso quel piccolo spiraglio si intravedeva la figura rannicchiata di Ai. «Non ha dormito granché», bisbigliò il ragazzo, per non svegliare la rossa. «Si è svegliata diverse volte per dei brutti sogni».

Yuki si appoggiò allo stipite, osservando la sorellina con malcelata preoccupazione. C'era da aspettarselo; all'esterno quella ragazzina sembrava pronta a tutto e inscalfibile, ma aveva pur sempre undici anni. Undici anni erano pochi per vivere un'esperienza come quella della scorsa sera.
L'albina ruotò il capo verso Takeshi, un sorriso debole. «Grazie per esserle stato vicino», mormorò. «E... », chiuse la labbra, un'ombra di angoscia le attraversò lo sguardo. Alla fine lo guardò, languidamente. «Mi dispiace per quello che ho detto in carrozza. È stato cattivo, da parte mia, e la cattiveria è l'ultima cosa che meriti».

 

Takeshi si girò verso la ragazza, stupito.

La frase che lei gli aveva rivolto? A dir il vero, ci aveva fatto caso a malapena.

«Yuki», sussurrò. «Non devi nemmeno pensarci ad una cosa del genere».

«Ma... ».

 

Takeshi sorrise. Le fossette, rare quanto belle, segnarono gli angoli delle guance. «Voglio aiutarti, quindi fatti aiutare. Non pensare a queste sciocchezze. Ciò che voglio da te», le prese il viso tra le mani, avvicinando il proprio. «è che tu rimanga viva».

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Alle 12.00, Ai era sbucata fuori dalla camera di Takeshi, dopo essersi svegliata con enorme fatica.

 

La bambina, ovviamente, non era abituata a grandi fonti di luce come quella del mattino; ad un certo punto, tuttavia, la sorella maggiore non poteva più lasciare la minore immersa nel tipico sonno di una creatura notturna, e aveva dovuto svegliarla.
Ai si era arrotolata nella coperta del letto ad una piazza e tra mille lamenti, si era tirata a sedere, la frangia tutta scompigliata. Le sopracciglia inarcate sugli occhi assonnati, la bocca imbronciata. Per lo meno, aveva cambiato espressione.

Frattanto che la ragazzina si svegliava, Yuki e Takeshi si sedettero sul letto, a dividerli la rossa.

«Mi dispiace averti svegliata», disse Yuki. Le spazzolò un po' la frangia con le dita, sorridente. «ma in casa altrui non puoi prenderti il lusso di dormire fino al pomeriggio come fai di solito».
E come avrebbe dovuto fare Yuki stessa.

 

Takeshi, seduto sul bordo del letto, si issò in piedi. «Se mia madre sapesse la verità su di voi, non dovreste preoccuparvi di una cosa del genere». Poi si fermò, riflettendo. «Però immagino che dopo vi preoccupereste per un altro motivo».

L'albina annuì. «Per il momento, è meglio non correre altri rischi». Si voltò verso la sorellina, che stava tentando di aggiustare la capigliatura, sbuffando. «Capito? Non lasciarti sfuggire niente, né su chi siamo né su cosa è successo».

«Sorellona, mi offendi... », la voce impastata, Ai lasciò perdere i capelli e si tappò la bocca con entrambe le mani, a nascondere uno sbadiglio. «Non mi lascerò scappare di certo un informazione così importante... ».

 

Ai, nobile aristocratica del famoso casato Akawa, era adorabile con la maglietta blu scuro dell'umano Takeshi, con la scritta “NASA” al centro, talmente larga da arrivarle fino alle cosce. Ai aveva sentito tutto il suo orgoglio di nobile sgretolarsi nel momento in cui si era tolta il suo bellissimo vestito di merletti e stoffa pregiata per indossare quella maglietta, comune, di seconda mano, che il ragazzo stesso non metteva più.

L'albina sorrise leggermente. «Ne sono sicura. Adesso, tuttavia, dovremo affrontare una sfida parecchio ardua. Ti conviene prepararti».

Ai sollevò gli occhioni verso la sorella, perplessa, mentre anche Takeshi appariva confuso.

L'adolescente annodò le braccia al petto e sollevò il mento – dentro di sé, aveva ancora qualche briciolo di altezzosità. «Mi riferisco all'incontro con la tua famiglia, Takeshi. Ieri sera non abbiamo avuto occasione di parlare con loro, ma stavolta non sarà così», si fermò, guardando il moro negli occhi. «Stavolta, li conosceremo».

Takeshi fece una smorfia, come se sentisse dolore. «Aah, era questo, quindi... ». Il moro si appoggiò al muro accanto al letto, abbozzando un sorrisetto sarcastico. «Non l'avevo tenuto in conto».

«Dì un po'», esordì Ai, ruotando il viso verso Takeshi. «Tu e i tuoi genitori non andate d'accordo?».

«Io e i miei genitori?». Il ragazzo non si aspettava questa sorta di curiosità da parte della rossa. Guardando l'espressione dell'albina, si capiva che anche lei volesse saperne di più. Forse, in questo caso, la bambina aveva cercato di dare voce ai pensieri della sorella.
Takeshi attese qualche secondo prima di rispondere, come se stesse ripercorrendo la storia della sua famiglia. I giorni e i ricordi. «Con mia madre e Shin vado d'amore e d'accordo», sulle sue labbra, però, c'era un sorriso malinconico. «Ma penso proprio che mio padre mi odi».

«Un padre può davvero odiare un figlio?», bisbigliò Ai, elaborando lentamente quella frase. Per lei era difficile da credere – suo padre l'aveva sempre fatta sentire amata. Oseroth era sempre stato così, per lei. Poi sollevò lo sguardo, inchiodandolo in quello del ragazzo. «Sembra surreale. Come fai ad esserne così sicuro, tu? Sei quello stesso umano che ha sempre pensato ai vampiri e ai demoni come favolette».

Takeshi strinse impercettibilmente le labbra. Nella voce della bambina c'era la solita superiorità. «Non ho mai pensato fossero “favolette”, Ai».

«E cosa pensavi che fossimo, esattamente?».

«Ah, accidenti!».

 

Yuki scattò in piedi, stiracchiandosi energicamente. «Voi non avete fame?!», esclamò. «Io sto letteralmente morendo!».

Se non faccio qualcosa, Ai potrebbe andare avanti all'infinito, pensò la ragazza, sudando freddo.

 

Si sporse verso la sorella, prendendole la mano per farla alzare, sul punto di trascinarla. «Su, anche tu, Take. Tua madre ci starà aspettando, non pensi?».
Ai arricciò le labbra, scostando lo sguardo di lato. Non ce l'aveva con Takeshi, era logico. Anzi, tutto al contrario, si sentiva in colpa, si sentiva...

«In effetti, a momenti arriveranno anche mio padre e Shin. Andiamo in soggiorno».

 

 

Fuori dalla camera, sbucarono nello stretto corridoio – un discorso che non aveva motivo di esistere, era caduto nel dimenticatoio. O almeno, così sembrava.
Takeshi aprì la porta che dava nel soggiorno, entrando nella stanza per primo. L'ondata di luce che proveniva dalla vetrata era a malapena sopportabile, per le sorelle Akawa. Takeshi gli gettò un'occhiata e poi si diresse verso Misaki, impegnata in cucina come tutti i giorni a mezzogiorno.

La donna indossava un grembiule bianco, allacciato dietro la schiena e al collo, e teneva i capelli corti in un pratico codino. Canticchiava tra le labbra chiuse, spostandosi da un lato all'altro della cucina veloce e agile, adesso assaggiando questo, adesso controllando quest'altro.
Quando però il figlio maggiore le apparve alle spalle, la donna sembrò sorprendersi per un attimo.

«Sembri uno spettro, figlio mio!».

«Grazie, mamma. Grazie».

«Non hai la faccia di uno che ha dormito bene».

«E poi? Sono anche zoppo?».

La donna si mise a ridere, fragorosamente, per poi accorgersi della presenza delle sorelle qualche metro più in là. Yuki le rivolse un ampio sorriso, forse anche troppo. «Possiamo fare qualcosa per aiutarla?».

Misaki rispose al sorriso, sollevando le sopracciglia. «No, no! Mettetevi comode, potete già sedervi a tavola», rispose, aggiungendo subito dopo: «Tranne il capotavola, potete sedervi dove volete».

«Mamma, senti... ».

«Mh?».

Takeshi guardò verso la finestra. «Non pensi che oggi entri un po' troppa luce?», osservò, tornando poi con lo sguardo sulla donna. «Spostiamo le tende, ti va?».

«Se ci tieni tanto», rispose la donna, stupita dalla proposta del figlio – ovviamente, non ci diede molto peso, e tornò a preoccuparsi dei fornelli.

 

Takeshi non aveva mai manifestato grande interesse per l'arredamento della casa. Anzi, a dirla tutta, non aveva mai manifestato grande interesse per niente, da un po' di tempo a quella parte. Misaki seguì con l'occhio i movimenti del figlio mentre quest'ultimo si dirigeva verso la finestra e scostava le tende verso il centro, gettando una leggera penombra sulla metà destra del tavolo, proprio sui posti delle sorelle.

Proprio durante quegli attimi, si sentì un rumore di chiavi e lo scattare della serratura della porta d'ingresso. Yuki, che si era seduta al lato del tavolo, con affianco la sorella, spostò lo sguardo verso il piccolo ingresso.
«Siamo tornati!», disse una voce maschile, pimpante e allegra. Subito dopo, nel soggiorno apparve Shin Katugawa, zaino sulle spalle, divisa scolastica. Il ragazzino era veloce come un gatto in fuga. «Che buon profumo».

«Lavati le mani prima di venire a mangiare», ed ecco Takahiro. Il viso dell'uomo adesso appariva molto più disteso e caloroso, rispetto a quella stessa mattina, quando la mezzosangue l'aveva incrociato – malauguratamente – in bagno; indossava una camicia azzurra a maniche lunghe e una cravatta rosso scuro, pantaloni neri, e sottobraccio teneva un cappotto. A nascondere un po' le rughe attorno agli occhi c'erano un paio di occhiali dalla montature sottile e grigia.

 

Adesso che ci penso, anche Takeshi ha problemi di vista, pensò l'albina, sorridendo, dev'essere una cosa di famiglia.

 

«Bentornati», esclamò Misaki.

Takahiro si allentò il nodo della cravatta, insidiandosi nella cucina, accanto alla moglie. «Perché non è andato a scuola?».


Yuki aggrottò la fronte.


«Ah, era stanco morto. E poi, voleva restare vicino a quelle ragazze, e da scuola non avrebbe potuto farlo, no?». Misaki prese le bacchette con la mano destra, prendendo un pezzetto di frittata. «Inoltre, si sta impegnando moltissimo negli ultimi tempi. Se lo merita un giorno di riposo».

Takahiro non rispose. L'albina fissava la scena senza emettere un fiato, forse aspettando un qualche tipo di risvolto. L'uomo, invece, si voltò verso di lei, guardandola dritta dritta negli occhi – fu talmente improvviso e repentino che la ragazza non fece in tempo a distogliere lo sguardo, venendo colta sul fatto.
«Peccato che non è così che funziona, il mondo del lavoro», ribatté Takahiro, scandendo lentamente le parole. «Non puoi permetterti un giorno di riposo perché ti sei comportato bene».

 

La mezzosangue spostò la sua attenzione su Takeshi.

Stava guardando fuori dalla finestra - la mano, stringeva la tenda.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Quanti anni hai?». Shin, che si era seduto di fronte ad Ai per il pranzo, aveva fissato la mezzosangue per quasi tutta la durata del pasto. Ad un certo punto, pur di trovare una scusa per parlarle, il ragazzino le aveva chiesto di passargli la salsa di soia.
Solo grazie alla gomitata della sorella, Ai era riuscita a reprimere un'occhiataccia, talmente minacciosa che avrebbe fatto scappare anche un ladro.

Ovviamente, quell'umano non poteva sapere a chi aveva appena chiesto di passare la salsa. Certo, non poteva saperlo. Ma dannazione se era difficile resistere...


Il pranzo poi era giunto al suo termine e Ai si era seduta sul divano di fronte alla tv, la postura elegante e perfetta, le mani appoggiate in grembo, il mento sollevato e gli occhi socchiusi – a guardare i cartoni animati e tutti quei colori sullo schermo.

Shin ne aveva approfittato. «Sembri parecchio piccola».

«Ne ho undici».

«Eeeh... », Shin incrociò le gambe, ruotandosi completamente verso la rossa. «Io ne ho dodici. A settembre ne compio tredici. Ah! Perché non vieni al mio compleanno?! Così ti faccio conoscere anche i miei amici e i miei compagni di classe».

Sorellona, aiutami... , pensò la ragazzina.

«Adesso siamo ancora a Febbraio, quindi di tempo ne abbiamo», continuò Shin.

Ai gli gettò un'occhiata di traverso. «Per fare cosa?».

«Per diventare amici!».

«Oh, cielo... ».

 

 

 

Dall'altra parte della stanza, rintanati nella cucina, Takeshi insaponava con dedizione i piatti e le posate. Ad ogni piatto lavato, quello arrivava a Yuki, che con un panno lo asciugava e lo infilava nella sua credenza o nel suo cassetto.
Lo scrosciare dell'acqua o il crepitio della schiuma erano i pochi suoni che animavano quel lato della stanza. I due ragazzi non stavano parlando. Yuki era concentrata ad asciugare per bene ogni stoviglia, ma soprattutto a non rompere nulla.

Takeshi non aveva molta voglia di parlare. Come la maggior parte dei casi, nel presto pomeriggio lo assaliva un cattivo stato d'animo – tuttavia, rispetto al solito, si sentiva molto più sereno.

E sapeva benissimo chi ringraziare.

 

La mezzosangue guardò nel lavandino. C'era solo una padella, la cui superficie era abbondantemente oleosa. Salendo con lo sguardo, incontrò le sue lunghe dita, i polsi stretti, l'avambraccio, e la manica del pullover raggomitolata.

«Take... ».

Le sue mani ebbero un fremito. Il movimento della spugna si fermò, il viso si girò. «Sì?».

«Vorrei tornare a casa mia».

Takeshi aggrottò la fronte.

«No, aspetta», aggiunse subito la ragazza, appoggiando i palmi sul bordo del mobile. «Intendevo dire: voglio tornare a casa per verificare la situazione. Vorrei vedere... », le dita corsero dentro al palmo, chiudendosi saldamente. «... vorrei vedere con i miei occhi cosa hanno fatto di casa mia».

«Potrebbe essere una visione insopportabile. Ne sei certa?».

Per quanto avrebbe voluto, non aveva senso cercare di indorarle la pillola. Yuki, molto presto, avrebbe dovuto scontrarsi contro quell'orribile notte. Era solo questione... di tempo.
Tutti e due ne erano perfettamente consapevoli – per questo l'albina scrollò la testa, per poi annuire. «A giudicare da tutto quel fracasso che hanno fatto mentre fuggivamo, dubito fortemente che la casa sia in buono stato. Anzi, penso proprio che... sarà già tanto trovarla in piedi».

Takeshi le rivolse un sorriso storto. «Allora sarà meglio chiamare Tetsuya per informarlo. Dobbiamo coprirci le spalle».

«”Dobbiamo”?».

«Non iniziare nemmeno. Non ti lascerò mai andare da sola fin lì».

Yuki fece una smorfia, bofonchiando. «Se proprio insisti!», piccata, incrociò le braccia al petto.

Takeshi chiuse gli occhi, con un ampio sorriso sulle labbra, soddisfatto. «Se sei tanto preoccupata per la mia incolumità, potremmo portarci Anima. Hokori ti ha già insegnato qualcosa su come maneggiarla?».

«Ora che me lo dici... ».

 

La katana Anima riposava sotto il letto di Takeshi, avvolta in un panno nero di velluto.
La leggendaria spada, tramandata da Akawa in Akawa, marchiata a fuoco da una maledizione orribile...

Tanto per cominciare, portarla dentro casa era stata un'impresa. Naturalmente non potevano attraversare il soggiorno con una spada sottobraccio, quindi avevano dovuto prima nasconderla in giardino, sul lato della casa. Solo dopo, quando Misaki e Shin erano andati a dormire, Yuki e Takeshi avevano recuperato Anima per assicurarla nella stanza del ragazzo, nella polvere, purtroppo.

E dire che, fino al giorno prima, quella katana aveva un suo altare.

 

«Sì, portiamocela. Dopo tutta la fatica per recuperarla dai sotterranei e nasconderla in camera tua... ».

Takeshi annuì.

In salotto, si sentiva la voce di Shin, le sue domande incuriosite, e le risposte apatiche e annoiate di Ai. Di tanto in tanto, le loro “conversazioni” venivano coperte dalla televisione.

Il moro passò sotto l'acqua del rubinetto la padella, girandola e ruotandola, sciacquando via la schiuma – per poi passare la stoviglia all'albina, che l'asciugò per bene.

«Ecco fatto», esclamò lei, allungando le braccia per stiracchiarsi. «Quella era l'ultima, vero?». Si girò verso Takeshi. Il ragazzo, chissà perché, stava sorridendo. Aveva perso quel buio negli occhi. Lo vide staccarsi dal lavandino e rivolgersi a lei – in un secondo, aveva infiltrato le mani sotto al largo maglione della mezzosangue, agguantando la pelle nuda della vita con le mani bagnate. «Sì», disse lui, avvicinando la punta del naso a quella di lei. «Adesso possiamo rilassarci».

 

A quel contatto – così repentino ma piacevole – lei rispose rabbrividendo. Sentiva chiaramente la schiuma scivolarle lungo i fianchi. I pollici aderire sulle costole.

«Lo sai, vero, che a due metri da noi ci sono due bambini?».

«Particolarmente impegnati. Shin sta dando il tormento ad Ai, al momento, quindi non penso proprio si girerà da questa parte».

«Take... sei proprio un pervertito», nonostante questo, aveva già inclinato il collo, accogliendo i piccoli baci che lui le stava lasciando. Gli stava già allacciando le braccia al collo, attraversandogli i capelli sulla nuca con una mano, assaggiandone ancora una volta la morbidezza.

Lui piegò indietro la testa, attratto dalle carezze – e finalmente, incastrò le labbra in quelle di lei, dimenticandosi anche del tempo.

 

Lasciando la razionalità alla schiuma.

 

 

 

 

 

 

 

 

* gokigenyou: è un'alternativa molto formale al classicco “ohayo”, che significa buongiorno.

 

NOTA:
Uelà, eccoci di nuovo qui. Sono tornata qualche giorno fa dal mio viaggio a Torino e dopo essermi ripresa dal trauma psicologico della scuola – e del fatto stesso di dover riprendere a sgobbare – mi sono finalmente dedicata al capitolo e in un paio di ore sono arrivata alla fine.
C'è da dire che non è stata questa gran fatica, come potete vedere è un capitolo piuttosto tranquillo 'na volta tanto.

A proposito, ma cosa ne pensate di Shin? Io l'ho sempre adorato – modestia portami via – per il semplice fatto che è davvero... innocente. Innocente e rompipalle. E riesce a smuovere qualcosa nei cuori più freddi, come quello di Yuki e Takahiro.

Detto questo, ci rivediamo con il 25° capitolo, very soon. ~

 

 

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Capitolo 25
*** Al mondo siamo tutti soli. ***


25.



«State per uscire?». Misaki sbatté le ciglia, osservando incuriosita suo figlio mentre rovistava nella cassettiera accanto alla scrivania.

 

La camera di Takeshi era piuttosto piccola ma il ragazzo, per fortuna, non aveva bisogno di grandi spazi. Il letto ad una piazza con le coperte blu era attaccato alla parete di fronte alla porta e accanto, incastrato tra il letto e l'armadio, un piccolo comodino con lampada – e proprio sopra, sulla superficie di legno, tutto ciò che il ragazzo teneva nelle tasche.
Sulla parete sinistra, invece, si trovavano la cassettiera e la scrivania, in disordine nel 99% dei casi – e una piccola finestra che dava sul fianco della casa. Infine, sia la sua stanza che quella di Shin vantavano una morbidissima moquette.

«Sì», rispose, distratto. Poi si fermò un istante. «Pensavamo di fare un giretto».

«Un giretto... », ripeté Misaki, elaborando quella parola come se dovesse tradurla. «Aspetta un secondo. Negli ultimi mesi, dicevi spesso di andare a fare “un giro”». La donna allungò leggermente il collo. «In pratica, ogni volta che uscivi di casa nel pomeriggio, rientrando poi la sera tardi... eri con Yuki?».

Takeshi roteò gli occhi. Grazie a Dio le stava dando le spalle. «Non sempre».

«Non sempre», ripeté Misaki, incrociando le braccia e appoggiandosi allo stipite della porta. «Ma spesso».

«Quando mi vedevi uscire, a volte era anche con Tetsuya o Sayumi».

«Ah, davvero... ».

 

Nuovamente, sollevò gli occhi al cielo.

Takeshi non aveva mai parlato delle sue relazioni e, ovviamente, nemmeno dei flirt occasionali. Di tanto in tanto, accennava qualcosa sui suoi amici – quelle due o tre persone che aveva conosciuto alle elementari – e aveva parlato, naturalmente, anche di Sayumi e Tetsuya, spendendoci più di qualche parola. E sì, aveva anche fatto il nome di Yuki, ma su di lei si era tenuto stretto quasi tutto.

Anche se sicuramente avrà sospettato qualcosa, pensò.

Non è che fosse un problema, però...

 

«Yuki è una persona importante per te, non è così?». Sul viso di Misaki c'era un dolce sorriso. «Si vede da lontano un miglio. E se l'intuito non mi ha abbandonato, e così non pare, tu sei altrettanto importante per lei». Sciolse le braccia e si avvicinò di un passo al figlio, dandogli un piccolo schiaffetto sulla spalla. «Ricordatevi di trattarvi bene e di coprirvi le spalle a vicenda. Al mondo, per la maggior parte del tempo, siamo tutti soli: quando ci ritroviamo, non dobbiamo lasciarci separare».

Takeshi, a quel punto, si voltò verso la madre. Le labbra schiuse e gli occhi leggermente più aperti, guardava la donna con un misto di sentimenti. Ma alla fine, sopprimendo il desiderio di vuotare il sacco su due piedi, si limitò ad annuire.

Non adesso. Non ancora. Ma molto, molto presto.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Quando avevano parlato al telefono per consultarsi, Tetsuya li aveva quasi obbligati a prendere una strada secondaria, il più nascosta possibile. Takeshi aveva preso il cellulare dalle mani della sua ragazza e l'aveva preso in giro, promettendogli che non l'avrebbero ascoltato – il vampiro per un attimo ci era cascato con tutte le scarpe.
«Non fate gli stupidi», li sgridava, alzando la voce. «e fate come ho detto. Yu, ti ricordi il sentiero da cui passavamo per andare a giocare? Passate da quella parte; è la parte più fitta del bosco e vi allungherà il tragitto, ma per lo meno ci arriverete».

Chiusa la chiamata con Tetsuya, la coppia si era mobilitata per prepararsi.

 

 

Yuki era ancora molto agitata al pensiero di tornare a casa sua: tuttavia, era una cosa che andava fatta e su questo non si discuteva. Mentre si vestiva, ripassava mentalmente il percorso che aveva preso tante volte con Tetsuya, anni fa, quando erano appena dei ragazzini. A ripensarci, sembrava passata un'eternità.
Sono abbastanza certa che non ci perderemo, fu la sua conclusione – poi guardò verso il letto, creando un solco tra le sopracciglia. Dopo qualche istante di tentazione, si piegò sulle ginocchia e infilò il braccio, fino a ché le sue dita non toccarono il panno che avvolgeva l'arma bianca.

Chiuse la mano attorno al fodero ed estrasse il braccio e la katana.

Eccola là. Ogni volta che la guardava, le dava sempre l'impressione di essere immersa in un sonno profondo... e forse, in realtà, quella katana era davvero assopita.

Mettendola da parte sulla scrivania, Yuki si era infilata la gonna nera e il maglione rosa antico. Misaki si era presa il disturbo di lavarglieli e stenderli al sole per farli asciugare e adesso i suoi vestiti profumavano di detersivo alla lavanda.
Misaki aveva poi insistito per darle una giacca e una sciarpa, anche se la mezzosangue non ne aveva proprio bisogno. Takeshi aveva indossato dei pantaloni neri, una maglietta con sopra una camicia aperta, la felpa e la giacca di pelle. Quando Yuki l'aveva visto si era messa a ridere per tutta quella quantità di capi, ma d'altro canto, il cielo era tinto dell'arancio tipico del tramonto, il ché significava che ben presto avrebbe fatto freddo.

 

Stavolta, inoltre, per far uscire Anima dalla camera avevano adottato una misura diversa; l'albina era uscita di casa per prima, cercando di non farsi notare troppo da Misaki – per fortuna Takahiro era tornato a lavoro – e si era appostata sotto la finestra della camera di Takeshi. Il ragazzo dopo nemmeno dieci secondi si era affacciato, trasferendo la katana dalla scrivania alle mani della fidanzata, e dopo di ché l'aveva raggiunta fuori.

Certo che era un lavoraccio.

 

Finalmente, poi, si erano chiusi la porta d'ingresso alle spalle.

«Sai, stavo pensando ad una cosa. In realtà, ho già detto qualcosa di simile, però... », esordì Takeshi mentre raggiungevano il retro della casa, attraversando l'erba del giardino, schivando fiori e piantine. «Insomma, non vorrei che... ».

Yuki si guardava attentamente intorno, esaminando il muro che cintava il giardino, concentrata. «Non vorresti che?».

«Essere indiscreto. Insensibile per la situazione che state affrontando».

Lei sorrise. «Non penso proprio tu ne sia capace».

Il moro ricambiò il sorriso – con uno più storto. «Stavo pensando che... non sarebbe male continuare a vivere così».

«Così... così come?».

«Così. Io, tu».

 

L'albina continuò a fissare il muro che avevano di fronte a loro; chiudeva quel quartiere come una madre protettiva, includendo svariate altre case, ma non era molto alto. Con un salto ben calcolato non sarebbe stato un problema superarlo. «Ah, dici... », no, non stava proprio ascoltando.
Solo qualche secondo dopo si era resa conto di quelle parole e si era girata, con uno sguardo sorpreso. «Aspetta. Io, tu?», ripeté. «Mi stai dicendo... vivere insieme? Noi due?».

Takeshi alzò un sopracciglio. «Beh... sì».

 

Yuki aprì le labbra. Lei e lui sotto lo stesso tetto; svegliarsi insieme ogni mattina, fianco a fianco, condividere i pasti della giornata, andare ad appuntamenti, passare il resto delle proprie vite nella stessa casa – e rendere così la loro esistenza pacifica. Sinceramente, Yuki non era così ottimista da pensare di poter avere un futuro da viva. Sembrava un'utopia.

«Ma perché devi farmi dire certe cose ad alta voce, poi?».

«Ah, ecco... non ero sicura di aver capito bene. E ancora adesso, in un certo senso, non sono poi tanto certa di aver... », si fermò, guardandolo tra le ciglia. Poi scosse la testa, abbozzando un sorriso. «Hai ragione, non sarebbe male. Vorrei farlo – voglio farlo».

Takeshi sorrise leggermente, accarezzando il dorso della sua mano col pollice. «Ma prima hai qualcosa da fare».

«Sì.., è vero. Devo adempiere ai miei doveri e rendere tutto questo solo un ricordo... o un incubo».

«Il ché suona meglio», osservò Takeshi. «Ma non dovremmo escludere nessuno. Yuki, io... », non era pratico nell'esprimere le proprie emozioni, almeno non a parole. Sospirò, un sospiro lungo e profondo, e il suo sguardo si fece lontano per un attimo. Stava pensando. Alla fine, sembrò aver ritrovato l'equilibrio. «È inutile provare a nasconderlo o girarci intorno: il rapporto con mio padre è distrutto fino alle fondamenta. L'hai visto sin da stamani, l'hai capito. Quando siamo nella stessa stanza, la maggior parte del tempo, finiamo per ignorarci o risponderci freddamente – e se vogliamo dirla tutta, prima era anche peggio. Ed è per questo che stamani mi sono scusato, fuori dal bagno, perché sapevo che saresti incappata in scene del genere». Si interruppe, strinse le labbra.

«Voglio che noi due continuiamo a stare insieme. Tuttavia, non voglio lasciare nessuno indietro: persino mio padre».

Yuki gli strinse la mano tra le sue. Si vedeva, si capiva – quanto fosse difficile per lui; quanto quella situazione e quel rapporto lo avevano corroso, durante tutti quegli anni, e quanto avesse lottato dentro di sé per diventarne superiore.

«Perché siete finiti in questo modo?», gli chiese, in un bisbiglio.

Alla sua domanda, vide Takeshi stringere le dita intorno al fodero di Anima. «Vedi, mio padre è stato cresciuto in una famiglia talmente rigida da mettere paura. Ne ho sentite davvero tante da mia madre. Lui mi ha detto che voleva diventassi una persona rispettabile. Una persona che portasse avanti il cognome, e non un vagabondo qualsiasi».

«Ma tu non volevi fare niente di tutto questo».

«Io non volevo diventare niente di quello che desiderava. Col tempo, le sue pressioni diventarono insopportabili e cominciai a ribellarmi». Chiuse le palpebre, scuotendo la testa. «Ed è velocemente finita così».

«Hai la faccia di uno che si sente colpevole», mormorò la mezzosangue.

«Un po'. Magari, se mi fossi attenuto alle sue regole, adesso sarebbe tutto molto diverso».

«Tu sei perfetto». Yuki fece un passetto in avanti, annullando quella misera distanza. Le mani corsero alle guance del bruno e le iridi dorate si fissarono in quelle scure. «In tutte le tue sfumature. Qualsiasi lato di te: quello sconsiderato, quello astuto, quello coraggioso, quello stupido e un po' pervertito. Non sei cresciuto stando alle sue imposizioni ma non mi sembra proprio che tua madre abbia mai avuto da ridire, o sbaglio?». Incurvò le labbra in un sorriso affettuoso, afferrandogli la carne delle guance e stirandole. «E non è nemmeno colpa del signor Takahiro, difatti. È stato cresciuto in una famiglia di ghiaccio, poveraccio!».

 

Il ragazzo si mise a ridere, spostandole le mano, con le guance rosse dai pizzicotti. «Sei perfetta anche tu, per la cronaca».

Yuki schiacciò gli occhi tra le palpebre. «Mah, “perfetta” ad una mezzosangue fa un po' ridere, se ci pensi». Puntò lo sguardo a terra per un istante. «Pensi che potranno accettare una come me?».

«Vedranno oltre la tua natura», lo vide sorridere, dolcemente, un piccolo e caldo fuoco che si espandeva. «Devi solo mostrargli ciò che ho visto io. Però, magari, non far innamorare mio padre».

 

Al suono delle sue parole – al suono affettuoso di quelle sillabe – lei ripensò a tutto ciò che lei gli aveva mostrato, sin dal principio; in cima su quelle scale, con il sangue che le colava dal mento, e la sua migliore amica esanime fra le braccia. Alle spalle, una luna genitrice.
E poi la freddezza, i rifiuti, l'odio che tanto aveva decantato; la gelosia improvvisa, l'incapacità di capire cosa gli passasse per la testa, la durezza dei suoi atteggiamenti.

“Devi solo mostrargli ciò che ho visto io”, e lei mostrerà loro il meglio di una mezzosangue.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Scavalcato il muretto, Takeshi aveva affondato i piedi nell'erba incolta; Yuki l'aveva seguito a ruota ed entrambi si erano ritrovati nel fitto del bosco, proprio come aveva detto Tetsuya. C'era ancora abbastanza luce da vederci mentre il calore del sole cominciava a scarseggiare.

A prima vista, la situazione appariva tranquilla. Yuki aveva compiuto qualche primo passo. Le foglie sotto le sue scarpe scricchiolavano di continuo. «Okay», bisbigliò. Si accovacciò accanto ad un albero sulla sinistra e scrutò di fronte a sé, in totale silenzio, respirando a malapena. I suoi occhi cambiarono rapidamente colore, colorandosi di rosso, mentre appoggiava la mano sulla corteccia ruvida e continuava ad ispezionare la zona circostante.

 

Takeshi rimase immobile sul suo punto, ad un passo dal muretto dietro di loro, ricoperto di edera e fogliame. Avrebbe voluto rompere quel silenzio. Era quasi rimbombante, tanto era intenso.

Si udì, in lontananza, un cinguettio. Era un buon segno.
 

«Allora», esordì Yuki, alzandosi in piedi. Si spazzò la polvere dalle ginocchia e si rivolse al moro – i suoi occhi erano tornati color oro. «Nel raggio di venti metri non c'è nessuno, eccetto gli animali. Da qui in poi la strada è sicura. L'unico problema è che è facile perdersi».

«Potremmo lasciare delle tracce dietro di noi man mano che avanziamo», disse Takeshi.

«Buona idea. Come potre–», mentre la mezzosangue rimuginava, cercando un modo per lasciare il segno del loro passaggio, il ragazzo estraeva dalla cintura un coltello da caccia dal manico nero e la lama seghettata. Lucido e ben tenuto. Adesso aveva una spada nella mano sinistra e un coltello nella destra. «... e quello da dove spunta? Devi dirmi qualcosa, Take? Qualcos'altro?».

Takeshi esaminò la lama, inclinandola ed ispezionandola minuziosamente. Sembrava tutto in regola. «Nulla di particolarmente sconcertante», disse. «Come ti ho detto, ho avuto un periodo un po' turbolento, quando frequentavo le medie e... questo è uno dei risultati».

«Un coltello è il risultato di un periodo turbolento? Figuriamoci se fosse stato un periodo tragico, allora».

Lui ridacchiò. «Ricordi quando ti ho parlato di quando me ne stavo sempre al ponte?».

L'albina annuì; ne avevano parlato quando un demone si era infiltrato nella scuola e, dopo averlo sconfitto, aveva chiamato gli Addetti per fare rapporto.

«A quel tempo, quando avevo quattordici anni, ero più violento con mio padre. Al momento, potremmo dire che siamo... “aggressivi-passivi”, non credi? Ero talmente frustrato che non mi ponevo il minimo problema a comportarmi in modi discutibili, cosa che mi ha portato a crearmi un'amicizia con alcuni ragazzi in città. Più grandi di me di qualche anno. Quando li conobbi, ero sicuro che mi avrebbero aiutato a farmi valere con mio padre: ma loro avevano solo bisogno di qualcuno che potesse rubare al loro posto».

 

Yuki alzò le sopracciglia. Rubare?

«Per me non era un problema tanto grosso. Così, loro mi chiesero di entrare in un negozio di articoli da caccia e rubare qualcosa».

«E tu hai preso questo coltello».

«E io ho preso questo coltello. Non l'ho mai usato su esseri viventi», poi sembrò riflettere, e aggiunse: «Beh, non lo avevo mai usato, prima di quella volta con Alyon».

Yuki abbassò le palpebre.


Mentre camminavano attraverso il bosco, scostando i rami di tanto in tanto, evitando conigli e scoiattoli, l'albina ripensava a tutto il discorso. Naturalmente, non lo giudicava per qualche sciocco furtarello. Era solo difficile pensare a come doveva aver sofferto, all'epoca.
Tutt'ora, Takeshi stava affrontando quelle battaglie con suo padre e se stesso, tutt'ora stava cercando di capire chi fosse e che persona volesse diventare – Takeshi squarciò la corteccia dell'ennesimo albero, con un movimento fluido e veloce.

«Sai usarlo bene, nonostante tutto», osservò l'albina.

«Mi sono esercitato in questo modo. Dio, ero davvero un idiota».

«Dici? Per me non eri malaccio».

Lui abbozzò una risatina. «È passato del tempo».

«Take?».

«Mh?».

«Grazie per avermene parlato. È bello sapere che vuoi raccontarmi anche queste cose».

Takeshi la guardò, indugiando qualche secondo, e alla fine sorrise – un po' imbarazzato.

 

 

Dopo più di venti minuti di scarpinata, i due raggiunsero la residenza.

La casa era in un completo stato di abbandono, sebbene fosse passata solo una notte – a quella vista, l'albina si sentì un nodo alla gola.

Quella era casa sua. Era casa sua.

In quel momento, però, era solo un guscio vuoto.

 

La porta di ingresso era spalancata e l'anta sinistra era tutta piegata da un lato, staccata in parte dai suoi cardini; le finestre sulla facciata avevano i vetri rotti e l'entrata era ricoperta di foglie ed erbacce.
Yuki ricordava di aver chiuso la porta a chiave per guadagnare un po' di tempo – le finestre, allo stesso modo, erano rimaste chiuse sin dall'inizio. Questo significava che si erano introdotti dentro la casa alla loro ricerca.

Un brivido percorse la sua schiena.

«Ehy», la voce di Takeshi era rassicurante e dolce. «ce la puoi fare. Entriamo insieme».

Yuki fece un cenno col capo, e stringendogli la mano, avanzarono fino all'entrata. Lei entrò per prima, affacciandosi con la testa. Quando si sentì più sicura, fece un passo all'interno.

Il salone era piuttosto impolverato, ma il piccolo salottino accanto alle scale era rimasto intatto; si guardò brevemente intorno, constatando che – almeno in quel momento – erano davvero soli. Il salone sembrava apposto.

«Ci dividiamo?», disse Takeshi, dietro l'albina.

«Che? Sei pazzo? Neanche per idea».

«Yuki, casa tua è immensa. Ci metteremo una vita a ispezionarla e non è sicuro rimanere qui per troppo tempo».

 

La mezzosangue tentennò, stringendogli la mano con la propria. Beh, sembrava che, alla fine, fosse abbastanza sicuro da potersi dividere...

Sbuffando, fece un passo avanti e lasciò passare Takeshi; si voltò verso di lui, schioccandogli un'occhiata severa. «Se senti o vedi o credi di aver visto qualcosa, vieni subito da me. Promettimelo. Non fare l'eroe».

«Il ruolo di eroe non mi si addice. Non ti preoccupare. Io mi occupo del piano terra, e tu di quello superiore, okay?».

«Okay, allora. Ci vediamo qui tra un'ora al massimo».

 

 

Una volta separati, Yuki era salita in fretta su per le scale, calpestando il tappeto strappato in tanti e diversi punti, e aveva, prima di tutto, svoltato verso destra; in camera sua non aveva lasciato niente di valore, quindi non se ne stava davvero preoccupando. Ciò che voleva era controllare se qualcuno si stava ancora aggirando per quelle camere.
Aveva aperto la prima porta, una camera degli ospiti: nulla. Allora aveva fatto lo stesso con le seguenti – ancora, il nulla più totale.

Dannazione.

Erano andati. Non avevano lasciato neanche un indizio.

 

In compenso, ogni camera era in disordine, specialmente la sua – totalmente in rovina. L'armadio era capovolto a terra con le ante ridotte in pezzi, la specchiera aveva lo specchio frantumato e le gambe piegate, la finestra accanto al letto era distrutta.

L'albina aveva guardato la sua stanza deglutendo.

Dio. Si sentiva trasfigurata.

 

 

Un'ora dopo, erano di nuovo in salone. Tutti e due avevano trovato solo disordine e mobilio distrutto. Takeshi aveva inoltre scoperto, con sommo rammarico, che la cucina super fornita era diventata la tana di una famiglia di ratti e che la maggior parte del cibo era stato rovesciato.
La stanza di Ai e dei coniugi avevano incontrato la stessa sorte, purtroppo.

Seduti sugli scalini, Anima adagiata sulle gambe del ragazzo, si erano confidati ciò che avevano visto e scoperto – cioè, quasi niente.

«Ciò che continuo a chiedermi», disse Yuki. «è chi diavolo fosse quella gente».

«È piuttosto improbabile che abbiano agito per conto proprio».

Yuki si toccò il mento con la mano, pensierosa.

«È anche strano che non abbiano pensato di rompere le finestre, per entrare», osservò Takeshi, dopo che si furono seduti sulle scale per una pausa. «o di usare i sotterranei, come abbiamo fatto noi. Sono stati semplicemente là fuori, ad aspettare, apparentemente».

«Già; a questo punto, dobbiamo capire se erano solo stupidi o... ».

«O c'era qualcosa sotto?».

Yuki annuì.

Takeshi sospirò. «Sì, ma cosa potrebbe essere? Riflettiamo; hanno aspettato fuori, dopo aver scoccato la freccia, e l'unico che ha cercato di entrare dentro casa è stato quel demone. E ha attaccato me, per primo, ma questo potrebbe essere stato solo un caso».

«Se ricordo bene, quel demone era già bello che andato. Potrebbe aver pensato tu fossi un vampiro o un demone».

«Nella più assurda delle ipotesi».

Yuki fece scivolare i piedi oltre un gradino, meditabonda. Osservò il pulviscolo nella luce.

«E se fosse stato solo un diversivo?», disse, a bassa voce. Corrugò la fronte. «Un diversivo per mettere le mani su qualcos'altro».

«Mi vengono in mente solo due cose», aggiunse allora Takeshi. «Ai e la spada».

 

Yuki si voltò verso Takeshi con la bocca aperta e gli occhi sbarrati. La sua Ai – e quella dannata katana.

 

Sì, entrambe avrebbero potuto solleticare l'interesse degli avversari.

 

Ma chi, in un mondo così vasto, avrebbe potuto essere così avventato – così interessato – da organizzare un attacco direttamente alla casa? Perché tanto interesse per una mezzosangue di appena undici anni, ancora incapace di usare a pieno i propri poteri?
A questo punto, lei ci capiva anche meno, e la preoccupazione saliva. I poteri di Ai potevano rivelarsi molto, molto vantaggiosi – e altrettanto pericolosi nelle mani di qualche squilibrato.

Takeshi le toccò la schiena. «Sei ancora con me?».

Lei sussultò – era ancora con lui? Beh, in qualche modo, sì. «Ho la sensazione che il Consiglio non c'entri, stavolta».

«Ha il suo perché», osservò il moro. «La tua famiglia fa parte del Consiglio; una cosa del genere non passerebbe impunita».

 

Gli Akawa – dacché mondo è mondo – erano sempre stati al vertice. Erano forti, risoluti. Una preziosa risorsa per il Consiglio. Ad aggiungere, Oseroth non si era mai creato veri e propri nemici, fatta forse eccezione per Fukanishi.
«Se papà non è la causa... ». Ed erano abbastanza pacifici; Yuki era l'unica, con ogni probabilità, ad aver sviluppato un tale carattere aggressivo e ribelle. In conclusione, non avevano acerrimi nemici, non avevano nemesi antiche come l'umanità stessa, se ne stavano tranquillamente per i fatti loro.

Non si allargavano, non si restringevano.

Ogni Akawa era così.

«E invece no. Mi sbaglio».

Yuki guardò davanti a sé.

 

Aveva appena capito. Aveva appena ricordato.

L'unico componente degli Akawa che getterebbe il sangue del suo sangue nelle fauci di una belva: Alyon Hendrik Akawa.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 


Fuori dalla residenza Akawa, i due avevano imboccato lo stesso sentiero imboscato; erano le 16.15 quando erano usciti di lì, ci erano stati più di un'ora cercando degli indizi, riflettendo, e raccogliendo qualsiasi risorsa potesse tornargli utile.
Yuki aveva raccattato un po' di vestiti per lei e sua sorella. Non sapeva quando sarebbero tornate a casa loro e, a dire il vero, non era nemmeno sicura che potessero tornarci così facilmente.

Doveva contattare Sebastian e Kukuri. Chissà se stavano bene. Chissà se il resto del personale era riuscito a mettersi in salvo senza problemi.

 

Mentre attraversavano il bosco, ormai quasi al buio, disturbando nuovamente la quiete degli animali, ricapitolavano ciò che avevano detto già a casa della ragazza.

«Allora, quindi... », disse Yuki. «Ai non può saperne niente, per ora».

«Perché si incolperebbe di tutto quello che è successo; e poi, non abbiamo la conferma che sia andata come pensiamo».

«Direi che è già abbastanza provata dal corso degli eventi». L'albina tirò un sospiro. «E dobbiamo incontrare Tetsuya per parlare a quattrocchi di Alyon».

«Chiamiamo anche Yumi».

«Vuoi chiamare Yumi?».

«Ci serve tutto l'aiuto possibile, direi; sono sicuro che Yumi può esserti utile».

 

La mezzosangue fece una pausa, elaborando le sue parole. Sayumi aveva dimostrato nervi d'acciaio quella notte, nonostante la situazione infernale, nonostante le loro vite fossero appese ad un filo. E d'altro canto, le sembrava ingiusto tenerla all'oscuro di quelle scoperte, dato che anche lei – come Takeshi – ci era dentro fino al collo.
Con un cenno del capo, Yuki scalciò via un letto di foglie, sollevando una leggera coltre di polvere. «Sia. Informeremo Yumi. Adesso dobbiamo solo capire se il Consiglio c'entra qualcosa con tutto questo».

Perché se non avevano messo la loro mano invisibile – allora, potevano affidare Ai alle loro cure, almeno per qualche giorno.

Lei voleva solo dare un po' di salvezza a sua sorella; eppure lo sapeva, sapeva che era un lusso, che molto probabilmente non sarebbe riuscita a trovarla.

 

«In ogni caso», continuò lei, fermandosi improvvisamente. Gli occhi un po' vacui, si soffermarono sull'asfalto. «In ogni caso, voglio passare la mia vita con te. Lo voglio davvero. Non pensavo potessi provare una cosa del genere, specialmente per te».

Takeshi accennò un sorrisetto. «Cosa vorresti dire? Potrei offendermi».

«Perché eri e sei un tipo davvero strano, Take, quindi io non pensavo che... mi sarei innamorata di te. Per questo, ti voglio chiedere», si fermò. Si sentiva in imbarazzo, preoccupata e triste, ma tuttavia – si sentiva anche legata tremendamente a lui. Allora, finalmente, riuscì a guardarlo negli occhi. «di non scappare da nessuna parte. Resta qui, con me».

 

Takeshi pensò di aver avuto un allucinazione. Invece no. Invece no, lei gli aveva veramente detto quelle parole.

«Mi farò accettare dai tuoi genitori», disse. «Costi quel che costi»

Lui fece scivolare le dita sulle sue guance, prendendole il viso fra le mani.

«Io... ».

«Tu ti stai dimenticando qualcosa», Takeshi le sorrise con gli occhi. Lei aveva già capito dove voleva andare a parare. Con le guance rosse come tizzoni, sussurrò con la voce più bassa del mondo. «Io... io ti amo».

Lui rise. «Anche io. Anche io ti amo».

 

 

 

 

 

 

NOTA:
MAMMA MIAAAAA. Quanto tempo è passato, holy – purrrrtroppo però, il mio computer mi aveva detto sayonara. Per fortuna, oggi è tornato in vita e ho potuto aggiornare. Che gioia...

 

Quindi, rieccoci di ritorno con il 25° capitolo. Un tantinello più dolce. Più smielato. Spero non sia stato eccessivo, argh – ma d'altro canto, questo capitolo esisteva non solo per mandare avanti la questione dell'invasione, ma anche per conoscere il passato e la psicologia di Takeshi. Molto più tormentato di quanto sembri!

A parte questo, come penso avrete notato, c'è una bella differenza tra il primo atto e il secondo; a parte che nel secondo ci sono molti più morti (…), possiamo dire che è anche un pochino più serio?
E poi c'è quel dettaglio odioso dei capitoli... che non sono 19, qui. Mi dà un fastidio assurdo – ma comunque. Come sempre, spero il capitolo vi sia piaciuto e, se vi va, lasciate un commento! Bye~

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Capitolo 26
*** Il Consiglio. ***


26.



Ne avevano dette, di cose, quel pomeriggio. Ne avevano dette forse più del dovuto perché, quando giunsero di fronte alla porta d'ingresso di casa Katugawa, improvvisamente si ricordarono del grande enorme ostacolo che si voleva frapporre tra loro e la tanta agognata pace – anzi, a dirla tutta, dovevano fronteggiare ben due ostacoli.

Purtroppo, o per fortuna, non potevano sfuggirgli.

«Sto grondando di sudore», bisbigliò Yuki, trascinando i palmi delle mani sulla gonna, nel vano tentativo di asciugarle. «Lo so che appena dieci minuti fa ti avevo promesso che ce l'avremmo fatta e tutto il resto, ma credo di aver parlato troppo presto». L'albina fece un sorriso, forzato e sarcastico, rivolgendo i grandi occhi verso il ragazzo. Anche lui, dal canto suo, sentiva i nervi a fior di pelle.

Il momento per vuotare il sacco era arrivato. Era arrivato decisamente prima di quanto aveva pensato, a distanza di qualche misera ora. «Io non ho nessuna intenzione di tirarmi indietro». Guardava di fronte a sé, più serio di lei, forse persino più pronto – poi le sorrise. «Non ti preoccupare. Mal che vada facciamo una fuga d'amore».

Yuki ridacchiò, coprendosi la bocca con le mani. «Idiota».

«Grazie».

 

I due si guardarono per un'ultima volta, pensando alla stessa identica cosa – "fa che vada tutto bene" – e Takeshi premette il tasto del citofono. Al di là della porta, l'albina udiva i passi energici di Misaki, nitidi e chiari come se le fosse accanto.
Forse... forse, rivelare tutta la verità a Misaki e Takahiro non sarebbe stata una catastrofe come avevano predetto; magari, loro due avrebbero potuto continuare la loro vita insieme, magari lei avrebbe potuto continuare a camminare su quella Terra, senza che l'intera popolazione la cacciasse a suon di forconi.

Poi la porta si aprì e la donna – tanto amata quanto temuta – fece la sua apparizione sull'uscio, sorridente. «Bentornati! Siete tornati piuttosto presto, vi siete stancati?». Di fronte al suo sorriso, alla sua ospitalità, Yuki si sentì venir meno; solo pensare che le aveva mentito dal primo istante era abbastanza. A quanto pare, l'unica verità erano stati i loro nomi.

 

 

Takeshi ricambiò il sorriso della donna, forse leggermente meno lieto. Socchiudendo le palpebre, la mezzosangue intravedeva la mandibola contrarsi e irrigidirsi, come la corda di un violino – ben tesa. «Siamo tornati», rispose lui. «Sì, diciamo che ci siamo stancati. In parte, per lo meno».

Era colpita. Takeshi aveva un sangue freddo invidiabile. Non si scomponeva più di tanto, nonostante fosse un essere umano come tanti altri – anche se, più di una volta, aveva dimostrato di non essere per niente comune.

Doveva essere coraggiosa, almeno quanto lui.

Prese fiato. «Misaki-san».

«Sì?».

«Dobbiamo parlarle di una cosa importante».

Misaki fece una pausa. «Certo, vabbene, vi ascolterò. Prima però entrate, cambiatevi, fatevi un bagno».

Ma Yuki scosse il capo, lentamente, chiudendo gli occhi. «Credo sia meglio che non mi cambi. Almeno, non io».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Nel soggiorno, illuminato dolcemente dalla luce in cucina, regnava il più totale silenzio. Ad un certo punto, si sentirono le voci di Ai e Shin, il secondo rideva, la prima ridacchiava, gli diceva di abbassare la voce – per non disturbare, sicuramente. Poi tutto tornò a tacere.

Fuori dalla vetrata era buio. Misaki aveva lo sguardo fisso sul tavolino di fronte alle sue ginocchia, le mani chiuse su queste. Finalmente la donna fece un movimento, sollevando gli occhi verso sinistra, alla discesa inghiottita dalle tenebre.

«Mi state prendendo in giro?», fu la prima cosa che le uscì dalle sue labbra.

Takeshi ne guardò il profilo, i tratti tipicamente asiatici, gli occhi a mandorla ben aperti. «No», rispose. «Non ti stiamo prendendo in giro. È la più assoluta verità». Nonostante quell'assurda rivelazione, Misaki era imperturbabile.

Ma questo sembrava quasi peggio.

 

 

Mentre Yuki pronunciava quelle frasi - «non sono un essere umano» - pensava che vedersela con la sua rabbia e il suo disgusto sarebbe stata la peggiore punizione del mondo, ma giusta; invece, il suo silenzio e quell'apparente calma erano decisamente peggio. Quella sì che era una punizione con i fiocchi. Yuki voleva solo sentirle dire qualcosa – qualsiasi.

«Quindi è vero, eh... », Misaki, a quel punto, si voltò verso Yuki. La prima era seduta sul divano, la seconda sulla poltrona, e Takeshi era proprio affianco a lei, in piedi. Gli occhi scuri di Misaki si fecero più stretti sulla figura della mezzosangue, come se volesse analizzarla. «Ho diverse domande, allora. Prima di tutto, tu sei un vampiro e un demone. Una... mezzosangue, hai detto. Quindi, cosa ci fai qui? Qui in questa città, qui in mezzo a noi persone comune?». Per un attimo, la donna sembrò tentata di guardare suo figlio, ma non distolse lo sguardo. «Perché sei accanto a mio figlio?».

 

Misaki non avrebbe voluto suonare così minacciosa – e fredda. Tuttavia, le parole erano scivolate da sole.

 

Ma le domande persistevano. Perché mischiarsi fra quelle gracili creature, d'altronde?

 

Yuki si torse una mano con l'altra, stringendo le labbra. «Questo è– ».

«Complicato?». La donna espirò profondamente, ed annuì. «Sì, immagino lo sia. Sin dal nostro primo incontro, tu mi hai dato l'impressione di aver dovuto affrontare un'infinità di difficoltà». Da quando lei e sua sorella avevano varcato la soglia, con un passo leggero e instabile, una specie di barcollamento. L'aveva guardata in viso e aveva subito notato quella bellezza quasi astratta – con una tale bruttezza negli occhi. «Ho capito, è complicato».

 

Aspettarono.

 

«Takahiro e Shin non possono saperne niente. Shin, più avanti, potrà venirne a conoscenza se vorrete, ma tuo padre... non lo so. Sarà una vostra decisione. L'unica condizione è che ne parliate molto più avanti, con entrambi».

 

Yuki e Takeshi alzarono lo sguardo, sbalorditi, meravigliati. Si guardarono, incapaci di capire, e poi tornarono su Misaki. «Ma», balbettò l'albina. «davvero?»

Misaki si stava già alzando, avvicinandosi al tavolo da pranzo. La donna accennò un sorriso, ruotando il viso verso la coppia. «Mi sono chiesta», disse. «perché aveste deciso di parlarne. Potevate conservare il ricordo con voi fino alla fine, invece avete deciso di dire tutto. Alla fine ho capito: per voi è troppo importante». La donna sollevò la mano, posandosela sul cuore. «Grazie. Grazie per avermi resa partecipe. Per avermelo detto».

 

Yuki sentiva le lacrime premere per uscire, ma deglutì, ricacciandole indietro. «No», mormorò. «Grazie a lei».

Misaki ridacchiò, scuotendo la mano. «Direi che a questo punto puoi anche darmi del tu, no?».

«Ah, beh... allora, grazie a te, Misaki-san».Anche l'albina accennò una risata, emozionata, quando poi sentì un calore familiare sulla spalla. Takeshi, accanto a lei, le sorrise – il viso in penombra. Erano accadute così tante cose... si sentiva frastornata, sballottata, triste e felice. Non aveva mai provato così tante cose insieme. E tutto questo lo doveva a lui. Tutte quei sentimenti, belli e fastidiosi, li doveva a lui.
Con la bocca socchiusa, rimase ad ammirare il viso di Takeshi, imprimendosi nella mente i suoi tratti, i ciuffi di capelli più scompigliati, le ciglia intorno agli occhi.

 

Non avrebbe mai dimenticato quella visione.

 

 

 

Quella notte, Yuki andò a dormire sul divano parzialmente serena. Un grande, enorme problema era stato risolto. La questione non poteva dirsi conclusa completamente, ma la benedizione di Misaki risolveva il 90% del dilemma – e loro due l'avevano conquistata.

Yuki osservava il soffitto del soggiorno, fievolmente illuminato dalla luna, una luce fredda e confortevole.

Il lato migliore di me, pensò, voglio mostrarglielo. Così, Misaki potrà star sicura di non aver commesso uno sbaglio, accettando tutto questo...
Quella stessa mattina avrebbe pensato fosse un'impresa impossibile. Adesso invece, sentiva il petto formicolare, un calore espandersi e toccare tutti i suoi muscoli – poi capì che quello era rilassamento, e cadde in un sonno profondo, il primo dopo due settimane.

 

Sognando Oseroth, le sue braccia incrociate e il suo testardo sorriso.

 

 


 

***

 

 

 

 

Tetsuya si passò una mano tra i capelli, scostandoli dagli occhi.

Era una serata ventosa, eppure non troppo fredda, e il vampiro continuava a litigare con i capelli sin da quando aveva messo piede fuori dal Consiglio; le strade erano scarsamente popolate, ogni venti metri ti capitava di imbatterti in qualche adolescente insieme i suoi amici, qualche famiglia che si stava già pregustando il ristorante, e poi per i prossimi cinquanta passi il nulla più totale.

Il biondo infilò le mani nelle tasche della giacca in camoscio, arrendendosi con le ventate.

 

Sin dal suo ritorno in quella città, aveva pensato alla sua vecchia casa. Ci aveva messo qualche tempo e un bel po' di coraggio e, alla fine, ci era andato. Naturalmente, la casa era morta sotto la morsa della natura. Ricoperta dall'edera, dalle foglie, dalla polvere e probabilmente da animali, sembrava più una rovina che una casa.
Allora se n'era andato, voltando le spalle a quel posto per la seconda volta, e aveva preso alloggio al Consiglio. Non era un bel posto, ma era meglio che dormire nel bosco.

O almeno credo, comincio ad avere qualche dubbio, pensò il vampiro, svoltando l'angolo, capitando nella salita-discesa.

 

Comunque, pensava che avrebbe sofferto alla vista di quel luogo, ma non era stato così doloroso – per fortuna o... per sfortuna?

Mentre percorreva il marciapiedi della salita-discesa, passò di fronte al negozio di fiori Ichinomiya e istintivamente abbozzò un sorriso. «Chissà come se la sta cavando», bisbigliò, passando oltre, tornando a guardare la strada. «Speriamo non stia annegando la tristezza nel cibo... ».
Anche Sayumi aveva sofferto per la morte di Oseroth: tutti, a dir il vero. L'unica differenza era che ognuno di loro aveva processato la sua scomparsa a modo proprio. Tetsuya, quando finalmente aveva avuto il tempo, aveva riversato tutto nel silenzio. Seduto sul letto, con la testa fra le mani.

Ma ora stava bene. Non poteva di certo trascinarsi l'angoscia all'infinito. C'era chi aveva bisogno di lui...

 

Scrollò la testa, disfacendosi dei pensieri – accorgendosi di aver superato la casa di Takeshi di qualche passo. Roteò gli occhi e tornò indietro, infine schiacciò il tasto del citofono.

Dall'altra parte, rispose una voce femminile. «Sì?».

«Sono Tetsuya Tanigawa. Ho appuntamento con Takeshi».

«Ah, Tanigawa-san! Prego!».

 

Il microfono del citofono emise qualche ronzio e poi si zittì. Il cancello scattò, e il biondo lo spinse per entrare nel vialetto, mentre la porta d'ingresso veniva lentamente aperta.

«Benvenuto!», esordì Misaki, apparendo con un bel sorriso. «Prego, entra. Takeshi e Yuki ti stavano aspettando».

«Ah... ». Il vampiro aggrottò la fronte ed annuì, indeciso. Lui e la signora Katugawa si erano incontrati una volta, per la bellezza di cinque secondi, perché subito dopo Takeshi l'aveva trascinato via. Sembrava una donna molto socievole ed energica, ma... sembrava anche consapevole. «Bene, la ringrazio... ».

«Oh», fece Misaki, accennando una risata. Si spostò di lato, lasciando entrare il ragazzo. «Non ti devi preoccupare di fingere. Sei un... vampiro, giusto? Spero di non aver sbagliato!».

Al suono di quella frase, Tetsuya quasi inciampò sul gradino. Spalancò gli occhi, drizzando la schiena. «Mi scusi, cos'ha detto?». Doveva aver sentito male. «Potrebbe ripetere?».

 

Misaki richiuse la porta di casa e ne sistemò la catenella al suo gancio, una volta che il biondo fu all'interno. Quando si voltò, aveva un espressione parecchio divertita. «Troppo spiazzante? I tuoi amici mi hanno spiegato tutto!», disse. «O per lo meno, mi hanno detto molte cose. E in effetti, a guardarti meglio, sei fin troppo bello per essere un umano».

 

Tetsuya sbatté le palpebre, con un principio di tic nervoso all'occhio sinistro. Questo era troppo. Ma che diavolo avevano in testa? Arrivare a svelare tutto quanto all'ennesimo essere umano... poteva capire Takeshi, ma non Yuki. Era forse ammattita?
Per quanto la sua situazione fosse delicata, confidando un segreto come quello metteva in difficoltà migliaia di persone. Migliaia di compagni.

La donna, con ogni probabilità, aveva notato l'irrequietezza del biondo, sebbene lui stesse indossando una calma totale. Lo vedeva però stringere i pugni, irrigidire la mandibola e spostare lo sguardo di lato, su un punto casuale della parete, a schivare quello della giapponese.
Allora Misaki si tolse il sorriso e gli toccò il braccio con la mano, con delicatezza, inducendolo a girarsi. Tetsuya, meccanicamente, guardò la donna negli occhi.

«È molto maturo da parte tua preoccuparti, ma non hai motivo di allarmarti. Il vostro segreto è al sicuro. Non lo dirà ad anima viva».

 

Non si fidava degli umani. Ne faceva volentieri a meno. Ma doveva ammetterlo, Misaki Katugawa valeva il gioco – valeva il pericolo.

Tetsuya sospirò, annuendo lentamente. «Vabbene. Mi fiderò di lei», anche perché non aveva molte alternative. Sicuramente non avrebbe ucciso la mamma del suo amico più caro.

Misaki sorrise, spostando la mano. «Grazie».

 

 

«Tetsu!». Proprio quando il vampiro stava per chiedere di loro, Yuki, Takeshi e Ai fecero il loro ingresso dal corridoio, attraversando la porta già aperta. Yuki si apprestò a raggiungere l'amico e Misaki, ringraziando la donna per averlo accolto e scusandosi per il disturbo.
Mentre le due parlavano, il vampiro squadrò la scena alzando un sopracciglio – mah, sembra stare bene, pensò.

«Tetsu, abbiamo delle cose di cui parlare», esordì Takeshi, raggiungendo l'amico insieme alla mezzosangue più piccolo.

«Lo credo bene. Ha a che fare con la vostra perlustrazione, vero?».

Takeshi annuì. «Sì, noi... », si fermò, appena in tempo. Avevano deciso che la piccola Ai avrebbe dovuto rimanere all'oscuro di quella faccenda perché, probabilmente, la bambina era parte in causa di quell'attacco. Takeshi si spazzolò i capelli sulla nuca, non del tutto tranquillo. «Volevamo riflettere con te sulla questione. Parlarne potrebbe far emergere qualche indizio».

Poi Takeshi fissò le iridi in quelle viola di Tetsuya – il vampiro tacque per qualche istante. «Beh, allora, mentre noi parliamo, Ai potrebbe fare una telefonata a Sebastian», il vampiro sorrise, piegandosi verso la rossa. «Non fa che continuare a chiedere di te. Sia lui che Kukuri vogliono assolutamente sentire la tua voce. Perché non li accontenti?».

«Sebastian e Kukuri?», ripeté Ai, tirando un lembo del suo vestito, distrattamente. «A volte sembrano proprio dei bambini! Lo sanno che sto con la sorellona, che motivo hanno di preoccuparsi così tanto?». Ai sospirò, teatralmente, e allungò il braccio verso il biondo. «Per favore, cedimi il tuo telefono cellulare. Accontenterò quei due, non voglio essere la causa delle loro notti insonni!».

 

Sei proprio una principessina, pensò Tetsuya – ridendo, di quella piccola aristocratica tanto forte.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Mentre Ai faceva la sua telefonata, il trio si andò a rinchiudere – porta sigillata – nella camera di Takeshi; lei e Tetsuya sul bordo del letto, il bruno sulla sedia della scrivania, trascinata di fronte ai due. Takeshi ruotò la sedia al rovescio e incrociò le braccia sullo schienale, appoggiandoci il mento.
Quando furono certi di essere completamente soli, Tetsuya esordì: «Allora, com'è andata a casa? Non avete voluto dirmi niente fino ad ora, quindi sono alquanto curioso».

«Abbiamo ispezionato ogni angolo della casa», rispose la mezzosangue, tamburellandosi il ginocchio con le dita. «e non abbiamo trovato un accidenti. Una cosa è certa, si sono divertiti parecchio»

Il vampiro socchiuse le palpebre. «Era ridotta male, immagino».

Lei chiuse la bocca in una linea rigida.

«Hanno dato il peggio di loro», osservò Takeshi. «Ciò che mi chiedo è: perché? Se stavano cercando qualcosa o qualcuno, allora non avrebbe avuto senso radere al suolo le stanze. Capisco che volessero lasciare un segno, ma... », il ragazzo aggrottò la fronte. «È al limite della stupidità».

«In effetti, Take ha ragione. Se io fossi stata mandata con quell'intento, avrei cercato di farlo silenziosamente».

«Allora è così. Non volevano appropriarsi di nulla». Tetsuya accavallò le gambe ed incrociò le braccia al petto. «E questo vuol dire che non volevano nemmeno rapire Ai».

 

Yuki e Takeshi si guardarono stupiti. «Come fai a... ?», chiese la mezzosangue.

«Mi sembra chiaro; non volevate nemmeno accennare dell'ispezione a casa mentre c'era Ai, quindi, probabilmente, lei c'entrava. E a parte questo... », il vampiro abbassò le sopracciglia sugli occhi. Sul suo viso si palesò un'ombra cupa, quasi minacciosa. «Solo gli dei sanno quanto siano devastanti i suoi poteri. Gli dei e anch'io, sebbene parzialmente».

 

Giusto.

Era un fatto accaduto già parecchio tempo fa – wow, i mesi erano passati alla velocità della luce! – ma, in ogni caso, non era stato di certo dimenticato; Ai, la secondogenita Akawa, aveva usato i suoi poteri su Tetsuya, prendendo il totale controllo del giovane uomo, della sua mente, del suo corpo. Tutto ciò che i suoi occhi avevano visto era stato filtrato dalla ragazzina ed era giunto a lei, infestandola come una nube.
Yuki si passò una mano dietro la testa, increspando la fronte. «Cavolo, ogni tanto me ne dimentico», disse. «Quella bambina ha bisogno di una bella sgridata».

«Ormai è acqua passata. Se non altro, mi ha insegnato a non sottovalutare i bambini d'oggigiorno».

 

Yuki sorrise. Quindi, Ai si poteva dire al sicuro. Non si sentiva totalmente certa. D'altro canto, avrebbe capito come stavano le cose solo con ulteriori indagini, quindi per il momento doveva accontentarsi di quelle deduzioni. «Allo stesso modo, Anima non poteva essere di loro interesse», mormorò, fra sé e sé. Poi alzò il viso verso Takeshi. «Una provocazione?».

Lui scrollò le spalle, staccandosi dallo schienale. «No, dai. Non può essere solo questo».

«Arrivare ad uccidere un membro così importante della società... per una provocazione?».

«Già», sibilò l'albina. «Ma se è stato Alyon ad architettare tutto quanto, non mi sento di escluderla come una possibilità».

Takeshi si rivolse a Tetsuya, per spiegargli a cosa alludeva la ragazza. «Quando eravamo a casa, siamo giunti a questa conclusione: Alyon potrebbe essere la mente dietro la morte di Oseroth. Solo che», poi guardò in basso, tirando un sospiro. «rimane una delle tante eventualità».

«D'altro canto... Alyon ha già cercato di rapire Yuki».

 

 

Calò silenzio. Tutti e tre stavano rimuginando sulla questione, valutando tutto ciò che avevano detto; la sensazione di non poter fare niente era fin troppo pressante sulle loro spalle e considerando che Oseroth ci aveva perso la vita, diventava ancora più pesante. E poi, era inquietante essere sotto l'occhio di qualcuno senza sapere o capire di chi si trattasse.
Ad un certo punto, Takeshi sollevò il capo, spostando l'attenzione dalla moquette. «Ad ogni modo, Yuki aveva una richiesta da farti».

«Una richiesta?», ripeté lentamente il vampiro.

«Oh, è vero», esclamò la ragazza, la schiena adagiata alla parete. «Volevo chiederti di portare Ai con te, per una sistemazione temporanea».

 

Tetsuya indugiò, riflettendo qualche istante. «Allora prenoterò una stanza al bed and breakfast oltre il ponte». Di fronte all'occhiata stupita della ragazza, il vampiro sorrise. «Non sappiamo se il Consiglio c'entri in questa storia, ma non me la sento di rischiare portandola in quel luogo. Se per te vabbene, ci sistemeremo lì, almeno fin quando tu non recupererai casa tua».
Yuki arcuò leggermente le sopracciglia, trattenendo un sospiro intristito. Recuperare casa sua... poteva davvero farlo? Poteva davvero ritornare tutto come un tempo? – no, questo non sarebbe mai potuto succedere. Un padre era morto, una madre era scomparsa nel nulla, una dimora era stata violata.

Eppure... non si sarebbe arresa. «Sia. Affare fatto».

 

 

 


 

***

 

 

 

 

Ai era stata restia ad andarsene. Quando le due sorelle avevano parlato, tra di loro, la bambina aveva avuto un principio di panico. Aveva guardato l'albina con paura, ma dalla bocca non era uscita una frase; Yuki sospettava che sarebbe successa una cosa del genere, ma la situazione doveva pur smuoversi. Lei doveva indagare e uscire, quindi non poteva starle vicina e proteggerla personalmente, e di sicuro non l'avrebbe portata con sé.
L'aveva abbracciata. L'aveva abbracciata, le aveva accarezzato i capelli, e avevano parlato – e alla fine, Ai aveva capito.

Yuki aveva visto lei e Tetsuya uscirà dalla porta d'ingresso, insieme, lui le stringeva la piccola mano con la propria, da bravo fratello maggiore. Era stato difficile non agitarsi, ma... ce l'aveva comunque fatta.

 

 


Un paio di ore dopo avevano cenato, e lei e Takeshi si erano diretti in camera per provare a riposare un po'. Il ragazzo aveva preso velocemente sonno, la schiena rivolta al muro, le braccia intorno alla schiena della mezzosangue, a stringerla a sé; Yuki, invece, non aveva mai avuto intenzione di dormire. Per questo, a mezzanotte era ancora sveglia e lucida, lo sguardo ambrato indirizzato verso il collo di Takeshi. Il suo petto si alzava fievolmente, poi si riabbassava.

Ad occhio e croce, pensò Yuki, la fronte contro le sue clavicole, sono tutti nel mondo dei sogni. Se uso la finestra non rischio di svegliare nessuno... eccetto Takeshi.

Fece una smorfia. A dir il vero, aveva già deciso di svegliarlo, prima di uscire e dirigersi al Consiglio. Se aveva imparato una lezione nel corso di quei nove mesi – da quando lo aveva conosciuto – era che non amava essere messo all'oscuro degli eventi; era una delle poche cose in grado di farlo davvero arrabbiare e innervosire, quindi voleva evitarlo, se possibile. E inoltre, voleva potersi affidare a lui e ai suoi amici.

 

Sollevò un braccio e circondò il suo avambraccio con le dita, scostandolo pian piano. Con la stessa premura, sgusciò dalle coperte calde e dal suo tepore, e si avvicinò alla scrivania per prendere i vestiti. Lanciò un'occhiata verso il letto. «Stai dormendo, vero?», bisbigliò, talmente piano da sembrare un respiro. Non poteva andarsene in giro per la casa, quindi avrebbe dovuto cambiarsi lì.
L'idea l'agitava un po', ma non c'erano alternative.

Indossò allora la gonna, le calze e il maglione, e si avvicinò al lato della scrivania per prendere le scarpe.
Dopo di ché, si diresse al letto e si piegò verso il fondo. Anima era ancora lì. Yuki infilò il braccio e afferrò la katana, per poi rimettersi in piedi. Ora che era pronta, poteva avvisare il ragazzo.

 

«Take?», disse, a voce bassa. «Take, io sto uscendo».

Il ragazzo, come volevasi dimostrare, rispose con lamenti sconclusionati. «Nh... », biascicò, strizzando leggermente le palpebre. Con enorme fatica, riuscì ad aprire un poco gli occhi, le folte ciglia incastrate fra loro. «Cos'è che fai... ?».

«Sto uscendo, ho detto», ripeté Yuki, a voce più alta.

A quel punto, Takeshi sembrò risvegliarsi. Sbattendo ancora le palpebre, aprì completamente gli occhi, puntandoli sul viso bianco della ragazza. «Dove vai?».

«Vado al Consiglio. Voglio parlare con il Presidente di quello che è successo. Magari sa qualcosa».

«Ma... da sola?».

«Sì, ma», picchiettò una mano sul fodero della katana. «porto Anima con me, nel caso dovesse servirmi. Ma non penso ci saranno problemi».

«Già... sì, forse hai ragione». Il ragazzo increspò le sopracciglia, celate in parte dagli arruffati capelli scuri. «Stai attenta. E per favore, non litigare con nessuno, okay?».

 

Yuki sorrise, un po' sfrontata, e si inclinò in avanti per lasciare un bacio sulle labbra di Takeshi. A quel punto si rimise dritta e composta, e avanzò verso la finestra solitamente chiusa. La sbloccò e saltò giù, dandosi una spinta con le mani e un piede sulla cornice.
Atterrò sull'erba umida, e per poco non schiacciò l'aiuola di fiori – una volta giù, esaminò la strada di fronte e le case attorno. A quell'ora, non c'era nessuno che si aggirava per quella salita-discesa e le case, almeno la stramaggioranza, avevano le luci spente e non emettevano suoni specifici.
In notti come quelle, succedeva una certa cosa. Il respiro e il battito cardiaco delle persone arrivava alle sue orecchie come una serie di mantra, ognuno diverso dall'altro. Avevano piccole differenze, quasi impercettibili, ma se tendeva le orecchie le coglieva una ad una – con la katana legata al fianco dal cordino rosso del fodero, l'albina spiccò un piccolo salto al muro che cintava la casa, e si issò fino in cima. Saltò dall'altra parte e arrivò sul marciapiedi.

 

Il Consiglio è in discesa, appena oltre il ponte, ragionò – subito dopo, ruotò i piedi verso la sua destra e cominciò a correre in quella direzione. L'ironia era che, andando in carrozza, ci metteva qualche minuto in più rispetto che ad andarci a piedi a piena velocità.

Proprio per questo, non si era posta il problema di trovare un passaggio o scomodare qualche nobile vicino agli Akawa.

 

Con il vento che le graffiava la faccia e i capelli in balia della pressione, la mezzosangue superò la rotonda con la quercia e si addentrò nell'ultimo quartiere prima del ponte. Quella era forse la zona più bella di quella città – la piccola, verdeggiante e abbandonata Yoshino.
Quel punto vantava un grande cielo trapuntato di stelle, il profumo dell'erba, lo scrosciare del fiume sotto al cemento del ponte. Quando l'albina vi arrivò, coprendo una buona metà, decise di rallentare il passo e riprendere un po' di fiato, mantenendo una camminata veloce.

 

La luna alta in cielo vestiva l'asfalto con la sua luce.

Oltre al suono dell'acqua che scorreva proprio sotto di lei, c'era il ticchettio risonante delle sue scarpe e il suono sottile e cantato del vento.

 

In un'altra circostanza, quella sarebbe stata una notte incantevole.

 

Invece, in quella, lei doveva difendersi. Si fermò all'improvviso e fletté le ginocchia, agguantando il manico della katana e sfoderandola con un fendente fulmineo alle sue spalle – la sua lama, lunga, affilata, brillò come un diamante a contatto con l'esterno.
Voltandosi, riuscì a vedere chi era apparso alle sue spalle. Un uomo. «Ma non la finite mai?», ringhiò l'albina, puntandogli contro la spada.

L'uomo, lontano tre metri, aveva un completo nero, con una cravatta del medesimo colore e una camicia bianca al di sotto. Intorno all'orecchio, invece, spiccava il filo arrotolato di un auricolare che finiva nel padiglione. Fu proprio quell'auricolare a trattenere Yuki dall'attaccare, perché le fece subito capire che quell'uomo altri non era che una guardia – le cosiddette “Sentinelle notturne”, unicamente vampire, mentre di giorno venivano sostituite dai demoni.

 

Yuki sospirò esasperata e rinfoderò la katana, producendo un suono metallico. «Non sono una persona sospetta, sai?».

L'uomo irrigidì la mandibola e, con i pugni chiusi, si avvicinò lentamente alla ragazza. «Sappiamo chi sei. Cosa ci fai qui?».

«Wow. Quanta gentilezza». Annodò le braccia al petto, con un espressione in parte divertita. «Voglio solo parlare con il Presidente. Non hai di ché preoccuparti, scimmione».

«Sei venuta da sola?».

«Cosa vuol dire? Vedi qualcun altro, insieme a me?».

«Rispondi alla domanda, se vuoi passare».

Yuki assottigliò le palpebre. «Non so chi ti dà il diritto di darmi ordini. Gli Akawa di certo no».

 

L'uomo, tuttavia, decise di non rispondere alla provocazione. Emulando la ragazza, incrociò anche lui le braccia, rimanendo lì fermo, ad ottanta centimetri da lei, in una sorta di mutismo ostinato. Bene, era chiaro che non l'avrebbe lasciata passare tanto facilmente – almeno, non l'avrebbe lasciata in pace se non avesse fatto come diceva.

«Dal momento che non ho tempo da perdere e ho fatto una certa promessa», sibilò, sciogliendo la posa. «ti asseconderò: sì, sono venuta fin qui da sola. Io e questa katana, per l'esattezza». E nel dire ciò, tamburellò il dito indice sulla guardia della spada giapponese.

L'uomo, attraversò i sottili occhi freddi, incavati sotto folte sopracciglia, la guardava con estrema impassibilità. Sembrava che qualcuno gli avesse scucito tutto il calore. «Sei consapevole di cosa ti accadrebbe se questa fosse una spregevole menzogna?».

Yuki spalancò le braccia, al limite dell'esaurimento nervoso. «Ma sei scemo? Perché dovrei mentire? E poi dove me lo nascondo un compagno, sotto la gonna?». Sbuffando, l'albina tornò ad un tono un po' più ragionevole. «Senti, ti sto dicendo la verità: voglio solo parlare a quattrocchi con il Presidente».

 

Il vampiro chiuse le palpebre, celando quel suo sguardo di ghiaccio, e per un secondo non mosse un muscolo. Solo un istante dopo, riaprì gli occhi e annullò anche quei pochi centimetri che li separavano, passandole accanto. «Se provi a fare qualcosa, te la vedrai molto brutta».

Yuki gli lanciò un'occhiataccia, ma non disse nulla, seguendo il vampiro lungo l'ultimo pezzo di ponte; il vampiro le aprì il grande portone con una chiave che conservava al collo e le diede l'ennesimo avvertimento – o suggerimento – prima di richiudere la porta e farla piombare nella fitta oscurità dell'edificio.
Una volta all'interno, la vista della mezzosangue riconobbe subito la planimetria del piano terra e si spostò prima di un metro a sinistra e dopo di due in avanti, calciando il primo gradino delle scale con la punta degli stivali. Cominciò a salirle, stavolta con più calma e, man mano che saliva gli scalini e raggiungeva la sommità, l'ambiente si illuminava.

 

Non era mai stata all'interno dell'ufficio del Presidente, ma ci era passata di fronte e sapeva dove si trovava – quell'uomo, invece, l'aveva incontrato due volte; ricordava che, durante la prima occasione, lei era appena una bambina di sei anni e Kazumi aveva deciso di portarla con sé per non lasciarla tutta sola a casa. E proprio quella volta, aveva assistito alla sua prima riunione del Consiglio.

La seconda volta, invece, si erano incontrati quando lei aveva appena quattordici anni.

 

 

L'albina aveva superato tutto il primo piano e stava ora salendo la rampa di scale per l'ultimo piano. Appena giunta in cima, nel corridoio a destra c'era una porta, che conduceva alla sala delle riunioni.

Yuki si voltò verso il corridoio di sinistra e proprio lì, in fondo, vi trovò una porta di mogano scuro con dettagliati intarsi sulla superficie e sopra una targa grigia, luccicante, caratteri neri incisi sopra: “Presidente. Satchel Volk”.

Yuki svoltò l'angolo e in tre passi raggiunse la porta – sollevò la mano destra, la chiuse in un debole pugno e picchiò le nocche contro il pregiato legno. «Sono Yuki Akawa», come richiedeva l'etichetta, si era annunciata, con voce alta e decisa. Dall'altra parte, all'interno della stanza, ci fu una pausa di qualche secondo.

 

«Avanti», disse infine una voce maschile, gracchiante e bassa – allora lei ruotò il pomello e spalancò la porta, facendo il suo ingresso nell'ufficio del Presidente.

 

 

Come volevasi dimostrare, l'ufficio era di una raffinatezza unica. Come stanza non era particolarmente ampio, ma le tre finestre ad arco gotico in fondo, proprio dietro la scrivania, riuscivano ad allargare l'ambiente. Le pareti a sinistra e a destra erano quasi completamente nascoste da librerie e qualche quadro, mentre sul pavimento in marmo nero giaceva un tappeto di pelle di orso – le sue fauci, spalancate.
Sulla scrivania, a tre metri dai piedi di Yuki, vi era un grande assortimento di oggetti; una lampada all'angolo a destra, una raccolta di fogli e documenti al centro, un paio di penne sparpagliate in diversi punti, un quadretto con una foto alla sinistra e una tazza ormai vuota. Sulla poltrona di pelle nera, lucida e ben tenuta, un uomo in là con l'età attendeva. Teneva le dita intrecciate sotto il mento e i gomiti sulla scrivania, un espressione seria sul volto coperto da rughe.
Satchel Volk aveva degli occhi freddi come il ghiaccio. Piccoli, infossati e di un blu spento – forse, un tempo lontanissimo, quel blu aveva conosciuto una luce molto più vivida. I capelli grigi e crespi erano quasi totalmente assenti sulla sommità della testa e scendevano sotto la cute fino alle spalle.

L'uomo indossava un completo nero, abbottonato per bene, una camicia bianca e un papillon grigio metallico.

 

Alla vista di quell'uomo – un vampiro più antico dei suoi genitori, di Alyon – Yuki si sentì stringere lo stomaco. Sarà a causa del naso lungo e adunco, la fronte sporgente e ampia e quegli occhi... ma aveva un aspetto che incuteva disagio mista a soggezione.

In un certo senso, egli era portatore del passato.

«La signorina Yuki Akawa», Satchel aprì le labbra, sfoggiando lunghi e aguzzi canini ingialliti. Rispetto alla maggior parte dei vampiri e demoni, lui non si poneva il minimo scrupolo a mostrare i denti – sembravano costantemente sul punto di attaccare. Di cibarsi. «Primogenita di Oseroth e Kazumi Akawa. Qui, dinanzi a me». Satchel, che aveva squadrato la figura della ragazza, scese con la coda dell'occhio sulla katana che pendeva al suo fianco. L'angolo della sua bocca si piegò in una piccola smorfia seccata. «La fantomatica Anima... è lei, eh... ».

Per un istante, la mezzosangue sentì il suo istinto sussurrarle qualcosa all'orecchio, e la mano corse al pomo della katana. All'orecchio, una voce continuava a ripetere la stessa breve frase, vai via da lì.

«Presidente Volk». L'albina, tuttavia, sollevò il mento. «Dobbiamo parlare».

«”Dobbiamo”?», ripeté Satchel, arcuando impercettibilmente le folte sopracciglia brizzolate. Ghignò, sottovoce, appoggiando la schiena contro la poltrona. «Dobbiamo è una parola molto forte, signorina Akawa. Perché vuole usarla a sproposito?».

«Non la sto usando a sproposito. Dal momento che è una questione di vita o di morte, dobbiamo è la parola più adatta».

 

 

Sulle labbra di Satchel sparì il sorrisetto. Un'ombra calò, fitta e pesante, sul volto antico del vampiro. Il suo dito indice picchiettò sulla scrivania, producendo un suono apparentemente vuoto. «Tu sei venuta fin qui, ignorando il fatto che nessuno vuole vederti gironzolare, e pensi di poter imporre le tue volontà? Ricordati una cosa, ragazzina: se tu stai respirando, è solo grazie a tuo padre e tua madre. Se fosse per me... ».

«Mio padre è morto».

Il vampiro si fermò.

«E mia madre... scomparsa». Yuki espirò dal naso. Puntò gli occhi in quelli neri e artificiosi dell'orso, specchiandosi nel luccichio – poi tornò su Satchel Volk, con uno sguardo che non tradiva la benché minima esitazione. Fece un passo avanti, affondando la suola dello stivale nel pelo del tappeto, diminuendo sempre più quei tre metri. «Sembra sorpreso. Incredulo, persino». Davanti a quella scrivania, colpì la sua superficie con i palmi delle mani, si piegò verso di lui con occhi scarlatti. Era furente dalla rabbia. «Non le dice niente, tutto questo?».

«No». Satchel, tuttavia, riusciva a sostenere la sua rabbia. Adesso la prendeva sul serio. «Avrei voluto che mi dicesse qualcosa. Mi dispiace infinitamente per la tua perdita, signorina Akawa».

«Già», sibilò. «Dispiace anche a me».

Staccò le mani, tirò un respiro frustrato.

«Parlami di quello che è successo. Voglio sapere tutti i dettagli».

Yuki guardò l'uomo dall'alto al basso. «Perché?».

«Perché ho appena perso due dei membri più potenti di tutto il Consiglio. Questa, per me, equivale ad una dichiarazione di guerra».

 

 

 

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Capitolo 27
*** Un bellissimo guaio. ***


27.

 

Guerra.

Agli occhi del Presidente, era una dichiarazione di guerra; per Tetsuya, era un mentore e un punto di riferimento; per Sayumi, che lo conosceva a malapena, era l'adorabile padre della sua migliore amica; per Takeshi, un uomo ammirevole, dalle grandi qualità.

Per ognuno di loro, Oseroth Akawa era riuscito a trovarsi un posto. E dire che non ci aveva nemmeno provato.

 

Yuki si sentiva stanca. Quando uscì dall'ufficio di Volk, era passata un'ora o poco più. Non era poi tanto tempo, eppure si sentiva come se un camion l'avesse investita correndo a velocità folle.
Una volta fuori dalla stanza, non riuscì a riprendere il cammino e a tornare dai Katugawa. Le spalle toccarono la porta chiusa, gli occhi oro si soffermarono sul pavimento. Non riusciva a pensare a niente.

Aveva risolto il problema. Adesso, lei e Ai avrebbero potuto tranquillizzarsi.

L'albina stava per chiudere gli occhi quando un mormorio, poco distante, la ridestò all'improvviso. Era molto vicino, probabilmente proveniva dalle scale del piano inferiore. Yuki alzò la testa di scatto e vi si avvicinò fino ad arrivarne di fronte, voltandosi poi verso di esse.

«A me sembra strano», disse una voce maschile, fresca e giovane, ma esitante. «Che una persona simile non abbia risposto alle vostre telefonate, padre».

Una seconda voce di uomo scoppiò in una smodata risata. «A me non sembra affatto strano! Ha tirato troppo la corda, e si è spezzata. Peggio per lui. Prima o poi gli sarebbe successo qualcosa».

«Quindi, se parlate così, vuol dire che voi pensate che... ?».

«Morto».

 

Due uomini si trovavano in fondo agli scalini. Due uomini estremamente familiari.

Fuka... nishi... , dalle labbra di Yuki non usciva un suono, una singola, stupidissima sillaba. Era congelata. Solo gli occhi, sbarrati e cerchiati da violacee occhiaia, riuscivano a muoversi di qualche centimetro. In fondo, Ichiro Fukanishi e suo padre ricambiavano lo sguardo della ragazza, le teste alzate verso la cima delle scale. Ichiro sembrava senza parole, il signor Fukanishi non lasciava trasparire nessun sentimento particolare. 

Il signor Fukanishi abbassò la fronte e riprese a camminare, senza la benché minima esitazione. Sulle sue spalle pendeva e oscillava un ampio mantello.

«In ogni caso», riprese. «non sono cose che ci riguardano».

Ichiro ci mise qualche secondo a smuoversi. Dopo di ché, cercando di ignorare anche lui la ragazza, seguì il padre su per le scale. «Padre, non penso che... ».

«Verrà sostituito ben presto. Chissà», l'uomo allargò la bocca in un sorriso compiaciuto, mentre passava di fronte alla mezzosangue e le dava le spalle. «magari il posto di Oseroth Akawa sarà mio».

 

Yuki non ci provò nemmeno a trattenersi. Si girò verso il corridoio, schizzò e saltò in avanti, afferrando il retro della testa di Fukanishi per spingerlo verso il pavimento.
Il vecchio vampiro riuscì solo a gracchiare un imprecazione, prima che la sua faccia incontrò la polvere, il naso si schiacciò contro il duro e un lato del viso si sfregiò con il legno. Lei era seduta sulla sua schiena, calpestando con le ginocchia e le scarpe il lungo mantello, costringendolo a terra con entrambe le mani. Aprì la bocca, sfoderando un paio di canini aguzzi, ringhiando sommessamente.

 

«YUKI!», urlò Ichiro, accorrendo. «Ma che stai facendo, smettila subito!». Il vampiro provò a prenderla alle spalle per trascinarla via ma il corpo della mezzosangue era coperto di piccole fiammelle elettriche, quindi si fermò appena in tempo. Toccarla in quel momento gli avrebbe regalato delle belle ferite e lui... conosceva bene quel tipo di dolore.

«Akawa!», sbraitò il vampiro più grande, immobilizzato. «Non te lo ripeterò ancora, devi– ».

«Di cosa stavi parlando, prima?». Yuki affondò le dita nei capelli chiari dell'uomo. Li agguantò nel palmo della mano, saldamente, arricciandoli fra le falangi. «Perché parlate di mio padre? Perché», respirò profondamente. «sembrate saperne molto?».

Il signor Fukanishi cercò di guardare la ragazza con la coda dell'occhio – spaventato e in ansia. «Cosa... ».

«Parlavamo di tuo padre perché non risponde alle chiamate», esclamò Ichiro, cercando di prendere in mano la situazione. «Non so di cosa stai parlando, ma noi non abbiamo fatto niente!».

 

Yuki aveva due scelte: tenersi per sé la scomparsa dell'albino oppure fare altre domande. Una parte gigantesca di lei voleva preservare la sua figura, la sua reputazione. L'altra invece, parecchio ingombrante, chiedeva e urlava di ricevere risposte. Yuki sapeva che nel giro di uno o due giorni tutti avrebbero saputo della morte di Oseroth, soprattutto dopo la chiacchierata della ragazza con Volk, quindi non aveva senso mantenere il segreto.

«Voi», sibilò. «non c'entrate niente, eh?».

«Io non c'entro niente! Te lo giuro!». Il vampiro respirava ansante, scalciando con le gambe per liberarsi, forse con un principio di attacco di panico. Yuki, lentamente, staccò il palmo dalla nuca dell'uomo. Si sollevò dalla sua schiena e Fukanishi sospirò con sollievo.


«Graz–... », Yuki sollevò un piede e lo affondò con forza tra le scapole di Fukanishi – l'uomo tirò un verso di dolore, strozzato e sbigottito.

«Sono lieta che voi non c'entriate niente con questa orribile storia, uomini del casato Fukanishi. Tuttavia», ruotò il piede, premendo il tacco dello stivale sulla colonna vertebrale. Lo guardava contorcersi e gemere di dolore mentre, dietro di lei, Ichiro rimaneva nervosamente inerte. «sulla vostra bocca ha fatto capolino il nome sbagliato e, per l'altro, al momento sbagliato. Voglio che sia chiaro, limpido e cristallino... », a quel punto, l'albina sollevò la gamba. Finalmente si allontanò, fino a raggiungere gli scalini. «... se vi sento fare un'altra volta il suo nome, vi faccio a pezzi».

 

E poi scomparve, nella cupa oscurità della notte.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Marzo.

 

Erano passate quasi due settimane da quando era cominciata quella meravigliosa e sonnolenta pace; gli eventi accaduti alla residenza Akawa – la morte di Oseroth, la scomparsa di Kazumi – e tutti quelli a seguire sembravano appartenere ad un lontano passato, quando in realtà erano davvero, davvero... vicini.
Dopo che Yuki aveva incontrato e parlato con il Presidente Satchel Volk, il secolare vampiro a capo del Consiglio – per lo meno, a capo di quella sede – egli aveva proposto un patto alla mezzosangue. Un patto a cui lei non si era tirata indietro.


Yuki sarebbe entrata a far parte del Consiglio. Avrebbe preso le veci dei suoi genitori e partecipato alle riunioni e a tutto ciò che riguardava quell'ambiente, condividendo il 100% della sua forza, rendendosi disponibile a tutte le ore, tutto il tempo. Doveva riempire il vuoto che i suoi genitori avevano lasciato. In cambio, Satchel Volk avrebbe mobilitato centinaia e centinaia di sentinelle, diurne e notturne, per tenere al sicuro casa Akawa ed evitare una nuova tragica invasione. Lei non avrebbe più rischiato la vita contro i sicari e sua sorella sarebbe stata al sicuro come lo era sempre stata.

E così, Yuki aveva tenuto fede alla sua promessa: aveva recuperato casa sua.

 

Certo, la casa non era nelle condizioni migliori del mondo, questo era palese; proprio per questo motivo, l'intera servitù e svariati addetti ai lavori – di cui tutti vampiri e demoni – avevano preceduto le sorelle Akawa e si erano diretti alla residenza una settimana prima, per riparare tutti i danni e ricostruire ciò che era andato in polvere.

All'inizio della seconda settimana di riparazioni, i lavori erano quasi alla fine.

Yuki e Ai, mano nella mano e bagagli sottobraccio, avevano varcato la soglia dell'ingresso e si erano fermate ad ammirare il pulviscolo nell'aria, il via vai continuo di persone in divisa che armeggiava con martelli e cacciaviti. Domestiche che spostavano gli oggetti più preziosi per metterli al sicuro dal trambusto dei lavori, Sebastian che orchestrava ognuno di loro alla perfezione. Sebbene la confusione era palpabile e i rumori incessanti, quella era una scena meravigliosa e di estrema sicurezza.

 

Erano tornate. La felicità che avevano provato in quell'istante era stata talmente travolgente da farle quasi piangere.

 

«Un bel pianto sarebbe stata la ciliegina sulla torta».

Yuki sorrise allegramente e si voltò verso la porta spalancata. Tetsuya, il suo caro Tetsu, era appoggiato al muro accanto con la spalla, braccia incrociate e una grande valigia nera al seguito. Dalle sue spalle proveniva la calda luce del giorno e una leggera brezza. Anche lui, come l'amica, aveva un sorriso disegnato sulle labbra. Sembrava felice.

«Tu sarai un bel grattacapo», esclamò l'albina, roteando gli occhi. «Ne sono sicurissima».

«Quella valigia è tutto ciò che hai?», chiese Ai, inclinando la testa di lato.

«Tutti i miei oggetti personali sono qui. E tutto ciò che mi serve», il vampiro le fece l'occhiolino. «ce l'ho davanti agli occhi».

Ai si coprì le guance un po' arrossate con le mani, abbozzando una risatina nervosa, mentre Yuki gli lanciava un'occhiataccia sarcastica. «Sì, ce l'hai davanti agli occhi e anche da qualche altra parte, non molto lontano da qui, vero?».

Tetsuya si staccò dal muro e sciolse le braccia, trascinando la valigia dal manico. Arrivato di fronte alle ragazze, si soffermò a scrutare le impalcature e gli addetti. «Non so di cosa parli».

«Come no. Dai, è decisamente tardi per fare la parte di quello che cade dalle nuvole. L'hanno capito anche i muri quanto adori Takeshi e Yumi».

«Io? Adorare quei due?», ripeté il vampiro, sbattendo le ciglia perplesso.

«Certo, proprio quei due», confermò Yuki, sorridendo con soddisfazione. Ai, la mano ancora incollata a quella della sorella maggiore, inclinò il capo di lato confusa. «Ma a Tetsuya non sono mai piaciuti gli umani».

«Infatti. Non mi piacciono. E sicuramente non li adoro». Tetsuya lanciò un'occhiata, per niente affettuosa, all'amica. Più che altro omicida. «Li tollero, al massimo».

«Ah-ah. Non sapevo tollerassi così tanto Sayumi da portarle la borsa della scuola», l'albina inarcò un sopracciglio, sempre più compiaciuta. «o che addirittura uscissi con Takeshi e lo riaccompagnassi a casa. Cosa che, tra l'altro, hai fatto anche con Sayumi. Anzi, l'hai fatto con tutti tranne che con me... ».

«Perché tu non ne hai bisogno», sibilò il vampiro – ma, alla fine, si arrese con sospiro rassegnato.

 

Già. Vivere nella stessa casa della sua migliore amica sarebbe stato un bel grattacapo.

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

Sayumi sbadigliò vistosamente, coprendosi la bocca con entrambe le mani. Nel corridoio del secondo piano, ad appena pochi passi dalla 2-B, si sentiva un piacevole e concitato chiacchiericcio – il chiacchiericcio tipico del festival culturale, pieno di aspettative, di emozione e di agitazione.
Tuttavia, dal momento che mancavano ancora quattro giorni all'inizio del tanto atteso festival di fine anno, la scuola era ancora relativamente tranquilla. Si poteva trafficare tra i corridoi e le classi senza rischiare di inciampare – su scatoloni, pennarelli, materiali di svariatissimo tipo, e qualche volta persino sugli studenti svenuti dalla stanchezza.


Yuki e Sayumi stavano chiacchierando, attaccate al muro di fronte alla 2-B, e la seconda non faceva che sbadigliare.

«Ore piccole?», commentò Yuki, ridacchiando.

«Ma no! È che il tempo è così piacevole che mi viene sonnolenza... ».

«Ah, allora stai per andare in letargo».

«Mi stai di nuovo dando dell'animale?».

 

L'albina si mise a ridere e riuscì a sfuggire alla spintonata dell'amica con un rapido passo in avanti.

«Ma hai tutte le caratteristiche!».

«Yuki-chan, dacci un taglio!».

 

 

Tornare a scuola era stato bello – decisamente non facile, però; il prof. Okamoto aveva giustamente fatto parecchie domande all'albina, poiché si era assentata per più di una settimana di fila, e Yuki non aveva nessuna intenzione di usare i suoi poteri sull'uomo. Allora aveva, più o meno, spiegato cos'era accaduto in quei giorni, omettendo le parole “vampiro”, “demone”, “assassinio”.
In particolare, era bello stare di nuovo con Sayumi.
L'aveva già rivista la settimana precedente, ma incontrarsi a scuola dava un sapore di normalità alla vita della mezzosangue.

 

«Ehy», esclamò Sayumi. «Ma quel foglio per terra... ».

La ragazza si piegò sulle ginocchia e raccolse un paio di fogli spillati tra di loro. Sulla sommità del primo saltava all'occhio la frase “Attività delle classi del secondo anno”, scritta in carattere massiccio e grassetto.

«Non dovresti raccogliere le cose da terra», osservò la mezzosangue.

«Però questo è interessante. Guarda», disse Sayumi, puntando l'indice sul documento. «c'è scritto praticamente tutto. C'è anche la nostra classe».

Yuki non avrebbe voluto cedere alla curiosità – ma Sayumi sapeva convincerla con poco. Allora l'albina si avvicinò, appoggiando il mento sulla spalla dell'amica. Aveva ragione! Sul foglio erano scritte da un lato tutte le classi e subito accanto l'attività che ognuna avrebbe svolto.
Quando lesse ciò che la 2-B avrebbe fatto per il festival, fece un verso di lamento.

«Yuki-chan, ti avviso: se ti assenti durante il festival, te la farò pagare molto cara».

Sayumi, spostando leggermente il viso, sorrise all'amica.

«... ho capito. Non mi assenterò. Ma ti prego, non guardarmi così».

 

 

La 2-B avrebbe allestito un cafè. Per la precisione, un maid cafè a tema horror. Ragion per cui, i ragazzi si sarebbero impegnati a cucinare e preparare tutto l'occorrente, mentre le ragazze avrebbero servito ai tavoli con indosso dei vestiti... da cameriera. Per il momento, le divise erano ancora un grande punto interrogativo.

«Accanto alla “classe in fondo” non c'è scritto niente», bisbigliò Sayumi. Poi piegò il sottile plico di fogli in due parti, passandoci più volte le dita per schiacciarlo bene. «Perché non andiamo a dare un'occhiata?».

Dal momento che la pausa pranzo era appena cominciata, il tempo per andare a scoprire cosa accadeva in quella classe non mancava. Si incamminarono quindi per l'aula, macinando centimetri senza nemmeno rendersene conto – ma, quando mancavano pochi metri alla destinazione, le due ragazze vennero sorprese da una voce arrabbiata e disperata. Sayumi si spaventò e scattò come un gatto infastidito, nascondendosi alle spalle della mezzosangue. «Ma chi diavolo è?!», disse tra i denti.

«Una persona con una calma d'acciaio», commentò divertita Yuki.

 

A quel punto era curiosa. Ogni buona volontà di farsi gli affari suoi e non impicciarsi in quelli degli altri era andata a farsi benedire. Insieme a Sayumi, si appostò al bordo della porta scorrevole, lasciando spuntare solo gli occhi oltre il bordo.
La “classe in fondo” era irriconoscibile. Se normalmente essa era caotica e disordinata, adesso rappresentava il delirio. Difatti, in quella giornata di scuola, ogni classe era autorizzata a spostare i banchi per cominciare l'allestimento.

Mentre gli studenti sollevavano e muovevano i banchi verso le pareti – sotto la finestra, di fronte alla lavagna, nel fondo dell'aula – al centro dell'aula due ragazze stavano parlando; o per meglio dire, una ragazza con gli occhiali e le trecce stava urlando, mentre la seconda ascoltava senza proferire parola, una sciarpa intorno al collo e profonde occhiaie agli occhi gonfi.

«Sei un IDIOTA!», urlò la prima. «Non ci posso credere. Non ci posso proprio credere. Adesso mi spieghi come ce la sbrighiamo?».

La seconda aprì la bocca per rispondere ma non uscì un singolo suono dalla sua gola. A ben vederla, era molto bella. Aveva un viso delicato e capelli lisci fino alle spalle. Probabilmente senza gli occhi gonfi sarebbe stata anche più carina.

«Okay. Non puoi rispondere, mi sembra chiaro». La ragazza con gli occhiali inarcò le sopracciglia, mani sui fianchi. «Ma adesso tu devi trovare una soluzione. Tu eri la nostra cantante, e cos'hai pensato di fare?», ci fu un attimo di silenzio. Gli altri ragazzi si erano fermati per osservare la scena. «Di perdere la voce! NON CI POSSO CREDERE!».

 

Yuki e Sayumi si scambiarono uno sguardo, con un misto di perplessità e fastidio.

«Che carina», sibilò a bassa voce Sayumi, scatenando piccole risatine nell'altra.

 

All'interno dell'aula, la sfuriata intanto continuava imperterrita. Nonostante gli sguardi dei compagni, la ragazza con gli occhiali non faceva una piega, non tentennava un attimo.
Yuki osservava la scena senza muoversi. I suoi occhi, puntanti sul duo, sembravano foderati da una lastra di vetro.

«Sei inutile!».

All'ennesima strillata, Sayumi storse il naso. «Qualcuno dovrebbe– Yuki-chan?», Sayumi non fece in tempo a concludere la frase che l'amica le era passata di fronte, oscurandole la visuale con la massa di capelli bianchi. «Dove stai andando?!».
Ma ormai, era troppo tardi. Yuki stava già attraversando l'aula.

 

«Mh?», le due ragazze – e tutto il resto della 2-C – si girarono nella sua direzione. La ragazza con le trecce inarcò le sopracciglia, irritata alla vista di Yuki. «Se stai cercando Katugawa, sappi che non è qui. Come al solito!». Ad occhio e croce, avrebbe inveito molto di più su Takeshi, se non avesse avuto paura della reazione dell'albina. Quest'ultima si fermò, ad una certa distanza a loro, e scosse lentamente la testa in segno di negazione.

Poi alzò il mento, con aria di superiorità. «Dovresti davvero darci un taglio».

«Scusami?», sbottò l'altra. «Sono la capoclasse, qui. Non sei nemmeno di questa classe, cosa te ne importa?!».

Sayumi, dietro la porta, spuntò con la testa fuori. «La stai trattando come una criminale! Non è colpa sua se ha perso la voce!».

«Siete brave a fare le paladine della giustizia, voi due. Ma intanto noi siamo senza cantante. Saremo costretti a cambiare tutto il programma per il festival culturale», assottigliò le palpebre, attraverso le spesse lenti degli occhiali. «ed è tutta colpa sua».

 

Beh, sì, era un problema. Ma non abbastanza grave da mettere alla gogna una povera ragazza che, quasi sicuramente, aveva già pianto a sufficienza.
Sayumi abbandonò il suo riparo e si mise sulla soglia dell'aula. «Se cercate bene, troverete qualcun altro che potrà aiutarvi. Chiunque può cantare decentemente una canzone», poi le sfuggì una risatina. «come Yuki-chan, ad esempio!».

«Akawa... ?».

 

La mezzosangue ruotò il busto verso Sayumi, alla sue spalle, e la guardò con una faccia di rimprovero e disappunto. La capoclasse, invece, si era vertiginosamente avvicinata a Yuki, una mano al mento. «Yuki Akawa... ». Sembrava stesse osservando un curioso animale – o il menù di un ristorante. I suoi occhi, prima iracondi, adesso erano concentrati e veloci, spostandosi dalla testa ai piedi dell'albina. Spostò la mano al mento per incrociare le braccia e si sporse verso Yuki, avvicinando il profilo del viso al suo. «Senti un po'».

Yuki si ritrasse leggermente. «Cosa?».

«Canta tu».

«... cosa?», abbozzò un sorrisino. «No».

«Perché no? Cosa ti costa? Dovrai darci solo due minuti e pochi secondi del tuo prezioso tempo». La capoclasse si fece più avanti. «Dato che hai voluto immischiarti, adesso è tua responsabilità».

L'albina strabuzzò gli occhi. «–Che?». Sayumi, che sembrava sul punto di scoppiare in una grassa risata, cercò di intervenire: «Ehy, ma che tipo di progetto dovrebbe essere?»

La ragazza senza voce aprì la bocca per rispondere ma la capoclasse fece un passo di lato e si scostò i capelli sprezzante. «Semplice: la persona più brava a cantare della nostra classe avrebbe tenuto un piccolo ma splendido concerto nell'auditorium della scuola. Questo è quanto».

«E voialtri?».

«Noialtri?», lei sbuffò, facendo una smorfia con le labbra. «Ti sembra che qui, in questa classe, qualcuno abbia voglia di muovere un dito? Siamo in tre, in tutto, ad occuparcene: io, la nostra cantante senza voce e quella che cuce l'abito. Tutto qui. Una gran folla, eh?».

«Ah, davvero... », disse Yuki, alzando un sopracciglio.

«Yamashita non si fa mai vedere, è peggio di Takugawa. Il tuo ragazzo sembra essere troppo occupato per perdere tempo con noi poveri mortali!».

 

Yuki e Sayumi si guardarono, pensando alla stessa cosa – beh, lui non assomigliava per niente ad un comune mortale... «Allora tutto questo lo fate solo per togliervi l'impiccio», fu la conclusione dell'albina.
La capoclasse si corrucciò, ma solo per un istante, perché sia lei che l'ex cantante sapevano che era la verità. «Già! È proprio così! Pertanto», allungò di scatto il braccio, puntando l'indice verso la mezzosangue. «Tu ci aiuterai. Probabilmente non sei neanche intonata ma sicuramente farai bella scena, tanto mi basta per concludere questa rottura di scatole!».

 

Beh, cavolo. Sembrava che Sayumi l'avesse gettata in una fastidiosissima situazione. Tuttavia, bastava tenersi un po' alla larga da quella ragazza per tirarsene fuori, quindi la cosa non sarebbe stata problematica. Lei continuava a parlare e a parlare, come un dittatore sulle folle, e Yuki cominciava a stressarsi. Ad un certo punto, sollevò il palmo destro e lo piazzò in mezzo a loro come uno scudo. «Okay, basta. Spegniti un secondo. Non ho nessuna intenzione di aiutarvi», fece un sorrisino. «quindi arrenditi».

«Ma– !». Ma Yuki si era già voltata, ruotando piedi e busto verso la porta scorrevole, pronta a mettere il turbo pur di svignarsela – ma la sua faccia e il suo povero naso dovettero invece subire un urto. L'albina tentò subito di indietreggiare ma un paio di braccia, solide e familiari, l'avvolsero come un mantello, circondandole le spalle. L'aveva riconosciuto dal profumo della sua camicia. Poi, il contatto fisico, improvviso e gradito, era stato l'incastro finale.

 

«Perché no?». Di fronte all'imbarazzo collettivo e all'emozione delle ragazze della 2-C, Takeshi esibiva comunque un sorriso rilassatissimo e un atteggiamento calmo, come se fosse del tutto a suo agio. Cosa che, e su questo c'erano ben pochi dubbi, era proprio così.

Abbracciare la sua fidanzata di fronte a più di venti persone non rappresentava il minimo impaccio, per Takeshi Katugawa. Specialmente dopo che il loro rapporto era stato ufficializzato.

 

La testa inclinata verso l'albina, una spanna più bassa, lui apriva le labbra in un caldo e smagliante sorriso interessato. «Perché non ci provi?», ripeté, a voce più bassa.

Yuki era stretta da lui come un salame o un sacco di patate. Si contorse, senza rispondere alla domanda, e gli lanciò piuttosto un'occhiataccia. Lui sorrideva e ridacchiava, contento come un bambino, al punto che la mezzosangue cominciò ad indignarsi – a quel punto, si vide costretta ad usare una piccola percentuale del suo potere, riuscendo così a scappare dalla sua presa, scivolando verso il basso. Finalmente libera, sotto gli occhi stupiti di tutti i presenti, scattò verso la porta, afferrò Sayumi per il braccio e schizzò in corridoio, quasi bruciando il pavimento.

Polvere, tende e gonne si erano sollevati di pochi centimetri. La capoclasse e la ragazza senza voce erano tanto perplesse quanto curiose.

 

Takeshi, che ai loro occhi aveva sempre rappresentato il ragazzo più calmo e laconico del mondo, adesso aveva un viso un espressione sorniona e divertita, come se si sentisse sfidato. Le braccia incrociate mollemente al torso, si lasciò andare al muro accanto alla porta.

«Non c'è niente di cui aver paura», disse. «lasciate fare a me».

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 

 

«Ah, Yumi!».

 

Sayumi sbuffò, sospirò, ed infine si girò verso la voce. Takeshi la stava raggiungendo, con una piccola corsetta, di fronte alle scale per il terzo anno; sebbene la pausa pranzo non fosse ancora finita, i corridoi si erano già prevalentemente svuotati, poiché i ragazzi avevano fretta di proseguire i loro lavori. Solo poche persone erano rimaste ad oziare, accanto alle finestre con il sole sul viso, seduti sui gradini a guardare gli altri salire e scendere, starsene raggruppati sui pavimenti delle classe sopra ai pezzi di cartone.

«Le hai dato il colpo di grazia!».

«Cos'è che ho fatto?».

Sayumi abbozzò una risatina. «L'avevo messa in quella situazione io per prima. Poi sei arrivato tu e te ne sei uscito con quella frase, di fronte a tutti... ».

«Ah, adesso capisco», sogghignò il moro, scrollando le spalle. «La solita melodrammatica».

«È stato uno spettacolo divertente».

Takeshi inclinò il capo di lato, un sorriso a mezzaluna. «Sei un'amica spietata, tu. Mi avevi visto entrare e andarle alle spalle, eppure non l'hai avvisata. Anzi, mi hai retto il gioco».

Sayumi alzò il mento e pompò il petto, tutta soddisfatta. «Eheh. Certo. Ogni tanto ha bisogno di qualche punizione oppure crescerà troppo orgogliosa!».

 

Takeshi scosse lentamente il capo, rassegnato. A volte era difficile dirlo, ma Sayumi era davvero una persona attenta; si creava, in pura autonomia, mille e mille paranoie e problemi, ma proprio questa sua tendenza l'aveva fatta diventare un'ottima osservatrice. Sarebbe diventata un'adulta coscienziosa e acuta – ancora più difficile da credere era che Sayumi fosse più grande di Yuki e Takeshi, rispettivamente di otto e due mesi.

«Dov'è adesso?».

«Ci siamo divise. Stava correndo troppo velocemente e sentivo il braccio staccarsi dalla spalla, così le ho detto di andare avanti lei», rispose. Sbuffò, alzando le spalle. «Con la velocità che si ritrova, potrebbe essere a Kyoto, ormai».

Takeshi rise leggermente. «Confortante».

«Alquanto». Sayumi aguzzò un pochino la vista verso il polso sinistro del ragazzo, cinto da un orologio. Gli prese il braccio con entrambe le mani e lo sollevò all'altezza degli occhi. «La pausa pranzo è quasi finita, quindi io rientro, okay? Vai a cercare Yuki-chan, per favore, e dille di tornare in fretta!».

«Eh? Yumi, ma–».

 

Sayumi era già rientrata. Al suo posto, aveva lasciato solo un'ombra. Takeshi gettò un'occhiata al suo orologio da polso. Lui, da quella distanza, vedeva solo qualche linea nera poco distinta. Beh, la sua vista era sempre stata... poco efficace. Ma invece, Sayumi, era riuscita a vedere chiaramente le sottili lancette – infatti, il gesto che aveva fatto poco dopo, non gli era sembrato molto naturale. Ma forse stava pensando a delle sciocchezze.

 

Lasciato in solitudine, il ragazzo tirò un sospiro dal naso, mani ai fianchi. Scostò la sua attenzione verso le scale, alle sue spalle, riflettendo su cosa fare a quel punto; non aveva nessuna voglia di tornare in classe e sorbirsi la vocina nevrotica della capoclasse, né tanto meno voleva gironzolare in eterno per i corridoi.

A ben pensarci, ho parlato troppo presto, pensò, dubbioso, quando gli ho detto di lasciar fare a me...

Si era preso una bella scocciatura. Beh, a questo punto, l'unica opzione rimasta era cercare la sua fuggitiva preferita.

Ma non aveva intenzione di ispezionare tutta la scuola, per trovarla, era decisamente troppo pigro per un compito di quel calibro. Per fortuna, la sua pigrizia lo aveva costretto a sviluppare una mente svelta – perché per cercare soluzioni comode aveva bisogno di pensare parecchio.

 

Infilò la mano nella tasca posteriore dei pantaloni neri, toccando con le dita un rettangolo familiare. Il suo telefono cellulare. Lo estrasse, cercò il suo numero nella rubrica e portò l'apparecchio all'orecchio.

Dopo appena qualche secondo, la voce dell'albina rispose esitante. «Ciao».

«Ehy».

«Perché mi stai chiamando?».

«Perché non ho la più pallida idea di dove trovarti e», tergiversò, ma poi aggiunse: «mi sto annoiando».

«Scusa un attimo. Mi hai chiamata perché ti annoi?».

Takeshi ruotò i piedi verso le scale. Frattanto che pensava ad una risposta che non l'avrebbe portato alla morte, scese rapidamente i gradini verso il piano terra dell'edificio. «No, no. Ero preoccupato per te, a dir il vero. Sei scappata in modo... fulmineo».

«Beh!», esclamò Yuki. A giudicare da come parlava, probabilmente stava cercando di assumere una posizione comoda per stare al telefono. «Per forza! Non capisco che accidenti voglia quella mentecatta della tua capoclasse».

«Saki è... », in fondo alle scale, si guardò intorno, soffermandosi verso la sinistra; in fondo, la porta che dava al giardino era aperta. Lo stesso giardino in cui Yuki era stata rapita da Ryuu e Juri. «... una persona molto– ».

«Ho svariati appellativi per la testa. Dovrei dare voce ai miei pensieri?».

 

Takeshi ridacchiò. Telefono all'orecchio, uscì fuori, nel retro coperto dal prato, e si fermò sui gradini che precedevano l'erba. Il sole batteva sulla sua testa con una certa gentilezza, l'aria cominciava già a farsi calda, e i fiori e gli alberi avevano preso vita.
Quel punto della scuola, in particolare, vantava una rigogliosa vegetazione – come tutta la città, del resto; adesso che erano entrati in primavera, le chiome degli imponenti alberi si erano infoltite e avevano acquisito un fulgido smeraldo.

Takeshi scese gli ultimi due scalini di pietra e si guardò intorno. «Stai parlando con me, quindi... puoi dire quello che vuoi», esaminò le panchine: vuote. Allora, tanto per scrupolo, sollevò il capo, scrutando tra i grossi rami degli alberi. A quel punto sorrise bonariamente. «Che ne dici di scendere?».

«Come accidenti hai fatto a... », ma l'albina, tutto sommato, se lo aspettava. Lui aveva un sesto senso quando si trattava di andare a recuperarla da qualche parte. «Perché non sali tu?».
Sull'albero parallelo al corridoio, a quattro metri di distanza, l'intera chioma verdeggiante era scossa da tremolii. I rami dondolavano, le foglie cascavano a terra, formando un morbido letto sulle radici. Takeshi si spostò verso destra di pochi centimetri, fino a che non riuscì a intravedere un fascio bianco e luminoso, una macchia estranea in mezzo alla natura; Yuki, con la schiena adagiata al tronco e le gambe distese su un robusto ramo, si godeva l'ombra rassicurante ad occhi chiusi, con il telefono all'orecchio destro.

Ben presto però, l'albina sollevò le palpebre e premette il pollice sullo schermo del telefono, chiudendo la chiamata in corso.

«Allora?», esclamò, lanciandogli un'occhiatina di traverso. «Che aspetti?».

«L'agilità non è il mio forte. Passo, grazie», rispose Takeshi, divertito dalle sue esortazioni. «Piuttosto, sei proprio sicura di non voler aiutare la capoclasse?».

 

La mezzosangue si irrigidì, al suono delle sue parole. Riluttante, ruotò il capo verso il ragazzo, molto più in basso rispetto a lei. Certo che era strano parlargli in quel modo.

«Mi piacerebbe molto sentirti cantare».

Roteò gli occhi verso il cielo, indecisa.

«Anzi, ho un'idea. Con questo riuscirò a convincerti». Yuki fece appena in tempo a sentirsi confusa e curiosa poiché, subito dopo che Takeshi ebbe terminato la sua frase, il ragazzo si stava già arrampicando sul ramo più vicino a terra. Con gli occhi strabuzzati dalla sorpresa, lo vide fare un salto e aggrapparsi con le mani, issarsi su con la forza delle braccia e dell'addome e fare lo stesso processo con il prossimo, cioè quello su cui Yuki si era appollaiata – lei ritirò le gambe in fretta e furia, lasciandogli lo spazio per sistemarsi di fronte, con una gamba lasciata a penzoloni.

Una volta su, Takeshi prese un respiro profondo inclinando la testa in avanti, per recuperare dall'affanno di quell'improvvisata. Il bruno sorrise, guardando a quel punto la sua fidanzata – un tantino scioccata – in viso. «Ora sei contenta?».

Yuki aprì la bocca, titubante. «Sì... sì, sono contenta, ma cos'è che ti avrebbe fatto cambiare idea?», chiese infine, sorridendo. «Non mi dire che era questo il tuo piano per convincermi ad aiutare quella sciroccata!».

Takeshi scosse la testa, lentamente, le labbra incurvate verso l'alto. Sulla sua fronte un fascio di luce dorata schiariva i capelli castani e scarmigliati. «No, avevo in mente qualcosa di meglio, per te», il suo sorriso si fece più intenso. In una bella e calda giornata come quella, l'intera figura del bruno sembrava emanare un calore ancora più forte, ancora più avvolgente.

Yuki rimase in silenzio e in attesa, curiosa ma al contempo tesa – fino a ché Takeshi non cominciò a sbottonare il primo bottone della camicia della divisa. Poi aprì anche il secondo, il terzo.

 

La mezzosangue cercava di fissarlo negli occhi, mentre quelli scuri di lui osservavano il movimento delle sue stesse dita, come per assicurarsi di aprirli bene. Al quarto bottone, Takeshi si fermò, scostando il colletto della camicia; con l'indice e il pollice, né tirò i lembi il più possibile, strattonandolo un paio di volte. Infine, guardò Yuki.

«Bevi il mio sangue».

«... come, scusa?».

«Bevi il mio sangue. Voglio che tu lo beva». Takeshi schiuse la bocca, sospirando. «Non posso sfamarti granché, né tanto meno posso farmi mangiare... dalla te stessa demone. Però, almeno, qualche volta posso aiutarti». Sorrise. «E darti sollievo».

 


Yuki sentì il suo battito cardiaco accelerare a dismisura, rumorosamente. Lo sentì riecheggiare nelle orecchie e stordirla come un ultrasuono.
Lei, veramente, non aveva avvertito nessuna fame negli ultimi giorni. L'ultima volta che si era sfamata risaliva ad una settimana fa, quando aveva chiesto a Tetsuya un po' di sangue, dato che era passato parecchio tempo. Chiedersi sangue a vicenda era un'usanza tipica di vampiri e demoni, e i due amici l'avevano sempre fatto, sin da quando avevano imparato ad usare le zanne.

Quindi, lei era in forze. Nessun bruciore le stava corrodendo la gola, nessuna orribile sensazione di deterioramento o di inedia – fino a qualche minuto prima, la mezzosangue non aveva nessun di questi sintomi.
Ma, non appena lui aveva pronunciato quella fatidica frase, i suoi sensi si erano bruscamente risvegliati. Lentamente, Yuki spinse la mano all'altezza delle clavicole del ragazzo, tirando un respiro profondo.

La sola vista della pelle, della carne di Takeshi, bastava a farla star male.

 

 

«Yuki?». La sua voce era lontana. Un suono ovattato e dolce. Attraverso le ciglia, l'albina lo vide avvicinarsi a lei, invadere il suo campo visivo con l'ampio petto. L'attimo dopo, lui la stava abbracciando, stringendola a sé. «Se bevi il mio sangue, devi cantare».

Non stava ascoltando una sola parola. L'orecchio premeva contro il petto del bruno e quella era la cosa più importante. Il sangue scorreva alla velocità della luce, il suo cuore batteva con una cadenza regolare e ritmica.
Probabilmente si stava cacciando in un bel guaio – ma i suoi canini avevano già deciso. Essi crebbero nella sua bocca, facendo soffrire le gengive, e la mandibola si aprì meccanicamente. E poi, le zanne penetrarono nella carne morbida del suo fidanzato – lui trattenne un lamento, cingendole la vita.

Si stava cacciando in bel guaio. La lingua assorbiva il suo sangue, denti tagliavano la carne, la pelle si sporcava.

 

Un bellissimo guaio.

 

 

 

 

 

 

NOTA:
Holy moly. Non voglio neanche andare a guardare a quando risale l'ultima pubblicazione, sennò mi sento male– signori, eccoci qui, con il capitolo 27. Ma quanto è lungo questo atto??? Mannaggia???

Ma andiamo con ordine. Il mio periodi di esami è finito – olè, sono diplomata e contenta – e posso dedicarmi a Vampire Devil e finirlo. Penso di potervi premettere una pubblicazione regolare!

Inoltre, parlando di altre cose importanti, voglio ringraziare tantissimo warm yellow per tutte le recensioni che mi lascia ogni volta ( <3 ) e Lottie, la mia kohai super precious, perché è sempre così cute e interessata. ;;

Adesso corro a editare i prossimi capitoli. Adios.

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Capitolo 28
*** Una creatura canterina. ***


28.



L'unico liceo esistente nello sperduto e verdeggiante paese di Yoshino era addobbato a festa, dal cancello di ferro fino al terrazzo in cima all'edificio. L'entrata della scuola era gremita fino all'orlo, dai visitatori – famigliole insieme ai figli, ragazzi in visita alla scuola, nonni curiosi – agli studenti che facevano parte dei club e che cercavano di farsi notare il più possibile con manifesti e fogli pieni di scritte colorate. Man mano che si superava il cancello e si entrava nell'atrio in selciato, si incappava subito in bancarelle da entrambi i lati, profumi di cibo e dolciumi, oggetti realizzati a mano, una sorta di ruota della fortuna, un tiro al bersaglio, una pesca. Le bancarelle si estendevano fino alla parte più in fondo, sulla sinistra, che sfociava nel giardino che abbracciava la scuola.

 

Spostandoci alla segreteria, c'era sempre la solita donna, ma non annoiata e scocciata come tutti gli altri giorni. Per una volta, la donna era indaffarata ed energica, si girava da tutte le parti per dare indicazioni, per ascoltare le domande dei visitatori.
Allora la maggior parte delle persone seguiva le indicazioni della donna e si dirigeva alla prima rampa di scale, decorate da nastri azzurri e ciliegia, e quando raggiungeva la cima si immergeva improvvisamente nella frenesia.

Voci su voci, rumori e suoni, studenti in giro per i corridoi con dubbi costumi da animale.

 

Tutte le classi erano assorbite dal caos e dalla frenesia – la 2-B non era da meno. Ti bastava svoltare a destra, non appena entrati sul piano, per incrociare all'esterno un ragazzo in divisa scolastica con dei fogli in mano e, accanto, una ragazza... in divisa da cameriera, nera e bianca, mentre accoglieva i potenziali clienti all'interno della classe. L'esterno della classe spiegava chiaramente l'idea: un maid cafè, a tema halloween, con tanto di menù affisso alla porte e striscione appeso all'architrave.

Dentro la 2-B si apriva tutto un ambiente decorato, con tavolini circolari a due posti, tovaglie nere macchiate di rosso e candele a fare da centrotavola. Alle finestre pendevano pesanti tende rosso scarlatto e sul fondo della stanza un grosso telo nascondeva la cucina allestita alla bell'e e meglio dagli alunni, di cui si occupavano prevalentemente i ragazzi – mentre le ragazze servivano ai tavoli.

 

E proprio lì, nell'angusta e aromatica cucina, dopo aver cacciato i “cuochi”, Yuki Akawa e Sayumi Ichinomiya stavano litigando con i loro costumi.

«Ma questo coso dove dovrei metterlo?», disse Yuki, esasperata. «Non capisco. Ma chi li ha fatti, questi vestiti? Un cieco?».

«Sembra il fiocco che va sulla schiena... ah, no, è una spallina», Sayumi, che le dava le spalle, girò il viso per aguzzare la vista. «Infila il braccio sinistro. Ecco, brava, adesso trova il pezzo uguale, così infili anche il braccio destr- no, quello è il fiocco che ti dicevo».

Yuki era molto vicina a strappare l'abito. L'idea in sé – travestirsi da cameriere, ma a tema horror – era anche gradevole, e tutti ne erano stati felici. Okay. Ma i vestiti erano un tantinello difficili da indossare, specialmente le decorazioni da “mostro”.

«Et voilà!». Sayumi tirò il bordo merlettato della gonna, si aggiustò il fiocco sulla schiena e si voltò verso l'albina, tutta trionfante, pugni sui fianchi. «Carino, no?», esclamò.

 

Sulla testa di Sayumi Ichinomiya campeggiavano un paio di piccole corna rosa scuro, quasi carminio, mentre nei pressi del bacino una lunga coda dello stesso colore si adagiava sul tessuto nero della gonna. La divisa, altrimenti tutta nera, aveva sul fronte uno striminzito grembiule bianco; le maniche corte a sbuffo fasciavano un pezzo di spalla, mentre lo scollo a barca lasciava scoperte le clavicole. Per finire, alle mani piccoli guanti neri e sotto le calze e gli stivali della divisa scolastica.

Yuki fece una smorfia sofferente. «Tu sei carina». Avrebbe tanto voluto prolungarsi in qualche lamentela. Ma Sayumi sembrava allegra e felice, quindi, per una volta, si cucì la bocca.

 

«Oh, davvero? Grazie... », Sayumi si portò le mani al viso, meravigliata, e un principio di rossore sulle guance. «Devo ammettere che la classe si è impegnata per il cafè. Stento a crederci».

«Si sono impegnati anche troppo», l'albina piegò le braccia dietro la schiena, allacciando la stoffa sul retro. «A parte il fatto che di horror non c'è granché. A chi dovresti far paura, tu?».

Sayumi ridacchiò. Avvicinò le mani a quelle dell'amica, scacciandole con gentilezza. Afferrò i lembi che cintavano la vita dell'albina e li annodò dietro. «Sarei una sorta di diavolo. Se solo sapessero che demoni e affini non sono così adorabili e innocenti!», la ragazza accennò un sospiro rassegnato. «Nessuno avrebbe più voglia di festeggiare halloween».

Yuki si torse il gomito del braccio, guardando un punto sul pavimento. «Per te è così?».

«In un certo senso», Sayumi sorrise. Il fiocco era bello e dritto. «Non mi metterò a fare il vampiro, il demone o la strega di mia iniziativa. Ma nessuno mi toglierà la gioia di strafogare dolci fino a sentirmi male».

La mezzosangue rise di gusto – che stupida – almeno fin quando la tenda non venne aperta da un paio di mani e una ragazza della 2-B non fece la sua apparizione, spuntando con la testa zombificata nella cucina. «Siete pronte? Abbiamo bisogno di una mano», disse, con la pelle dipinta di un verde menta.

«Sì, siamo pronte», rispose Sayumi. La mezzosangue annuì. Si diede un'ultima aggiustata alla bendatura intorno al collo, macchiata di un vistoso rosso sangue.

«Akawa, ricordati i denti finti».

Yuki le aveva già rivolto la schiena. «Ah-ah».

 

I “denti finti” consistevano in un paio di prolungamenti per canini, chiusi nella loro scatoletta.

Due giorni prima l'inizio del festival culturale, la classe aveva tenuto un'assemblea per assegnarsi i ruoli. Sayumi, a causa dei suoi particolari capelli rosa, si era ritrovata nei panni di un diavolo – se così vogliamo chiamarlo – mentre a Yuki, dato che era bianca come un lenzuolo, era stato affibbiato il ruolo del vampiro. Non era nemmeno tanto strano o ironico. Tutto del suo aspetto faceva pensare ad un vampiro. Non ad un demone, secondo i criteri dell'essere umano standard, ma per Yuki era quasi un complimento.


«Yuki-chan», bisbigliò Sayumi.

La mezzosangue si voltò. Dalle sue labbra spuntavano i suoi canini, affilati – adamantine pura. «Sono pronta», sorrise, prima a Sayumi e poi alla ragazza. «Certo che sono un po' scomodi questi affari».

«In effetti», osservò la ragazza. «Se non li sopporti, toglili pure. La tua presenza... basta e avanza, per i clienti».

 

Yuki aprì la bocca per ribattere – quell'affermazione non le era piaciuta –, ma la ragazza aveva già scostato la tenda, scoprendo l'interno dell'aula, tutta addobbata.
Le ragazze gironzolavano da tutte le parti, prima chiacchierando con i clienti, dopo trascrivendo gli ordini su un blocco per appunti. Una mummia, un altro zombie, un licantropo, una strega, il mostro di Frankenstain.

Era chiaro che il progetto fosse semplicemente il frutto dei desideri dei ragazzi e delle ragazze, e non un'idea pensata e congegnata. Ma, nei festival culturali, il più delle volte funzionava così. E Yuki e Sayumi, mentre si guardavano intorno, non se la sentirono di biasimarli.

 

 

«Akawa e Ichinomiya, andate a servire i tavoli 5 e 3», disse la ragazza di poco prima, indicando i due tavoli, il primo alla finestra di fronte alla lavagna e il secondo nel centro della stanza.

Yuki e Sayumi si scambiarono un'occhiata per niente sicura. Non volevano separarsi. Tuttavia, il lavoro era lavoro. Allora entrambe annuirono e si incamminarono verso le direzioni a passo spedito.
Per fortuna, tra un tavolo e l'altro avevano calcolato bene gli spazi, e così non rischiavano di buttare giù i bicchieri degli altri clienti ogni volta che facevano un passo.
L'albina raggiunse il posto accanto alla finestra; seduti l'uno accanto all'altro, a chiacchierare amabilmente, vi trovò un uomo e una donna intorno alla quarantina. Sorridevano e ridacchiavano, a malapena fecero caso alla presenza della ragazza.

Yuki si schiarì la voce, più che altro per cercare un po' di buone maniere dentro di sé.

«Salve, benvenuti nel cafè della 2-B», esordì. Sulle labbra si aprì un sorriso poco riuscito. «Volete ordinare qualcosa?».

«Ah!», esclamò la donna. «Scusami, speravamo di incontrare nostra figlia. Non mi dispiacerebbe per niente farmi servire da lei, per una volta!».

L'uomo accanto – il marito – si mise a ridere, giovialmente. «Dal momento che a casa non fa mai niente, vero?». Poi l'uomo spostò gli occhi su Yuki. «Nostra figlia si chiama Suzuki. Per caso l'hai vista?».

«Suzuki, dite... ?». Ah, se solo avesse mai imparato i nomi dei suoi cognomi, avrebbe potuto rispondere. Fu tentata di girare i tacchi ed andarsene, ma cercò di sforzarsi a ricordare. Se non andava errato, era quella ragazza con i capelli corti e scuri che andava molto bene in giapponese... giusto? «Non saprei dire. È appena iniziato il mio turno, quindi non ho potuto prestare attenzione alle mie compagne. Però, se non la vedete in giro, probabilmente è in pausa... ».

 

La coppia ci mise un po' a staccarsi dall'argomento “figlia scomparsa”. Solo dopo cinque minuti abbondanti – ormai Yuki aveva perso qualsiasi voglia di ascoltare – i due si decisero ad ordinare e l'albina poté finalmente allontanarsi alla cucina. Lasciò l'ordine ad uno dei ragazzi e richiuse la tenda, tirando un sospiro di sollievo – il primo ordine era fatto.

Apparentemente, non stavano riscontrando nessun problema. Le ragazze, Sayumi compresa, riuscivano a giostrarsi tra i clienti facilmente, ed erano contente di indossare quei vestiti carini.

 

Poi, mentre la mezzosangue era di spalle, in attesa dei piatti da servire alla coppia, il mormorio all'interno della classe si levò notevolmente. Quelle che prima erano voci allegre ma moderate, ben presto si tramutarono in versi di sorpresa e meraviglia.
Persino una come lei, che normalmente si teneva alla larga dal rumore, non poté fare a meno di chiedersi cosa accidenti stesse accadendo. Quindi, si voltò.

 

E capì all'istante.

Apparsi sulla soglia della porta, l'uno accanto all'altro – più simili che mai a statue greche – Takeshi e Tetsuya si scambiavano qualche parola fra di loro mentre con gli occhi ispezionavano l'interno dell'improvvisato cafè; il primo indossava l'uniforme scolastica, le maniche della camicia bianca arrotolate fino al gomito, l'orlo nei pantaloni neri un po' disordinato, i capelli arruffati. Il secondo aveva abiti civili di tutti i giorni, una camicia blu scuro e dei jeans neri alle lunghe gambe, impeccabile come un dipinto.

Yuki si tirò giù la gonna con le mani, quasi in maniera compulsiva – mentre Sayumi reagì come un gatto accecato dai fari di una macchina.

 

 

«Ragazzi!», esclamò Sayumi, abbandonando il suo cliente e raggiungendo i due ragazzi all'entrata della classe. «Che bella sorpresa!».

«Interessante costume», commentarono entrambi, all'unisono.

Takeshi abbozzò una risatina, indicando le piccola corna sul capo rosa. «Chi diavolo ha pensato ai costumi?».

Sayumi si toccò i capelli con le mani, nascondendo l'accessorio con le dita, un po' imbarazzata.

«Ci hanno pensato le ragazze della classe», rispose. «Noi ci siamo limitate solo ad indossarli. Non è stata una nostra idea!».

«Quindi Yuki ha un vestito come questo?», Tetsuya sorrise. Aveva tutta l'aria di volerla prendere in giro per un secolo. Il vampiro staccò lo sguardo dall'amica, scrutando lungo tutta la stanza. «Ah, eccola».

Yuki era ancora di fronte alla cucina, picchiettando il piede sul pavimento, e aveva fatto tornare normali i canini. Era di spalle, quindi – a rigor di logica – lei avrebbe dovuto essere ignara della presenza dei due ragazzi. Ma Tetsuya aveva motivo di dubitarne.

 

«Allora!», esclamò Sayumi. «Venite a sedervi e ordinate qualcosa!».

«Volentieri», disse Takeshi. Poi il moro tirò un lembo della manica di Tetsuya, attirando la sua attenzione. «Entriamo, intanto. Sicuramente Yuki verrà a salutarci».

Il vampiro si voltò. «Non posso perdere quest'occasione».

Takeshi si mise a ridere, mentre Sayumi li scortava al primo tavolo libero, proprio alla sinistra della porta, ad un tavolino con due posti a sedere. Adesso tutta la classe era piena.

 

«Bene, bene», Sayumi, blocco per gli appunti nella mano sinistra e penna nella destra, si rivolse al biondo. «Com'è il festival culturale di noi comuni mortali?».

Tetsuya, quieto, fece scorrere le fredde iridi ametista tutto intorno a sé, come se lo stesse analizzando in quel momento. «Beh, non c'è male. Takeshi mi ha trascinato di qua e di là, quindi qualcosa l'ho vista. La maggior parte dei progetti sono per puro scopo intrattenitivo, a quanto vedo».

«Vuoi dire che la maggior parte delle classi ha pensato al divertimento e basta?».

«Giustappunto».

Sayumi roteò gli occhi. Quando faceva così, lei stentava a sopportarlo. Il suo lato aristocratico balzava fuori così, all'improvviso, e la personalità del vampiro diventava ancora più seria e precisa. Ma allo stesso tempo era divertente quel cambio d'identità. «Okay, e cosa volete provare, del menù?».

«Ah, io prendo una bibita fredda, a tua scelta», disse frettolosamente il bruno. Si alzò dalla sedia, dopo nemmeno un minuto, e diede una pacca sulla spalla all'amica. «Vado a braccare Yuki. Ho appena ricordato che mi era stato dato un compito».

Sayumi cercò di fermarlo, obiettando che stava rovinando il suo compito come “maid”. «È difficile essere carina e socievole con un elemento come te», borbottò, rivolgendosi all'ormai lontano Takeshi.

«Quante storie. Tornerà nel giro di cinque minuti, suvvia».

«Okay, ho capito. Nel frattempo, hai deciso cosa vuoi ordinare?».

«Ah, già. Bene, allora pren– ».

«Mi scusi, signorina!».

 

 

Tetsuya e Sayumi si guardarono, complici della medesima esasperazione. Lei ci aggiunse un gesto di scuse, congiungendo le mani con i palmi, e lui le rispose con un veloce sospiro.

«Mi dica!», rispose Sayumi, ruotando i piedi verso il tavolo accanto, dando le spalle all'amico vampiro. «Ha bisogno?».

 

 

Bene, avrebbe aspettato. Non è che avesse fretta, comunque. Mentre Takeshi parlava con Yuki e Sayumi era impegnata con l'altro cliente, lui ne approfittava per chiudere gli occhi e riposarli da tutta la luce che stava sopportando – dall'inizio di quella mattinata.

Dopo che li ebbe chiusi, però, dovette riaprirli. Gli era sembrato di aver visto... qualcosa...

 

Mh?, di fronte al placido sguardo del vampiro c'era davvvero qualcosa... qualcosa che si muoveva. Movimenti leggerissimi, appena accennati, ma era proprio lì: una coda. Una coda rossa. Sì, gli era sembrato giusto. Come aveva fatto a non notarla prima?

Perché Sayumi ha una coda?, pensò Tetsuya. Sul suo viso non ci fu nessun cambiamento. Si limitò ad osservarla mentre oscillava ogni volta che Sayumi spostava il peso da una gamba all'altra oppure quando si piegava un po' avanti. Poi il suo sguardo salì verso la schiena della ragazza e lì, accanto, incontrò il viso del cliente di fronte a lei, il suo sorriso tutto contento e soddisfatto.

Solo a quel punto, le labbra del biondo si piegarono, impercettibili, e gli occhi si affilarono come lame.

 

«Un tè al gelsomino, è tutto? Allora arrivo subi– toh!». Sayumi fece un saltello, lì, sul posto – okay, a meno che non avesse le allucinazioni, e su questo non aveva nessun dubbio, la sua coda era stata tirata da qualcuno. Alle sue spalle non era passato nessuno, e anche di questo ne era certa.
Girò lentamente la testa dietro di sé, per fulminare il colpevole. Tetsuya stava con le braccia incrociate, gli occhi chiusi, quasi in meditazione. Sembrava che non avesse mosso un muscolo.

Sì, come no.


«Tutto bene?», chiese il cliente, confuso, richiamando l'attenzione della ragazza.

«Ah- sì, sì, tutto okay! Allora, arrivo subito con il suo tè». Sayumi abbozzò un sorrisetto tirato, fece un cenno con la testa e si volse verso Tetsuya.

 

Quello stupido cretino. Quello stupido cretino di un vampiro.
Il sorriso si fece più tirato, molto sarcastico. «Sarà meglio andare a consegnare quest'ordine in cucina», disse, alzando un po' il tono – e le sopracciglia, al contempo.

Tetsuya aprì un occhio, poi l'altro. «Veramente, volevo ordinare anch'io».

«Mh?», Sayumi alzò lo sguardo, guardandosi intorno, teatralmente. «Strano. Mi è sembrato di sentire una voce. Boh, sarà la mia immaginazione». Cercava di essere il più scontrosa possibile. Se lo meritava.
A quel punto, la ragazza ruotò i piedi un'altra volta, muovendo il sinistro in avanti per camminare – ma appena accennò quel movimento, Sayumi si sentì afferrare il polso, stavolta, una leggera presa. «Voglio ordinare», ripeté il vampiro.

Sayumi si bloccò. Come un gufo, mulinò il collo, e lo fissò con una smorfia indispettita. «Non te lo meriti», ribatté. «Sei dispettoso peggio di un bambino».

«Non so di cosa stai parlando. Non volevo fare un dispetto», spostò un po' lo sguardo, aprendo lievemente gli occhi. Il rumore all'esterno e il vociare all'interno creavano un'orchestra di suoni a lui sconosciuta, ma piacevole. «Ma quell'uomo... ».

«Uomo? Che uomo?».

«Ti stava fissando un po' troppo».

«Ma di chi stai parlando?», ripeté Sayumi, per poi abbandonarsi ad uno sbuffo. «Senti, ti faccio preparare un caffè, okay?», e detto questo, si liberò con uno strattone, senza impiegarci granché forza. Tetsuya non aveva tentato di bloccarla ancora.

La ragazza lo guardò un'ultima volta, spaesata e dubbiosa, ma alla fine si incamminò verso la cucina con l'ordine del suo amico.

 

 

 

Dall'altra parte della classe, Yuki stava raccogliendo da un tavolino due bicchieri di vetro, impilandoli uno sopra l'altro come meglio poteva. Straordinariamente, non aveva ancora rotto niente. Anzi, era quasi brava. Lei per prima non se lo sarebbe mai aspettata, dal momento che non aveva mai fatto nulla del genere, almeno fino a quando non aveva conosciuto la donna di nome Misaki.

Tuttavia, il suo operato era compromesso dalla figura – un po' incombente – del suo ragazzo, che le stava accanto come un'ombra.

«Take».

«Sì?».

«La pianti?».

«Tra poco». Il ragazzo si illuminò in un sorriso. La donna seduta al tavolo accanto lo osservò con la coda dell'occhio. «Non mi sono ancora stufato di vederti lavorare vestita in quel modo».

Per l'ennesima volta, la mezzosangue desiderò molti centimetri in più per la sua gonna. Le guance si colorarono improvvisamente, il suo viso sembrò diventare umano per un istante. «Smettila. Così non mi concentro!», borbottò, mentre gli dava le spalle e si avvicinava alla tenda. «Non dovresti aiutare la tua classe?».

«E a far che? Conosci il programma della rappresentante. Noialtri non possiamo fare proprio un bel niente», Takeshi si chiuse nelle spalle, come se la cosa non gli riguardasse. «Oh», aggiunse subito dopo. «a dir il vero, qualcosa devo farla».

«Ah, perfetto!».

«Dovevo venire da te».

«... eh», Yuki sorrise. «Mi fa piacere vederti».

«Anche a me. Però, quello che intendevo, è che dovevo venire ad avvisarti che tra un'ora e mezza devi essere da noi».

 

 

 

 

***

 

 

 

 

Un vampiro, a pochi metri dall'uomo, ringhiava sommessamente. Sembrava trattenersi solo per rispetto. Lo seguiva, emettendo quei rauchi versi che avevano tanto di animale e ben poco di persona, tenendo gli occhi scarlatti sulla sua ampia schiena mentre attraversava il bosco – lentamente.

 

Alyon si fermò, calpestando un gruppetto di viole. Sollevò la fronte verso il cielo, luminoso come non mai, coperto dalle fronde degli alberi, e corrugò le sopracciglia fino a formare un solco.
Avrebbe preferito di gran lunga incamminarsi durante la notte. Sarebbe stato meno doloroso e loro avrebbero conservato molte più forze. Nondimeno, non poteva nemmeno sperare di passare una notte e una mattina nel centro di quella città, sarebbe stato un gesto suicida – era tempo aggiunto, e loro non potevano permetterselo.
Alyon aveva pensato ad un piano preciso. Il suo piano sarebbe stato preciso, almeno fino ad un certo punto, poiché sopraggiunti al culmine avrebbe dovuto abolire l'ordine – a favore del caos.

 

Lui aveva atteso, pazientemente. Il momento giusto era un punto focale. Ed eccolo. Era giunto.

Era tra le sue mani.

 

Per la seconda volta da quando aveva lasciato la casa della sua infanzia, Alyon Hendrik Akawa si voltò – e a quel punto, vide i suoi seguaci. I centinaia di vampiri e demoni avanzare, ineluttabilmente.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

 


Fuori dal dietro le quinte, oltre il pesante drappo di velluto rosso, al di là del palcoscenico in parquet, si poteva udire un continuo parlottio trepidante. C'erano talmente tante voci, unite e intrecciate, che era quasi impossibile distinguere una frase, persino per una creatura non umana come lei.
Erano appena trascorsi quindici minuti. In cinque minuti, il professore Okamoto e la rappresentante l'avevano spedita come un pacchetto postale nel retroscena, nascosta dal sipario. Altri cinque minuti dopo, ne aveva approfittato per guardarsi allo specchio, controllare che fosse tutto in ordine.
I cinque ed ultimi minuti, l'albina ancora non si era calmata. In tutto quel tempo, non aveva posato il microfono nemmeno una volta, ben stretto tra le mani, come se da esso dipendesse la sua vita.

 

Yuki respirò profondamente. Si girò, individuando la sedia con il morbido cuscinetto, e si sedette.

 

Il dietro le quinte dell'auditorium era particolarmente antico – tuttavia, ben tenuto; si trattava di una lunga stanza, polverosa e scricchiolante, con una notevole quantità di oggetti. Non appena si entrava, dopo tre gradini, sulla destra c'era una specchiera con una poltrona. A pochi metri da quel punto, sorgevano svariati appendiabiti e costumi appesi, una decina di sedie in disuso, materiali per il club di teatro e materiali per pitturare o dipingere.
Accatastati su delle scatole di cartone, grossi pezzi di stoffa di colore scuro e poi, tra tutto, un'ingombrante testa di leone – la ragazza aggrottò la fronte, osservando la testa scetticamente.

 

Spero di ricordare la canzone fino alla fine, pensò, non era complicata, ma ho fatto poca pratica.

 


E poi c'era il vestito. La rappresentante voleva fare le cose in grande.

Bianco, perché doveva intonarsi ai suoi capelli; lungo, con le maniche svasate fino alle nocche, coperte da corti guanti neri, e lo scollo a barca che metteva in risalto lo scarlatto girocollo di raso. La gonna del vestito scendeva dolcemente fino al pavimento, appena plissettata, e la sua cucitura divideva la parte superiore da quella inferiore.

Seduta su quella sedia, circondata da una leggerissima coltre di polvere, Yuki giocherellava con i lembi del suo vestito.

 

«Chissà se c'è tanta gente?», si disse, spostando lo sguardo verso il drappo rosso. «A giudicare dalle voci, sembra proprio... di sì». Deglutì. La cosa non la rassicurava per niente. Si alzò dalla sedia, lentamente, facendo attenzione a non sgualcire l'orlo vicino al tacco delle scarpe, e si avvicinò alla fine del sipario, sul lato sinistro. Infilando la mano destra, spostò appena il pesante tessuto, e lasciò spuntare solo gli occhi oltre il bordo.

«Per l'appunto», bisbigliò, mordendosi il labbro.

 

C'era decisamente tanta gente! I posti a sedere erano tutti occupati; l'auditorium non spiccava per ampiezza e aveva a disposizione solo dieci file da cinque sedili l'una. Per questo, molte persone si erano felicemente adattate, occupando le pareti in fondo o quelle ai lati – oppure, qualche furbo, stava condividendo un singolo sedile con un'altra persone.

E poi, guardando un po' dappertutto... vide i suoi amici. In realtà era logico che sarebbero venuti.

 

Eppure, vedere Takeshi, Sayumi e Tetsuya seduti in mezzo al pubblico – se così poteva chiamarlo – le stringeva lo stomaco. Occupavano la prima fila, sul lato destro, e stavano chiacchierando tra di loro, spensieratamente. C'era Sayumi che rideva, con indosso la divisa adesso. Takeshi sorrideva, punzecchiandole la guancia e poi Tetsuya, che ogni tanto sogghignava, un po' di nascosto.

L'albina li guardava. Il nodo allo stomaco era diventato un calore – un calore che si era velocemente espanso per tutto il corpo. Loro erano lì.

 

Si sentiva un po' più calma. Allo stesso tempo, era rassicurante vedere che in fondo, accanto alla porta d'uscita, le persone erano un po' di meno, forse per facilitare entrate ed uscite. C'erano svariati studenti, tutti allegri, ma in mezzo a tutti gli adolescenti spiccava un adulto. Il suo primo pensiero fu il peggiore – nemico, pensò all'istante, senza il minimo dubbio.
Quella reazione però, era abbastanza per farle capire quanto fosse diventata paranoica nel corso di quegli anni. Con la guardia perennemente alta, sempre sul chi va là... non c'era da sorprendersi se non aveva mai costruito amicizie prima di Sayumi, soprattutto tra gli umani.

 

«Akawa!».

Per lo spavento, la mezzosangue fu sul punto di sferrare un calcio alla rappresentante, apparsa alle sue spalle. Le aveva preso il polso e l'aveva tirata via dal sipario, costringendola a rientrare nel retroscena.

Saki si aggiustò gli occhiali sul naso, le sopracciglia inarcate sugli occhi severi. «Ma ti sembra il caso? Vuoi rovinare tutto il nostro lavoro proprio ora?».

Yuki si divincolò facilmente, annodando le braccia. «Guarda che se mi vedono non succede assolutamente niente. Non sono il papa, lo sai?».

«Lo so. Decisamente non sei il papa. Ma!», puntò i pugni suoi fianchi. «Qui c'è tutto un effetto sorpresa. Pochissimi sanno che sarai tu ad uscire su quel palco. Quindi, stai buona e aspetta!».

Aspetterò tutto il tempo del mondo, purché tu stia zitta, Yuki roteò gli occhi, mordendosi la lingua dentro la bocca.

 

«Ehy, senti– », la rappresentante era sul punto di fare l'ennesimo ammonimento all'albina ma, proprio in quel momento, il professor Okamoto aveva cominciato il discorso d'apertura del festival culturale.

 

Il microfono fece un po' i capricci, producendo suoni inizialmente distorti.

«Benvenuti a tutti», esordì Yamato Okamoto, la voce amplificata. «A tutti i genitori e i parenti e a voi ragazzi, protagonisti del nostro 18° festival culturale». Uno scrosciare di applausi interruppe il professore per qualche istante, fino a ché gradualmente non tornò il silenzio. Okamoto riprese parola: «Come ogni anno, il mio compito è quello di aprire questo importante evento con il primo progetto, realizzato dai vostri ragazzi. E quest'oggi, nel primo giorno di questo festival... », l'uomo si voltò di pochi centimetri, indicando il centro del palco, verso il sipario. «... è la classe 2-C a dare il via alle danze!».

 




Le luci si abbassarono. Tra le stracolme file del pubblico piombò una penombra, fitta e graduale, in grado di celare i volti di ognuno di loro, nascondendo le loro espressioni.
I faretti posti sul parquet del palco si accesero, uno alla volta, come le prime stelle in cielo; quando tutte furono attive, il palco si era riempito di piena luce, dall'alto, dal basso e tutto attorno – poi, lentamente, la luce si abbassò di poco.

 

Il sipario si aprì, separandosi al centro, e Yuki era proprio lì. Immobile e in attesa, tra le mani il microfono, il viso reclinato verso il basso – le palpebre schiuse.

C'era silenzio.

Yuki sentiva i loro battiti. Lo scorrere del sangue, il respiro regolare e leggero. Quando si spostò da quel punto del pavimento e cominciò a camminare verso il centro del palcoscenico, la gente l'accolse con una nuova cascata di applausi e tanti, svariati mormorii sorpresi – da quel punto, lei sollevò il mento e guardò di fronte a sé.

Gli occhi ricaddero sui suoi amici e accennò un sorriso.

 


Le prime note di Memories* riempirono tutta la sala come un dolce abbraccio. Il suono di un pianoforte segnarono il suo inizio, soave e puro – fino a ché Yuki non aprì le labbra e cominciò a cantare.

«You, rest inside my mind

Since the day you came

I knew you would be with me

All the time we spent

What we shared was surely

Warm enough to know you cared for me»

 

Stava cantando. Aveva dimenticato quanto fosse bello. Quanto le piacesse e la facesse sentire leggera come una piuma. Di fronte a tutte quelle persone, in un piccolo auditorium qualunque, accompagnata dalla musica di un pianoforte – cantava le parole di una canzone.

Non avrebbe mai smesso. Se avesse potuto, non avrebbe mai smesso di cantare di fronte a quelle persone. In quella scuola, in quella città – di fronte ai suoi amici, fino a ché le forze non l'avessero abbandonata.

Aveva dimenticato quanto fosse bello.

 

«Light floods through memories

Helps me walk my path

I'll keep my head up high

Words of fate and love

Your strength gives me hope

Someday I'll find you with open arms»

 

Le ultime note sembrarono aggrapparsi più forte possibile ad “arms”, per poi lasciarsi andare e dissolversi, continuare a dissolversi, fino a sparire. Ritornò il silenzio.

Yuki trasse un profondo respiro, strozzato e irregolare, allontanando il microfono dalle labbra. Il suo petto non riusciva a stare fermo e le mani tremavano. La musica era sparita completamente.

 

Nella prima fila, sulla destra, qualcuno cominciò a battere le mani. Yuki guardò quel punto, guardò Takeshi e le sue dita. Poi Sayumi e Tetsuya si unirono a lui. Subito dopo, tutto il lato destro, infine, anche il lato sinistro.

«BRAVA!». L'applauso era così forte da stordirla. Le voci rumorose ed emozionate.

 

 

Poi, dal soffitto sopra le loro teste, un forte tonfo smorzò l'allegria come il colpo di un boa. Tutti piombarono nel silenzio. Quel tonfo fu seguito da un secondo, ancora più violento, che rimbombò come una maledizione. 
 

E al terzo, orribile colpo, il soffitto fu disegnato da lunghe crepe e una grande voragine si aprì, in corrispondenza del palco. Yuki sollevò il volto e lì, da quella voragine, occhi scarlatti e denti acuminati spuntarono come voraci fiere.








* Memories: una bellissima canzone di Frances Maya, vi invito ad ascoltarla durante la lettura. </3  
https://www.youtube.com/watch?v=CS8DVxxQMpY

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Capitolo 29
*** Una triste fiaba. ***


29.

 

 

Quando quella porzione di tetto dell'auditorium venne perforata e poi successivamente aperta in un buco, la folla esplose in un vociare incredulo. Successivamente, grossi detriti caddero a picco sul palco, incassandosi nel pavimento come una meteora, mentre miriadi di sassolini e una tonnellata di polvere schizzavano verso la platea, ad un pelo dalle persone sedute in prima fila.
Trascorsero interminabili momenti di confusione. Solo dopo un po' la situazione parve assestarsi e le voci, agitate e nervose, si calmarono. Gli studenti e i parenti si alzarono in piedi, squadrando il soffitto, da cui ora penetrava un'ampia fascia di calda luce diurna.

 

«Ma cosa... ?».

«Fa parte dello spettacolo, vero?».

«Il tetto è... no, non può essere una cosa organizzata».

«Chi mai approverebbe una cosa del genere?».

 

Yuki, a pochi metri di distanza dai detriti ammucchiati sul palco, abbassò le braccia con cui si era riparata il viso. «Ma che diavolo... », quando ebbe la visuale libera, emulò lo stesso gesto di tutti gli altri, e guardò in alto, verso la nuova fonte di luce. Spalancò gli occhi, incredula.

 

Adesso che nessuno urlava e c'era solo un brusio agitato, si sentivano dei passi. Tap, tap. Qualcuno camminava sul tetto della scuola. Ad un certo punto, comparve la suola di una scarpa, sul bordo frastagliato della voragine, seguita da una gamba, da un torso e infine da un viso, coperto da una fitta ombra. Nella calda oscurità, i suoi occhi rossi spiccavano come stelle. Osservavano in basso, dall'alto del tetto, con una calma agghiacciante, come se stesse analizzando qualcosa.
Accanto a lui, apparve anche una donna. Subito dopo, due uomini. Poi un'altra coppia, donna e uomo. E poi altri tre, e altri cinque, e altri dieci. E poi, a giudicare dal rumore di passi, tanti altri.
E tutti loro possedevano famelici occhi rossi.

 

«Ehy, ma che sta succedendo?!», urlò una persona, in mezzo alle file.

 

Il primo uomo fece un movimento con la testa, come se stesse guardando altrove, e poi fece un cenno di assenso. A quel punto, il suo braccio sinistro si sollevò, lentamente – e mentre un sorriso meschino gli apriva la bocca, indicò in basso, verso la fenditura.
Tutti i suoi compagni saltarono giù. In numerosi gruppi, dalla spericolata altezza di tredici metri – atterrando sui detriti e poi balzando oltre il palcoscenico, ed infine sul pavimento della sala.

 

«Cosa... », il brusio si fece più rumoroso. Gli uomini e le donne continuavano a calarsi giù dal tetto uno dopo l'altro, formiche ammaestrate, privi del minimo graffio. Yuki si girò a guardare il pubblico; indietreggiavano, squadravano i nuovi arrivati e parlavano nervosi – per la fretta di allontanarsi, qualcuno si scontrava con qualcun altro. L'agitazione era palpabile.

Dall'alto, balzò giù il primo uomo. Non scendeva più nessuno, lui doveva essere l'ultimo. L'albina ne aveva contati cento. Lui si voltò, lanciando un'occhiata inespressiva alla ragazza. E come prima, il suo viso si smosse in un ghigno dai canini aguzzi. «Buon appetito».

 

 

Vampiri e demoni si lanciarono in mezzo alla platea. Armati di forza sovrumana, piombavano sui sedili, distruggendoli con la semplice pressione delle gambe, per poi cercare subito qualche umano su cui lanciarsi – l'auditorium piombò velocemente nel caos.
Urlando terrorizzati, gli umani adesso si scontravano e spingevano via spontaneamente, tutto pur di passare e scappare attraverso le porte d'uscita. Una ragazza scattò verso il centro della sala, stringendo la mano dell'amica, ma quando furono a poco dall'uscita la strada gli venne bloccata da un demone, ansante e brulicante di adrenalina. La ragazza staccò la sua mano dalla compagna e la spinse verso il demone, strillando tra le lacrime.

 

«VAI VIA! VAI VIA!». Un gruppo di due ragazzi e due ragazze sulla prima fila era braccato da un singolo vampiro. Nel vano tentativo di fuggire, erano caduti e si erano incastrati tra le sedie della prime e della seconda fila. Il vampiro si asciugò un rivolo di saliva al mento mentre avanzava nella loro direzione. Le lunghe dita si muovevano convulsamente.
I ragazzi erano intrappolati. Volevano liberarsi dalle sedie che gli occupavano la strada, ma non riuscivano a coordinare i movimenti delle gambe. La paura era tale che riuscivano solo a fissare il vampiro negli occhi.

«Vai via... ti prego... vai via... vai via... ».

Il vampiro sorrise. «Shh... », e si sporse con un sussulto verso una delle ragazze.

«NO!!». La ragazza strizzò gli occhi bagnati dal pianto, pregando silenziosamente. Dopo qualche secondo, tuttavia, non stava provando nessun dolore. Non era successo nulla.

 

Stordita, aprì gli occhi, e una scena si articolò frammentata e lenta – come il particolare di una fotografia: le iridi videro il sangue formare un reticolo e spruzzare dal collo del vampiro e la sua testa schizzare contro la parete accanto. Quando la ragazza capì cos'era accaduto, si tappò la bocca con le mani per non gridare.

Il corpo del vampiro si accasciò di fronte ai loro piedi, senza vita. Solo allora i quattro ragazzi videro una figura bianca, la cui gamba sinistra sporgente dallo strappo della gonna era macchiata di rosso. Man mano che salivano con lo sguardo, la figura acquisiva un nome: Yuki Akawa. La stessa fredda e taciturna Yuki Akawa che tutti conoscevano adesso stava strappando il tessuto della gonna dall'altro lato. Aveva del sangue sulla gamba.

Yuki sollevò la schiena e guardò il quartetto, ricambiando lo sguardo. Nel suo non c'era niente, era uguale a come l'avevano sempre vista, a scuola. C'era solo tanta freddezza, tanto distacco – no, non era vero. C'era una determinazione bruciante.

 

Yuki distolse la sua attenzione, puntandola verso il fondo dell'ampia stanza. Lì, con la schiena contro il muro, accanto alla porta d'uscita, c'era lo stesso adulto che aveva visto prima di esibirsi.

L'unica persona che non si era mossa di un centimetro sin dall'inizio.

Alyon Hendrik Akawa stava scrutando sua nipote, sorridente.

 

 

Era lui.
Non era stata paranoica, quando aveva pensato che si trattava di un nemico: non era stata dannatamente paranoica. Yuki sentì il sangue scorrerle all'inverso. La testa si stava riempiendo di rumori e di sedie distrutte e persone che cercavano di scappare, che venivano messe all'angolo da mostri affamati. A risvegliarla da quello stato fu una sedia che volò verso il sipario, lanciata via da un demone.

 

«A... Akawa... sei tu, vero? Sei Yuki Akawa, non è vero?», balbettò un ragazzo.

Lei si voltò di nuovo e aprì la bocca per rispondere – era lei, giusto?

 

Ma a quel punto, sentì il suo nome chiamato a voce alta, per più volte, da sinistra. Si riscosse definitivamente, lanciò un'ultima occhiata ai quattro e si voltò verso quella direzione, scattando fulminea.

 

Tetsuya bloccò un demone dal collo, strinse la presa e lo indirizzò verso il bordo del palco con tutta la forza che aveva. Quando fu certo che il nemico non si sarebbe rialzato, il vampiro biondo si rivolse dall'altra parte, afferrò Sayumi e Takeshi con entrambe le braccia e li costrinse a piegarsi a terra per accovacciarsi. «Giù», soffiò, per poi rimettersi in piedi e ispezionare l'area circostante.

 

«Tetsu!».

Il vampiro ruotò gli occhi verso la voce femminile, sospirando di sollievo. «Corri!».

Yuki accelerò abbassando la schiena, per evitare l'ennesima poltrona che attraversava tutta la sala, e finalmente riuscì a raggiungere gli amici alla fine della fila, al lato sinistro. Quando li ebbe raggiunti, con il ginocchio pregno di sangue, scatenò subito agitazione nei tre amici.

«Non è mio», precisò subito l'albina. «State bene? Non siete feriti, vero?».

«Stiamo bene», rispose Takeshi, alzando la voce per farsi sentire. «Un po' storditi».

«Ma che diavolo succede? Quelli sono vampiri e demoni?», esclamò Sayumi.

Yuki annuì. «Sì e... », strinse le labbra. «Non ho idea di cosa stia succedendo». Si rivolse a Tetsuya, nervosa. «Dobbiamo farli uscire».

Il vampiro prese l'amica per le spalle, costringendo anche lei ad accovacciarsi come i due umani. Riparati dalle poche sedie risparmiate, avrebbero potuto pensare a qualcosa. «Ci ho già provato», disse Tetsuya, adocchiando Takeshi e Sayumi. «ma si rifiutano categoricamente di andarsene».

Yuki strabuzzò gli occhi, spostando la testa per schivare schegge di legno. «State scherzando? Vi prego, ditemi che state scherzando. Ma l'avete visto o no il macello che sta succedendo?».

«Ma se voi vi liberati dei nemici, noi possiamo aiutare le persone ad uscire», protestò Sayumi. «Non possiamo lasciarli qui così. Vi prego, non fatecelo fare».

«Possiamo farcela. Faremo attenzione».

«Visto? Che ti dicevo?».

Yuki fece una pausa. «Ad essere brutalmente onesta, non sono loro a preoccuparmi. Possiamo occuparcene, in qualche modo».

Tetsuya fissò l'amica, con un ciglio penetrante. «È da un po' che si sente un odore familiare. Un odore pregno di... », strizzò le palpebre, come se stesse provando disgusto e dolore. «... sangue».

Yuki annuì lentamente. Anche lui l'aveva notato. «Alyon è qui», disse, in un sussurro. I tre spalancarono gli occhi. Takeshi e Sayumi si guardarono.

«Non importa», sentenziò il bruno. «Noi restiamo».

La mezzosangue, allora, appoggiò le mani a terra e si diede la spinta, tornando in piedi. Si scostò la gonna bianca. «Allora preparatevi alla battaglia».


 

 

 

***

 

 

 

 

Tetsuya guardò oltre i sedili. Vampiri e demoni continuavano a correre e saltare da tutte le parti, ma... non avevano ucciso nessuno, né avevano bevuto il sangue di qualcuno, apparentemente. Il biondo non capiva che senso avesse. Tuttavia, al momento non era quello ad interessargli. L'importante era che Alyon avesse abbandonato la sua postazione accanto all'uscita.

Restò ad analizzare la scena per qualche istante e dopo del tempo, fece un gesto col braccio esclamando: «Ora!».

 

Senza farselo ripetere due volte, Takeshi e Sayumi schizzarono via dal loro nascondiglio, infiltrandosi nella corsia che divideva il lato sinistro dal lato destro, entrambi colmi di nemici. I due ragazzi dovevano aprire prima di tutto la porta d'uscita, in modo che gli umani potessero uscire; se Tetsuya aveva ragione, vampiri e demoni non sarebbero usciti dall'auditorium, perché un gesto simile li avrebbe fatti notare molto velocemente dall'esterno – e di conseguenza, dal Consiglio – quindi i due dovevano solo pensare a correre il più veloce possibile.
Ben presto però, la loro corsa venne ostacolata da un demone donna, che si piazzò con un salto di fronte alla porta, le braccia spalancate, pronta ad accogliere i due umani.

«Separatevi!», all'ordine del vampiro biondo, Takeshi e Sayumi si scansarono ai lati opposti, rotolando a terra, mentre una grossa fiammata viaggiava lungo tutta la corsia e colpiva la donna demone alla spalla – il fuoco si espanse a macchia d'olio, mangiandola per tutto il corpo come un verme divoratore.

Quando il demone si ridusse a cenere grigia, Takeshi tornò alla porta.

«Take, attento!», esclamò Sayumi.

Il bruno sbloccò la chiusura della porta d'uscita e spalancò entrambe le ante. Alla sua apertura, un'ondata di luce calda ricoprì tutta la figura del ragazzo – e il vampiro dietro di lui, sul punto di balzargli sulla schiena. Takeshi si girò di scatto, «Non oggi, grazie», cantilenò con un sorrisetto, sferrandogli un calcio allo stomaco – il vampiro indietreggiò ringhiando, stordito dal sole e dal colpo improvviso.

«Non perdere tempo», lo rimproverò Sayumi, allungando il braccio.

«Sì, sì», rispose lui, afferrando la mano dell'amica.

 

 

 

Tetsuya tirò un sospirò appesantito, inarcando le sopracciglia fino a formare un solco. «Non ce ne pentiremo, vero?».

«No», Yuki sforzò un sorriso, poi gli diede una piccola pacca sulla spalla. «Sta' in campana».

Il vampiro rispose al sorriso con uno decisamente più inquieto, guardando attentamente i due esseri umani mentre si destreggiavano nella sala. Stavano conducendo le altre persone fuori dalla porta, ma venivano spesso interrotti dai nemici. Tetsuya scrollò la testa, da un lato all'altro, scricchiolando come una vecchia porta, e sollevò entrambe le mani – fiamme rosse le incendiarono.

«Anche tu», disse, per poi spiccare un salto in mezzo alla mischia.

 

L'albina, a quel punto, era sola.

Riconosceva quello scenario agghiacciante. L'aveva visto in sogno, più di una volta. Aveva visto sangue dappertutto, e in ogni dove le voci si ammassavano, e una persona, un uomo... sul palcoscenico.

Identico a quello dietro di lei.

Lentamente, Yuki mulinò il viso, e proprio come aveva temuto, lui era in piedi sul palco, con le braccia annodate. I lunghi capelli neri incorniciavano il suo ovale, sfioravano le labbra incurvate verso l'alto, la mezzaluna che gli squarciava i connotati di vampiro impuro. Gli occhi la stavano scrutando, nella semioscurità, e brillavano voraci, rossi, magnifici nel loro caos.
Alyon sembrava una sorta di Dio – un Dio riprovevole, scellerato, nefasto. Mentre intorno a loro succedeva il finimondo, zio e nipote si studivano attentamente, con divertimento e con odio.

Nessuno dei due parlava. La bolla di silenzio che si erano creati perdurava, intoccabile.

 

Yuki ruotò la punta dello stivale destro, poi fece lo stesso con il sinistro. Infine, torse anche il busto, fino a ché non gli fu completamente di fronte. Yuki teneva la bocca sigillata e ferma in una linea, gli occhi oro inchiodati in quelli pece di Alyon.

Alyon aprì la bocca. «Aaaah... », respirò, slacciando le braccia al petto, aprendole come un paio di ali. «Che cosa ne pensi, ti piace, Yuki, mia cara nipote?». Gli arti scesero gradualmente ai suoi fianchi. «Tutto quello che sta succedendo, in questo istante... l'ho fatto io. L'ho fatto io per te. È il tuo regalo da parte mia, nipote».

Le pupille, strette e sottili, ebbero un guizzo. «Mi fa schifo».

«Davvero?», Alyon chiuse gli occhi, bonario. «È un peccato. Come ti ho detto, l'ho fatto appositamente per te; lo sai, da quella volta che eri quasi diventata mia, ti ho pensata ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo. Sei stata brava, quella volta. Hai sacrificato quei due pur di salvarti. Sono fiero di te». Lui l'aveva detto per sbloccare una reazione in sua nipote. Voleva provocarla. Voleva farla arrabbiare. Tuttavia, lei non si era scomposta. Non era bastato, forse? «Ci sono tutti... c'è anche l'umano interessante... sembra proprio la resa dei conti. Quindi, cos'hai intenzione di fare, a questo punto?».

Yuki non rispose.

«Combatterai fino all'ultimo?». Il rosso che animava gli occhi dell'uomo era più vivo che mai. «Voglio che il sangue venga versato. Voglio che la mia attesa venga ripagata. Nipote... ».

L'albina si lacerò le cuciture ai polsi delle maniche.

«Mi deluderai anche tu? Mi lascerai a bocca asciutta... da degna figlia del Re di Ghiaccio?».

 

Yuki si arrestò, come se qualcuno avesse staccato la sua spina. La mano sospesa sulla cucitura. Gli occhi sbarrati su di essa. Lui non perdeva il ghigno, lei aveva smarrito tutta la fermezza. Il suo viso si incrinò, la bocca tremò vistosamente – e la ragazza incontrò il viso dello zio. Il rosso divorò tutto il dorato.

Era stato lui. Era stato lui. Lui l'aveva ucciso. Lui aveva preso la vita di suo padre. Yuki sentì che il controllo le stava rapidamente sfuggendo dalle dita – i piedi si mossero da soli.
Poi, prima ancora di rendersene conto, si era lanciata sul palcoscenico e dopo addosso al vampiro. Piegò la schiena e le ginocchia e si diede la spinta in avanti, sferrando una ginocchiata per colpirlo in petto. Alyon schivò con un rapido passo indietro, evitando l'attacco della nipote in tempo. Subito dopo, la ragazza atterrò sul parquet, corse per due metri e balzò per assestargli un calcio laterale. Alyon parò prontamente il colpo con il suo avambraccio sinistro e con la mano destra l'agguantò dalla tibia, affondando le dita sul polpaccio, e vorticò lanciandola verso i detriti.

 

Yuki, in men che non si dica, si trovò a fendere l'aria con il suo stesso corpo. La pressione del vento era forte, troppo forte, e palpebre cedettero chiudendosi un istante – ma poco prima di schiantarsi contro i pezzi del tetto, l'albina sollevò le gambe con un colpo di reni e fece una ruota completa, toccando con i tacchi la superficie frastagliata dai detriti.

Scivolò a terra, affondando mani e ginocchia sul parquet, approfittando per riprendere fiato.

 

Ah, quel bastardo... , affannata, il suo sguardo venne catturato dalle falangi delle sue mani. Erano nere, sfumate verso le nocche. Yuki si bloccò.


«Già stanca?», urlò Alyon, dall'altra parte del palco. «Abbiamo appena iniziato, nipote!».


Yuki digrignò i denti, i canini e le gengive facevano male per quanta forza ci stava impiegando. Aveva la testa offuscata, ma per fortuna gli occhi funzionavano bene. Le dita erano nere e aveva la mente piena di sangue e rabbia e odio. Ma riusciva a combattere.

Lei non aveva ancora finito. Alzò prima il ginocchio e successivamente premette il palmo a terra, rimettendosi in piedi, traballante. Le unghie corsero lungo l'avambraccio opposto – lo sguardo brulicante inchiodò la sagoma nera dello zio.

Non aveva ancora finito.


 


 

 

***


 


 

 

Hokori spintonò via una coppia di studenti, passandogli immediatamente in mezzo. Agguantata stretta con entrambe le braccia aveva una katana, riposta nel suo fedele fodero nero opaco, il cui manico era un intreccio carminio.
La scuola era un agglomerato di studenti e riuscire a correrci dentro era quasi impossibile. Tuttavia, doveva riuscirci, perché non aveva tempo da perdere.
Appena aveva ricevuto il messaggio di Tetsuya – “Prendi Anima e corri subito a scuola, abbiamo bisogno di aiuto” –, la cacciatrice non aveva esitato un momento: aveva lasciato casa sua alla velocità della luce e aveva raggiunto la residenza Akawa, fiondandosi nella camera da letto dell'albina, tra le occhiate perplesse della servitù. Lì aveva trovato, su un mobile di legno accanto al letto, la katana Anima. Per fortuna suo nonno non l'aveva fermata per tempestarla di domande circa quella toccata e fuga.


«TOGLIETEVI!», non le importava di buttare giù qualche persona.


Tetsuya non aveva mai chiesto aiuto. E sicuramente, non avrebbe mai chiesto di andare a prendere una katana così importante, che persino lei conosceva – a meno che la situazione non richiedesse proprio questo. Per questo Hokori era preoccupata.

Con terrore, la cacciatrice si chiese cosa stesse accadendo in quella scuola.


Superò i cancelli di ferro, spingendo e sfrecciando a zig zag tra la folla, e prese la direzione sulla sinistra, entrando nel cortile posteriore dell'edificio. Lì continuò a correre a perdifiato per una decina di metri fino a ché non cominciò a sentire rumori sempre più forti e ridondanti, tremendamente familiari e decisamente poco normali. Quando raggiunse l'angolo che l'avrebbe fatta arrivare al retro dell'edificio, Hokori cominciò a rallentare, spossata come non mai.

Finalmente, di fronte a sé trovò la porta dell'auditorium – spalancata.


All'interno, c'era il pandemonio. Hokori fece un passo indietro, scuotendo la testa incredula.


Non aveva mai visto tanti demoni e vampiri insieme prima di quel giorno e mai ne avrebbe rivisti così tanti. Ne contava quasi ottanta, a primo acchito.

Si avvicinò rapidamente, abbassando la schiena e cercando di non farsi notare. C'erano degli umani, ma erano ben pochi, più o meno quattro, e sembrava che la maggior parte delle creature fosse focalizzata su qualcos'altro, ma da quella prospettiva Hokori non riusciva a vedere un accidenti.


Adesso che ci penso, oggi c'era l'apertura del festival, rifletté la ragazza, probabilmente nell'auditorium c'è stato il primo spettacolo... e questo vuol dire... che c'erano molti più umani...


Con il gelo nel petto, Hokori deglutì – scosse la testa, riprendendosi: adesso non era importante. Doveva raggiungere Tetsuya.

La ragazza analizzò l'interno della sala, nascondendosi dietro l'anta della porta. Attese qualche istante e quando fu sicura di poter passare, scattò dentro rifugiandosi dietro una catasta di sedie rotte. Spostò la testa in alto, cercando di individuare il vampiro biondo.

 

«Ma quelli... !», ma oltre al ragazzo, ingabbiato in uno scontro sleale contro tre creature, la cacciatrice notò anche Takeshi e Sayumi, mentre raggiungevano una coppia di ragazze accucciate in un angolo, paralizzate dalla paura.

«Ma che diavolo stanno facendo?!», disse tra i denti. I due ragazzi incitavano le ragazze ad alzarsi ma subito dopo le prendevano per le braccia e le sollevavano di forza dall'angolo. Hokori, stringendo le labbra, guardò verso il fondo dell'auditorium.


Yuki era lì. Stava combattendo anche lei, contro un uomo. Lui era armato, con una sorta di daga senza manico, mentre la ragazza era a mani nude ed era costretta a stare sulla difesa.
Adesso la cacciatrice aveva capito perché doveva portare Anima con sé. Conscia di ciò, Hokori uscì dal suo nascondiglio, attirando l'attenzione di svariate creature.

Gridò, a pieni polmoni. «TANIGAWA!».


 


 


Tetsuya aprì le braccia e le fiamme esplosero come cascate di lava, colando sui suoi nemici. Il vampiro richiuse gli arti, si passò la mano tra i capelli biondi e si voltò verso l'uscita, da cui ora proveniva una rassicurante ondata di fulgore. La figura di Hokori si stagliava come una visione, contornata dal fascio di luce.
Sorrideva, vittoriosa. «Prendi!», disse, prima di sollevare le braccia, tirarle indietro e poi in avanti. La katana spiccò il volo, come per magia, percorrendo svariati metri a mezz'aria – prima di finire tra le mani di Tetsuya, che si protese per afferrarla.


«Grande», esclamò, abbassandosi di scatto per evitare il morso repentino di un demone. Sferrò un calcio alla sua caviglia e poi gli schiacciò la testa con la suola della scarpa.


Dannazione. Continuava ad essere accerchiato dai nemici, l'avevano preso di mira. Non sarebbe mai riuscito a consegnarle Anima in tempo, doveva pensare a qualcosa. Il vampiro girò la testa da una parte all'altra, riflettendo rapidamente. Hokori era vicina alla porta e aveva già cominciato a combattere furiosamente. Yuki era troppo lontana da quel punto e soprattutto avrebbe dovuto aspettare il momento giusto per farle avere la katana, dal momento che Alyon non le dava un attimo di calma.

Non aveva altra scelta. Tetsuya corse verso sinistra, «Sto arrivando, Yamashita!», macinando un metro dopo l'altro, mentre il palmo della mano destra, l'unica libera, raccoglieva calore e fuoco.


«È tutto tuo», disse Hokori, calciandogli incontro la creatura sovrannaturale. Tetsuya accelerò, allungando il braccio verso il viso del nemico, afferrandogli la testa dalla tempia. La bestia strillò di dolore. «E anche questo è andato», sentenziò il biondo, spingendolo a terra.

Hokori si ripulì della cenere sulle calze. «Non vedo l'ora di sapere che sta succedendo, Tanigawa».

«Già. Sarà un bel racconto».


Tetsuya inspirò profondamente. Adesso arrivava la parte difficile. Doveva fare un atto di fede. Sarebbe stato in grado, lui, di fidarsi degli esseri umani? – no, non ci sarebbe riuscito. Ma a quei due, sarebbe riuscito a cedergli anche la sua vita.

«Stai attenta, Hokori», bisbigliò.

«Ti preoccupi per me?», Hokori sorrise. «Starò bene. Ora vai da loro».


 

Tetsuya guardò la cacciatrice, ed annuì. Si allontanò dal fianco della ragazza, cercando con lo sguardo i due ragazzi – scoprendo con paura che erano stati separati; Sayumi era nel centro della sala ed era visibilmente disorientata, Takeshi era all'angolo formato dal palcoscenico e la parete accanto e di fronte a lui aveva un vampiro. Sembrava che stessero... parlando?


«Cavolo! AAAH!». Le urla di Hokori lo destarono. Il vampiro si voltò di scatto verso la cacciatrice mentre lei veniva catturata e sollevata di peso come un sacco di patate da una creatura.

«Sono spiacente! Il mio padrone non ama i cacciatori!».

«Hoko– », il vampiro non aveva fatto in tempo a chiamare il nome della ragazza che era stata lanciata al di fuori della porta d'uscita. La creatura richiuse le due porte, sigillandole e sprangandole con una spranga di ferro, recludendo la luce naturale.

 

Tetsuya si morse le labbra. Quanto meno, Hokori sarebbe stata al sicuro, fuori da lì.

Lui si girò dall'altra parte. Sapeva cosa doveva fare. «Sayumi!». Ma la ragazza sembrava non sentirlo. «SAYUMI!».


 


 

 

Sayumi era riuscita a far uscire l'ultima persona, gli umani erano tutti fuori, in salvo. La ragazza non sapeva quando si sarebbe mobilitata la polizia giapponese, era già sorprendente che non fosse già stata avvisata: con ogni probabilità gli esseri umani tratti in salvo erano in uno stato di shock troppo avanzato per riuscire a spiegarsi oppure... nessuno poteva credere che demoni e vampiri avessero preso d'assedio l'auditorium di un paesino così insignificante.

Nel portare l'ultimo ostaggio alla porta, aveva perso di vista Takeshi. Sayumi aveva deciso di spostarsi verso il centro della sala e accucciarsi lì, cercando di calmarsi e decidere dove andare. Per prima cosa, doveva dare un'occhiata alla sala.
Finalmente trovò il bruno – di fronte a quella scena, Sayumi si sentì le gambe di gelatina. Era stato messo all'angolo da un vampiro. Era in pericolo. Dannazione. Dannazione!


«SAYUMI!». La ragazza si riscosse sussultando. Seguendo la voce, si girò verso la porta d'uscita. Tetsuya reggeva tra le mani la katana chiusa nel fodero come se essa fosse la soluzione a tutti i problemi del mondo – no, sarebbe stata la soluzione a quel problema.

Sayumi aveva capito. «Sono pronta!», gridò in risposta, mettendosi in piedi.


Ma il demone apparso dinanzi a lei non era della stessa opinione. «Stai ferma lì!». Il demone ringhiò, andando addosso a Sayumi con uno scatto. La ragazza riuscì a schivarlo, scavalcando le sedie accanto a lei e raggiungendo così il fondo della sala.


«Ci sono, Tetsu!».


«Eccola!». Anima attraversò qualche metro, sospesa nell'aria pregna di sangue e cenere. Volteggiò, diventando solo un'offuscata macchia nera, e Sayumi salì in cima ad un ammasso di sedie – balzò lateralmente, abbracciando la katana, e rovinando a terra.

«YUMI! Stai bene?! Yumi!», udiva la voce di Tetsuya, agghiacciata e concitata, ma non riusciva a rispondergli.
Sayumi singhiozzò. Aveva picchiato la schiena a terra. Il bruciore le aveva tolto la voce e il coraggio, le braccia intorno ad Anima vacillavano, vacillavano troppo per una come lei, per una che aveva già ampiamente sfidato la morte.

Non poteva fermarsi. Takeshi aveva bisogno di lei. Faticosamente, Sayumi sollevò la schiena da terra, trascinò le ginocchia a terra e finalmente riuscì a risollevarsi, gemendo per il dolore.


«Sto bene!», rispose, constatando che Tetsuya aveva già tolto di mezzo l'opponente.

Ruotò i piedi verso Takeshi, gli occhi azzurri pieni di lacrime. «Ce la faccio», disse. «Ce la faccio. Ce la faccio!». E mettendoci gli ultimi grammi di forza che le rimanevano, avanzò frontalmente, sollevò le braccia.


«Takeshi Katugawa! Adesso tocca a te!».


 


 


 

Takeshi e l'uomo si studiarono a vicenda. Takeshi l'aveva riconosciuto nel momento in cui gli si era palesato di fronte: quel tizio era lo stesso che era apparso per primo dal buco ed era lo stesso che aveva dato l'ordine – buon appetito. Apparentemente, l'uomo era molto più controllato dei suoi compagni, tant'è che aveva provato ad instaurare un discorso con Takeshi.

«Tu, la ragazza e il secondogenito dei Tanigawa», guardava Takeshi con un espressione indecifrabile. Un po' divertito, un po' perplesso, un po' altezzoso. «perché vi siete dati tanto da fare per quegli umani?», sorrise e continuò, senza attendere una risposta. «Lo sai? Il nostro padrone ci teneva a lasciarti in vita».

Takeshi non si scompose. «Perché?», domandò.

«E che ne so. Gli piaci, presumo. Voleva che ti catturassimo, a te e alla principessina che sta combattendo in questo momento».

Il ragazzo era tentato di controllare Yuki. Ma se l'avesse fatto, se avesse distolto gli occhi dal nemico... «Preferisco morire che andare con quel viscido verme», sibilò Takeshi.

Il vampiro fece una pausa, come se volesse soppesare le parole dell'umano – alzò le spalle, con noncuranza. «Mi piacerebbe se tu morissi, umano. E questo perché... », il vampiro aprì lentamente gli occhi. Un'ombra era scesa sul rosso sfavillante. «... io basto e avanzo per rendere felice il mio padrone!».


Con un urlo di rabbia, il vampiro si apprestò verso Takeshi, gli artigli della mano pronti a trafiggerlo, a strappargli le carni. Takeshi avrebbe voluto fuggire di lato, ma non ce l'avrebbe mai fatta.
«Takeshi Katugawa! Tocca a te!». Il ragazzo fece appena in tempo a riconoscere la voce disperata di Sayumi, al centro della sala, piena di polvere e graffi, trionfante come un'eroina – appena in tempo, per vederla lanciare la katana Anima nella sua direzione, con tutta la forza che aveva nelle braccia.


Takeshi rimase quasi incantato. Per una frazione di secondo, i suoi occhi si annebbiarono. Anima librava in alto, fendendo l'aria, il suo laccio rosso diventava una macchia indistinguibile.

Poi il moro si ridestò, trasalendo, rendendosi conto che la sua vita era in pericolo. Allora balzò verso l'alto, più in alto che poté, riuscendo ad afferrare la katana dalla sua elsa. Atterrò a terra piegando le ginocchia e a quel punto, quando il vampiro era ad un metro dal suo collo – sguainò la lama della spada giapponese e lo trafisse al petto. L'uomo rimase senza fiato, emettendo solo qualche suono vicino all'orecchio di Takeshi. «Umano... ripugnante... umano... !».

Toccò la lama della katana con le mani, fino al punto in cui penetrava la sua carne. Il sangue fuoriusciva come una colata di cemento.
L'uomo chiuse i palmi sulla lama e si ritrasse da essa. Indietreggiò, tamponando la ferita mortale. Ghignò, con i denti sporchi di sangue e saliva rosa. «Eh eh... adesso tu mi avrai anche ucciso... ma sappi che un giorno, se continuerai a vivere in questo nostro mondo... un giorno, molto presto... ».
Cadde sulle ginocchia. Gli occhi si chiusero, il suo torso sbatté a terra e una lordura rossa si allargò sotto il suo cadavere.


 

È... morto?, Takeshi abbassò la katana. Respirava affannosamente. Era sul punto di farsi venire una crisi – perché lui aveva appena ucciso una persona. Un vampiro, per la precisione.

No. Dopo. Dopo mi farò venire tutte le crisi del mondo, il bruno scosse la testa, chiudendo le palpebre, non è ancora finita, qui.

Puntò gli occhi sulla sala, constatando con immenso sollievo che ormai era sgombra, sia di nemici che di ostaggi. Restava qualche ultima creatura, ma era un numero ridotto all'osso, e soprattutto sembravano aver perso qualsiasi tenacia. Forse avevano cominciato a capire che la battaglia l'avevano persa e finalmente si erano fermati.

Adesso... adesso era rimasto solo lui. Takeshi, finalmente, poté accertarsi delle condizioni della sua fidanzata.

E lei, aveva una lama puntata alla gola.


 


 

 

***


 


 

 

Per Takeshi, il tempo si era interrotto in quell'istante. Vedere lei con la schiena a terra, impossibilitata e sul filo del rasoio, e Alyon incombere con la sua ombra come una divinità della morte – gli aveva tolto il respiro.

La mano intorno all'elsa rossa di Anima sudava. Le dita formicolavano. Alyon aveva un viso serio, quasi deluso, e Yuki ricambiava il suo sguardo con ira, frustrazione forse. La battaglia era vinta, ma il loro scontro...
Takeshi rafforzò la presa sulla katana e l'adocchiò con nervosismo. Era una possibilità. Poteva funzionare, come poteva portarla più veloce alla morte.

Era tutto nelle sue mani.



Takeshi sollevò il braccio che reggeva l'arma bianca, portandolo fin sopra il suo capo. «Yuki», disse. «Yuki».

Yuki, ti prego.

Inspirò profondamente. Era l'unica possibilità. «YUKI!!».


 




 

Le sue pupille si dilatarono come un buco nero, ma in modo frenetico, incontrollato. I suoi occhi ormai non avevano più niente che ricordava Yuki Akawa; le sclere di entrambi gli occhi avevano assorbito fumo e cenere, divenendo di un colore nero come la pece. Aveva risucchiato tutta la luce, lasciando solo le iridi, il cui rosso fiammeggiante si ostinava a restare acceso. Le tempie e le palpebre erano ricoperte di piccole vene violacee, pulsanti.


«Ma guardati, sei praticamente bella che andata». Alyon si fece serio, infastidito. La lama della sua daga brillò. «Dovresti guardarti allo specchio. Non ti vergogni di te stessa? Se tu fossi venuta con me sin dall'inizio, adesso non... ». Non finì la sua frase, sospirando amareggiato. «Sei una stupida... ».

Yuki si morse le labbra. Dalla sua bocca uscivano ringhi sommessi, brontolii di astio e furia.

Alyon innalzò il mento, con aria di superiorità. «Forse non ti sei accorta che la follia ti sta divorando, pezzo... per pezzo». Sua nipote, costretta al suolo, stava lentamente perdendo tutte le caratteristiche che la rendevano tale, trasformandosi in una sconosciuta.

«Ti avevo sopravvalutato... », bisbigliò Alyon, sprezzante. «Evidentemente. Anche se sei così vicina alla nobile Imperatrice Lilith... ».


L'albina non faceva un movimento col corpo, solo i denti si muovevano, digrignando. Ad un certo punto, si fermò. Un sospiro valicò le sue labbra mentre queste si incurvavano. Un sorriso nero. «Sopravvalutato?», ripeté, come se avesse sentito solo quella parte. «Anch'io».


Alyon guardò la nipote, dubbioso. C'era qualcosa in lei che non... e non si trattava solo della follia. Più la guardava e più assomigliava a lui. «Bael... più che Lilith, in questo momento sembri Bael».


Avrebbe fatto la sua stessa fine, se Alyon non l'avesse uccisa. Sì, Yuki sarebbe impazzita, divenendo una forza della natura – o meglio, una catastrofe; e ben presto, incontrollabile, avrebbe ucciso anche quell'umano dai capelli scuri e poi si sarebbe suicidata, probabilmente, grazie a quel briciolo di barlume che sarebbe riemerso, e all'infinito dolore che avrebbe provato.
E così, in questo modo, la storia si sarebbe ripetuta proprio come cinque secoli or sono.


 

«YUKI!!». L'urlo squarciò quel silenzio fittizio. Alyon scattò con la testa, notando il ragazzo all'angolo sotto al palco.

L'umano dai capelli scuri tirò indietro il braccio e a quel punto lanciò Anima verso il palcoscenico, senza fodero, con la lama lucida che brillava come una stella.
«Dannaz– », distratto dall'urlo, la sua presa alla daga si era allentata. Yuki non aveva perso tempo e con un calcio l'aveva fatta volare via. L'arma si era catapultato a qualche metro da loro e l'uomo aveva dovuto allontanarsi e spiccare un salto per recuperare la sua spada.

Yuki allora rotolò con una capriola all'indietro e si rimise velocemente in piedi. Corse verso il lato destro del palcoscenico e si scagliò, allungando il braccio e afferrando la katana. Tornò a terra, agguantò l'elsa con tutta l'energia che aveva, e si voltò verso Alyon. La lama scintillava fino alla punta.
Il suo viso era ancora quello di un demone folle. Ma il suo respiro spezzato ed esausto e la tenacia del suo sguardo erano tipici di Yuki Akawa. «Alyon... !»

Dalla voragine, il cielo piangeva petali di ciliegio.



Alyon raccolse dal parquet la sua daga e ruotò il corpo in direzione della nipote. Nella sala crebbe un leggero brusio. «SILENZIO!», urlò Alyon, senza distogliere lo sguardo. «Voglio silenzio».

 

Yuki aspettava, così come Alyon. Tutti e due, in un muto scontro, non facevano altro che squadrarsi attentamente; la mezzosangue sigillava la mano destra al manico intrecciato di Anima e respirava. Respirava lenta. Aveva bisogno di afferrare quel granello di lucidità. Doveva farlo suo.

Alyon schiuse la labbra e impugnò la sua daga. Lasciò scorrere la suola della scarpa sul parquet, disegnando una linea. I capelli neri gli coprivano parzialmente gli occhi, ma non la perdeva di vista un istante. La fine era vicina.

 

Entrambi scattarono in avanti. Le loro figure divennero chiazze indistinte, bianco e nero. Fu questione di un lampo. Brandendo le loro lame, nipote e zio sfrecciarono ed eseguirono i loro fendenti.

Infine, erano tornati immobili, l'una accanto all'altro, sta volta. Passarono dei secondi ed entrambi vacillarono, Alyon perse di nuovo la sua presa alla daga, che gli cadde rumorosamente ai piedi.



Ma fu Yuki a capitolare. Tossì sangue, scuro come l'ebano, e tremò dalla testa ai piedi. Le gambe cedettero e la fecero ondeggiare di un passo indietro – la mezzosangue sprofondò sul pavimento e la katana la seguì, scivolandole accanto e producendo un tintinnio metallico.
Alyon si coprì la ferita infertagli al fianco con una mano, abbozzando un sorriso affetto dall'adrenalina. «Ho vinto».

Sayumi gridò. Alla visione della sua amica mentre precipitava a terra, un urlo di angoscia le era uscito dalla bocca, mentre Takeshi e Tetsuya non avevano perso tempo – e si erano subito diretti sul palco, abbandonando quei quattro nemici rimasti.
Takeshi scivolò strisciando le ginocchia, raggiungendo l'albina. Si piegò verso di lei, e insieme a Tetsuya la sollevò leggermente dalle spalle, sostenendola.
Sul petto, all'altezza del cuore, c'era una grossa ferita. Era così grave che il sangue era immediatamente sgorgato, immergendo il torace del vestito. Takeshi sbatté le palpebre. Aveva la bocca secca. Non riusciva a parlare.
Tetsuya si incise una ferita sul polso con le unghie e allungò il braccio alle labbra violacee dell'amica. «Bevi», disse, tra i denti – e Yuki avrebbe voluto, ma riusciva a malapena a tenere gli occhi aperti o a respirare.


«Che ingenuo... », sibilò Alyon. Tra lui e i quattro c'era forse un metro di spazio. Il vampiro staccò la mano dal fianco, ripulendosi del sangue sui pantaloni. «Ho solo perso tempo», con sdegno, l'uomo schioccò la lingua.

Sayumi si girò di scatto verso Alyon. «TU hai perso tempo?!».

«Yumi!», urlarono i due ragazzi.


Sayumi si era frapposta tra Alyon e gli altri, aprendo le braccia. Le sopracciglia inarcate sugli occhi, era furente di rabbia. «Sei venuto qui insieme al tuo gruppetto di boyscout, hai seminato panico e distruzione, hai ferito la mia amica e TU avresti anche perso tempo?!», ansante, Sayumi abbassò le braccia, stringendo i pugni. «Sei un dannato mostro».

Alyon socchiuse le palpebre. Guardava Sayumi dall'alto in basso. «Affascinante», sibilò. «Ma non me ne faccio niente del tuo odio, stupida umana. Ringrazia che non ti abbia fatta uccidere. Me ne sto già pentendo».

«Ah sì? Allora uccidimi adesso!».

«Yumi, smettila!», esclamò Tetsuya.

«Uccidimi. Uccidimi quanto vuoi. Ma questo non farà altro che avvicinarti al posto che meriti», Sayumi trasse un profondo respiro.

«Lei ha perso. Comprendilo e basta». Il vampiro dai capelli neri si lasciò andare ad un sospiro, deluso e rassegnato, mentre spostava il viso di tre quarti. «Tale e quale a quel perdente di suo padre».


 

E quello era il culmine. Sayumi fece un passo in avanti e annullò quella fatidica distanza. Inclinò il braccio destro e colpì Alyon Akawa, alla guancia. Lo schiaffo era stato talmente forte da lasciare un livido rosso, abbastanza forte da costringerlo a girare il volto dall'altra parte.
Sayumi aveva ancora la mano sospesa a mezz'aria e il suo petto si alzava ed abbassava velocemente, scandendo i secondi. Il suo sguardo era carico di frustrazione. Specialmente perché sospettava che lo schiaffo non gli avesse fatto nulla.


Alyon ruotò lentamente la mandibola verso di lei. Nei suoi occhi, c'era il nero più totale, il buio più cupo. Il vampiro ultracentenario era adirato.

«Ti meriti anche pe– », ma la voce le morì in gola – la stessa gola che Alyon aveva afferrato con una mano. E che ora stringeva, e che ora marchiava con la pressione delle sue dita.
Senza il minimo sforzo, Alyon sollevò Sayumi da terra, premendo il pollice poco sotto la mandibola.

Tetsuya scattò dal pavimento.


«Ah-AH! Fermo là, piccolo Tanigawa», Alyon allentò leggermente la presa, regalandole un alito di ossigeno. «Stai fermo là. Oppure vuoi che stringa ancora di più?». Il vampiro ghignò. «A me non dispiacerebbe affatto».

«Alyon», soffiò il biondo, pronto ad alzarsi in qualsiasi istante. «Lasciala andare. Te ne prego. Non ti ha fatto niente. Lei non... ». Lei non c'entrava niente. «Prendi me. Io potrei darti molti più problemi di una semplice umana, non credi?».

«No».

«ALYON!».



Alyon scoppiò in una risata. Echeggiava tra le pareti come l'ultimo messaggio di un morto – ma la sua risata era viva, fragorosa, felice. Continuò a ridere, mentre Sayumi gli graffiava il dorso della mano con le unghie, mentre agitava i piedi in preda all'affanno e lo guardava con occhi di ribrezzo.
«Sono così contento di essere vivo», esclamò.

«Avrebbero dovuto ucciderti quando potevano», disse Takeshi, le mani nervose.

«Shh... tu non preoccuparti. Quando ti trasformerò in un vampiro, mi amerai e mi ubbidirai, come un fedele cagnolino... », scosse la testa. «Anzi, come il mio fedele cagnolino».

«Guardatevi! Semplicemente, guardatevi! Siete deboli. Non potete niente contro di me: queste due stanno morendo di fronte ai vostri occhi e il massimo che potete fare è pregarmi. Chiedermi di lasciarla andare o ricordarmi che avrebbero dovuto uccidermi. Che tristezza. E voi avreste dovuto farmi fuori?». Alyon era certo delle sue parole come un messia. Spostò lo sguardo su Sayumi, specchiandosi nei suoi grandi occhi, colmi di lacrime azzurre. «Ma fatemi il piac–... ».




Alyon si bloccò.

La bocca era aperta e fissava Sayumi. Poi, sul collo del vampiro comparve una linea sottile e rossa. Velocemente, quella linea divenne massiccia e sempre più doppia.

Tetsuya spalancò gli occhi e li spostò di lato, guardando la lama insanguinata di Anima, la sua elsa stretta da una mano bianca e forte. Quella mano si attaccava ad un braccio pieno di graffi, ad una spalla che aveva trasportato peccati e pesi, ad un collo che aveva sostenuto la testa più testarda sulla faccia della terra.
Allo sguardo più coraggioso che si fosse mai visto. Yuki tirò su un angolo della bocca. «Tu... parli troppo... ».


La mano si aprì e Sayumi si accasciò a terra, tossendo.

Alyon indietreggiò, toccandosi il collo con ambe le mani. Tra le sue dita gocciolavano fiotti di sangue, impregnandole e picchiettando a terra. Faceva di tutto per fermare il sangue, ma poi – il taglio si fece ancora più profondo e sentì la carne e la pelle staccarsi, la testa scollegarsi dal collo.
Incredulo. Spaventato. Non poteva controllare i suoi occhi, che ora guardavano il viso di sua nipote, sostenuta dal ragazzo bruno che tanto gli piaceva, e dopo guardavano il soffitto dell'auditorium.

Lui... aveva perso.


«Ah... sei proprio... », ma il sorriso, era ancora lì. «... una delusione... ».


La testa si separò dal collo e il corpo stramazzò sul pavimento, producendo un tonfo funereo.

Era finita.

 


 

 

***


 



 

Il braccio che sorreggeva testardamente la katana tentennava, il respiro usciva dai denti stretti sofferente, i connotati facciali si piegavano in una smorfia di puro strazio.

«Non... », Yuki strizzò le palpebre e aprì la mano, lasciando precipitare l'arma bianca. «Non ce la faccio», e le ginocchia crollarono, ancor prima di finire la frase, ma Takeshi l'afferrò al volo, prendendola tra le sue braccia. Il sangue avrebbe sporcato i suoi abiti, ma lui non ci fece nemmeno caso. Takeshi l'abbraccio saldamente e si inchinò a terra, facendola adagiare a pancia in su, con delicatezza.


«Yuki-chan... Yuki... !», Sayumi raggiunse l'amica, gattonando fino al suo fianco. Le prese la mano fra le sue. Non riusciva a smettere di piangere. «Io... mi dispiace, non... ».

L'albina mosse le labbra per rispondere – ma le parole erano scomparse, come se le avesse dimenticate.

«Non parlare, adesso bevi il sangue che ti serve», disse Tetsuya. Il vampiro biondo era in preda all'ansia, ma le avrebbe dato fino all'ultima goccia. Le accarezzò i capelli, inginocchio insieme agli altri.

«Tetsu», bisbigliò Takeshi. «È finita».

«Cosa?».

Takeshi osservava gli occhi neri della sua fidanzata e lei restituiva il suo sguardo, stordita, con la bocca socchiusa – aveva la testa sbiadita. «Il sangue non la salverà».

«Ma che stai dicendo... », il vampiro voleva urlargli contro. Ma cosa stai dicendo, idiota?, il sangue avrebbe potuto salvarla... il sangue era l'unica via... quindi perché...


Tetsuya fissò la ferita sul petto, pietrificato. Era proprio un ingenuo. Il sangue non avrebbe aiutato proprio nessuno. «Già... », bisbigliò. «Già».

«Ma non possiamo... dobbiamo fare qualcosa!», esclamò Sayumi.

«Lo so», rispose Takeshi.

«E allora... !».

«Ma non possiamo fare niente!».


Sayumi sbarrò gli occhi. Non potevano fare... niente? – scoppiò in lacrime, copiose e roventi, emettendo solo un singhiozzo basso. Stava perdendo la sua migliore amica. La stava perdendo e non poteva fare nulla per impedirlo. Per quanto si sfregava la faccia con il dorso della mano e cercava di fermare quello stupido pianto, non ci riusciva – all'altra mano, ancorata a quella dell'amica, percepì la stretta farsi più decisa. Guardò verso di lei, rossa fino alle orecchie, distrutta.


«Ragazzi», la voce era ridotta a un flebile sussurro. «Quanto siete... melodrammatici... »

Yuki chiuse gli occhi per un secondo, sospirando lievemente. E chissà perché, ma il suo viso parve distendersi, recuperare una serenità che aveva sempre cercato; le vene si ritrassero e dissolsero, le falangi tornarono rosa e i suoi occhi persero il nero – e il familiare colore oro ritrovò la via verso casa.

Yuki li osservò, affettuosa, e persino divertita. «Dateci un taglio», bisbigliò – mentre i suoi occhi divenivano opachi. «... e siate felici».


La mezzosangue chiuse gli occhi.

E il suo corpo si dissolse in candida cenere.

 


 


 


 

NOTA:
Siamo arrivati alla fine. Wow. Non pensavo che ce l'avrei mai fatta, detto onestamente; spesso e volentieri ho riscritto questa storia, più e più volte, e tutt'ora ci sono svariati problemi e cose che andrebbero modificate. Ma come mi disse una mia cara amica, una storia non potrà mai essere perfetta ed ogni volta che le rileggeremo, ci troveremo quarantasette problemi.


 

Lo scontro è giunto al termine e Alyon era convinto che avesse vinto, che tutto fosse finito, almeno parzialmente, per il meglio. Peccato che la nostra albina non sia un tipo da arrendersi molto facilmente. E poi, beh, il finale l'avete letto, quindi è inutile prolungarsi tanto su questo punto.

So che la storia ha molte incongruenze. Tuttavia, spero tantissimo che l'abbiate apprezzata, almeno per quello che voleva essere. Conoscendomi, probabilmente tornerò qui ad aggiustare qualcosina ogni tanto, sigh. A proposito, mi sono fatta prendere dalla creatività e ho disegnato l'ultima scena, ma non riesco a caricarla su EFP! ;; (se vi va di darci un'occhiata, trovate il disegno su instagram, nel profilo kurojulia_ )


Credo sia tutto! Grazie a tutti coloro che sono giunti fin qui. Grazie.

Siamo alla fine. Siamo all'ultimo capitolo. O forse... no?


 

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Capitolo 30
*** E noi la stavamo guardando. ***


30.


C'era silenzio.

 

 

L'aria era fredda. Il suo corpo nudo, steso supino su un letto d'acciaio, era coperto solo da un lenzuolo bianco; il petto era magistralmente ricucito, un intreccio di fili e pelle. Essa era marmorea, rigida, quasi finta, e il contorno delle sue palpebre chiuse aveva assunto un colore violaceo. Le labbra ferme e grigie, i capelli pettinati ordinatamente come una bambola di porcellana.

In quel momento, il suo petto era immobile. E noi la stavamo guardando.

Un po' come curiosi pettegoli, da ogni angolazione; avevamo cominciato guardandola da un angolo della camera mortuaria, silenziosi, in penombra. Solo dopo qualche tempo avevamo preso abbastanza coraggio da alzarci e avvicinarci al suo corpo, attenti e rispettosi.

 

Continuava ad esserci silenzio, tanto da stordire – perdurò per qualche altro secondo: poi, ad un certo punto, si sentì il suono di una porta che si richiudeva. A seguire, lo stillicidio di un rubinetto, forse un rubinetto che perdeva. Erano rumori del tutto casuali e non erano tanto bizzarri. Eppure, quei suoni apparivano come degli estranei, come una risata ad un funerale.

 

La fissavamo. In piedi sul suo lettino, nuovamente immersi in un'omertà assordante, fissammo la ragazza stesa e i suoi capelli bianchi.

A quel punto, Yuki spalancò gli occhi.

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