To Search, to Find, to Love in Every Life

di Flos Ignis
(/viewuser.php?uid=122026)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Alexander: il Voto ***
Capitolo 2: *** Magnus: il Dono ***
Capitolo 3: *** Insieme: il Fato ***



Capitolo 1
*** Alexander: il Voto ***


Alexander: il Voto




Le Parche, alle volte, sanno essere crudeli.

Intrecciano vite destinate a completarsi a vicenda, per poi districare la matassa e dividere le esistenze senza farle più ricongiungere.

Questo porta un dolore sottile all'anima, che emette un richiamo costante alla metà mancante di se stessi, una fame insaziabile e un muto grido che fiaccano lo spirito dei mortali.

Quelle anime sono destinate a vagare senza pace nell'Ade, alla ricerca vana ed eterna di ciò che può riempire il loro vuoto.




Che gli imperi prosperassero o meno, che i potenti si facessero la guerra tra loro invocando i nomi dei potenti Numi a loro vessillo, alla povera gente dei campi e delle sperdute poleis del continente poco cambiava.

Non v'era alcuna differenza se Apollo volava col suo dorato carro per portare la luce del giorno in un'epoca di guerra o di pace, i contadini si preoccupavano solamente delle gelate invernali, quando la bella Proserpina tornava dal suo sposo nel freddo sottosuolo; delle tempeste estive, che gli aedi annunciavano con la voce gravida di disgrazie imminenti causate dall'arroganza degli uomini, rei di aver preteso ricchezze e onori degni degli déi; di avere un tetto sulla testa e la pancia piena, giorno dopo giorno.

Alexander li invidiava.

Pur ritrovandosi nella posizione privilegiata che gli spettava per diritto di nascita, o così lo avevano istruito i suoi precettori, non vedeva per quale ragione dovesse sentirsi ammantato di quella fortuna che tutti gli additavano, nemmeno fosse stato consacrato alla dea Tiche.

La sua famiglia discendeva da una stirpe di guerrieri valorosi, che avevano partecipato alle campagne di Alessandro III di Macedonia ricavandone grande prestigio persino tra i suoi satrapi, i comandanti che si erano spartiti l'immenso Impero alla morte sua e, in seguito, della sua intera stirpe.

Non sapeva perché suo padre aveva deciso di chiamarlo Alexander in suo onore; forse, in cuor suo, aveva desiderato un figlio valoroso che dimostrasse che la forza che li aveva resi grandi non era scomparsa insieme al padre del padre di suo padre, quando era morto in battaglia per cercare di conquistare nuovamente una Babilonia perduta.

Lui si sentiva solo un giovane dall'animo inquieto, privo però di quella tempra sanguigna che gli uomini devoti alla battaglia dovrebbero possedere.

Aveva da sempre dimostrato una predilezione per gli studi e la conoscenza, tanto che aveva ricevuto il permesso di un'istruzione privata insieme alla sorella Isabelle da un saggio che si era fermato per qualche anno nella loro città, Hodge.

In cambio di tale concessione, suo padre aveva preteso ogni istante del suo tempo per allenarlo personalmente, quando non era impegnato in politica.

I tempi di pace, se possibile, sono più insidiosi di quelli di guerra.

Così soleva ripetergli per motivare le ore passate a buttarlo a terra in una mischia, a fargli sanguinare le mani fino a incidergli nella pelle gli sforzi di molti giorni spesi a perfezionare la sua tecnica e a incrementare la sua forza fisica.

La frustrazione si era mano a mano ingrandita nel suo animo, tanto che per trovare un po' di pace aveva iniziato ad andare al tempio di Efeso, luogo davanti al quale si svolgevano le sue lezioni con il sapiente Hodge, persino al di fuori dei loro incontri prestabiliti.

Una quotidianità consolidata da molti anni che fu spezzata una mattina qualunque, simile e al contempo dissimile da tutte le precedenti: Alexander raccolse arco e faretra, controllò che la sorella dormisse serena e ben coperta, per poi lasciare la casa, silenzioso come la notte che ancora non aveva lasciato posto al giorno.


 

Il suo maestro gli aveva raccontato che il tempio risaliva a molti secoli prima, ma che dopo essere stato distrutto era stato raccolto il denaro da molte delle provincie d'Oriente conquistate nelle campagne persiane per ricostruirlo, sotto il volere dello stesso Alessandro III.

Gli era stata narrata la storia di ogni re a cui era stata dedicata ciascuna delle sue centoventisette colonne, dalla foggia tipica della regione Ionia, dal profilo semplice ma elegante al contempo.

Aveva imparato ogni singola storia narrata attraverso i bassorilievi che percorrevano l'interno dei basamenti, avrebbe potuto riconoscere a occhi chiusi l'eroe o la divinità di cui venivano narrate le gesta con un solo tocco a quelle fredde statue...

Amava quel tempio, nessun altro luogo poteva avvicinarsi di più al concetto di casa per Alexander.

Si sentiva legato a esso e alla dea cui era stato dedicato, Artemide di Delo, Signora di Efeso, dea della caccia e della fertilità.

A lei si era votato, appena bambino e con l'ingenuità tipica di chi del mondo ancora non sa nulla, quando sua madre aveva avuto un brutto incidente con un cavallo imbizzarrito mentre era in attesa di suo fratello Max. Erano state settimane di paura e apprensione, poi un giorno aveva sentito dire la levatrice che l'unica cosa da fare era pregare per la benedizione di Artemide, affinché aiutasse la donna e il bambino non ancora nato a sopravvivere al parto.

Alec, di appena sette anni, era scappato e si era rifugiato tra quelle colonne e iconografie abilmente cesellate, declamando con la sua voce bianca preghiere che non conosceva con parole che gli erano nate dal profondo dell'anima, dove risiedeva l'amore filiale e quello per il piccolo che aveva promesso di proteggere in quanto fratello maggiore.

So che tu, Artemide, appena nata aiutasti a far nascere tuo fratello gemello Apollo, perché tua madre era troppo debole per farcela da sola. Da fratello maggiore a sorella maggiore, aiuta anche mia madre a far nascere il mio fratellino, ti sarò grato per sempre e sarò tuo discepolo.

Forse era stato davvero ascoltato, perché pochi giorni dopo madre e figlio erano sani e salvi, ancora deboli, ma vivi.

Quando aveva raccontato ai genitori della sua promessa nel tempio, sua madre aveva sorriso con dolcezza, carezzandogli la guancia e ringraziandolo, tenendo al contempo d'occhio la piccola Isabelle di sei anni mentre reggeva il neonato con le sue braccine magre; suo padre invece si era arrabbiato e gli aveva imposto il silenzio affinché il suo futuro nell'esercito fosse al sicuro dai giuramenti divini, aventi sempre una priorità irrinunciabile.

Alec però sentiva quella promessa ardere nel profondo del cuore.

Una delle prime cose che aveva chiesto al suo maestro era stata se tutte le vicissitudini di Artemide fossero reali ed egli, con un misterioso sorriso sul volto, aveva risposto ad un Alec tredicenne che "tutte le storie sono vere".

Il giovane dagli occhi blu non amava allenarsi per la guerra, ma aveva preso molto sul serio la pratica per diventare il migliore nel tiro con l'arco, per ripagare metaforicamente la dea per il suo dono tramite la sua dedizione all'arte in cui ella era maestra.

A volte prendeva a camminare nei boschi, senza meta, solo per il semplice piacere di cacciare immerso nella solitudine e nel silenzio della natura, pensando ai cervi e alle fiere selvatiche che rispondevano al comando della stessa divinità a cui si era votato lui; così facendo, si sentiva un po' meno solo.

Aveva scelto già da tempo di diventare un sacerdote del tempio, ma le infinite proteste della sua famiglia, suo padre in special modo, lo avevano fermato.

Non desiderava una famiglia, un giorno? Un posto in società? L'onore che portava la battaglia?

Alec sapeva che erano cose importanti, che molti si erano battuti per le medesime cose e che era giusto e doveroso rispettare tali uomini.

Ma era abbastanza edotto da sapere anche che, per quegli stessi desideri che suo padre desiderava lui reclamasse per sé, erano scoppiate guerre.

E cosa doveva dire della libertà? Era quella a chiamarlo e sedurlo, più delle battaglie e delle donne, dell'onore e delle ricchezze.

I suoi desideri erano talmente diversi dai giovani della sua stessa polis che si era allontanato da tutti e, lo ammetteva candidamente solo con se stesso nel privato della sua stessa mente, l'unica donna per cui provava moti di affetto era sua sorella.

Ma il desiderio che aveva visto negli occhi degli altri giovani e degli uomini alla vista delle prostitute che si trovavano nelle vie principali o nelle apposite case del piacere, quello no, non riusciva a comprenderlo. Non avveriva quella fame indecorosa che scorgeva nei loro volti in quelle occasioni, non ne capiva la necessità e il bisogno.

Tutto ciò che desiderava esisteva in quel tempio che era stato spesso definito dal suo maestro una delle "Sette Meraviglie del Mondo".

Il pensiero di andare contro la comune idea, la stessa che era anche solida base della sua famiglia, lo aveva fatto tentennare a lungo in quegli anni, facendogli rimandare fino all'ultimo istante possibile la sua decisione.

Ma ormai aveva raggiunto la maggiore età e una decisione andava presa.


 

Era stata Isabelle, la sera prima che lui facesse la sua scelta definitiva, a dargli il coraggio necessario a compierla.

Lei aveva accarezzato con affetto i suoi capelli dello stesso colore corvino, tanto estranei a quella regione da renderli spesso oggetto di scherno e occhiate stranite, ma che ormai erano abituati a considerare come parte di sé, facendone persino un vanto nel caso della più piccola della famiglia.

-Se hai trovato il tuo posto nel mondo, vai e reclamalo per te, ovunque esso ti porti. Ricorda che tu sarai sempre il mio adorato fratellone, qualunque strada sceglierai e chiunque sarà la persona che si meriterà il tuo grande cuore.-

Alec non avrebbe mai posseduto la sua stessa forza d'animo, la stessa che gli faceva paragonare la bella Isabelle ad una dea guerriera; se non avesse saputo del suo amore corrisposto con un giovanotto del posto, Simon gli pareva si chiamasse, avrebbe giurato che avrebbe scelto la strada che i genitori avevano auspicato per lei, diventare sacerdotessa; destino che invece lui avrebbe presto reclamato per sé al posto del matrimonio che i suoi genitori stavano cercando di combinargli con l'aristocratica Lidya, dalla dote cospicua e lignaggio impeccabile.

Il fatto che poi Isabelle avesse espresso la sua volontà di venire guidata dalla saggezza e dalla forza della venerabile dea Atena e non dal desiderio di libertà della ribelle dea vergine Artemide aveva poca importanza per loro: il fatto stesso che avessero destini così simili e contrari era causa di un incommensurabile affetto e inesplicabile empatia tra i due fratelli.

L'aveva abbracciata forte dopo le sue parole, per poi augurarle ogni bene al fianco dell'uomo che amava. Lei aveva solo quattordici anni, ma agli occhi del mondo era già donna e presto, non appena Simon avesse preso il posto del padre al Consiglio della polis, l'avrebbe chiesta e ottenuta in moglie.

Alec si consolava sapendo che sarebbe stata in buone mani, ma l'idea di lasciarla per sempre era comunque straziante.

Per questo aveva messo da parte il buon senso e aveva dormito abbracciato a lei, tenendo lontana la paura del futuro in cui sarebbero stati separati, godendosi degli ultimi attimi in cui sarebbero stati l'uno la famiglia dell'altra.

Ma ogni notte doveva finire e alla successiva alba la decisione di Alexander era stata presa.



 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Magnus: il Dono ***


Magnus: il Dono



Il sole riscaldava l'aria del primo mattino di una tersa giornata di primavera, quando il viaggio di un giovane uomo con un grande sogno giunse a conclusione.

Magnus Bane aveva desiderato viaggiare fin da quando aveva memoria.

Le storie degli aedi lo avevano vinto con la loro magica musicalità, facendogli sognare della lontana Persia dai sapori forti e della bella Roma dalla neonata cultura, delle esotiche piramidi egizie e della feroce Cartagine.

Ma suo padre, Asmodeus lo scultore, aveva sempre impedito al suo unico figlio di allontanarsi dalla sua officina per più del tempo necessario ad andare al mercato di Atene a comprare della frutta.

Aveva sofferto per questo suo tarpargli le ali e tutte le volte che un adolescente Magnus, con gli occhi verde-ambrati che condivideva col padre pieni di liquida furia, aveva osato alzare la voce per ribadirlo l'uomo che gli aveva dato la vita gli raccontava la storia di Icaro.

Le mie ali non sono di cera, non mi faranno cadere, sono più forte di quel che credi!

Aveva dovuto attendere di compiere diciannove anni per ricevere qualcosa di simile all'approvazione paterna per poter partire per il suo viaggio, ma le stagioni che si erano susseguite non sarebbero certo bastate senza un po' di fortuna.

Pochi mesi prima, un ricco mercante che aveva attraccato al porto era passato da loro, commissionando all'officina di Asmodeus un busto che lo rappresentasse: il suo sempre crescente successo lo stava rendendo molto potente nella sua città e tutta quella influenza lo aveva riempito di arroganza.

Magnus aveva riconosciuto subito che tipo d'uomo fosse: abiti nuovi, sorriso tronfio e pieno di ubris, la tracotanza tipicamente umana, baffi e capelli castani unti d'olio perché rimanessero arricciati con la studiata noncuranza che andava tanto di moda nelle poleis dell'entroterra grazie alle effigi di Apollo, sempre più spesso rappresentato con i ricci del colore dell'oro dolcemente smossi dal vento. Il suo stesso padre aveva restaurato alcuni vecchi rilievi dei templi di Atene per adattarli al nuovo immaginario comune di divina bellezza e perfezione.

Aveva storto il naso all'idea che avrebbe dovuto aiutare a realizzare qualcosa di celebrativo e onorevole come un busto per un misero esemplare di essere umano come quello.

Specialmente perché egli, quando aveva visto i loro occhi a mandorla e i capelli neri, tanto estranei a quelle regioni, aveva chiaramente ponderato di andarsene. Ma se erano loro i più rinomati per lavorare bronzi e marmi in tutto il territorio, un motivo c'era e il Signor Boria doveva saperlo, perché era rimasto.

Suo padre allora gli aveva proposto una sfida, forse troppo stanco di vederlo in compagnia di giovani disertori o anziani veterani che si riempivano di idromele fino a svenire, o forse semplicemente esasperato dalle continue dispute con il più giovane.

Avrebbero entrambi realizzato quanto loro richiesto e se il loro cliente avesse preferito il lavoro del figlio, questo sarebbe stato libero di usare i soldi ricevuti come compenso per visitare altri luoghi.

Magnus era stato tanto felice di quel compromesso che, per la prima volta dopo tanti anni, aveva impugnato lo scalpello e aveva lavorato con sincero entusiasmo. Non che ereditare il lavoro di suo padre non fosse nei suoi progetti, ma prima di poter davvero decidere avrebbe voluto vedere il mondo... o almeno una sua parte.

Aveva lavorato sodo giorno e notte, con la sensazione che quella era l'occasione della sua vita, che qualcosa di meraviglioso e grande lo stesse aspettando al di fuori dei confini di casa sua.

Aveva pregato con una devozione nuova per la riuscita della sua impresa: non era mai stato troppo devoto, non avrebbe neppure saputo quale dio pregare per vincere quella sfida, ma aveva infuso ogni sua energia in quei mormorii sotto le stelle, mentre usciva all'aperto per lavorare in gran segreto sul suo lavoro.

Aveva impiegato tutte le abilità innate che gli aveva trasmesso il padre, insieme alle tecniche che lo stesso Asmodeus gli aveva insegnato con tutta la sua -scarsissima- pazienza. Magnus era fermamente convinto di aver ereditato la propria, praticamente inesauribile, dalla madre che non aveva mai conosciuto essendo morta di parto.

Era stata la prima volta che l'uomo gli aveva concesso di utilizzare uno dei suoi strumenti di lavoro personali invece di quelli a disposizione di tutti i suoi collaboratori e allievi: il suo scalpello personale.

Glielo aveva dato in prestito come "prova di fiducia", qualcosa che per gli standard di suo padre equivaleva ad abbracci virili e lunghi discorsi di incoraggiamento. 

Magnus l'aveva capito, perciò per una volta nella sua giovane vita aveva evitato di usare il sarcasmo che era tratto distintivo del suo carattere e lo aveva semplicemente ringraziato, promettendogli che l'avrebbe battuto proprio con il suo scalpello, l'attrezzo a cui teneva di più. Era stato donato ad Asmodeus dal suo maestro quando aveva portato a termine il primo lavoro importante, e nonostante i molti anni di servizio faceva ancora il suo lavoro. La punta era ancora perfetta, senza un grammo di ruggine o incuria, e la selce che componeva il manico era ancora finemente intagliata, con i suoi rami d'alloro stilizzati.

Non proprio caratteristico, aveva pensato un undicenne Magnus quando aveva ottenuto il permesso di entrare nel laboratorio paterno per poter iniziare con i lavori più semplici. Gli era stato detto che il maestro di suo padre l'aveva ricevuto in dono da sua moglie, che l'aveva fatto fare appositamente come dono per l'uomo in vista del loro matrimonio: era stato il suo modo per dire che si affidava a lui e al suo lavoro di scultore, che era certa della loro vita insieme e che ne era persino orgogliosa.

Anche suo padre ne aveva fatto dono alla madre di Magnus, Madelaine, quando era rimasta incinta, ma il dolore per la sua morte era stato tale che ci erano voluti anni prima che ricominciasse a utilizzare quello specifico strumento per il suo lavoro.

Ecco perché il giovane scultore aveva creduto che dietro il gesto del padre, quel suo affidargli pur temporaneamente un oggetto di tale valore simbolico, ci fosse la sua volontà che lui facesse del suo meglio per scegliere la sua strada.

Gli stava dando la possibilità di farlo.

Dopo settimane e settimane di lavoro e perfezionamenti, era giunto il momento della consegna dei loro lavoro.

E Magnus aveva vinto, molto più di quanto in quel preciso momento potesse immaginare, ma quel che sapeva era bastato a riempirlo di gioia e soddisfazione, specialmente quando il padre, per la prima volta dopo molto tempo, gli donò un piccolo sorriso sinceramente orgoglioso.

Si sentì così forte, in quel momento, che avrebbe potuto persino scalare l'Olimpo.




Aveva aspettato solo pochi giorni prima di riscuotere il suo premio, il tempo per radunare provviste e vestiti, oltre a una discreta spada corta per difendersi lungo la strada, e salutare i pochi amici sinceri che aveva.

La sera prima della sua partenza, si accomiatò da suo padre.

-Te lo affido. Fanne buon uso, figlio mio, e quando arriverà il momento spero di cuore che saprai a chi donarlo.-

Gli era stato affidato lo scalpello di suo padre. Si era rifiutato di commuoversi, ma lo aveva sinceramente ringraziato, pur pensando in cuor suo che difficilmente avrebbe trovato qualcuno a cui poter donare un pegno di quel calibro.

Insomma, aveva già diciannove anni e non si era ancora deciso a cercare di sistemarsi, mentre molti giovani della sua età, se non erano partiti per arruolarsi, erano già sposati e alcuni avevano persino dei figli.

Discendeva da una stirpe straniera e anche se il nome dei Bane era diventato famoso come quello di pregiati scultori, non bastava a fare di loro dei partiti appetibili. Non che a sua madre fosse mai importato... ed era per quel motivo che l'aveva sposato.

Lui stesso nemmeno sapeva se la desiderava, al suo fianco per tutta la vita, una ragazza, solo per farci una famiglia... l'idea stessa di diventare un marito e un padre lo terrorizzava più dell'idea di un'invasione di Titani...

Aveva comunque accettato il dono, pensando che avrebbe potuto donarlo a tempo debito al suo miglior allievo, una volta rilevata la bottega dal padre.

L'aveva riposto con cura nella sua sacca, chiudendola con un nodo ben stretto, sentendosi finalmente pronto a esplorare il mondo.




Aveva iniziato con qualcosa di più semplice del mondo, come andare a guardare ogni singolo agglomerato urbano, di qualunque dimensione fosse, con destinazione il mar Egeo. Aveva deciso che, una volta giunto alla famigerata Efeso, avrebbe comprato un passaggio su una nave mercantile per viaggiare sull'acqua salata e affidarsi al caso per la sua successiva destinazione. Non era poi così importante per lui la meta, quanto il viaggio compiuto per arrivarci.

Fu con questa convinzione e i ricordi della sua vittoria con il padre che era giunto all'ultima tappa conosciuta del suo viaggio. Prima di entrare e andare a visitare il tempio di Artemide però, cosa che aveva sempre voluto fare da quando il padre gli aveva raccontato delle meravigliose sculture che lo adornavano, decise di farsi un bagno nel bosco che costeggiava la città verso nord, mentre a sud era baciata dal mare. 

Era meravigliosa, nulla da dire sul panorama.

Fu fortunato a trovare un fiume di acqua limpida non troppo distante in cui dissetarsi e, dopo essersi accertato di essere solo, si era spogliato della sua tunica color sabbia e dei sandali di cuoio e si era immerso con un gemito di piacere nell'acqua non troppo alta, per poi immergersi completamente. La corrente non era forte e rialzandosi il livello non gli superava di molto la vita, non avrebbe corso alcun rischio a stare accucciato nel letto del fiume per qualche secondo, godendosi la sensazione di farsi lavare via sudore, lerciume e stanchezza di dosso.

Riemerse, tirando un profondo respiro che sapeva immensamente di libertà nella pace di quel luogo quasi fuori dal mondo, tanto tranquillo e dalla magica atmosfera da avere l'impressione che da un momento all'altro sarebbe apparsa una ninfa dei boschi, magari inseguita dall'intrepido Apollo che ne voleva fare la sua amante.

Si lasciò scivolare via l'acqua fresca dalla pelle ambrata, godendosi i tiepidi raggi del sole, quando udì un rumore che lo mise in allarme. Fino a quel momento non aveva subito aggressioni, ma era abbastanza sveglio da sapere che poteva accadere da un momento all'altro.

Raccolse la spada che aveva posato vicino alla riva, poi uscì per avere più libertà di movimento, voltandosi velocemente verso la fonte di quel rumore - un semplice ramo spezzato, realizzò - dimenticandosi oltretutto di non avere nulla addosso se non la propria pelle, resa luminosa dall'acqua e dal sole.

Si volse e, proprio davanti a lui, a pochi metri di distanza e con un arco teso e pronto a scoccare una freccia da un momento all'altro, c'era la prova vivente dell'esistenza delle divinità nel loro mondo.

Non fu un pensiero razionale, ma Magnus non riusciva più a ragionare da quando le sue iridi si erano incatenate a quelle del giovane che puntava una freccia dritta verso il suo cuore.

Non ne hai bisogno, avrebbe voluto dirgli.

Cupido lo aveva già colpito con la sua, di freccia, e per lui non c'era più alcun modo di tornare indietro a prima che il suo cuore si riempisse di meraviglia per tutta quella bellezza. 

Egli era Apollo, con il suo arco teso e i ricci che gli circondavano il volto tanto perfetto da far male agli occhi, e al tempo stesso la sua gemella Artemide, con i suoi capelli neri come la notte e la pelle bianca come la luna che era suo simbolo e con un cervo a poca distanza che li osservava curioso, insieme a molti altri animali selvatici tutto intorno a loro.

Era Afrodite, con la sua bellezza devastante, tale da portare gli uomini e le donne alla follia pur di averlo, dotato di una sensualità impareggiabile e inconsapevole.

Aveva Poseidone nello sguardo blu come il mare, pieno delle tempeste, delle correnti e della vita stessa che animavano il mare.

E aveva qualcosa dello stesso Zeus, il padre degli dei, anche se Magnus non riuscì subito a capirne il motivo... finché non fece caso al suo fisico muscoloso, quello di un soldato, ma sistemato in una postura fiera ed elegante, come quella dei grandi condottieri e dei sovrani.

Poi il giovane Adone abbassò la sua arma, guardandolo ora con un leggero imbarazzo, tanto più evidente se si guardavano le sue gote incredibilmente arrossate sulla pelle pallida.

-Mi dispiace di averti spaventato, di solito qui non viene mai nessuno e temevo di trovare degli orsi, o dei furfanti. Tutto bene?-

La sua voce era come una musica eterea e Magnus, incantato da quel suono, si era scordato di abbassare la spada e di chiudere la bocca, che gli si era spontaneamente spalancata a quella visione.

Il ragazzo aggrottò la fronte, confuso per il suo silenzio, e senza più badare troppo alla sua nudità gli si avvicinò.

-Mi chiamo Alexander, ma preferisco Alec. Vivo al tempio qui a Efeso, mi stanno addestrando per essere un sacerdote di Artemide. Se ti serve aiuto, puoi rivolgerti a me senza timori.-

Per sottolineare quelle parole, appoggiò a terra il suo arco lentamente, per poi avanzare di un passo verso di lui.

Alexander...

Qualcosa in quel nome funse da richiamo per lui, sentì uno strappo feroce dentro di sé, come se metà della sua anima, prima interamente dentro di lui, si fosse improvvisamente fiondata da qualche altra parte. Fu doloroso e inspiegabile, ma per qualche motivo non si era mai sentito meglio.

Riprese finalmente possesso del suo corpo, lasciò cadere la lama e si lasciò andare al sorriso più smagliante di cui fosse capace. Non che gli risultasse poi difficile, si sentiva euforico e sorridere era naturale come respirare in presenza di quel bel moretto.

-Io mi chiamo Magnus Bane, faccio lo scultore e sono in viaggio... cercavo proprio il tempio di Efeso, vorrei visitarlo, mio padre ha elogiato a lungo le opere d'arte che contiene. Se tu potessi mostrarmelo te ne sarei molto grato.-

-Non c'é problema, ti posso portare direttamente lì se lo desideri, per oggi ho finito con i miei compiti qui. Prima però...-

Arrossì in un modo che Magnus riuscì a definire solo tenero, ma non capiva perché all'improvviso fosse tanto agitato dalla sua presenza.

-...potresti rivestirti?-

Magnus rise, forte e di gusto, ma si disse di non fare troppo lo sfacciato e si rimise tunica e sandali, prima di seguire l'adone moro che aveva incontrato.





Note:
Sì, lo so, dovrei continuare l'altra long che ho in corso su di loro....
Fidatevi, ho tutte le intenzioni di riprenderla presto in mano e di finirla, ma siccome questa storia è una mini-long di appena tre capitoli ho deciso di darle priorità in modo da completarla presto.
Abbiate fede e, se fin'ora la storia vi è piaciuta o avete commenti da fare sapete di essere i benvenuti!
(per chi volessa fangirlare un po' su questa coppia invece passi pure anche alle tre del mattino, per i cuoricini volanti e occhi teneri e commenti fluffosi ho sempre tempo!)
Ci vediamo presto all'ultimo capitolo, spero che fin'ora questo primo esperimento di AU storica stia almeno un po' interessandovi!
Flos Ignis

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Insieme: il Fato ***


Insieme: il Fato




Ogni giorno di quella meravigliosa primavera fu un'avventura.

Le intenzioni di Magnus di partire per le terre più a est erano svanite nell'aria, come non fossero mai esistite. Ora passava molte delle sue giornate rinchiuso nel tempio di Efeso, offrendo in cambio di asilo i suoi servizi di restauratore, mentre il suo nuovo amico gli raccontava con occhi brillanti di orgoglio le gesta di quella dea che per lui tanto significava.

Alec, d'altro canto, quando non era occupato a studiare o cacciare nei boschi, amava trascorrere ore e ore ad ascoltare i racconti del giovane scultore, delle poleis che aveva visitato da quando aveva ottenuto il permesso da suo padre di lasciare l'officina, oppure della gente che aveva conosciuto e delle loro diversità.

A volte, alla fine della giornata, quando nessuno dei due riusciva a prendere sonno e solo le stelle vegliavano su di loro, facevano lunghe passeggiate nei dintorni della città, arrivando fino in riva al mare; Alec prendeva sempre con sé arco e faretra, tenendo sempre i sensi all'erta, anche se più di una volta Magnus aveva cercato di farlo rilassare con storie divertenti e tocchi delicati su quella pelle di luna.

I suoi occhi blu, più che le belle labbra carnose, sorridevano a quei contatti.

Se lo scultore si fosse accorto che le sue discrete attenzioni non erano almeno un po' gradite, avrebbe preso il largo su una nave da molto tempo, ma aveva scoperto che si sentiva mancare l'aria quando l'altro non era presente, mentre i colori splendevano di una vividezza nuova quando incrociava lo sguardo con quello di Alec.

L'azzurro dei suoi occhi non aveva nulla da invidiare al cielo e al mare, era quanto di più simile Magnus avesse visto alle lapislazzuli che incastonava suo padre negli occhi di quelle statue che venivano commissionate dai clienti più facoltosi. Aveva parlato spesso del suo lavoro con il nuovo amico, soprattutto mentre gliene dava dimostrazione pratica: aveva riportato alla luce alcuni dettagli delle statue meravigliose che Alec tanto amava, ricevendo molti complimenti per il suo talento.

Era silenzioso, Alexander. 

Magnus se ne era accorto in fretta e la cosa invece di scoraggiare i suoi tentativi di avvicinamento lo aveva istigato in maniera violenta. Era difficile per il più giovane parlare di sé, ma Magnus era dotato di grande pazienza e ne aveva dato prova rispettando i tempi del ragazzo, che si era aperto poco a poco, raccontandogli di sua sorella Izzy, poi della nascita del suo fratellino Max, ma solo da poco gli aveva confessato la stretta connessione di quell'evento alla sua devozione alla dea.

-...mia madre e mio fratello rischiavano la vita, Magnus, e io ero impotente. Un bambino senza alcuna possibilità di cambiare le cose, non da solo almeno. E così sono andato da qualcuno che avrebbe potuto: sono venuto qui, in questo tempio, a pregare per la salvezza di ben due vite. Offrirle la mia come suo adepto non mi pare un prezzo terribile da pagare per quello che mi ha offerto.-

Era stato in quel momento che Magnus aveva scelto di restare.

Per Alexander e il suo cuore incredibilmente altruista e generoso, che lo chiamava a sé come il canto delle sirene attraeva i marinai.




I fiori avevano in seguito lasciato il posto ai frutti, e dopo ancora il verde delle foglie aveva cominciato a cedere il passo al fuoco dei colori autunnali. 

Fu allora che Magnus prese la sua decisione.

-Alexander, avrei bisogno di parlarti. Hai qualche minuto da dedicarmi?-

-Certo. Andiamo fuori.-

Come ogni volta in cui usciva, si armò da capo a piedi, precedendolo sulla stradina conosciuta solo da loro due per arrivare al luogo dove si erano conosciuti: erano soliti andare lì per avere le conversazioni più intime e private, quando la necessità della discrezione superava la paura delle maldicenze che avevano cominciato a diffondersi sia dentro che fuori dal tempio.

Cercavano di ignorarle come meglio potevano, ma Magnus sapeva che la situazione precaria in cui si erano trovati doveva cambiare. Aveva trovato la sua risposta, ma la decisione finale spettava ad Alexander.

Non nascondeva di essere davvero molto nervoso, cosa che persino l'arciere aveva notato, o non l'avrebbe portato nel loro luogo speciale senza prima chiederglielo. Aveva capito quanto fosse seria per l'altro la questione e aveva agito in suo favore senza farglielo pesare, per rendergli il più confortevole possibile la confessione che stava per fargli.

E fu per questo che si decise a parlare, perché non fu mai così sicuro della sua scelta. Non conosceva il codice da seguire in una situazione simile, perciò avrebbe improvvisato e fatto come gli suggeriva l'istinto.

-Ti ricordi di questo, Alexander?- tirò fuori lo scalpello con il manico in selce intagliato che usava sempre per lavorare, Alec lo aveva visto spesso in mano sua.

-Naturalmente sì, é lo scalpello che ti ha donato tuo padre per aver vinto la competizione con lui, ricordo bene?-

-Quello che dici é vero, ma non ti ho raccontato tutta la storia di questo oggetto.-

-Vuoi dirmela ora?- lo chiamò più vicino a sé, seduto sulla riva dello stesso fiume dove si erano conosciuti, per parlare più comodamente.

Magnus si sedette accanto a lui, poi gli porse il singolare attrezzo.

-Te lo voglio regalare.-

-Perché? Non é importante per te?-

-Lo é moltissimo, ed é per questo che ora appartiene a te.-

-Non credo di capire...- ed era abbastanza ovvio, dal genuino stupore di quegli occhi blu, che davvero non capisse cosa stesse facendo Magnus e perché.

L'avrebbe scoperto molto presto.

-Si tratta di un oggetto abbastanza vecchio, in realtà. Il maestro di mio padre lo ricevette come dono di nozze dalla donna che aveva sposato, ma siccome non ebbero mai figli decise di passarlo in testimone insieme alla bottega al suo miglior apprendista, che si rivelò essere mio padre. A sua volta, lui lo regalò a mia madre, ma lei é morta di parto. Perciò, ora lo ha regalato a me, affidandomelo insieme al suo lascito del laboratorio che erediterò non appena farò ritorno.-

Alec aveva ancora la sua espressione adorabilmente confusa stampata in volto, perciò era evidente che Magnus dovesse essere ancora più esplicito, anche se farlo sarebbe costato al suo povero cuore tuonante ancora più fatica per funzionare data la morsa dell'ansia che lo ghermiva con artigli crudeli.

-Mi ha raccomandato di donarlo alla persona con cui passerò il resto della mia vita, quella che voglio sposare.-

Silenzio totale, persino il bosco tacque per non spezzare la bolla privata in cui si erano rinchiusi.

-Non posso accettarlo allora Magnus, non puoi certo fare un dono così prezioso a me.- era arrossito in una maniera che lo scultore poté definire solo "deliziosa", ma cercò di non farsi distrarre, perché era arrivato al momento cruciale del suo discorso.

-Invece devi accettarlo, proprio perché sei tu e sei molto più che solo prezioso, sei inestimabile per me. Sono convinto che le Parche abbiano ricamato il filo delle nostre esistenze perché ci incontrassimo: lo scopo ultimo del mio viaggio eri tu, sei sempre stato tu e ora che ti ho trovato vorrei che tu capissi che questi miei... sentimenti d'amore, sono per te, sei il loro principio primo e il motore che li mantiene vivi. Perciò io ti chiedo di venire via con me.-

Alexander era arrossito ancora di più, boccheggiava come se facesse fatica a respirare, poi si alzò di scatto e prese a fare avanti e indietro per diversi minuti, in evidente stato di profonda agitazione.

-Magnus, tu sei... immorale, ecco! Non puoi parlare di certe cose con me, sono un uomo come te! Non puoi farmi un simile dono e io non posso accettarlo perché é sbagliato! Si sa quale sia l'unico esito possibile di una relazione di questo tipo, ed é la collera divina, che presto o tardi si presenterà, anche se per mano umana! Forse, se dimentichiamo questa conversazione e facciamo finta di nulla...-

-Io non posso fare finta di nulla, Alexander! Mi sono innamorato di te e questo non può cambiare, né essere nascosto. So cosa si pensa di queste relazioni in queste regioni, ma oltre il mare, nella terra dei miei antenati, non avremmo problemi, sono estremamente liberali per quanto riguarda le relazioni sessuali, il matrimonio ha valore solo per questioni di eredità. So che ti chiedo molto, ma so anche che provi ciò che provo io... allora, accetta il mio dono e vieni con me laggiù.-

-Non posso credere che tu mi stia chiedendo questo! Se... se anche provassi quello che provi tu, cosa dovrei fare? Si tratta forse di un gioco, per te? Perché per me é una faccenda molto seria, mi stai chiedendo di abbandonare la mia terra, il mio credo, la mia famiglia e il mio voto al tempio, e tutto questo solo per te, per seguirti in qualcosa che dannerà l'anima di entrambi! Tu... stai alla larga da me!-

Lasciò cadere a terra lo strumento dello scultore che aveva spasmodicamente stretto nel palmo della mano fino a quel momento, recuperò l'arco che aveva fatto cadere in precedenza e si incamminò in tutta fretta sulla strada del ritorno.

-Io parto tra tre giorni dal porto. Non te lo chiederò un'altra volta.- le parole di Alexander l'avevano ferito, ma anche se sapeva che sarebbe successo qualcosa del genere non avrebbe mai potuto andarsene senza almeno aver dichiarato al suo adorato Alexander i suoi sentimenti.

Non se lo sarebbe mai perdonato.




Non si erano più parlati per i successivi due giorni. Magnus aveva recuperato il suo leggero bagaglio e si era trovato un altro posto dove dormire per le poche notti che gli rimanevano prima del suo rientro a casa.

Se non poteva avere l'uomo che voleva in viaggio con lui in una terra straniera tutta da esplorare, allora tanto valeva fare ritorno alla casa della sua infanzia, nella sicurezza dell'amore di un padre parco di attenzioni ma sempre presente e di un lavoro che, tutto sommato, amava.

Aveva passato gli ultimi giorni di libertà a bere idromele fino a stordirsi, per poi ritirarsi nella stanza che gli avevano trovato in una locanda fino al successivo giro di bevute.

In tutto questo, non una parola o uno sguardo dal ragazzo che lo aveva ammaliato con la sua seducente innocenza. Gli era rimasto solo il dono che l'altro non aveva voluto accettare, per cui passava ore a fissarlo con gli occhi sbarrati e arrossati per le ore insonni e piene di incubi a occhi aperti.

Non se la sentiva di biasimare il ragazzo, era cresciuto in quella terra esattamente come lui, ma suo padre gli aveva anche dato un'alternativa. Per le sue credenze in parte sbilanciate rispetto al credo comune aveva avuto molti problemi nella sua giovane vita, ma aveva fatto tesoro della sua diversità, perché questa sua conoscenza dell'esistenza di "un'altra possibilità" lo portava sempre a farsi domande forse scomode, ma che lo facevano sentire libero, almeno nella propria testa, di essere migliore, più furbo degli altri per il suo non lasciarsi mai andare alle facili manipolazioni.

Eppure quella sua diversità gli era costata il cuore.

E allora, che senso aveva la libertà di amare qualcuno se la società gli impediva comunque di vivere davvero quel sentimento?

La mattina della partenza, il sole non era ancora sorto quando Magnus arrivò al porto. Mancava poco all'inizio del suo ultimo viaggio, che avrebbe percorso per gran parte per mare a differenza dell'andata, perciò si affrettò a salire sulla nave mercantile per posare la borsa da viaggio e mettersi a fissare la distesa d'acqua salata.

Aveva scoperto lo scopo ultimo del suo viaggio: trovare Alexander. 

E anche se non era andata bene, avrebbe conservato un dolce ricordo di quegli occhi blu che, lui ne era certo, un giorno avrebbe rivisto. Nel frattempo, si sarebbe accontentato di ricordarne la bellezza osservando il mare nel punto esatto in cui si fondeva con il cielo, fondendo le loro incredibili tonalità di azzurro e mutandosi a vicenda, finché l'alba non arrivò a riflettere la sua luce sul mondo, accecando gli occhi verde-dorati di Magnus, divenuti liquidi di tristezza.

E per la prima volta da tre giorni, riuscì a piangere per dire addio al suo amore, lasciando che esso si dissolvesse cadendo nel mare.

Chissà se é così che si é formato l'oceano: con le lacrime dei cuori infranti.




Quella mattina, quando Alec si svegliò con il tormento che lo scuoteva nell'anima di aver perso il suo amico e di non averlo neppure potuto salutare, decise che doveva distrarsi in qualche modo. Si inoltrò all'alba nel bosco per cacciare, per la prima volta sentendosi quasi rifiutato dalla dea cui era consacrata quell'attività.

Che il subbuglio nel suo cuore l'avesse ripugnata? Che avesse scorto le reali parole che avrebbe voluto rispondere a Magnus?

Ma nonostante le tentazioni aveva resistito ed era rimasto fedele ai suoi ideali e al voto fatto alla dea Artemide, era orgoglioso della sua forza di volontà.

Ma allora perché il suo cuore piangeva, al ricordo delle parole che gli aveva rivolto e di quegli occhi tanto belli quanto fragili nel mostrargli i sentimenti che aveva sviluppato per lui?

Senza rendersene conto, prese a correre alla massima velocità che le sue gambe gli consentivano, sentiva solo il vento nelle orecchie, i lievi rumori del bosco che si stava svegliando e il tintinnio delle sue frecce che si toccavano ad ogni suo passo affrettato.

Arrivò con il fiatone in quel luogo di pace che aveva condiviso con un uomo che l'aveva fatto sentire sereno e felice come mai nessuno prima era stato in grado di fare, e quando riacquistò il minimo di calma necessaria a non farsi scoppiare i polmoni dal fiatone, crollò a terra, proprio sulla riva...

...dove, piantato nel terreno, nel punto esatto in cui Magnus era emerso dalle acque appena due stagioni prima, si ergeva lo scalpello, il manico in selce umido di rugiada e la punta di ferro affondata della nuda terra.

Alec lo estrasse, per poi portarselo al petto, cullando quell'oggetto tanto prezioso.

E finalmente, anche lui pianse per l'amore che aveva perduto e per la vita che aveva rifiutato tanto malamente, sperando di venire perdonato per aver ferito una persona meravigliosa come Magnus Bane, l'unico uomo che avrebbe mai amato, pur non dicendoglielo mai.




Le Parche, alle volte, sanno essere crudeli. 

Intrecciano vite destinate a completarsi a vicenda, per poi districare la matassa e dividere le esistenze senza farle più ricongiungere.

Questo porta un dolore sottile all'anima, che emette un richiamo costante alla metà mancante di se stessi, una fame insaziabile e un muto grido che fiaccano lo spirito dei mortali.

Quelle anime sono destinate a vagare senza pace nell'Ade, alla ricerca vana ed eterna di ciò che può riempire il loro vuoto.

Ma talvolta, qualcosa che sta al di sopra delle stesse Parche decide che non é così che la storia doveva andare, che il Fato ha deragliato perdendo il suo naturale equilibrio.

Allora quelle anime disperate vengono graziate da una seconda possibilità, chissà in quale Tempo, in quale Luogo si potranno nuovamente trovare... ma accadrà.

Perché il vero Fato delle Anime Gemelle é quello di cercarsi, trovarsi, amarsi... per l'eternità.

Magari, nei panni di due persone in grado di ristabilire quel perduto equilibrio... di modo che sacro e dannato imparino a convivere e, perché no, ad amarsi persino, come angeli e demoni non hanno mai fatto.

Un giorno però, i loro discendenti...







Note:
Sì, termina così. Niente lieto fine, solo un addio che a me personalmente ha straziato il cuore dover scrivere.
Ci ho pensato e ripensato davvero molto attentamente, ma questo tipo di AU, con questo tipo di coppia, per essere fedele non ha modo di concludersi felicemente.
Alec non ha la forza di accettare la sua diversità in un mondo che, anche conoscendola, sa essere persino meno disposto ad accettarla dei giorni nostri, fino ad arrivare alla crudeltà spacciandola per moralità.
Magnus, d'altro canto, non può combattere come fa il personaggio originale perchè Alec si faccia coraggio, non ne ha la saggezza (ricordo a tutti che questo Magnus NON è uno stregone di un numero incalcolabile di secoli...) nè la costanza, con il tipo di vita che lgi ho dato.
Mi ha uccisa non poter dar loro l'happy ending... ma siccome sono un'inguaribile sentimentale (ok, ok, l'ho ammesso, contenti amici? piantatela di rompermi, grazie! XD) non potevo non dar loro un barlume di speranza.
E quale avrebbe potuto essere migliore, se non la prospettiva di una vita insieme in un tempo in cui entrambi saranno pronti a viverla davvero? Penso di essere stata abbastanza ovvia alla fine del capitolo, parlando di discendenti di angeli e demoni... ovvero, Nephilim e Stregoni.
Se vi va di farmi sapere cosa ne pensate, io sono qui! è la mia prima AU storica, perciò qualunque tipo di commento (costruttivo, possibilmente) è più che apprezzato!
Spero che vi siate goduti la storia almeno un po' di quanto è piaciuto a me scriverla.
Flos Ignis


 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3849454