Greyback

di Fabio Brusa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima Parte ***
Capitolo 2: *** Seconda Parte ***
Capitolo 3: *** Terza Parte ***
Capitolo 4: *** Quarta Parte ***
Capitolo 5: *** Quinta Parte ***
Capitolo 6: *** Sesta Parte ***
Capitolo 7: *** Settima Parte ***
Capitolo 8: *** Ottava Parte ***
Capitolo 9: *** Nona Parte ***
Capitolo 10: *** Decima Parte ***
Capitolo 11: *** Undicesima Parte ***
Capitolo 12: *** Dodicesima Parte ***
Capitolo 13: *** Tredicesima Parte ***
Capitolo 14: *** Quattordicesima Parte ***
Capitolo 15: *** Quindicesima Parte ***
Capitolo 16: *** Sedicesima Parte ***
Capitolo 17: *** Diciassettesima Parte ***
Capitolo 18: *** Diciottesima Parte ***
Capitolo 19: *** Diciannovesima Parte ***
Capitolo 20: *** Ventesima Parte ***
Capitolo 21: *** Ventunesima Parte - Interludio Arcano ***
Capitolo 22: *** Ventiduesima Parte ***
Capitolo 23: *** Ventitreesima Parte ***
Capitolo 24: *** Ventiquattresima Parte ***
Capitolo 25: *** Venticinquesima Parte ***
Capitolo 26: *** Ventiseiesima Parte ***
Capitolo 27: *** Ventisettesima Parte ***
Capitolo 28: *** Ventottesima Parte ***
Capitolo 29: *** Ventinovesima Parte ***
Capitolo 30: *** Trentesima Parte ***
Capitolo 31: *** Trentunesima Parte - Interludio Errante ***
Capitolo 32: *** Trentaduesima Parte ***
Capitolo 33: *** Trentatreesima Parte ***
Capitolo 34: *** Trentaquattresima Parte ***
Capitolo 35: *** Trentacinquesima Parte ***
Capitolo 36: *** Trentaseiesima Parte ***
Capitolo 37: *** Trentasettesima Parte ***
Capitolo 38: *** Trentottesima Parte ***
Capitolo 39: *** Trentanovesima Parte ***
Capitolo 40: *** Quarantesima Parte ***
Capitolo 41: *** Quarantunesima Parte ***
Capitolo 42: *** Quarantaduesima Parte ***
Capitolo 43: *** Quarantatreesima Parte ***
Capitolo 44: *** Quarantaquattresima Parte ***
Capitolo 45: *** Quarantacinquesima Parte ***
Capitolo 46: *** Quarantaseiesima Parte ***
Capitolo 47: *** Quarantasettesima Parte ***
Capitolo 48: *** Quarantottesima Parte ***
Capitolo 49: *** Quarantanovesima Parte ***
Capitolo 50: *** Cinquantesima Parte - Requiem per un mostro ***



Capitolo 1
*** Prima Parte ***


1/50

La prima cosa che ricordo è il sangue di mia madre.

Si rivela a fatica nella mente, un'immagine oscurata da una fitta nebbia acre. Solo l'odore è nitido, come se lo stessi annusando ora: umido, ferroso, violento e inarrestabile nel suo spargersi per la stanza. I suoni, i colori e le forme, invece, sono confusi e perduti. Forse, se avessi accesso a un Pensatoio, potrei osservare il mio primo ricordo. Vedere con i miei occhi se quello che mi è stato raccontato corrisponde a verità. Anche se ormai ha poca importanza. Lei è morta e non saprei dire nemmeno di che colore fossero i suoi occhi.

La verità è che non mi è mai mancata. Nella baracca fuori Leek, nelle Moorlands, io e mio padre eravamo in grado di badare a noi stessi. 

Eravamo in città da un anno e l'unica cosa che conoscevo erano i campi. I prati verdi e sterminati che si infilavano ovunque, dal limitare del bosco fino a dentro le stradine private. A malapena riesco a figurarmi l'interno della catapecchia di legno marcio dove avevamo trovato rifugio, con un'unica stanza sudicia e il pentolame appeso alle pareti, ma i prati, invece, li ho ancora dentro. Grilli neri e grossi come il mio pugno infantile scappavano veloci dentro le loro tane, senza che riuscissi ad afferrarli. A volte, però, mi convincevo a stare in silenzio. Rimanevo immobile e senza emettere un fiato talmente a lungo che l'erba stessa ricominciava a crescere, come se non ci fosse nessuno a spiarla.  I bruchi strisciavano sui lunghi gambi dell'erba-capra, mangiando fino a diventare grassi e oziosi. Il vento tiepido della primavera faceva ondeggiare gli steli, e io li guardavo. Ci parlavo, aspettandomi una risposta.

"Dove passi l'estate, piccolo bruco?"

"Quando diventi farfalla, mi passi a trovare?"

Credevo di vivere in una sorta di paradiso, con mamma e papà che si assentavano durante il giorno, per lasciarmi alle cure del sole e del nostro cane Ursula. Credevo che fosse lei a tenere lontane le persone. Era un'ombra torreggiante e costante, che mi accompagnava all'avventura ogni giorno, fino all'ingresso di Curtney Street. Se volevo seguire i miei genitori, spinto dalla mia inesauribile curiosità, lei mi tirava per le bretelle, indirizzandomi di nuovo verso casa.

Una volta vidi un uomo con il cappello arrivare fino all'ingresso della via. Lo ricordo perché fu strano osservare come si fermò, di fronte al nulla, perplesso e incapace di proseguire. Esattamente come una formica, spinse il naso a destra e a sinistra, scegliendo una strada alternativa per i propri passi.

Ero al sicuro da tutto.

Da tutto, tranne che dai due maghi che tornavano ogni sera con il pane, i cavoli e la carne secca.

La cosa peggiore che mi potesse capitare era di essere amato troppo. Mio padre tornava sempre per primo. Ogni sera, in largo anticipo sul calare del sole, veniva a cercarmi  fra l'erba alta. Io cercavo di nascondermi, e pensavo anche di farlo bene, seguito a ruota da Ursula e dalla sua testa bavosa.

Avevamo un rituale. Lui diceva sempre:

- So che c'è un bambino in questo campo. Fatti vedere e non ti sarà fatto alcun male! -

Io allora ridevo, mi cacciavo dietro una pianta e urlavo:

- Prova a trovarmi, faccia di cinghiale! -

Così partiva la caccia. Mio padre si abbassava a quattro zampe e cominciava a grugnire, facendosi avanti a zig-zag, fingendo di non avere già visto me o il cane. Scappavo finché potevo, o fino a che credevo di non essere stato scorto, prima di alzarmi e tentare una corsa su gambette che avrebbero mal servito persino un topolino. Ursula si metteva in mezzo a noi, cercando di proteggermi, ma presto o tardi cadevo a terra sconfitto dalle risate e dal solletico.

Il cane non si rilassava mai. Rimaneva impettito, al mio fianco, ad osservare mio padre riempirmi di pernacchie e pizzicotti. Sembrava sempre così strana, Ursula. 

Era un cane che non rideva mai.

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Capitolo 2
*** Seconda Parte ***


2/50

Papà non parlò mai dell'incidente, o almeno non con me.

Capii cos'era successo solo diversi anni più tardi, dai vecchi giornali e da ciò che ormai avevo imparato a conoscere grazie ai graffi sulla pelle. Ma, per quanto mi sforzi, posso solo immaginare quello che accadde quella notte. Non ho mai saputo la data esatta: quello che so, è che mia madre morì in una pallida notte di luna piena nell'Ottobre 1949.

Diedrich Marlowe scrisse, per la Gazzetta del Profeta:

Licantropi a Leek: il conto delle vittime aumenta

Nella cittadina dello Staffordshire, sconquassata dall'ondata di terrore, il numero di omicidi perpetrati sia ai danni di babbani, sia di maghi e streghe, sembra non avere fine.

Aurelius Princh, auror del Ministero, si dichiara "certo che il colpevole, o i colpevoli, saranno consegnati presto alla giustizia e, secondo le leggi in vigore, saranno soppressi". 

Nel frattempo, Leek rimane in balia della paura. Ieri sera è stata scoperta l'ultima vittima delle selvagge creature nascoste in città. Si tratta di Sigourney Preston, strega scomparsa dalla propria dimora londinese nel 1940. A causa dei bombardamenti babbani, che colpirono i rifugi magici in seguito all'azione spregevole di Grindelwald, la signorina Preston - all'epoca ventenne - venne data per morta.

Apprendono ora notizia della tragica fine i familiari e i congiunti rimasti a Londra, i quali si uniscono alle già numerose rimostranze affinché il Ministero prenda provvedimenti concreti e sistematici per debellare la piaga della licantropia dall'Inghilterra.

Nessuno nominò mai Ursula. Anche lei ci lasciò quella notte, nel tentativo di proteggere mia madre dalla Furia. Ma era solo un animale, e a nessuno interessa mai di uno stupido, dannatissimo cane. 

Si chiesero tutti come la signorina Preston avesse trascorso gli anni, dopo essersi salvata dalle bombe. Forse aveva perso la memoria e aveva vagolato per le campagne, o forse era fuggita per paura di rimanere coinvolta negli attacchi. Oppure - peggio ancora - era una traditrice informata delle intenzioni di Grindelwald e per questo si era messa in salvo, senza farsi mai più rivedere.

Voci.

Voci disgustose e ignoranti, un cancro figlio delle masse. Se le persone possono additare ciò che non conoscono e lanciare giudizi come escrementi, lo fanno. Sempre. Senza fermarsi e capire che anche i nascosti, anche gli esuli, anche i reietti hanno bisogno delle stesse cose per vivere: di una casa, di un futuro e dell'amore.

Mio padre l'aveva conosciuta al San Mungo, dove era stato sottratto alla morte solo per miracolo. Senza documenti, né alcunché per poterlo identificare, venne lasciato alle cure di una giovane infermiera specializzanda, almeno fino a quando si fosse ripreso e avesse potuto farsi riconoscere. Rimase incosciente per otto giorni, prima che le sue condizioni cominciassero a migliorare. E lì, aperti gli occhi e trovandosi di fronte la donna che non avrebbe più lasciato, fu assalito dal panico.

- Dove mi trovo? Che giorno è? -

- Stia tranquillo, è al San Mungo. Ci stiamo prendendo cura di lei. - Immagino che lei gli abbia risposto qualcosa di simile, mentre rimaneva affascinata dai suoi capelli selvaggi.

Lui sarebbe dovuto scappare, sparire nello stesso istante in cui fu in grado di reggersi in piedi. Non sapeva quale sarebbe potuto essere il suo destino. Scampato ai Campi di Prigionia, fuggito dopo più di sei mesi di atrocità, riusciva a vedere solo due strade: l'abbattimento o la reclusione nel reparto Janus Thickey Ward. L'idea di trascorrere il resto della propria vita in gabbia era peggiore di quella della morte. Così scelse la fuga.

A quel punto, però, accadde l'inaspettato. E prima della successiva luna piena, sotto al cielo pieno di fumo e senza nemmeno una stella, a correre verso la libertà furono in due: un lupo mannaro innamorato e la donna alla quale avrebbe dato prima un figlio e poi la morte.

 

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Capitolo 3
*** Terza Parte ***


3/50

Conobbi Magnus Jarp Lovegood l'estate prima di ricevere la lettera per Hogwards. Era un bambino strano, tarchiato, talmente biondo da riflettere la luce della luna. Lo incontrai durante il mio vagabondare lungo le spiagge di Wigtown, dove ci eravamo trasferiti. Raccoglieva conchiglie, le più appuntite che trovava, per andare poi a piantarle nella sabbia e formare una specie di occhio in un triangolo. Era completamente solo, ma sembrava non avere una singola preoccupazione al mondo. Quando mi notò, con i miei vestiti logori e senza neanche un paio di scarpe, mi invitò a osservare come i cannolicchi piantati a testa in giù spingessero la lingua fuori dal guscio, alla ricerca di un modo per ritrovare la retta via. Da allora, e per lunghi anni, divenimmo inseparabili.

Lui rappresentò, per me, una straordinaria serie di prime volte.

- Resta fermo - mi disse un giorno, sotto un tasso frondoso. Il cervo di legno intagliato da mio padre si era spezzato. Reprimendo le lacrime, sentivo la rabbia esplodermi nelle tempie per essere stato così stupido, così goffo, da esserci caduto sopra giocando. Cercavo di riattaccagli le gambe, ad un passo dallo sbriciolarlo fra le mani.

Magnus estrasse una bacchetta da sotto la giubba. Era una bacchetta molto corta, chiara come la corteccia della betulla. La agitò e la puntò contro il mio cervo. - Reparo! - E il terrore di vedere la delusione sul volto di mio padre svanì.

- Credevo che solo gli adulti potessero fare magie. - A dirla tutta, non avevo mai visto altri che i miei genitori praticare un incantesimo.

- La mamma mi lascia fare pratica. Ogni tanto. - Fece un mezzo inchino soddisfatto e rinfoderò la bacchetta come se non ci fosse nulla di più naturale. Poi mi guardò con sospetto. - Ma i tuoi non ti hanno insegnato proprio nulla? Sono maghi, no? -

La gratitudine si mischiò a una nuova sensazione. Un primo torbido seme, con radici capaci di scendere nel profondo e difficili da sradicare, una volta cresciuto il rovo: la vergogna.

- Mio padre dice che mi comprerà una bacchetta l'anno prossimo, se troverà abbastanza lavoro. -

- Ah, siete poveri. - Lo disse senza cattiveria, come una semplice costatazione, niente di più strabiliante o emozionante di scoprire quale tipo di haggis fosse il mio preferito. - Lo zio Ignavus usa un ramo di abete. Lo ha spellato con il coltello e lo agita tutto il giorno cercando Gozzo, il suo rospo. Dice che lo ha trasformato in qualcosa, ma non ricorda più cosa. Però Gozzo è morto quando ero piccolo, e lo zio dorme nel cesto dei panni sporchi. Quindi penso che per lui non avere una vera bacchetta sia una cosa normale.

L'imbarazzante paragone fece scricchiolare l'impalcatura del nostro pomeriggio di giochi. Magnus sembrava non curarsene minimamente, rapito in un solo istante a osservare un verme farsi strada attraverso una zolla di terra fra le radici dell'albero.

Dimenticai che era una di quelle sere.  

Sarei dovuto tornare a casa presto. Mio padre sarebbe arrivato come sempre prima del tramonto, portando qualche patata e, forse, del prosciutto. Avremmo scherzato, riso, giocato con le gobbiglie e fatto una corsa fino al capanno del signor Flannagan. A quel punto, stanchi fisicamente e mentalmente, con la pancia piena e la mente spoglia, ci saremmo preparati per la notte.

Avevamo due catene, una lunga e una corta. Io prendevo la lunga, per poter passare i polsi in entrambi i bracciali alle estremità. Mio padre, agitando la bacchetta, si sarebbe legato con quella corta all'architrave. A volte, durante la Furia, si faceva molto male cercando di liberarsi. Sebbene a volte dovesse cercare uno dei suoi amici per farsi curare le ferite, insisteva perché tenessi io la catena lunga. Così stavo più fermo, e non potevo farmi del male. E così avremmo passato la notte: lui appeso  per un braccio, resistendo all'istinto di staccarselo a morsi per guadagnare la libertà, ed io crocifisso alla parete di fondo, ad osservarlo per ore intere.

Non quella sera, però.

Il sangue aveva già cominciato a ribollirmi nelle vene e il grassoccio, ingenuo Magnus mi aveva fatto conoscere nuove, sgradevoli emozioni.

Mentre il sole andava a nascondersi sotto la linea piatta del mare, la luce si rifrangeva sull'acqua e sui suoi candidi capelli. E lui mi dava le spalle.

 

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Capitolo 4
*** Quarta Parte ***


4/50

Il sapore della carne rossa è come un vecchio amico che, ogni tanto, ti passa a trovare. A volte è atteso come il gufo del mattino, a volte invece è improvviso, con il suo carico di pensieri giunti da lontano. Alcuni piacevoli, altri già condannati.

- Squisito, signor V.! -

- Ti prego Magnus, chiamami Ramsey. Non sono poi così vecchio. - Mio padre riusciva raramente a mettere in tavola un pasto sostanzioso. Accadeva spesso che dicesse di non avere fame, o di aver mangiato al lavoro, quando le patate bastavano a malapena per il mio piatto. Quando cominciai a invitare Magnus, però, lui trovò il modo di non farci mancare nulla.

Mi guardava con velata apprensione, domandandomi se il manzo fosse troppo cotto. Una formalità ridicola, ma volontariamente ostentata di fronte a un ospite.

- A casa non si mangia mai la carne - disse Magnus, riempiendosi la bocca fino a scoppiare. - Mamma dice che cavoli e spinaci vanno benissimo per sostituirla. Papà non è della stessa idea. Quando cucina le prugne dirigibile al forno ce ne mette dentro un po'. Ma solo per le sue, così pensa che nessuno se ne accorga. Ha idea che di che fiuto può avere una donna che mangia solo verdure, signor Ramsey? -

- Uno fenomenale, immagino. E lascia stare il signore: solo Ramsey, ok? -

- Un naso da cercatore. Dice che trovava il Boccino d'Oro con il naso, quando era a scuola, sa? Era il cercatore dei Corvonero. Tre anni di fila, prima della guerra. - Addentò una patata più grande della sua bocca, tentando di staccarne un pezzo ma riuscendo solamente a succhiarla come un gigantesco lecca-lecca.

- Io non vedo l'ora di poterci andare - dissi, passandomi le mani fra i capelli. La testa mi volava via solo all'idea. - E di avere una bacchetta mia. Sai che lui ne ha una? - informai mio padre con una certa vivacità. Speravo di poterlo smuovere a compassione, anche se con il compagno di avventure che mi ero scelto non sfiguravo abbastanza. Vestivo abiti usati per necessità, un patchwork di toppe e cuciture dovute all'usura. Magnus, invece, li sceglieva apposta. Io sembravo uno scappato di casa, lui un evaso dal manicomio. 

- Non è mia, me la lasciano solo usare - bofonchiò con la bocca piena, perdendo pezzi di cibo masticato sul tavolo. Alzò le sopracciglia e recuperò tutto con le dita, leccandosele con gusto.

Mio padre continuò a conversare come se non ci avesse sentito. - Deve essere una donna fantastica tua mamma. Come si chiama? -

- Dorothea - gli risposi, cercando di entrare nel discorso. Per qualche motivo, cominciavo a sentirmi escluso, come se non fossi presente.

- Dorothea Weasley - specificò Magnus. - Lavora come Spezzaincantesimi per la banca. -

- La Gringott? - domandò mio padre con più entusiasmo di quanto necessario.

- Quale altra banca ci sarebbe? - Magnus era serissimo. 

Io, invece, non ero nemmeno sicuro di sapere di cosa stessero parlando. La mia vita era fatta di corse, arrampicate sugli alberi e nuotate nel freddo oceano, quando avevamo casa abbastanza vicina a una spiaggia. Cercavamo di non metterci in mostra con i maghi, mentre i babbani non volevano starmi vicino. Mi vedevano diverso: non tanto con gli occhi, perché ero come tanti altri ragazzini perduti per le strade, quanto con il cuore. Avevano paura.

La paura generava diffidenza. La diffidenza, violenza. Lo avevo imparato molto bene. Lo avevo anche insegnato ai ragazzi del Palo del Martiri, quando dalle parole erano passati a fatti. Ora continuavano a chiamarmi "animale", o "topo di fiume", dato che risalivo il torrente per tornare a casa. Ma Tom Scott ha smesso di unirsi ai cori. Quando mi vede, si copre il pezzo d'orecchio mancante con la mano, come se ancora sentisse i miei denti affondare e strapparglielo.

- Mi accompagni? Pronto? H., ci sei o ti sei imbambolato? - Magnus mi agitava la mano di fronte al naso, risvegliandomi da pensieri cupi.

Mio padre sparecchiava la tavola, per quel poco che c'era.  Mi alzai di scatto, dandogli una mano. - Non posso - risposi. - Stasera devi tornare da solo. -

Si strinse nelle spalle e guardò fuori dalla finestra sgangherata. - Sai che c'è un lupo, che corre dietro alla luna? -

Il rumore di piatti caduti malamente nel lavello mi fece sobbalzare.

- Si chiama Hati. Insegue costantemente Máni, il nocchiere del carro della luna. Lo dicono le saghe nordiche. E un giorno il lupo riuscirà a raggiungerlo. -

Deglutii. Sentivo l'aria pesante, nonostante il freddo della sera stesse già calando. - Cosa succede, quando lo raggiunge? -

Nuovamente, Magnus ondeggiò con le spalle, come fosse una risposta di per sé. - Lo mangerà. E il mondo avrà fine. Buonanotte signor Ramsey! Buonanotte H. Ci vediamo domani. -

Mentre il mio biondo amico lasciava l'uscio, ringraziando per una cena che avrebbe contribuito alla sua tonda silouette, ripensai a Tom Scott. Cercai di visualizzare il suo viso spigoloso, le sue sopracciglia folte, il dente rotto proprio sul davanti e l'orecchio mozzato. Percepivo sotto ai canini la consistenza della cartilagine che si spezza. Fra le labbra aumentava la salivazione, quasi una schiuma di rabbia, per le botte che mi aveva dato, per gli insulti, per gli sputi.

Lo avevo rivisto anche con i miei altri occhi, una notte. Aveva il volto distorto dal terrore. Tentava di urlare senza riuscirci. Sembrava un fischietto senza pallina, sudato e con i pantaloni inzuppati di piscio.

Quella notte avevo sperato di vendicarmi, ma quello che trovai non era più un nemico. Era un cucciolo spaventato, molto più terrorizzato da me di quanto io lo fossi mai stato di lui.

 

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Capitolo 5
*** Quinta Parte ***


5/50

***

14 Novembre 2009

Il Wampus d'Argento - Liverpool

   La pioggia scrosciante cadeva impietosa sui tetti e sui mercantili, infiltrandosi in ogni anfratto alla disperata ricerca del mare. Gli avventori della taverna, all'uscita, scrutavano la banchina a destra e a sinistra, rintanandosi in ampi mantelli prima di sparire nei viottoli tra i magazzini di mattone. Trafficanti di creature magiche e reduci della Seconda Guerra dei Maghi, impauriti all'idea di imbattersi in una faccia torva del Ministero.
   Fenrir Greyback, dalla finestra appannata del secondo piano, li conosceva uno per uno.
   - Mi scusi, V. e H. per cosa stanno? - La penna, levata a mezz'aria, attendeva istruzioni. Fluttuava serenamente, incapace di tradire il fremito dei nervi delle mani poggiate sulla gonna. Megan era tesa come una corda di violino. Respirava profondamente, cercando di concentrarsi sul proprio lavoro. Cornelius, seduto al suo fianco al tavolo di legno marcio, non riusciva a staccare lo sguardo dalle spalle del licantropo.
   Greyback, il cui respiro caldo copriva di una nuova patina il vetro della finestra, ebbe un istante di incertezza.
   - Lei scriva solo quello che le dico. -
   - Lo chiedo per completezza, signor Greyback. - Megan aveva tra le mani la più grande storia dalla sconfitta di Lord Voldemort. Intendeva fare del proprio meglio, anche se fino a quel momento si era occupata solo della rubrica sulle fiere artigianali della Gazzetta del Profeta.
   - Sì, per completezza - le fece eco Cornelius.
   Quando Greyback si voltò, i suoi piccoli occhi selvaggi sembrarono riempire la stanza.
   - Vuole scrivere il mio nome e cognome? -
   Come una statua di cera, Megan rimase immobile. Credette di fare un cenno d'assenso con il capo, ma il gesto rimase solo nella sua mente.
   - Il mio nome, - continuò il lupo, nel suo costume umano - è Fenrir Greyback. Sono sempre stato Fenrir Greyback. - Si adagiò sulla sedia come fosse di sua proprietà. Ogni oggetto dimenticato nella stanza, ogni granello di polvere, ogni respiro che i due giornalisti consumavano erano parte della tana del mostro. A loro, era solo concesso di farne parte, per il tempo che lui avrebbe ritenuto necessario. - Anche quando gli altri usavano il nome che mi ha tramandato mio padre, ero Fenrir. Anche se ancora non lo sapevo. -
   Calò un silenzio terribilmente freddo.
   Cornelius deglutì. Il suono sembrò potersi udire anche al piano sottostante, dove i brindisi e le chiacchiere oscure intorno ai galeoni si erano fatte piccole, lontane. Era stato in presenza di altri Mangiamorte, in passato. Ne aveva anche intervistato uno, Lucius Malfoy, prima che venisse rinchiuso nella fortezza di Azkaban a fare ammenda per i propri peccati. Lo aveva incontrato altre volte, dopo la riabilitazione, facendosi consegnare ottimo materiale per riempire le pagine del proprio best seller "Un tè con i Mangiamorte".
   Non trovava nulla di paragonabile, nelle sue precedenti esperienze, con quella che stava vivendo.
   - Signor Greyback, - disse, facendo appello al proprio coraggio - come può ben immaginare, il mondo intero, che è indiscutibilmente convinto della sua dipartita, non potrà fare a meno di conoscere i dettagli della sua vita in questi ultimi undici anni. Quale sorte l'ha condotta fuori dalla battaglia di Hogwards, come ha mantenuto segreta la propria presenza in Inghilterra, cosa ne è stato di lei dopo la sconfitta di Lei-sa-chi... -
   - Parleremo di queste cose a tempo debito - lo interruppe. Gli ampi favoriti sul volto, neve e cenere, cresciuti ispidi come pelliccia, celavano un nugolo di pensieri turbolenti che cercavano di farsi strada.
   Tanto, troppo da raccontare per poter saltare a ciò che la gente già pensava di lui.
   Anche i giornalisti, trasbordati in tutta fretta a Liverpool, sull'onda dello scoop sul "mostro dei bambini", erano compressi nel pregiudizio. Cosa conoscevano, in fondo, di Fenrir Greyback?
   - Come preferisce - lo assecondò Cornelius. - Ma deve rendersi conto che nessuno può distaccarsi dall'immagine che ha dato al pubblico servendo Lei-sa-chi. Il signor Potter stesso ha dichiarato... -
   Fulmineo, Greyback scattò con il braccio sul tavolo. Afferrò la mano di Cornelius con la sua: una morsa massiccia e artigliata capace di frantumare la pietra.
   Le nocche di Cornelius esplosero. Il corpo del licantropo era rilassato, ma le fiamme nei suoi occhi turbinarono.
   - Io non ho mai servito Voldemort. -
   Cornelius si piegò per il dolore, ingoiando le grida.
   - Signorina Jones, - ringhiò Greyback - lei potrebbe continuare questo delicato lavoro anche da sola, non è vero? -
   Megan impallidì. Immaginò con terrore la reazione del loro ospite se avesse risposto negativamente, fornendogli dubbi sulla propria scarsa competenza. Poi vide Cornelius fatto letteralmente a pezzi, se avesse invece osato farsi carico di essere la penna del messaggio che Greyback intendeva mandare al mondo. Mai prima di allora si sentì tanto impreparata al compito che le si parava di fronte.
   Fenrir Greyback, senza mollare la presa, la tolse per sua fortuna dalla necessità di scegliere. - Voi non sapete nulla. Per questo siete qui. Nessuno ha la benché minima idea di quello che ho fatto, tantomeno del perché l'ho fatto. - Sembrava sul punto di ribaltare il tavolo e sfoderare fauci e artigli. Anche in forma umana, conservava preminenti caratteristiche bestiali, come se non volesse nascondersi. Come se volesse essere sincero con se stesso, fino in fondo.
   Megan realizzò che non avrebbe avuto la possibilità di estrarre la bacchetta, se Greybeck si fosse scagliato con tutta la sua ferocia.
   - Lei ha una storia da raccontare e noi siamo qui per dargliene la possibilità. - Megan Jones, Tassorosso nell'anima, parlò con una franchezza sopita da anni. - Se intende farlo, saremo felici di ascoltarla. Ci permetta solo di fare il nostro lavoro. -
   Greyback lasciò la presa, catturato dall'audacia della giovane reporter in erba.
   "Vuole disperatamente darci la sua versione dei fatti" pensò Megan. "Cerca di giustificarsi."
   Alla porta della stanza, qualcuno bussò.
   Fece capolino un ragazzo, con i capelli crespi e un paio di occhiali sghembi sul naso aquilino.
   - Fenrir, Najata è qui. -
   Greyback  tornò alla finestra. - Tra un'ora. Quando faremo una pausa. -
   Il ragazzo obbedì senza fiatare all'ordine del capobranco.
   Sincerandosi delle condizioni di Cornelius, Megan sentì le gambe tremare. L'adrenalina di pochi istanti prima le stava scuotendo i nervi come il famigerato platano di Hogwarts. Pensò di estrarre la bacchetta per un Epismendo, ma non si arrischiò. L'unica cosa che poteva fare era proseguire lungo l'unico sentiero sicuro. E, con un po' di abilità, forse avrebbe anche avuto quello che desiderava.
   - Il suo amico, Magnus. Ha detto che è un Lovegood, figlio di Dorothea Weasley. Questo fa di lui il cugino di Arthur Weasley, è corretto? -
   - No. - Greyback tornò a dar loro le spalle, calandosi in testa il cappello dei propri torbidi pensieri. 
   Megan si accigliò, ma passò oltre. - Si trova qui, in questo momento? -
   - Quello che è sbagliato, signorina Jones, è il presente. Magnus è morto. -
   Il fazzoletto che Cornelius si era stretto attorno alla mano spezzata sarebbe andato bene, per un po'. Con l'altra mano si sistemò i capelli, tentando di ripristinare l'immagine di un grande autore riconosciuto in tutto il globo.
   - Ebbene, signor Greyback, - domandò ricominciando a scrivere con la piuma - com'è morto Magnus Jarp Lovegood? -


 

***

 

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Capitolo 6
*** Sesta Parte ***


6/50

L'illusione di una vita normale cominciò a sgretolarsi all'arrivo della lettera per Hogwarts.

Un gufo scuro come il sottobosco autunnale si appollaiò alla finestra di casa, in un'umida mattinata scossa dal vento. Il profumo della rugiada sull'erba selvatica si mescolava a quello della ruggine. Le lamiere con cui era costruita la mia stanza gelavano durante la notte, per diventare poi roventi nelle giornate di sole. Dormivo vestito, sotto una montagna di coperte. senza un solo problema al mondo. 

Ero solo, quando ricevetti la lettera. Mio padre usciva prima dell'alba, per la consegna del latte a Culquhirk, Bladnoch e Kirkinner. Riflettendoci con attenzione, non lo avevo più visto avere a che fare con maghi e streghe  da molti anni. Lavorava per i babbani, comprava da loro, teneva nascosta la bacchetta per la maggior parte del tempo. A quell'età, però, non riuscii a rendermene conto.

Quale improvvisa felicità! Che gioia intensa riceve la lettera! Il pennuto se ne fuggì nell'istante in cui afferrai la busta: le dita tremavano, il cuore palpitava più rapido di una locomotiva e io ero talmente agitato da non riuscire ad aprire quel dannato pezzo di carta.

"Lei ha diritto a frequentare la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts".  Finalmente anch'io avrei imparato. Ero convinto che sarei diventato un mago, capace e testardo. Magnus aveva già esperienza, mentre io non avevo idea di come impugnare una bacchetta, ma non aveva importanza. Volevo dare un significato agli anni passati a nascondermi per la mia diversità. Sarei stato accettato, avrei conosciuto altri ragazzi e ragazze come me e Magnus con cui fare squadra. Quelli del Palo del Martire, rozzi bulli pieni di paure, non contavano più nulla.

Stavo per fare il mio ingresso nella società adulta, un po' segreta e misteriosa come immaginavo il mondo dei grandi. Mio padre ne parlava spesso, soprattutto quando del bicchiere cominciava a vedersi il fondo. "A suo tempo" diceva. Avevo pazientato. Avevo atteso mantenendo un basso profilo, come aveva chiesto. Ora il tempo era giunto.

Attraversai le colline brulle per raggiungere la spiaggia, dove io e Magnus ci sentivamo liberi di dar fondo alle nostre energie in corse e lotte. Picchiava forte, devo ammetterlo. Nei brevi anni della nostra amicizia ancora giovane si era ingrossato. Il grasso si trasformava in muscolo, le gambe e il busto si allungavano verso il cielo come querce e l'odore che emanava si era fatto muschiato, acceso. Un odore che non avevo mai sentito, prima di quella volta in cui lo avevo aggredito. Portava ancora sulla spalla il segno dei denti e me lo mostrava ogni volta che intendeva giocare sporco per avere ragione. "Ringrazia che sia successo mentre avevo questa forma" gli ripetevo. Da allora, sapevo sempre dov'era, anche nelle notti di luna piena. La sua immagine non si era mai confusa con le ombre. Mi aveva visto mutare, ne era rimasto atterrito, ma alla fine della nottata era ancora illeso. Era l'unica persona che sapevo, sapevo, avrei sempre visto al mio fianco.

Quella mattina alla spiaggia, però, non venne mai.

Le onde si infrangevano stanche sulla battigia, sorvegliate a distanza da gabbiani speranzosi di rubare qualcosa al mare. Io aspettavo, cercando di far fare più saltelli possibile ai sassi sulla superficie dell'acqua. 

Le uniche impronte sulla sabbia spazzata dal vento erano le mie. "Da un momento all'altro spunterà da dietro la collina, agitando la sua lettera come se avesse vinto la lotteria" mi dicevo. Dovevamo andare insieme, infondo. Avevamo la stessa età. L'accettazione a scuola sarebbe dovuta arrivare anche a lui lo stesso giorno.

Sulla strada del ritorno, il cielo cambiò volto. Cominciò a piovere con rabbia, come se le nuvole avessero dato il via a una guerra contro i prati.

- Magari i suoi lo hanno già portato a comprare il necessario - mi dicevo a voce alta. L'unica voce che avevo ascoltato in tutta la giornata. Nascosi la busta sotto ai vestiti, sperando di non farla bagnare. - Poteva anche dirmelo. Potevamo andare assieme. -

Lampi e tuoni mi accompagnarono fino alla baracca di lamiera e legno di scarto che chiamavo casa. Non l'avevo mai vista così, per quello che era davvero: un riparo di fortuna, che allo scoppio luminoso del temporale sembrava solamente un recinto per cani.

Mio padre saltò sulla sedia nel vedermi entrare.

- Dove sei stato, H.? Ti rendi conto di che ore sono? -

In effetti, non lo sapevo. Quando avevo aspettato Magnus? Per quanto tempo ero stato con il culo sulla sabbia a figurarmi il castello di Hogwarts, le sue sale, il suo vociare per i corridoi pieni di studenti di magia?

Sbottonai il giacchetto, estraendo con orgoglio la lettera. Abbastanza asciutta, a differenza di me. - Oggi è arrivata questa. - La porsi a mio padre, cercando di stamparmi in volto un sorriso. Forse non era stata la miglior giornata dell'anno, ma avevo di che essere entusiasta. E l'arrabbiatura di mio padre sarebbe scomparsa, spazzata via in un soffio nella notte.

Lui l'afferrò e la lesse con una lentezza estenuante.

- Papà? -

Mi guardò dritto negli occhi. Non mi disse il suo pensiero: in quel momento, diede un ordine. - Tu non ci andrai. -

Il cuore mi si spezzò. Nel giro di un battito d'ali, mi si riversò nel petto e fra le tempie rabbia, angoscia, sconcerto. Cominciai a parlare senza il minimo controllo sul mio corpo. - Come no? Avevi detto che mi avresti portato! Avevi detto che avremmo comprato un bacchetta, e i libri, e tutto quello che sarebbe servito! -

- Non discutere. Tu non ci puoi andare a Hogwarts, ficcatelo in testa. -

- Avevi promesso! -

- Sei abbastanza grande, H.! Te lo dicevo quando eri un bambino, perché non potevi capire. Ma pensavo ci saresti arrivato anche da solo, dannazione! - Si ficcò la lettera in tasca e aprì una bottiglia. Si versò un dito di whisky, per poi frantumare il bicchiere contro la parete e attaccarsi al collo della bottiglia.

- Sono stato bravo, ho fatto tutto quello che mi hai detto tu! - Per la prima volta, la prima che io ricordi, stavo piangendo. - Non sono mai andato in giro con la luna piena, mi sono sempre incatenato. E sono stato lontano dagli altri bambini, anche quelli cattivi che se la prendono con me. Potrei farli a pezzi, ma non l'ho fatto! -

- Non sei mai andato in giro, eh? Ma a chi vuoi raccontarle? Lo so che sei uscito, cazzo! Lo sanno tutti. Ogni volta ci siamo spostati. Quante volte, eh? Cinque? Sei? Non posso continuare a obliviare tutti gli stronzi che ci capitano davanti al momento sbagliato, lo capisci questo? -

Mio padre era furente. E lo ero anche io.

- Quindi è colpa mia? Sei tu che non riesci neanche a comprarmi un paio di scarpe. Ed è colpa tua se la mamma è morta! Tu l'hai uccisa! Ti odio! -

Scappai nella notte e nella tempesta, lasciandomi alle spalle mio padre, la lettera e la sua bottiglia, le braccia a penzoloni e la bocca, muta, spalancata.

Non lo odiavo affatto, ma ero sconvolto.

Lo sarei stato molto di più, se avessi saputo che era l'ultima volta che avrei visto mio padre vivo.

 

 

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Capitolo 7
*** Settima Parte ***


7/50

***

Estratto da:
DE VERMICULIS IN VERSIPELLIS OCULO
di Iginus Tiberius Arpineo
VIII sec. d.C.

   Per loro natura, i licantropi di stirpe magica sviluppano, come immediata conseguenza della propria condizione, una interferenza nel sistema primario di circolazione del mana. Il flusso di informazioni nervose, nello stato fisico alterato in cui si trovano questi individui, subisce un'interferenza inabilitante a livello degli umori corporei basilari, tale da innescare la formazione di parassiti skepsiphagi.
   A queste creature incorporee ho dato il nome di vermi del mana, ai quali attribuisco, senza dubbio alcuno, lo stato isterico dei mutapelle denominato, secondo la nomenclatura utilizzata da Ebur Rammilinc nel suo Die lykanthropie: zehn praktische heilmittel, "regressione a coscienza prepuberale". Come noto, l'atteggiamento di questi individui si altera in maniera totalizzante durante le fasi di luna piena; nelle notti di ululati, oltre ai già ampiamente esposti mutamenti fisici, la mente dell'uomo-lupo, ora animalesca, viene sopraffatta dai parassiti che si annidano nel corpo e in particolare negli occhi. Il loro moto, normalmente statico, si fa frenetico, impedendo al malato di distinguere nitidamente cosa accade attorno a sé. Gli amici e i nemici si confondono, l'istinto predatorio viene liberato, e ogni cosa smette di passare sotto al vaglio della ragione e dello spirito. Ne consegue che i licantropi, per quanto impossibilitati a fermarsi, rimangono completamente consapevoli di loro stessi e delle loro azioni per tutto il periodo della muta, spettatori inerti dietro a occhi brulicanti di vermi.
   Com'è noto, con il trascorrere del tempo, questi individui rimangono sempre più influenzati dalla loro misera condizione, divenendo pericolosi per la loro stessa vita anche durante i restanti giorni del mese. Istanti di incontenibile euforia si alternano a melanconia profonda. E proprio in questi momenti, quando ormai il corpo è stato attaccato diffusamente e l'energia del mana e dell'etere sono giunte alla completa instabilità, la malattia cerca di replicarsi, tramite frustrazione, paura e furia, o tramite incontenibili pulsioni sessuali. Una cosa non esclude l'altra, se due individui contagiati di sesso opposto (o dello stesso, come ho potuto documentare) si trovano nello stesso luogo.
   Ho sperimentato la presenza dei vermi di mana anche in soggetti babbani, che avessero manifestato sintomi di licantropia o meno. I babbani sembrano soffrire del problema in maniera più lieve rispetto ai maghi, nonostante la casistica studiata (quasi inesistente) renda difficile fare affermazioni definitive. Dai miei studi, pare che una certa percentuale di infetti non magici offra un ambiente insalubre per i parassiti, che non trovando di che nutrirsi finiscono per perire di inedia. Del loro passaggio resta solo qualche striscia bruna nel campo visivo del soggetto, piccole sagome vermiformi che seguono il movimento dell'occhio, rimanendo inerti.

 

***

 

Di stronzate per tenermi buono, mio padre ne aveva raccontate tante. Il gioco della "vita normale", fingere di essere una famiglia come un'altra, con problemi comuni, era però durato troppo. Con il tempo, le bugie mi avevano scavato dentro un buco profondo che, una volta scoperto, aveva cominciato a inghiottire ogni cosa. Ogni ricordo di ciò che era stata la mia vita gli venne gettato in pasto, un biglietto di sola andata per la morte dell'innocenza.

Ne ero rimasto inconsapevole fino a quella sera. Un colpo di pala, poi un altro, sempre lentamente, così efficace nel gettare alle spalle ogni speranza mentre si apriva la voragine. Solo che, a un certo punto, si tocca il fondo. Il badile sbatte contro qualcosa di duro, il manico vibra e tu senti quella scossa fin nelle budella. E capisci che è la fine del percorso. Hai sempre saputo che era lì ad aspettarti, ma ti sei bendato gli occhi e hai continuato. Bella merda.

Ma che colpa potevo avere, io, che correvo a undici anni dentro al temporale? Troppo giovane per sapere come affrontare il destino, troppo grande per far finta di nulla e dimenticare. Se ci penso con calma, quando sono solo, la notte, mi convinco che forse un po' me lo aspettavo. C'era stato qualche segnale premonitore: mio padre evitava sempre l'argomento Hogwarts, se poteva. Non andavamo mai da nessun altro mago e le uniche frequentazioni erano quelle del pub, un'accozzaglia di ubriaconi derelitti che avrebbero dato la colpa di ogni stranezza all'alcol. Persino per frequentare Magnus mi aveva dato una serie infinita di regole.

Pensavo fosse solo un rompicoglioni. Non potevo rendermi conto di quanto mio padre fosse in realtà terrorizzato. E mentre attraversavo il fosso che mi separava dalla strada del fornaio, ero ancora in preda all'ira.

- Guarda cos'è sbucato dal canale! Un enorme topo di fiume. -

-Ehi, idiota! Ti sei accorto che piove? -

Incontrai tre ragazzi del Palo del Martire, i più grandi. La sera facevano i garzoni per pochi scellini, effettuando consegne con il carretto del padre di uno di loro. John Curry possedeva una farmacia ed era uno dei più ricchi del paese, così suo figlio Mune non faceva altro che vantarsi delle scarpe nuove o del fatto che grazie a lui anche i suoi amici avrebbero potuto guadagnarsi da vivere.

L'unico che non mi rivolse la parola fu Tom Scott. Quando mi vide, portò istintivamente la mano all'orecchio.

- Sarà uscito a cercare la mamma - disse Mune, imitando l'accento professionale del padre. Stava seduto sul carretto, con la mantella, mentre i suoi compagni spingevano come bestie da soma.

- Ehi, topo! Ti posso aiutare, allora! - mi scimmiottò Aaron Beavis, agitando le braccia. - L'ho vista ficcarsi in un buco sotto il pub. Se fai in fretta la recuperi, sì, sì. Prova a cercare nella latrina, le piace tanto rotolarsi nella merda degli ubriaconi! -

Esplosero in una risata, finta e insulsa come lo sguardo d'attesa che avevano stampato in faccia. Risero più forte dello scrosciare della pioggia. Mi sporcarono con le loro parole più di quanto potesse fare il fango viscido sotto ai piedi. Volevano una reazione. La loro serata storta aveva appena trovato una valvola di sfogo. 

Beavis mi si avvicinò, scuotendomi per le spalle, recitando la parte del finto amico preoccupato per i miei bisogni di ratto. Il suono che usciva dalla sua bocca era diventato incomprensibile, un amalgama di versi d'uccello e latrati di cane. Vedevo i suoi denti bianchi, piccoli e ordinati, fare capolino tra le labbra sottili da ciccione mangiafocacce. 

Poi, udii un fischio. Non uno vero, uno di quelli che rimangono solamente dentro all'orecchio. Come un qualcosa di lontano che si rompe e deve assolutamente fartelo sapere. Una sorta di allarme di pericolo che, chiaramente, Beavis non sentì.

Prima di rendermene conto, il grassone era steso a terra e io gli stavo sopra a cavalcioni. I sensi erano andati in tilt. Vedevo l'odore bagnato del suo sangue sulle nocche, annusavo le urla di Mune che, senza muoversi dal carretto, prima incitava il compagno e poi pregava che mi fermassi. Ma io colpivo, colpivo con i pugni quella stupida faccia arrossata. Colpivo e non volevo smettere.

A gonfiarsi per prime furono le labbra e le orbite.

Avete mai preso a pugni un uomo? Si pensa sempre che sia una lotta, uno scontro, come sulla passerella dei duelli, ma non è così. C'è solo uno che le dà, con la rabbia nel cuore e l'istinto animale che sale in spalla, sussurrando all'orecchio: "ancora! ancora!". E tu insisti, fissando quella faccia da ebete che hai di fronte, che si sta domandando cosa stia succedendo, dove si trova e come si faceva ad alzare le braccia. Perché accade in modo tremendamente veloce. Una scarica di violenza che ti colpisce in faccia, sulle tempie, sui denti. Senza appello o seconde possibilità.

Quando Aaron Beavis capisce che non mi fermerò ha un ultimo guizzo negli occhi. Mi vede, per la prima volta. Il costume che mi aveva posto addosso cade e sotto scopre la persona. Una che non si aspettava. Un ragazzino che quando gli fa saltare i denti, con le nocche insanguinate, non smette di picchiare. Vedo i due fiocchi bianchi scendergli in bocca mentre gli spacco in naso. Beavis è viola, quando il sopracciglio cede con il suono di un grissino spezzato. 

La pioggia cade e io sento solo il rumore di scarpe in una pozzanghera, mentre ficco le dita nelle orbite spappolate di quel piccolo figlio di puttana.

Davanti alla bottega del fornaio, Tom e Mune mi guardano ammazzare il loro amico a mani nude, in una pozza di merda e sangue, senza che passi loro per il cervello di fare qualcosa per impedirlo. 

 

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Capitolo 8
*** Ottava Parte ***


8/50

La pioggia si abbatteva al suolo, cercando di lavare via il sangue, le urla, la furia. Ringhiavo a un viso morto, incazzato come un tasso chiuso all'angolo, quando la violenza della notte mi colpì con altrettanta ferocia.

Stupeficium!

Sentii una sferzata alla testa, dura come una bastonata, e il mondo si spense.

C'è a chi capita di fare sonni agitati, di quelli che obbligano a trascinarsi in giro per casa alle tre di notte senza riuscire a rilassarsi. Danno un gran bel saluto al sonno, un "ci vediamo domani", e basta. Sicuramente è una seccatura, ma mai quanto quel che capita ai bevitori. Dopo una bottiglia, storditi e sfiancati dalla giornata, si buttano sul tappeto o sul divano, con la bocca aperta e brache calate. Si svegliano con la faccia pigiata in un lago di saliva acida, la gola è arida come una cava di ghiaia e la testa martella incessantemente. PUM. PUM. PUM. Vorrebbero solo poterla aprire e lasciare che il demone fugga lontano, così da promettersi ancora "questa è l'ultima volta".

Poi ci sono io, che mi sveglio con la testa fracassata, ancora avvolto nei miei luridi vestiti. Avevano bevuto avidamente fango, pioggia e sangue. L'odore era disgustoso. Ce l'avevo nel naso, nei capelli, sotto le unghie. All'inizio non vedevo nulla, solo immagini sfocate dietro una cortina di fumo. Il fumo non era nell'aria: era nei miei occhi, che facevano male. Toccandomi la nuca, dove si era gonfiato un bozzo grosso quanto un pugno, pensai che le palle degli occhi erano rimaste nel cranio per miracolo. Avere la vista di una talpa non era la conseguenza peggiore che avrei potuto affrontare.

C'era luce, come se fosse arrivato il giorno. Il puzzo umido che avevo addosso si mescolava a qualcosa di rancido e stantio, proveniente dalla stanza nella quale mi trovavo. Più piccola della baracca in cui vivevo con mio padre, era ricolma di oggetti dalle forme confuse.

- Attento, ragazzo! -

Troppo tardi. La teiera danzò sul precipizio. Provai ad afferrarla, ma cadde a terra andando in frantumi.

- Merda. Fa niente, ne prenderò un'altra. Si sieda ora, però. - Anche senza urlare, la voce di quell'uomo mi spaccava i timpani. Era corposa, piena, intensa, e mentre parlava sentivo vibrare tutto il cranio.

Con il culo a terra, mi concentrai sulla strana figura. Capelli fino alle spalle, riuniti in tanti tentacoli dorati come trecce di ragazzine. Faccia smunta, bianca, con una ridicola barba a batuffoli. Un po' come la mia in quel momento, con la differenza che a portarla era un uomo probabilmente più vecchio di mio padre. 

Fissai la tunica, lo scialle, le sciarpe, le troppe giacche e le cinture che lo facevano assomigliare a un veliero, più che a una persona.

- Sei il padre di Magnus? - Non avevo lo avevo mai visto (a differenza di sua madre), ma l'istinto parlava chiaro.

Chiaro, ma sbagliava.

- No, signor V., proprio no. Magnus è mio nipote. E ringrazi che l'abbia riconosciuta. Non sarebbe qui, altrimenti. Cioè, intendo che sarebbe morto. Perché l'avrei uccisa io. Mi chiami Igni. Avrei avuto tutte le ragioni per farlo, sa? -

"Ignavus Lovegood? Il matto senza bacchetta che dorme nel cesto dei panni?" Non esattamente l'uomo che mi ero immaginato. O forse sì, ero ancora stordito dall'incantesimo. Che, per quanto ne sapevo, e per il dolore che provavo, avrebbe anche potuto uccidermi.

- Dove siamo? -

- A casa mia - rispose, bagnando tre minuscoli alberi in vaso, posti sul davanzale. - Come va la testa? -

- Fa male. - Avrei voluto chiedere il perché di tanta violenza nei miei confronti, ma lo sapevo. Ripensai a Beavis e alle mie dita nelle sue orbite, come cucchiaini infilati in un budino al lampone.

- Sa cosa dovrei fare, adesso? Dovrei avvertire il Ministero. Lei è un minore, ma questo non cambia il fatto che ha ucciso un ragazzo. Non con la magia, quindi avrebbe un capo d'imputazione in meno. Certo, ma poco cambia. Sa che fine fanno gli assassini? -

Impallidii.  Magnus mi raccontava del mondo magico, di tutto ciò che mio padre nascondeva sotto al tappeto, e io adoravo ascoltarlo. Ero un buon ascoltatore e ricordavo sempre quel che mi veniva detto. - Azkaban? -

Ignavus poggiò l'annaffiatoio. Imperturbabile, mi lanciò una prugna gialla estratta dalla tasca. - Solo se li prendono. Altrimenti, che fine fanno? - Aveva occhi da gufo: grandi e fissi.

Invece che provare paura o imbarazzo, cominciai a sentirmi a mio agio. Non ero l'unico strano nella stanza. Non ero solo, nonostante ancora non avessi idea di cosa volesse da me quel pirata stregato.

- Non lo so - ammisi, perplesso. 

-  Quella che fanno anche gli altri. Non cambia nulla. Comprende? -

Scossi lentamente la testa. Una fitta lancinante si sparse dall'orecchio giù per il collo. Più tornavo cosciente, più sentivo il dolore del colpo.

- Cerchi di stare calmo, - disse Ignavus - poi passa. Ci mettiamo una bella fasciatura ora, ok? -

- Perché mi hai colpito? -

- Perché? Non è evidente? Per metterla al tappeto. -

Almeno quello, era comprensibile. Ciò che invece mi lasciava galleggiare in un mare di domande era cosa stessi facendo nel minuscolo rifugio di un mago del tutto differente dagli altri che avevo incontrato. Girava per casa tenendo stretto nel pugno un lungo bastone, un ramo grinzoso che faceva ondeggiare incessantemente.

Mi diede da mangiare fagioli e pancetta, offrendomi anche pane secco e una spremuta di qualcosa che chiamava "prugne dirigibili". Lui prendeva grandi sorsate da una bottiglia trasparente che puzzava di alcol e di marcio. Sembrava piacergli molto e, a ogni sorsata, si mostrava più lucido.

- Allora, adesso la consegno. - 

Andai in apnea con il pane che faticosamente scendeva nella gola. Ignavus, dopo un lungo periodo di pensiero quasi silenzioso, mi fissava con mezzo sorriso. Non riuscivo a comprendere se fosse divertito o disgustato da me.

La paura strisciò nuovamente fuori dalla tana. Cosa mi avrebbero fatto? E mio padre, da quanto mi stava aspettando? Lo avevo tradito... mi ero fatto scoprire? Ignavus sapeva della mia condizione? Troppe, troppe domande per la mia mente di bambino.

Pensai che potevo fare solo una cosa: scappare.

Ma il vecchio pazzo mi sapeva leggere alla perfezione.

Agitò il ramo, me lo puntò contro e urlò: - Immobilus! 

Fissai la punta legnosa a un palmo dal naso. Si sollevò, roteo, e mi ricadde con violenza sulla testa.

- Merda... fa male! - Fortunatamente aveva colpito un punto nuovo, ma continuavo ad avere la sensazione che il cranio potesse frantumarsi come un guscio d'uovo.

- Non vuole conseguenze? Non faccia niente - mi rimbrottò Ignavus. Infilò il ramo sottobraccio e cominciò a passeggiare come se mi stesse dispensando profonde secchiate di saggezza. - Vuole fare qualcosa? Accetti le conseguenze. Se voglio, ad esempio, uscire di casa, non posso lamentarmi del vento e della pioggia. Se voglio, con un altro esempio, mangiare un buono stufato, non posso poi lamentare che il signor Mustais di Lorcan è scomparso dalla sua gabbietta. Conseguenze, signor V., conseguenze. Comprende? -

Sinceramente, ero ancora pronto allo scatto. Eppure qualcosa, nello sguardo, nell'atteggiamento, nello straniato modo di riferirsi a me, mi indusse ad ascoltare.

- Lei vorrebbe andare a Hogwats, giusto? Ma non può. Anzi: non ha il permesso. Il motivo possiamo facilmente immaginarlo, signori della giuria. - Ignavus cominciò un'arringa accorata, una spiegazione a se stesso di quanto stava per fare. - Lei fugge, lei è arrabbiato e impaurito. Lo stupido ciccione la fa infuriare, lei gli cava gli occhi e sputa nel suo cranio. Perfetto. Ottima spiegazione. Ma! C'è un ma! - Si voltò di scatto verso di me, come in attesa che continuassi il suo discorso.

Non accadde.

Quindi terminò da solo.

- Lei è un piccolo bastardo assassino, con qualcosa da nascondere. Ma è anche un bastardo fortunato: nessuno, o quasi, sa cosa nasconde. Poi incontra una persona, una che nonostante le doti naturali non può praticare magia vera. Una che, però, conosce perfettamente i meccanismi della scuola, del Ministero e di quel nuovo Preside nuovissimo che ha sostituito Dippett. - Mi si avvicinò, parlandomi all'orecchio come un cospiratore. - Io gliela consegno: una bacchetta, e tutto il necessario per le lezioni e il resto. Io la faccio andare a scuola. E lei, lì, fa una cosa per me. Comprende? -

 

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Capitolo 9
*** Nona Parte ***


9/50

***

15 Novembre 2009

Il Wampus d'Argento - Liverpool

   Alle tre del mattino, le urla di una donna cristallizzavano l'aria. Le pareti della vecchia locanda, sottili e composte di fibre marcescenti, isolavano a malapena dal diluvio universale che stava travolgendo il mondo esterno. Al Wampus d'Argento erano in molti ad avere fatto il callo alle grida disperate e strazianti. Alcuni degli ospiti ne godevano profondamente, a volte.
   Queste, però, mettevano più paura di qualsiasi richiesta d'aiuto.
   - Sì! Fenrir, sì! Ancora... ancora! -
   Le dita sottili di Najata scorrevano violentemente nei solchi fra i muscoli, aggrappandosi alla schiena possente di Fenrir. Ogni cicatrice che scovava, di lama o di bacchetta, la faceva vibrare d'eccitazione. Chi aveva inferto quel colpo al grande Fenrir? E quell'altro? Il pazzo che lo aveva ferito era sopravvissuto? O non era riuscito a sfuggire alle fauci ferine, ora serrate sul suo collo di donna, con i denti appuntiti che bucavano la pelle?
    Najata si avvinghiò con le gambe setose, aggrappandosi al suo bacino come una cavallerizza al proprio purosangue. Con i piedi e le caviglie poteva sentire la criniera del capobranco, lungo la spina dorsale e poi giù, fino al culo tornito da guerriero. Le solleticava i polpacci ad ogni spinta della belva che, nonostante l'enorme differenza d'età, la possedeva con più violenza e ferocia di qualsiasi uomo avesse mai conosciuto.
   "Fenrir Greyback" pensava lei, afferrandolo con tutte le forze che possedeva, schiacciando il seno contro il suo petto sudato, "il capobranco, il mio capobranco".
   Quando urlò l'ultima volta, senza la minima intenzione di controllare i propri istinti, le finestre tremarono in risonanza con il basso ventre. Una bomba di magia le esplose nel cervello, e lei vibrò come un'ossessa per quasi un minuto, sconquassando il letto e sollevando i fianchi, prima di ricominciare a percepire qualcosa del mondo intorno a sé.
   Un odore umido e pungente riempiva la stanza, fin dentro le coperte e fra i lunghi dread che ora le sembravano tanto pesanti.
   Fenrir si alzò dal letto. Nudo, ma a malapena sudato, andò a versarsi un bicchiere di rum di ribes rosso. Nel buio della stanza, Najata riusciva solo a intravedere la sua rozza figura, fra le ombre tagliate dai raggi della falce di luna.
   - Dovremmo farlo più spesso - disse, ancora affannata. - Manda Skoll a sorvegliare Rolf Scamander. Così noi potremo passare molte più notti insieme. -
   - Ho bisogno che lo faccia tu. Non mi fido di Skoll, per questa faccenda. -
   - Eddai, sarà anche una grandissima stronza, ma è sempre tua figlia. Se il paparino le ordina una cosa, lei esegue. E anche io. - Si girò su un fianco, porgendo le natiche bianche alla pallida luna. Un soffio gelido, uno spiffero, le fece accapponare la pelle.
   Fenrir sorseggiò il liquore lentamente. - Agli Scamander devi pensarci tu. -
   - Ma i marmocchi non torneranno prima delle vacanze invernali! Che cosa dovrei... -
   Najata si bloccò all'istante. Nella penombra, il suo uomo aveva fatto un cenno, impercettibile, una smorfia sul viso di cuoio. Lo sentì con le viscere, più che con gli occhi. E non ebbe le forze per continuare a opporsi.
   Restarono in silenzio per un lungo tempo, senza ancora alcuna intenzione di dormire. Era la parte del loro rapporto che a Najata piaceva meno. Restava a guardarlo, afflitto da pensieri pesanti e quasi invincibili, catene che Fenrir si trascinava ai polsi da chissà quanto tempo. il vecchio lupo rimaneva quasi immobile, sempre vigile, fino a che il bisogno di prendere una decisione non l'avesse sopraffatto.
   Non condivideva mai i propri fardelli. Najata lo odiava per questo. Voleva altro, voleva essere altro, per onorare il proprio ruolo nel branco. Quella stessa notte, al suo arrivo, aveva portato sottobraccio un forziere colmo di galeoni. I branchi, di sotto, se lo erano spartito. In parte lo avevano già speso in liquore e carne. Persino i Carrow avevano potuto spendere il loro denaro. Entrambi, e non separatamente, avevano pagato due ragazzini con il petto liscio per seguirli nelle loro stanze, mentre Fenrir era chiuso insieme ai giornalisti a prodigarsi per il Popolo.
   Najata pensava che avrebbe meritato una vita migliore, non quella di un martire. Desiderava ardentemente offrirgli molto più che un buon naso da segugio e una fica calda per sfogarsi.
   Fece un respiro profondo, scacciando le paure e cingendolo dolcemente con le braccia. - A cosa pensi, amore mio? -
   Fenrir la spiò con la coda dell'occhio. - Dovremmo spostarci. Restare a lungo nello stesso luogo non è sicuro. -
   - Abbiamo pensato a tutto, cerca di stare tranquillo. Il nostro bravo Calcifer ha orecchie ovunque. Se fossimo in pericolo, lo sapremmo per tempo. -
   - Hati ci troverà. E quando succederà, rischieremo di sprofondare insieme a lui. -
   - Ora pensa al tuo lavoro. Queste cose accadranno, ma non ora. Cosa stai raccontando ai giornalisti? -
   Con voce greve, Fenrir non esitò neanche un istante. - Tutto. -
   - Tutto? - Per Najata non era affatto chiaro cosa intendesse. C'erano piani che ancora potevano essere disfatti e la condivisione era una pessima via da imboccare.
   - Io non resisterò per sempre, Najata. Sono al limite. Ho perso troppe guerre per iniziarne un'altra senza la certezza di vederne la fine. -
   - Ma cosa dici? Sei il più grande tra noi, sei una cazzo di leggenda, Fenrir. Chiunque qui darebbe la vita per te. -
   - Lo so. -
   Non disse altro. E Najata restò a bocca aperta, senza che una sola frase di senso compiuto la raggiungesse.
   Il temporale stava terminando. Dalle grondaie si gettava in strada un tappeto di rigagnoli. Qualche lampo lontano salutava in silenzio la notte fredda e chi, ancora sveglio,  lottava contro i propri demoni.
   Fenrir, sottopelle, fremeva. Il tempo prefissato si stava avvicinando ogni giorno e la fine, una volta così lontana da non poter essere immaginata, era ora a portata d'orecchio. La mappa del Regno Unito, appesa alla parete con un paio di puntine, si agitava come il lenzuolo di un fantasma, trapuntata di nomi oscuri, liste scritte a penna sotto le grandi città: Fenrir, Calcifer, Najata, Skoll, Xatu, Vitula Black, Cleia e Octavius a Liverpool; Rolf Sansers, Percival, Kalpurnia e Furia a Manchester; Corvinus, Harry, Rolf Carrow, Vitula Maxime e Ginny a Londra. E così via, con gruppi anche di solo due persone, sparsi per l'intera isola e uniti da un intreccio di parole non dette e messaggi che i gufi non avrebbero saputo consegnare.
   Un solo nome era lasciato il solitaria, con una serie di frecce tracciate per segnarne gli avvistamenti. Fenrir scosse la testa e digrignò i denti: l'ultima notizia di Hati proveniva da Edimburgo.
   - Vieni a dormire - lo invitò Najata, con le palpebre già calate e uno spiffero di vento notturno che le scostava il lenzuolo dal seno.
   Fenrir sentiva il cuore battere implacabile come un martello da guerra.
   Si rivestì e andò alla porta.
   - Dove vai? Siamo a notte fonda. -
   - A svegliare la signorina Jones - rispose lui. - E anche l'altro idiota. Se devono riposare, faranno a turni. Ma io non ho più tempo. -
   Con un ultimo sforzo, Najata si tirò a sedere. Le sue forme erano sgraziate e selvagge, ma era sinuosa, con una pelle perfetta che invitava il suo predatore a mordere ancora. - Cosa devi raccontargli di così importante? -
   - Devono capire perché siamo giunti a questo punto. Devono sapere di Magnus, di quello che ci ha fatto il Ministero e di come ci ha trattati Silente. Se non gli racconto come sono andate le cose, continueranno solo a vederci come mostri che appaiono e scompaiono nel nulla. - Si leccò le labbra, lanciando un ghigno sinistro alla compagna stanca e preoccupata. - E devo raccontargli perché dovrebbero ringraziare Hagrid. Se ora tutti i lupi non stanno cercando di stanarli nelle loro case per banchettare con i cadaveri, è in gran parte merito suo. -

 

***

 

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Capitolo 10
*** Decima Parte ***


10/50

L'estate del 1956 fu la più felice della mia vita. Per la prima volta i miei sogni ricevettero una boccata d'ossigeno e Magnus si era rifatto vivo, dopo un breve periodo d'assenza ingiustificata. O così credevo.

- Biancospino, corda di cuore di drago. Dodici pollici e tre quarti. Bella vero? - La agitò di fronte al naso, con sguardo severo. Poi la picchiettò sulle tazze da tè, sulla teiera e sul vaso straripante di lavanda.

- Sembra una bacchetta piena di potere. - Sua madre lo aveva portato a Diagon Alley. Magnus mi stava raccontando ogni dettaglio di fronte a una tazza di infuso, ormai freddatosi. Nella sua stanza aveva ammassato pentolone, libri nuovi e un gufo argentato di nome Errold, le cui piume scintillavano meravigliosamente alla luce del tramonto. 

La mia bacchetta era poggiata sul tavolo, lisa e scheggiata. Dall'aspetto, persino io dubitavo che sarebbe stata in grado di lanciare il più stupido degli incantesimi. Non ero il suo primo proprietario e forse nemmeno il decimo, non mi era stata consegnata con un fiocco, né era stato una leggenda come Olivander a porgermela, ma un magonò indigente che non ne era mai riuscito a trarne neanche una scintilla.

Però era mia.

- E la tua sembra piena di esperienza - mi disse Magnus con occhi sinceri. - Una volta ho visto la prozia Samaina fulminare un corvo col cappello usando quella bacchetta. -

La signora Lovegood mi trattava come un figlio, alla pari di Magnus e del piccolo Xenophilius, che lasciavamo indietro a frignare durante ogni nostra scorribanda. Lei mi lavava i vestiti, mi nutriva, mi ospitava sotto il proprio tetto come se fosse il comportamento più naturale da tenere per una brava donna di casa. La mattina intrecciava i lunghi capelli rossi, appuntandoli sulla testa con un ferretto da maglia, prima di dedicarsi alle faccende. Mi chiesi più volte se anche mia madre facesse lo stesso, prima dell'incidente. Pensavo ancora a lei, qualche volta. Eppure, non un'ombra riuscì a scacciare il sole da quelle giornate di attesa e fermento.

- Lo zio Ignavus ti ha dato tutta la sua vecchia roba? - domandò Magnus, incuriosito. Non mettevo piede alla baracca di mio padre da settimane, ma sembrava che per i Lovegood il mondo continuasse a ruotare per il verso giusto e senza nulla di strano. E tanto bastava.

Risposi con un cenno del capo. - Mi ha anche consegnato una scatola con dentro ossa di ratto. -

Magnus si fece una risata porcina. - Non è obbligatorio portare un animale. Però se vuoi possiamo cercarne uno per te. -

- Lascia perdere. Sarà già abbastanza difficile così. -

- Che intendi? -

Non titubavo mai, nell'aprirmi con Magnus. - Tuo zio mi ha chiesto di fare una cosa per lui. In cambio mi farà entrare a Hogwarts, anche contro il volere di mio padre. -

- Mio zio è un po' matto. Però sa come funzionano le cose. - Si strinse nelle spalle. - Spero abbia ragione. -

- Non ti interessa sapere cosa mi ha chiesto? -

Magnus arricciò il naso, riflettendo per pochi istanti. - No. Non è affar mio. - Continuò ad agitare la bacchetta in salotto, cercando di realizzare alcuni degli incanti più semplici. La sua famiglia era permissiva. Anzi, lo incoraggiava a intraprendere gli studi in autonomia, ad esercitarsi, con l'accortezza di farlo entro le mura domestiche.

Siccome io non avevo ancora praticato magia in nessun modo, cominciammo a fare pratica insieme. Spendevo anche molto tempo con Ignavus che, nei momenti di lucidità, cercava di spiegarmi dettagliatamente il suo piano: come avrei dovuto comportarmi a scuola, come evitare di attirare l'attenzione, cosa rispondere quando mi sarebbero state fatte alcune domande. Il vecchio aveva studiato il proprio progetto contorto con pazienza e meticolosità. Più avanti, avrei scoperto per quanti anni ci aveva perso la testa. E con quale giustificato rancore.

In un baule impolverato scovò per me anche una divisa scolastica. Non era mai stata indossata.

- Signor Lovegood, - gli domandai un giorno - lei è mai stato a Hogwarts? -

- Certo che ci sono stato - rispose, gracchiando come un corvo.

Tutto quello che mi aveva consegnato, bacchetta a parte, sembrava essere stato dimenticato in un angolo per decenni, ma era intonso. - Da studente? -

- Certamente. -

- Nel senso che ha studiato lì? Lei è un magonò. -

Lo sguardo di Ignavus si accese, lanciando fiamme e saette senza che il resto del volto lo seguisse nella tempesta. - Pensi che non lo sappia? Niente magia, niente magia... niente magia! Ma non vuol dire che non abbia studiato. Sono un reietto, esattamente come lo sei tu. Ma stai andando lo stesso a farti smistare da un Cappello Parlante davanti a tutti. O no? -

Cercai di non pensarci. In fondo avevo tutto ciò di cui c'era bisogno: l'equipaggiamento, l'invito, i libri e una bacchetta. Sia Ignavus sia gli altri Lovegood sostenevano che il parere contrario di mio padre sarebbe stato ignorato, nel migliore dei casi. Nel peggiore, si sarebbero chiesti il motivo e indagando su di lui... avremmo entrambi finito per passare un grosso, grosso guaio.

Fortunatamente, quasi nessuno era al corrente della mia condizione. Solo Magnus e, per qualche strano motivo, Ignavus, che comunque non sembrava affatto preoccuparsene. Durante il periodo che trascorsi con loro, la luna piena apparve in cielo per tre volte. Nei giorni precedenti Ignavus si faceva scostante, irritabile e anche più violento del solito. Finiva con lo scacciarmi, insistendo su quanto lo stessi facendo ammattire. Urlava di non farmi vedere per qualche giorno e io, rassegnato, obbedivo. Passavo così le ore nel bosco, lontano dal mondo, sicuro di poter stare lontano dai pericoli e di non attirare attenzioni non volute. Al mio ritorno, Magnus mi apriva sempre la porta di casa e, senza fare domande, mi faceva trovare la vasca con acqua calda e sapone, i vestiti puliti sul davanzale.

Pensavo che sarei potuto andare avanti in quel modo per sempre. La mia vita stava cambiando nel modo migliore e credevo davvero che sarebbe stata una costante ascesa, una fuga dall'isolamento dell'infanzia che mi andava sempre più stretta.

Poi Magnus decise, il 22 di Agosto, di venire con me a caccia. Lo fece in silenzio, senza avvertire, seguendo i miei passi nel bosco durante la notte. Il cielo stellato era limpido come acqua di fonte e l'immensa, tonda luna piena si specchiava in ogni rigagnolo così come negli occhi vacui del mio unico amico.

Non esistono parole, in questa lingua, per descrivere la muta in modo anche solo lontanamente efficace. 

Né ciò che accade dopo.

Mentre la pelle si tira e i battiti del cuore accelerano, un velo offuscato cala di fronte agli occhi. Luna pretende un sacrificio, per il dono che ci elargisce. Così, si paga il prezzo in dolore.

Sotto la cappa della notte i miei muscoli si ingrossarono. La pelliccia ispida bucò la pelle, mentre i tendini si aggrappavano saldi alle ossa contorte che spingevano la carne con brutalità. Le fauci spuntarono dalle gengive sanguinanti, protendendosi disperate e assetate. Stringevo con rabbia i rami protesi delle piante, rantolando con una voce in cambiamento: dal vagito di un ragazzino, al ruggito del cacciatore. Con gli artigli strappavo la corteccia e mi scagliavo contro i tronchi più saldi, fino a quando la coda non fosse stata libera e non avessi sentito l'odore dell'oscurità passare dal muso e inondare i polmoni.

A quel punto, ero libero di nutrirmi.

Nel bosco c'era selvaggina. Ne avevo scorto la presenza nelle settimane precedenti, ma quella notte ne percepivo la paura. Erba, foglie e radici tracciavano molli sentieri sotto le zampe. Correvo a gran velocità, percependo la vita attorno a me: ogni ramo, ogni insetto, ogni respiro. Cercavo qualcosa di abbastanza grande per saziare i miei istinti. La Furia, da dentro, urlava come un vulcano in eruzione, quando balzai oltre le fronde dei rovi. Invece che affondare gli artigli nel cerbiatto che mi ero aspettato, però, andai a vuoto, con la preda che cadde all'indietro all'ultimo istante.

Fra le zampe, avevo i brandelli di un vestito. Niente sangue, ma un odore intenso. Ringhiai la mia fame in faccia al ragazzino biondo. Lui mi guardò negli occhi, con la testa a pochi centimetri dalle zanne snudate. E ringhiò a sua volta. Mise a nudo la spalla, dove il segno dei miei denti si era ormai cicatrizzato. L'odore familiare, di branco, che emanava, bastò a salvargli la vita. Nonostante desiderassi ancora uccidere Magnus, rivedevo la mia stessa natura specchiarsi nella pelle bianca. La riconobbi e lo lasciai alzare.

Insieme, proseguimmo la caccia.

A quattro zampe ero molto più veloce di lui. Trovai presto un'altra traccia, una pista battuta di fresco da qualche animale. Mi lanciai all'inseguimento, ululando comandi che nessuno poteva comprendere, ma che lasciarono una scia per Magnus.

Stremato, riuscì a raggiungermi quando già avevo abbattuto un pesante cinghiale. Il suo grasso colava dalle mie fauci in filamenti appiccicosi. Avevo il muso ricoperto degli intestini della bestia e respiravo con eccitato affanno. Era meraviglioso. Ero libero.

Ringhiai a Magnus: la preda era il mio premio, non il suo. Sarebbe dovuto rimanere lontano. Forse, avrebbe potuto assaggiare gli avanzi. Ma lui non pareva interessato. Guardava oltre, lontano dalla caccia. "Peggio per lui" pensai. Non era pronto. E la sua semplice esistenza mi urtava, la sopportavo a malapena. Fu però un suo richiamo, con parole incomprensibili alle mie orecchie tese, a farmi notare dove ci aveva condotti il cinghiale.

A colpo d'occhio, nella radura oltre la linea degli alberi, c'era una baracca di cemento e lamiera.

Magnus era già sulla soglia, quando mi decisi a muovermi. Nell'aria c'era un cattivo odore. Avanzai pancia a terra, con le zampe larghe, appiattendomi contro il terreno. La luna piena illuminava terribilmente quegli spazi aperti, facendomi sentire vulnerabile. In casa, però, le luci erano spente. Quel riparo così intimo, conosciuto eppure quasi dimenticato, rimaneva avvolto nel silenzio.

Una tana è sempre riconoscibile. Dall'afrore, dai segni esterni, dai segnali di possesso che avvertono gli altri licantropi di stare lontani. Una tana è sacra e il branco che protegge la rinnova costantemente con la propria vita.

Sporsi il muso all'interno. La porta era aperta. Il tanfo, insopportabile. Dalla finestra filtravano appena pochi raggi, abbastanza da disegnare il contorno dell'unico ambiente che conoscevo bene. Magnus agitava le mani di fronte al viso, per scacciare le mosche e gli insetti. Larve e adulti sciamavano brulicanti al centro della stanza, dove da una corda, legata saldamente a una trave, penzolava ciò che rimaneva di mio padre. Lo scorsoio intorno al collo aveva quasi segato completamente la testa, incidendo la carne della gola, con la quale avevano pasteggiato i corvi ladri di occhi.

Quella baracca, ormai, non era più una tana. Mio padre aveva per l'ultima volta lasciato la sua impronta. E l'aveva trasformata in una tomba.

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Capitolo 11
*** Undicesima Parte ***


11/50

***

24 Aprile 2008

Ufficio della Preside – Hogwarts

 

«Comprenderà ora, Preside McGranitt, le motivazioni del Ministero.»

Le labbra fini e serrate dell'Auror non le piacevano affatto. «Ebbene, le comprendo. Ciononostante, si tratta di un cimelio della Scuola. Non vi sarà permesso portarlo fuori da questo ufficio.» Minerva McGranitt vibrò una tale occhiataccia alla coppia di funzionari giunti a colloquio, che sarebbe parso adeguato se questi avessero voltato i tacchi per darsi alla macchia. Invece rimasero al loro posto, ai piedi dei cinque gradini, accanto all'astrolabio.

«Non è nostra intenzione» rispose Nora Féilican, venendo in soccorso al proprio compagno. «Desideriamo solo porgergli alcune domande.»

Minerva scrutò nuovamente la lettera di presentazione dei due. Non v'era dubbio alcuno che fosse autentica. Ma una fumosa perplessità, nonostante tutto, l'attanagliava. E l'aspetto peggiore della storia, per la vecchia Preside, era che non avrebbe saputo individuarne il motivo. «Vi conosco, per caso?» azzardò scendendo le scale, per restituire il mandato. «Ho avuto decine di studenti, nei miei molti anni di insegnamento. Li ricordo tutti, nel bene o nel male. Le vostre facce, però, mi sono nuove.»

«Non saranno stati poi così tanti,» rispose Nora «lei deve essere ancora giovane, Preside McGranitt.» Quello che avrebbe dovuto suonare come un complimento, pur falso, assunse una strana sfumatura negativa. Gli Auror sorrisero, uno dopo l'altro, snudando i denti malandati.

«L'adulazione non l'ho mai apprezzata. Tantomeno il servilismo.» La McGranitt, voltando le spalle, aprì uno degli armadi nella stanza circolare. I lasciti di Silente erano stati molti e di svariata natura, ma ben pochi erano tanto ingombranti quanto gli artefatti, i marchingegni e gli oggetti incantati accumulati nel corso dei decenni e ora ammonticchiati con cura nelle teche ricolme. Con i segreti che custodivano alcuni di quei preziosi manufatti, il Ministero avrebbe fatto festa grande, aggrappandosi a ogni pretesto per infiltrare la propria longa manus oltre le porte della Scuola. Shacklebolt era un amico e un mago fidato, intento a costruire un Ministero a propria immagine e somiglianza. Nemmeno lui, però, poteva frenare le ingerenze che partivano dagli uffici dei burocrati nei palazzi del potere.

«Costruire un mondo diverso» disse la McGranitt «richiede tempo, dedizione e sacrificio. Mentre c'è chi si occupa di fare il proprio dovere dalla cima, noi cominciamo invece dal principio.» Si voltò verso gli Auror, appuntandosi mentalmente di chiedere al signor Potter di questi suoi sconosciuti colleghi. In mano reggeva un cappello, marrone e a punta, consumato dai secoli. «Dunque, vi prego di fare in fretta e non arrecare disturbo immotivato al Cappello Parlante.» Risalì la scala, per poggiare l'artefatto sulla propria scrivania. Lo fissò con solennità, essendo perfettamente a conoscenza dell'uso che i due stavano per farne. "Mi chiedo cosa vadano realmente cercando" si domandò.

«La ringraziamo per la disponibilità, Preside.»

«Naturalmente. Veda di non toccarlo con quelle enormi mani sudicie. Ricordi che questo è il cappello di Godric Grifondoro.»

«Ne avremo la massima cura» tagliò corto Nora, percependo il nervosismo montante nel compagno. «Se ora vuole scusarci...»

La McGranitt raddrizzò il collo nobile in tutta la sua grinzosa lunghezza, fronteggiando il viso color caramello della donna, poco più alta di lei. «Avete venti minuti.» Così dicendo, lasciò l'ufficio agli abitanti dei quadri, alla polvere e ai due Auror del Ministero della Magia.

Quelli la seguirono con lo sguardo fino a quando la massiccia porta non si richiuse, isolandoli.

«Vecchia puttana sospettosa.»

«Ha già mangiato la foglia, te lo dico io.» Nora digrignò i denti: se avesse avuto ragione, i mesi successivi sarebbero stati travagliati.

«Se si dovesse mettere in mezzo, ci penserò io.»

«Hati,non pensarci nemmeno. Datti una calmata. Troviamo quello che ci interessa e leviamoci di torno.»

Ingobbito nelle spalle muscolose, Hati salì alla scrivania lentamente, soppesando ogni passo. Non era mai entrato in quell'ufficio, o attraversato i corridoi, o abbracciato con lo sguardo i chiostri di Hogwarts. Lui non ci era mai andato, a scuola.

Ma suo padre sì.

Delle meraviglie contenute nell'Ufficio del Preside, ad Hati non importava nulla. Le sopracciglia cespugliose miravano al logoro cappello, come se avesse dovuto, improvvisamente, schizzare lontano strisciando sulla tesa.

«Chissà cosa direbbe di te, se dovesse smistarti in una Casa» si chiese Hati, rivolgendosi alla compagna.

«O di te.» A risposta pronta si oppose un ringhio d'avvertimento. Il capobranco, però, fu immediatamente distratto da un nuovo, arguto interlocutore.

«Mmm,mmm, quesito interessante. Ma non lo saprete mai, senza fare una prova.» Il Cappello, ondeggiando come uno straccio vecchio, aveva parlato. «Non temete il responso: siete ormai vecchi, per frequentare le classi.»

«Non siamo qui per fare certi giochetti, berretto.» Hati fece uno scatto in avanti, afferrando una sedia e piazzandosi proprio in fronte alla scrivania. «Ho altre domande da farti.»

Per nulla intimorito, il Cappello ballonzolò a destra e a sinistra. «Falle, dunque. Se saprò rispondere, risponderò. Se non saprò farlo, non lo farò. Io non sbaglio mai.»

«Lo spero bene» commentò Nora, restando vicina alla porta. «Ti hanno creato per fare una cosa soltanto.»

«A dire il vero, signorina, i miei talenti sono molteplici. È cosa risaputa la mia dote canora, che allieta ogni anno i nuovi arrivati, giovani menti divertite, sbalordite e spaventate di iniziare la loro avventura. Sono un discreto poeta, devo ammetterlo, e un più che notevole giocatore di dama dei maghi. Ma senza dubbio, il mio talento più acclamato risiede nell'arte...»

«Della legilimanzia.» Hati completò la frase con un afflato predatorio. Il piede sbatteva a terra ritmicamente, e con i denti si masticava l'interno del labbro inferiore. «Dimmi, berretto: su quante teste di licantropo ti sei posato, in questi anni?»

La risposta non si fece attendere. «Nel mio lungo servizio, ho visto cose nella mente degli studenti che non mi è dato riferire. Pensieri maligni, desideri corrotti, instillati nella mente di bambini già non più innocenti. Eppure, nessuno dei sette licantropi che hanno varcato le porte di Hogwarts come studenti era di questo tipo, se è questo che vuoi sapere.»

Hati esultò. «Sette. Un numero piccolo, fra cui cercare. Sono comunque molti, rispetto a quanto mi ero aspettato. Chi è stato l'ultimo?»

Ancora una volta, il Cappello Parlante rispose rapidamente. «Remus John Lupin, che smistai in Grifondoro nel 1971.»

«Lupin è morto» commentò Nora. «Torna più indietro.»

«In tal caso, nel 1963 smistai Gerda Yokebait in Casa Serpeverde.»

«E chi cavolo sarebbe questa, Hati?»

Lui si morse profondamente il labbro e dilatò le narici. Appariva come un lupo pronto a cedere all'isteria. «Non lo so e non mi importa. Torna più indietro, Cappello!»

Il Cappello Parlante arricciò la punta. Ricordava perfettamente ogni singolo studente sulla cui inesperta testa era stato posato. «Se anche il prossimo non vi dovesse soddisfare, sappiate che dovremmo fare un salto indietro nella storia di mezzo secolo, per trovare un altro studente che possieda le caratteristiche a voi interessanti. E se gli state dando la caccia, come avete fatto negli anni di Grindelwald, ormai potete mettere il cuore in pace: sarà morto e sepolto.»

«Non farmi perdere tempo. Chi e quando: subito.»

«H.V. Un ragazzino deciso, dal cuore leale, senza paura di fare fatica per ottenere i risultati. Lo smistai nel 1956.»

«Perla barba di Merlino, Hati... è lui!»

Hati restò in silenzio, calmando lo spirito e respirando a fondo. Non voleva che i suoi sentimenti trasparissero, ora meno che mai. Nora era una compagna fidata, parte del branco, ma restava una sottoposta. Farle sapere di aver scoperto il proprio vero cognome solo in quel momento, sputato fuori da un cappello avvizzito, sarebbe stato troppo.

Così, ringraziò l'oggetto incantato. «Grazie. La tua memoria è formidabile.»

Gongolando, ma con un certo sospetto, il Cappello Parlante replicò: «Solo uno, dei miei talenti. Ma ho la sensazione che non mi chiederete di ascoltare una delle mie ultime poesie, ora.»

«Torna a quel giorno,» gli ordinò Hati «concentrati, visualizza i presenti. Ho bisogno che mi dici chi hai smistato. Dove lo hai smistato e con chi. E non tralasciare niente: Magnus Lovegood, l'ho trovato da solo, ma ora ho bisogno di te per arrivare anche agli altri.»

 

***

 

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Capitolo 12
*** Dodicesima Parte ***


12/50

Il binario, gli altri studenti, le delizie incantate, le barche e il castello: ogni elemento che incontrai al mio arrivo a Hogwarts mi riempì di meraviglia.  Uno stupore senza precedenti che mi lasciò allibito. Magnus e la signora Lovegood mi avevano anticipato qualcosa, nel tentativo di non farmi apparire più spaesato di quanto non fossi, ma non una singola parola era stata in grado di prepararmi all'antica e prestigiosa Scuola di Magia e Stregoneria. Tremavo, per l'eccitazione e la gratitudine di potermi finalmente presentare nella società dei maghi. E non c'era avvertimento di Ignavus, o del mio defunto padre, che resistesse nella mia mente all'entrata nella Sala Grande.

Un cielo maestoso, con nubi gravide di pioggia e raggi di luce morente a disegnare lo spaccato di un arcobaleno, riempiva la volta sopra le lunghe tavolate degli studenti. Le candele fluttuavano a migliaia sopra le nostre teste, mentre in fondo alla sala, nello scintillare delle stoviglie e dei calici superbi, i professori attendevano che il professor Emory Zittawack ci traghettasse fino a loro, al nuovo preside e a quello che sarebbe stato il momento più importante della nostra vita a Hogwarts.

Magnus camminava a fianco a me. Eravamo stati inseparabili tutto il tempo, da ben prima di arrivare al binario 9 e 3/4. - Hai visto che orecchie piccole e che labbra grosse? Zittawack sembra un troll. -

- Spero di non averlo come professore. Mi guarda storto - gli confessai. Ad essere sincero, non era stato affatto l'unico.

Il gregge di studenti del primo anno, oltre a me e Magnus, comprendeva poco più di cinquanta ragazzi. Non avevo idea, all'epoca, se fossero molti o pochi. Il pensiero di una generazione nata già decimata dalla guerra prima del concepimento, era un concetto alieno. Quello che sapevo, però, era che almeno metà dei miei compagni aveva cercato di tenersi lontano da me per tutto il tempo. L'altra metà, invece, era stata, come dire... molto scortese.

- A me non dispiace - continuò Magnus. - Sono più preoccupato per quel Diggory. Idiota arrogante. Spero di non finirci in Casa assieme. Studiare con uno che ti alita sul collo tutto il tempo non è proprio l'ideale. -

- Sempre meglio che il terzetto della prima carrozza. Hai visto cos'hanno fatto al povero Selwyn? -

- Eh eh. Già. Chissà se dopo aver fatto tutto il percorso, le cioccorane gli usciranno da sotto saltellando. -

- Buonasera, miei cari studenti! - Una volta arrestati i ragazzi di fronte al pulpito del Preside, il professor Zittawack si mise da parte, lasciando parlare un uomo di età avanzata, che ai miei occhi di bambino pareva ben più vecchio di mio padre. Di conseguenza, dato che lui era già morto, questo doveva essere una sorta di mummia. - Vi do, con immenso e non celato piacere, il benvenuto alla Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts. Il mio nome è Albus Silente. Il mio eccellente predecessore, il Preside Dippett, che abbiamo tutti calorosamente salutato durante la  commovente cerimonia di fine anno, rinnova anch'egli i propri saluti e i migliori auguri a tutti voi. -

Nella barba e fra i capelli la maturità stava rapidamente cedendo il posto a un più saggio abito candido. Aveva gli occhi di uomo gentile, Silente, autorevole, ma estremamente vicino alle nostre ginocchia tremolanti. Pensai di trovarmi di fronte all'esempio di come la mia vita sarebbe stata, da quel punto in avanti: onorevole, seria, compassionevole e rosea. Finalmente, avrei avuto tutto quello che mi era stato negato: un'identità e un posto dove sentirmi fra i miei pari.

Naturalmente, mi sbagliavo. E il primo segnale di quel che mi aspettava arrivò da una ragazzina dalla pelle bianca come la luna, in piedi gomito a gomito con me.

- Non mi toccare, schifoso mezzosangue. - Non fu la spinta che mi diede, né le parole che Lizbeth Urquart mi sibilò con disprezzo, a ferirmi. L'abitudine a cadere, rialzarmi ed essere bersaglio di facili angherie mi aveva preparato. Quello che invece mi fece male, furono le risate dei miei compagni.

- Vi prego, ordine, ordine, signori! - Il Preside Silente aveva assunto un tono deciso e severo, infastidito dai bisticci della nuova infornata di futuri maghi e streghe. Mentre la sala rideva e Lizbeth si ripuliva dallo sporco immaginario la manica della divisa, Magnus le si piazzò faccia a faccia, a meno di un centimetro dal naso. La ragazza lo superava di mezza testa, ma Magnus, a occhio e croce, pesava quindici chili in più. Le parole che uscirono dalla sua bocca furono meravigliose: un insulto talmente ficcante che, dannazione, ci ho ripensato per anni, ma non sono più riuscito a ricordare i termini esatti con cui spiegò alla signorina Urquart quello che le avrebbe fatto la prima volta che si fosse addormentata fuori dai dormitori.

- Professor Zittawack, la prego, cominciamo con la cerimonia. Calmiamo ora i bollenti spiriti della gioventù e, confido con rapidità,  - bofonchiò Silente a bassa voce, ma ben udibile dalle prime file - cominceremo presto a goderci il piacevole rinfresco di questa prima serata insieme. Professoressa Black, vuole essere così gentile da portare il Cappello Parlante? -

Il cencioso cappello venne poggiato sullo sgabello dalla grassa professoressa Black. La platea di studenti si fece silenziosa: attendevano con ansia di scoprire quali nuovi elementi avrebbero portato onore, o arrecato disonore, alle proprie Case.

Fu allora che cominciai ad avere paura.

- E se non ci mettono insieme? - domandai a Magnus, preoccupato.

- Impossibile. Io e te siamo uguali. -

- Magnus, non siamo uguali. Le nostre famiglie non lo sono per nulla! -

- Conta anche quello che vuoi tu, sai? Il Cappello tiene in considerazione le scelte personali. -

- Il Cappello fa cosa? -

Prima di ricevere una risposta, incominciò una delle più sconcertanti e ridicole scene a cui avessi mai assistito in vita mia. Alzati gli occhi, un copricapo logoro stava cantando dal suo pulpito di legno:

Venite avanti, giovani maghi,
lasciate fuggire i pensieri più vaghi;
Venite avanti, giovani streghe,
lasciate a casa tutte le beghe;
Di ognuno di voi ora avrò cura:
non sbaglio mai, niente paura!
Dei cuori impavidi il valor riconosco,
veniate da terra, dal mare o dal bosco,
tra gli impavidi avrete audacia e decoro
poiché siete figli del fier Grifondoro.
Le menti più acute io riesco a trovare
e in alto nel cielo farle volare,
chè della sapienza fan scudo davvero
le ali leggere dei Corvonero.
Nell'instancabile impegno vengon forgiati
i grandi animi, leali e rispettati,
le cui zanne difendon più caro di un osso
l'eterna pazienza di un Tassorosso.
Per esaltare grandezza e ambizione
c'è solo una Casa a far da padrone,
di chi il proprio fine di vista non perde
poiché ha l'astuzia di Serpeverde.
Sedete ora qui, e abbracciate la scelta
che meglio farò par voi questa volta.
Alle Case vi assegno, se ci penso un pochino:
sto già aspettando chi viene per primo!

Qualcuno applaudì, qualcuno rise, qualcun altro si lamentò di dover ascoltare per l'ennesima volta la lagna del Cappello. Il professor Zittawack era già pronto, con la pergamena srotolata in mano:

- Abbott, Theodora! Venga avanti.

Così cominciò. La tensione crebbe fino a che la prima ragazzina, dopo essere stata sotto il Cappello per meno di venti secondi, balzò come un gatto sullo sgabello nel sentire urlare: - Corvonero! - Il tavolo degli studenti Corvonero esplose in applausi fragorosi, risate, fischi di gioia. Fu stupendo vedere con quanta felicità Theodora lasciò il palco e si tuffò fra i nuovi compagni, che l'abbracciarono e la invitarono a prendere posto.

- Sarà così anche per noi? - sussurrai a Magnus, perplesso e speranzoso insieme.

- Forse. Forse no. Dipende se stiamo simpatici, immagino. Oh, guarda, tocca a Charlie Burke, il fesso che ha lasciato il baule a Londra. -

Burke venne smistato a Serpeverde e, nuovamente, la sala esultò. Furono molti i volti nuovi che ci si pararono davanti, mentre bollivamo nell'incertezza. Dove saremmo finiti, io e il mio unico amico? E con quale pessima compagnia? Amos Diggory, con il quale Magnus aveva già litigato per via del posto a sedere, venne, dopo una pausa di circa due minuti, mandato a Tassorosso.

- Bene, ora so cosa non chiedere - disse Magnus. - Se devo andare in dormitorio con lui, giuro che finisce a botte. -

- Perché, preferisci questa qua? Le ho visto ficcare una cioccorana nella gola di Selwyn, senza togliere la scatola. -

Il professor Zittawack chiamò: - Fawley, Alice! - e la scelta, per il Cappello, fu presto fatta.

- Grifondoro! -

Esultanza, capitolo successivo.

- Lovegood, Magnus Jarp! -

Mi lanciò un sorriso beffardo e, strizzando l'occhio, si andò a sedere sullo sgabello. I suoi biondissimi capelli spuntavano fuori dalla tesa come tante spighe di grano, mentre lui rideva e strizzava gli occhi, come abbagliato. Non ho idea di cose si disse con il Cappello Parlante, ma la discussione arrivò al dunque in meno di un minuto.

- Serpeverde! - urlò l'artefatto, e Magnus se ne andò baldanzoso verso la tavolata. Non sapevo se essere felice o preoccupato. Potevo chiedere di andare con lui? Forse, al mio turno, sarei stato ascoltato. E Magnus era là, che già aveva spinto lontano un compagno per farmi posto.

Dannato furfante... gli feci cenno di mantenere la calma.

Ne smistarono parecchi altri, prima che toccasse a me. Fu un continuo susseguirsi di nomi, attese e grida condite di applausi:

- Mattinger, Selwyn! Corvonero! -

- Moody, Alastor! Tassorosso! -

- Nott, Hekate! Serpeverde! -

- Nott, Naga! Serpeverde! -

- Ollivander, Jinx! Serpeverde! -

- Paciock, Frank! Grifondoro! -

- Van Rubin, Preston! Grifondoro! -

Alla fine, ero rimasto da solo. Ogni Casa aveva accolto i propri nuovi, abbastanza da formare gruppetti subito intenti a fare conoscenza. Ero l'ultimo e toccava a me.

- V., H.! - Chiamò il professore. - Venga avanti. -

Seduto di fronte all'intera scuola, la professoressa Black mi calò il Cappello Parlante sulla testa arruffata. Stavo tremando.

"Ti prego, ti prego, Serpeverde, Serpeverde!"

"Serpeverde, dici? Sei pretenzioso, giovane mago."

Stavo pensando così intensamente che, per un istante, pensai di aver parlato ad alta voce. Invece, all'esterno ero pietrificato. Il maelstrom imperversava nella mia mente, dove ora ricevevo un ospite.

"Ho solo un amico. Mi odiano tutti. Ho bisogno di stare con Magnus."

"Questo è vero. Ti odiano perché hanno paura di te, piccolino. Mmm, mmm, sì, vedo che hai avuto le tue difficoltà. Di certo l'omicidio non è il migliore dei biglietti da visita, ma non spetta a me giudicare le tue azioni. Io voglio solo capire chi tu sia veramente."

Sudavo freddo, impietrito all'idea che potesse rivelare qualcosa di atroce a tutti gli altri, proprio lì, in mezzo alla Sala Grande. Con tutti quei maghi e streghe esperti, se avesse detto del mio passato sarebbe finito tutto. E se avesse rivelato la mia vera natura...

"Ignavus ha detto che non può succedere."

"Non ti preoccupare, piccolo lupo. Non sei il primo, né sarai l'ultimo, ad essere ammesso qui. Ma senza dubbio, sei il più difficile caso che mi sia capitato da molto, molto tempo. Sai, i Serpeverde sarebbero un'ottima Casa in cui crescere, anche se difficile. Ma sono le difficoltà a temprare i più forti, e tu lo sei. Oh, se lo sei. Ambizioso, certo, anche se ciò che desideri più di ogni altra cosa è la normalità. Non ti manca certo il coraggio, ma non è quello a cui aspiri. Tu vuoi che le persone non si comportino male con te e i tuoi amici. Non vuoi che ciò che è successo alla tua famiglia si ripeta. E sei disposto a tutto, pur di vedere il mondo svoltare verso nuovi e più sani principi. Sì, credo proprio di aver deciso."

Furono i tre minuti più lunghi della mia vita. Almeno, fino a quel momento. Ma non scorderò mai lo sgomento e il vuoto che mi divorò le viscere nell'istante in cui quel vecchio panno sgualcito urlò in mezzo alla Sala Grande: - TASSOROSSO! -

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Capitolo 13
*** Tredicesima Parte ***


13/50

Davanti alla Tana, nel corridoio delle cucine, insieme ad altri undici ragazzi e ragazze e al Prefetto Thomas Giggle, mi sentii totalmente, inesorabilmente solo. Nessuna faccia mi si mostrava come amica, ma nemmeno nemica: venivo trascinato in un vortice di gente sconosciuta, in un mondo sognato e distante, troppo vero per poterci credere ciecamente.

- State vicini: vi è severamente vietato aggirarvi per il castello durante le ore notturne. - Giggle era un ragazzo secco, con un espressivo cespuglio di capelli castani e orecchie paraboliche. Si era presentato in Sala Grande e ci aveva subito accompagnato, una volta terminata la cerimonia di smistamento e conosciuto il Frate Grasso, alla Tana di Tassorosso. - Questa sarà il vostro rifugio e il vostro dormitorio per i prossimi sette anni. Quindi cercate di fare attenzione. Dovete sapere che la nostra è l'unica ala privata a non essere mai stata violata. Almeno non negli ultimi cinquecento anni. Ora: vedete queste botti? Prestate attenzione. Dovete sapere che se non imparate immediatamente il segreto per accedere alla Tana, vi troverete a passare giornate intere in lavanderia. -

- Aceto - bofonchiò Diggory a una delle ragazze. La sua era l'unica, stupida, occhialuta espressione che avevo già imparato a riconoscere. - Le botti sono piene d'aceto. Se si sbaglia con il ritmo o con la botte, esplodono. Me l'ha detto mio padre. -

La ragazza, una giraffa scura più della notte, arricciò il naso, minuscolo come il codino di un criceto. - Ci bagnano nell'aceto? -

- Silenzio! - ordinò Giggle. - Dovete sapere che non sono ammessi chiacchiericci, borbottii e qualsivoglia forma di disattenzione, qui a Tassorosso. Massimo impegno sempre. E ora, ascoltate. - Con le nocche cominciò a battere su una delle massicce botti di legno. Un motivetto ritmato, decisamente lungo, anche se ricordabile.

- Sembra un vero idiota. - La voce roca del mio compagno fu troppo, da sopportare. La solitudine venne spazzata via, inseguita a fauci spalancate da una divertita curiosità. Così lo guardai meglio: capelli impazziti gli cadevano sulle spalle, incorniciando un viso scavato dalla mano di un falegname. Ricambiò lo sguardo, con le labbra tirate e gli occhietti piccoli e scuri, affilati come pugnali. - Alastor, - si presentò - Alastor Moody. -

- H. V. - risposi. Dopo un attimo di incertezza, lui mi fece un cenno d'assenso con la testa e io, impreparato a tutto, lo ricambiai.

- Ed ecco come si apre il passaggio! - esultò soddisfatto Giggle. La botte si spostò e, attraverso un piccolo cunicolo terroso, sbucammo uno dopo l'altro, come una dozzina di talpe, nella Sala Comune.

Era il luogo più bello su cui avessi mai posato lo sguardo. I soffitti erano molto bassi e qualcuno dei miei compagni se ne lamentò, ma il calore e la luce che inondavano la stanza circolare ci fecero sentire immediatamente come un'unica cucciolata. Lampade di rame e candele rischiaravano ogni angolo, come una taverna accogliente, mentre il cielo cupo all'esterno lasciava intravedere le sue stelle più coraggiose.

Il quadro di Tosca Tassorosso, appeso sopra il caminetto, alzò la coppa a due manici, brindando al nostro arrivo con i due tassi danzanti. 

- Ma dove siamo, nel seminterrato? - domandò una delle ragazze, mentre io realizzavo con un certo timore che avrei dovuto iniziare a conoscerle. Giggle ci aveva ripetuto più volte che saremmo stati come una famiglia, abitando negli stessi spazi ogni singolo giorno.

- Dovete sapere, - riprese il Prefetto - che attraverso gli oblò circolari potete osservare il manto erboso, i denti di leone,  le piante dei giardini. Certo, noterete anche alcuni passanti, qua e là, ma nessuno ci disturberà mai. Se ora volete seguirmi. - Fece il giro dei mobili intarsiati, toccò ogni edera che pendeva dal soffitto e per non meno di dieci minuti d'orologio elogiò una pezza di patchwork su di una delle coperte nella sala, raccontando dell'inutile vicenda che ci stava dietro.

Infine, dopo averci illustrato il programma di giorni seguenti, ci divise nei dormitori. Gli elfi domestici avevano già portato i nostri averi in camera. Il baule più grande era, naturalmente, di Amos Diggory.

- Il letto centrale è mio! -

Compreso me, eravamo in cinque: Amos Diggory, il re del castello, si era già riuscito a inimicare tutti quanti. E questo era un bene, perché allontanava l'attenzione da me, che fissavo fuori dalla finestra alta, cercando la luna.

- Io sono Archibald Tattercow - esordì uno spilungone dinoccolato, esibendo un sorriso gigantesco.

La risposta fu molto più fredda: - Alastor Moody. -

- C'è una classe di ragazzi con la "A" - commentai, senza pensare.

Diggory, Tattercow e Moody si guardarono, mi fissarono e scoppiarono a ridere indicandosi a vicenda. Tranne Moody, naturalmente.

- Allora io faccio l'eccezione - commentò l'ultimo dei miei compagni, allargandosi in un abbraccio fra me e Moody. - Potete chiamarmi Rumble. -

- Joshua Bradshow Collins Paddington III, sarebbe il nome completo. - Dopo averci illuminato, Tattercow se ne uscì con una risata fragorosa, inseguito da Rumble e dal pericolo che quello riuscisse di prenderlo a cuscinate.

Diggory mise in piedi un comizio sulla figura indegna che i due stavano facendo fare alla Casa. Nessuno lo ascoltava. Alastor si impossessò di un letto e ficcò il naso in un libro, fino a quando il baccano non fosse terminato e, finalmente, avesse potuto riposare.

Era stata una giornata stancante per tutti. Le emozioni ci avevano soverchiato e io ero il meno preparato a sopportarle. Fuori dalla finestra, in piedi sull'ultimo letto in fondo, cercavo l'unica amica che mi fosse rimasta, l'unico cenno famigliare in quel mondo rumoroso e nuovo.

Lei era là, con la sua falce scintillante, fra le nubi e gli astri.

 

***

Estratto da:

DE MORBIS MENTIS TRACTATUS
di Avicenna (Abū ‘Alī al-Husayn ibn ‘Abd Allāh ibn Sīnā)
XI sec. d.C.

 

La manifestazione della mania è il demonium lupinum. La mania canina è invero una specie di malinconia, con ira mista a gioia, e a una specie corrotta di inquisitiva ricerca, così com'è in un certo senso la natura dei cani. E sappi che la materia che produce il demonium lupinum è, nella sostanza, la materia che produce la malinconia: entrambe infatti sono di natura mestizia. E invero, la causa che produce questo demonio è mestizia riarsa, composta o dalla collera, o dalla tristezza della peggior specie; mentre ciò che produce la malinconia vera e propria è l’abbondanza di mestizia naturale. […] E, de facto, la malinconia comporta errore di giudizio, e pensieri malsani, e fobie, ed ebetudine, e appare priva di agitazioni veementi. La mania, invece, è tutta agitazione, e movimento scomposto, e ricerca di qualcosa, e lupositas, e comporta un aspetto non assimilabile a quello degli uomini. Piuttosto, la cosa a cui più è simile è l’aspetto dei lupi.

***

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Capitolo 14
*** Quattordicesima Parte ***


14/50

 

Alla prima lezione di Pozioni pensavamo di essere arrivati con largo anticipo. Moody si era, poco amichevolmente, staccato dal gruppo per prendersi uno dei primi banchi. Diggory, Tattercow (che gli altri avevano cominciato a chiamare Archie) e Rumble facevano già squadra come se si conoscessero da sempre. Nessuno di loro, però, era arrivato in aula in tempo per vedere entrare il professore.

Un piccolo assembramento di studenti e studentesse apprensive dava l'assedio a un uomo di statura media, con i capelli cortissimi e la pelle chiara della gente del nord. Sorrideva tirando le guance piene e avvampate, ma i suoi occhi verdi raccontavano un'altra storia. Dietro l'aria bonaria e il fisico da osteria ricoperto di tweed, vidi qualcosa di familiare, crudo e naturale. Sembrava un pasciuto gatto intento a giocare con tanti divertenti topolini, indeciso su quale fosse il più degno d'attenzione.

- Il professor Lumacorno è molto esigente. O così mi ha detto mia sorella. - Da una selva di trecce screziate come legno di castagno spuntò, placida, un voce limpida e leggera. - Non ti scoraggiare - mi disse, abbracciando il suo libro di Pozioni. Era nuovo e profumava di pergamena, a differenza del mio, logoro e dal tanfo di sottoscala di un matto.

Balbettai qualcosa di incomprensibile, tentando di rispondere a quella luminosa serie di denti bianchi e perfetti in modo disturbante. Il tasso ricamato sulla sua casacca mi fece trasalire: ci eravamo già presentati? Avrei dovuto conoscere il suo nome? Ero sicuro di averla vista nei giorni precedenti, ma non mi ero mai avvicinato abbastanza alle ragazze da ricordare chi fosse chi. Per qualche assurdo motivo, ne ero terrorizzato. Avrei preferito mille volte affrontare l'inverno nel bosco, piuttosto che cinque minuti da solo con una di quelle creature sghignazzanti come folletti.

Venni travolto, all'improvviso, dai miei timori, materializzatisi nella forma di un raggio di luna dalla pelle diafana e gambe di cicogna.

- Levati di torno, mezzosangue. - Con uno spintone, Lizbeth mi piegò su un banco. Il libro che tenevo in braccio, rilegato ormai solo con appiccicosa disperazione e crine di cavallo, volò in terra. Alcune pagine si staccarono in blocco, finendo sparse ovunque.

- Hey! - urlò la mia compagna, fronteggiando la serpeverde di una spanna più alta di lei. - Chiedi immediatamente scusa! -

Respirai a fondo. Sentivo la rabbia pompare verso la testa, scorrere nelle vene, dalle tempie fino a invadermi lo sguardo. Qualcosa ribolliva, sotto la pelle, e la salivazione aumentava.

Quando mi voltai, mettendomi di fronte all'arrogante purosangue, aveva già ricevuto rinforzi dalla propria miserabile squadra.

- Cosa pensi di fare, bestiolina? - Naga Nott era il ragazzino più muscoloso che avessi mai visto. Il mio corpo era solido, allenato all'aria aperta e abituato alle intemperie; Naga, invece, era una statua di marmo scultoreo. 

Mi diede una spallata, passando per il corridoio fra i banchi. In mezzo a libri e calamai, mi sentii totalmente impotente, come di fronte agli adulti. Con la differenza che ora erano ragazzi della mia età, a mettermi i piedi in testa.

- Ragazzi, - disse in quel momento il professor Lumacorno, infilando le mani nelle tasche del panciotto - benvenuti. Prego, prego, predente posto. Signorina Urquart! Venga, venga, c'è ancora posto in prima fila. -

 - Sì, professore - recitò Lizbeth, educatamente. Poi mi guardò, dall'alto in basso, e mise una avanti all'altra le sue lunghissime gambe fino a sedersi.

Mi sentii afferrare per il colletto. - Spero tu abbia capito il concetto. - Il fiato di Charlie Burke era pestilenziale. La sua fronte bovina premeva contro la mia e io non riuscivo a pensare ad altro che azzannarlo alla gola. A due spanne da me, con il pomo d'Adamo che si muoveva su e giù, le vene calde pronte a dissetare la Furia...

Rimasi fermo immobile, con gli occhi chiusi. Inerme, speravo solo che mi lasciasse in pace o la mia avventura ad Hogwarts sarebbe terminata prima di cominciare, staccando un biglietto di sola andata per Azkaban. Ignavus mi aveva avvertito, di ciò che mi sarebbe capitato se la gente sbagliata avesse scoperto il mio segreto.

- Io spero tu abbia finito. - Burke mollò la presa e fece un passo indietro. "Quella voce" pensai, senza il minimo dubbio su a chi appartenesse.

- Magnus! - esclamai, stupito e felice. Il mio biondo amico, impugnando la bacchetta come fosse un coltello, la stava spingendo nella pancia di Burke, spalle alla cattedra. 

- Che pensi di fare, Lovegood? Non sai neanche come usarla. -

- Sono capace di spingere fino a bucarti la pancia, però. Pensi che il maglioncino che ti ha fatto la mamma fermerà i miei dodici pollici e tre quarti? -

- Oh! - esclamò Lumacorno, dal fondo dell'aula, apparentemente ignaro di quanto stesse realmente accadendo. - Signor Lovegood! Che piacere. Si sieda, forza, si sieda. Possiamo cominciare, credo. Buongiorno a tutti e ben arrivati. - Il professore sfoderò un amichevole quanto falso sorriso, stampato sulla faccia di pastafrolla.

Tutti andarono a prendere posto. Anche Magnus, che avevo sperato di salutare meglio, dopo i giorni in cui non ci eravamo visti. Mi strizzò l'occhio, ma proseguì, sedendosi ai banchi con gli altri serpeverde.

- Dai, andiamo anche noi. - La mia compagna mi spinse delicatamente, smuovendomi dal torpore. Raccolsi il libro e mi sistemai alla bell'e meglio al posto più vicino. - A proposito, io sono Driade Despins. - Allungò la mano senza paura, né repulsione, né scherno.

- H. V. - risposi io, abbassando lo sguardo nella speranza di nascondere gli ultimi tentativi di uscire della collera.

- Che nome strano. Non ti si addice molto. Sai che sembri un po' un lupo? -

- Cosa? -

Il professor Lumacorno esordì con una lunga, seppur avvincente, introduzione all'arte di mescere pozioni. Capii di essere più indietro rispetto a molti dei miei compagni, sia di Casa Tassorosso che Serpeverde. Le giornate le avevo trascorso fra i campi e gli animali, sotto il cielo stellato di notte e al torrente di mattina. Alcuni di quei ragazzi, invece, aveva sempre vissuto all'interno della società dei maghi. Alcuni avevano anche ricevuto un'educazione privata, mentre altri (pochi) erano stati capaci di portarsi avanti con il programma e impressionare positivamente il professor Lumacorno.

Altri ancora, invece, erano Charlie Burke.

Driade prendeva appunti, concentrata. Mi tranquillizzai, soprattutto perché non guardava quello che stavo facendo io, che impugnavo la penna come un bastone e la intingevo nel calamaio con il manifesto intento di affogarcela.

Burke era seduto al banco di fronte. Lumacorno aveva chiesto a Lizbeth di avvicinarsi alla cattedra, per selezionare e individuare, tra varie erbe, quale fosse la valeriana, quale l'aconito e quale la serpentaria. Metà della classe non avrebbe saputo distinguere nemmeno un'ortica da un girasole, ma io conoscevo bene tutte e tre.

- Ehi, topo. Bel libro. - Burke si era spinto indietro con la sedia. Sul volto aveva dipinto un piglio di disprezzo ostinato, di quelli difficili da spiegare, che nascono così, spontaneamente, come erbe di campo. Non sai perché sono lì e, per quanto provi ad estirparle, tornano sempre.

Si allungò per sottrarmi il libro, ma la copertina gli rimase in mano. Era talmente vecchia e usurata che si staccò dal corpo delle pagine senza sforzo, lasciano i fogli ingialliti sul banco.

Burke, con un'espressione di idiota ilarità, spalancò la bocca per infierire, ma la sedia scivolò. Vidi Magnus tirargli un calcio, proprio in basso, dove le gambe poggiavano in equilibrio precario.

- Santo cielo, signor Burke! - Lumacorno trottò fra gli studenti, allarmato dopo il tonfo. - Sta bene? -

Il banco si era ribaltato sotto il peso di quel sacco di patate: era caduto violentemente di faccia, proprio sul bordo. Fogli, copertina e calamaio volarono per aria, così come il suo rantolo di dolore. Io ero scattato in piedi, cercando di reggere le mie cose, ma mi ritrovai ricoperto d'inchiostro e di una isterica voglia di scoppiare a ridere. Burke era a terra, dolorante, con il labbro spaccato e le mani sul mento.

Magnus era ancora seduto al suo posto. Aveva solo voltato la testa per guardare il proprio compagno rotolarsi a terra. - Non ci si dondola sulla sedia, Charlie. Può essere pericoloso dover stare in equilibrio tutto il tempo. -

- Hop, hop ragazzi, via. Forza, fate spazio. Signor Burke, diamine, credo che debba essere portato in infermeria. - Lumacorno, più irritato per l'interruzione che preoccupato, ballonzolava sul posto con il suo pancione stretto nella trama scozzese. - Qualcuno potrebbe accompagnarlo, per favore? Signorina Despins? Signor V.? Oh, guardi com'è ridotta la sua divisa. Vada a cambiarsi, signor V., non si preoccupi. Non può star certo rimanere a lezione con l'inchiostro che le gocciola addosso, le pare? -

Mi offrì un accorato invito ad allontanarmi, insieme a quell'idiota di Burke. Nessuno dei due era particolarmente interessante, agli occhi del professor Lumacorno. L'importante per lui era avere i Nott in prima fila, la Ollivander a fargli da leccapiedi, Moody che si metteva in mostra con la sua preparazione avanzata. Noi no: eravamo riempitivi.

Ci sono sempre stati studenti di serie A e studenti di serie B, per il professor Lumacorno. Come dargli torto, d'altronde. Non lo biasimo per questo. Il mondo non è mai stato democratico.

Fui nei corridoi prima ancora di aver restituito uno sguardo a Driade, a Magnus o al professore. Perché non potevano semplicemente lasciarmi in pace? Con quello che avevo dovuto passare per arrivare fino a lì, non mi aspettavo di certo che la scuola si trasformasse in un nuovo campo di battaglia, un covo di vipere pronte ad aggredirmi a ogni occasione. E questo non riguardava solo i serpeverde, ma soprattutto i miei compagni di Casa, a cui non fregava assolutamente nulla di me. Lo spirito di unione e di cameratismo lo avevano solo con chi faceva piacere a loro. Io ero fuori. Moody era fuori, con il suo carattere impossibile. Ma almeno era sincero e, a modo suo, leale. Gli altri, invece, offrivano indifferenza e, nel peggiore dei casi, compassione. Perché Driade mi parlava come a un cucciolo ferito? Non ero anche io uno di loro? O avevo già dato idea a tutti di essere l'ultima ruota del carro, il membro del branco che bisogna sopportare, a cui affidare una balia, ma che è chiaro fin da subito che non passerà l'inverno?

Ogni pensiero si interruppe quando, per la seconda volta in pochi minuti, un'ombra inaspettata mi spedì a terra. Ero già sull'orlo di esplodere di rabbia e correre, correre via a nascondermi, prima che chiunque potesse vedere l'anima ferina nei miei occhi.

Questa volta, però, l'ombra gigantesca si scusò.

- Oh, scusa, frugoletto. Non intendevo... ehm, fatto male? -

L'enorme foresta di barba e capelli arrivavano sul petto di quercia di Hagrid. Mi porse una mano, per aiutarmi a rialzarmi, e io non seppi aprire bocca. Riuscivo solo a pensare a quel che mi aveva chiesto di fare Ignavus e al ruolo che lo stupido  guardiacaccia avrebbe dovuto compiere, a sua insaputa.

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Capitolo 15
*** Quindicesima Parte ***


15/50

***

15 Novembre 2009

Il Wampus d'Argento - Liverpool

   Lo stava facendo così lentamente che, nella calma irreale della stanza, i giornalisti della Gazzetta del Profeta riuscivano a sentire il suono delle fibre muscolari lacerarsi. Il sangue colava sugoso, rivelando la carne rossa, come fosse ancora viva. Greyback assaporava ogni gesto: portò la forchetta alla bocca e lasciò che il pezzo di manzo rilasciasse tutti i suoi aromi, prima di iniziare a masticare.
   Cornelius riusciva solo a ingollare un bicchiere di vino dopo l'altro. Greyback gli ribaltava le budella, con quel suo modo osceno di mangiare bistecche, masticando nervi e grasso con gusto.
   - Pensavi che mangiassi strappando la carne da una bestia ancora viva? - gli chiese Greyback, accennando un ghigno divertito.
   - No, certo... -
   - Ogni tanto lo faccio. La caccia mi diverte, mi fa sentire ancora giovane. Questo non significa che non sappia comportarmi in modo civile. - Si tagliò un altra striscia spessa nel piatto e la intinse nelle uova. - Siete stati voi a dipingerci come animali. -
   Megan non riusciva a pensare senza prima aver riempito lo stomaco. Non se lo fece ripetere due volte, data la reclusione forzata di quei giorni: si fece servire uova fritte, bacon, asparagi, pomodori e formaggio. Per lei, una sorta di seconda colazione.
   - Sono davvero sorpresa di scoprire che apparteniamo alla stessa Casa - commentò, fra una forchettata e l'altra.
   Greyback abbassò le mani, fissandola intensamente. - E questo cosa vorrebbe dire? -
   Megan sentì un groppo alla gola. - Oh, nulla, cioè... intendevo dire che anche io a Hogwarts sono stata smistata fra i Tassorosso. -
   - La stupisce che io ne abbia fatto parte, signorina Jones? -
   - In un certo senso... -
   - Perché sono un assassino? Perché tra i Tassorosso e le altre nobili Case circola il disprezzo per Serpeverde e, naturalmente, ogni criminale deve essere passato da lì? O forse perché non mi giudica capace di sentimenti di lealtà, dedizione, pazienza, tolleranza? -
   Il boccone, nella gola di Megan, non voleva scendere né salire. Improvvisamente cominciò a tossire, prima tentando di contenersi, finendo poi con lo sputare sul tavolo il bolo e tutto il proprio contegno. Avvampata, si attaccò al bicchiere dell'acqua.
   Greyback rise di gusto, snudando i denti affilati. - Siete così pieni di boria da potervici strozzare. Per voi il mondo è in bianco e nero, giusto e sbagliato. I Serpeverde sono cattivi, i Grifondoro sono buoni e dimenticate che Godric Grifondoro era un guerriero feroce. Il suo lascito è costituito da una spada e alcuni dei più violenti maghi che il mondo abbia mai conosciuto. - Spinse a lato del tavolo il piatto e afferrò il calice. Uno dei due uomini che l'accompagnavano, in piedi vicino alla porta, si avvicinò per ripulire. - Voldemort era un Serpeverde, ma dopo gli esponenti della sua stessa Casa, è stata Grifondoro a rimpolpare con il maggior numero di maghi e streghe le fila dei Mangiamorte. Non sia ingenua, Signorina Jones. -
   Megan respirò a fondo, schiarendo la gola. - Magnus Lovegood, però, entrò fra i Serpeverde. E mi pare di capire che fu fra i più sanguinari, fra i suoi seguaci. -
   Il piatto sbatté sul tavolo. Un uomo in sovrappeso, con un logoro spolverino nero e in mano ancora le posate del suo leader, si piegò su di lei con ferocia. - Magnus era un grande uomo, piccola stupida. Ha fatto quello che andava fatto, quindi non azzardarti a scrivere falsità su di lui, hai capito bene? - I capelli tagliati corti erano sporchi come la barba, dalla quale sgocciolavano di tanto in tanto rivoli di saliva. L'uomo non riusciva a serrare la bocca, con parte del labbro e della guancia sinistra deturpate da quello che sembrava il morso di un grosso cane.
   Greyback alzò la mano. - Burke. Vai pure. -
   Aggrappata allo schienale per la paura, Megan lo guardò allontanarsi, con i resti del loro pranzo, terminato o meno che fosse. Tornò a voltarsi, posando gli occhi sulla maestosa figura del vecchio licantropo. Alla luce del pallido sole del Merseyside, Fenrir Greyback appariva davvero come un mostro. Le ombre notturne non nascondevano i canini, che spuntavano dalle labbra insecchite, né gli artigli al termine di dita spesse come una bacchetta. Notò solo allora una ferita estesa sul collo, rimarginata da tempo, dove scendevano i folti favoriti. La cicatrice frastagliata passava da parte a parte, come se Greyback fosse stato messo al giogo.
   Additando il vuoto alle proprie spalle, Megan cercò la forza di scrollarsi di dosso la sensazione di essere un agnello sacrificale. - Quello è... quel Burke? -
   Greyback annuì, leccandosi una goccia di vino caduta sul palmo irsuto. - Non gli piace che si parli male di Magnus. O che si insinui qualcosa. A pensarci bene, non gli piace che si parli in nessun modo del suo compagno. -
   Cornelius, tenendo le mani bene riparate sulle ginocchia, aggrottò la fronte. - Compagno di branco? -
   - Compagno di letto. -
   La piuma appuntò e Cornelius, che non vide Megan battere ciglio, si domandò quale vita avessero potuto condurre due uomini del genere alla fine degli anni '50. Quando erano solo ragazzini, in una società che bramava tornare all'ordine.
   - Continuiamo - disse Greyback.
   - Un istante, un istante. - Megan, che mai aveva sostenuto un'intervista tanto lunga, cercava un modo per strutturare i propri appunti. - Lei ci sta raccontando di Hogwarts, ma devo essermi persa cosa ci fosse andato a fare. -
   - Megan, - la riprese Cornelius con un tono preoccupato - è il senso della storia del signor Greyback. Non fare domande stupide. -
   - No, scusatemi, non intendevo quello. Volevo dire: Ignavus Lovegood le ha fornito l'occasione. Però aveva anche avanzato delle richieste, giusto? -
   Greyback, irritato da quanto stava per raccontare, le rispose: - Mi aveva parlato di molte cose, per poter sopravvivere a scuola e fare sia i miei interessi che i suoi. Grazie a lui, era come se già conoscessi Hagrid. Stupido gigante buono. Fu la prima persona a scoprire che fossi un lupo mannaro. -
   - Come? - domandò Megan.
   - Glielo dissi io. Dopo Pozioni con Lumacorno lo incontrai per la prima volta. Mi prese in simpatia e fu così anche per me. Era gentile, questo lo sanno tutti, ma avevo davvero poca esperienza con persone di quel tipo. In pochi mi avevano allungato la mano, persino dopo essere finalmente entrato nella società magica. Considerato quel che avrei dovuto fare di lui, secondo Ignavus, ebbi da pensare. Ero arrivato con l'idea di occuparmene il prima possibile, così come mi era stato consigliato. Ma Ignavus non era un lupo. -
   - Le aveva chiesto di ucciderlo? -
   - Uccidere Hagrid? E chi mai vorrebbe una cosa del genere? Soprattutto all'epoca, quando contava meno di Peeves. No. Hagrid era un omicida e me ne sarei servito per arrivare a Silente. -
   - Cosa? - Cornelius fermò Megan, impedendole di scrivere. - Hagrid non hai mai fatto del male a nessuno. Questa è una calunnia. -
   - Questa è la verità della Scuola - continuò placidamente Greyback. - Ad Hagrid venne data la colpa della morte di una studentessa. Venne espulso per questo, anche se la sua acromantula non aveva niente a che fare con l'incidente. Fu Silente a permettergli di restare. Così, divenne Guardiacaccia e amico del professore più celebre dei nostri tempi. -
   - Voleva usarlo per arrivare a Silente. - Megan, attenta, cominciava a scorgere un quadro nello strano racconto del licantropo. Una serie di eventi apparentemente insignificanti stavano cominciando a legarsi, tra loro e con la storia conosciuta. Ancora, però, era solo una sensazione, un brivido d'intuito giornalistico. - Ma perché? Per fare cosa? -
   - Questa è la domanda - disse Greyback, azzannando l'aria. - Hagrid era un passaggio. Avrei dovuto fare pressione attraverso di lui, attaccandomi al lassismo di Silente nel permettergli di restare. -
   - E come? -
   - Uccidendo. Ignavus non me lo aveva detto, non serviva: ero un bambino di undici anni. Ero un giovane licantropo. Sarebbe successo, prima o poi. La luna non si può oscurare. E non gli sarebbe importato minimamente del mio destino: il caos che avrei portato allo scoperto sarebbe stata la sua ricompensa. Però, non aveva previsto Hagrid. -
   - Mi sembra un piano folle - commentò Cornelius.
   - Come Ignavus. Folle, certo, ma intelligente. Scaltro. E più meticoloso di quanto possiate immaginare. Però Hagrid mi protesse durante la prima luna piena, poi durante la seconda e la terza. Rischiando la sua vita e il suo posto alla Scuola, mi permise di avere un luogo sicuro in cui passare le notti peggiori. E, senza volerlo, mi fornì ugualmente ciò di cui avevo bisogno per soddisfare Ignavus. -
   - Di cosa stiamo parlando? -
   - Di quello che Silente fece durante la guerra con Grindelwald. Tutti ricordano solo il grande mago che sconfisse il Signore Oscuro. Pochi sanno della relazione sentimentale che correva fra i due e di chi fu la mano che realmente uccise Ariana. Quasi nessuno sa del suo coinvolgimento con campi di prigionia, dove quelli come mio padre vennero rinchiusi e brutalizzati. - Greyback strinse i pugni. Si sentirono le cartilagini scrocchiare per la tensione, il fiato farsi pesante e gli occhi, quei profondi occhi ferini, riempirsi di rabbia e umiliazione. - Quasi nessuno, fino ad oggi. Scrivete.

 

***

 

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Capitolo 16
*** Sedicesima Parte ***


16/50

- Finalmente sei tornato in te. Pensavo di doverti guardare anche tutto il giorno. Non che la cosa mi pesi... ma cominciavo a preoccuparmi. -

Sentivo le palpebre incollate, faticose da spalancare. La pesante coperta di patchwork mi schiacciava il petto. Rantolai. - Cosa...-

- Hai avuto una nottataccia. Ho messo su la pentola, così ti ci preparo una bella colazione. Come ti senti? -

La capanna era un disastro. Rifletteva perfettamente il mio stato: caos e dolore. La testa sembrava scoppiarmi a ogni crepitio delle fiamme.

- Dovresti cercare di controllarti un po' di più. Tieni, bevi questo. Lo do a mio fratello quando è, ecco, agitatello. - L'enorme mano di Hagrid mi porse una tazza fumante di uno strano infuso alle erbe. Odorava di selvatico.

Lo misi a fuoco: dietro il fitto della barba, mi sorrideva con quei suoi piccoli occhi sinceri e luminosi. - Grazie. - Quando si tirò indietro, vidi la fasciatura. Gli usciva da sotto le maniche della camicia di flanella, fino ad avvolgere stretta i polsi. - Hagrid, il tuo braccio! -

- Oh, non è niente. Solo un graffio. Può capitare - rispose stringendo le labbra.

Il terrore mi svegliò del tutto. - Sono stato io? -

- Adesso bevi. Davvero, non stare a rimuginarci su. - Sì batté sul petto con orgoglio. - Sangue di gigante. Non mi succederà proprio niente. -

Nella mia ignoranza, dovevo credergli sulla parola, anche se il battito accelerò all'idea di vederlo un giorno trasformarsi. Un uomo delle dimensioni di Hagrid sarebbe stato un licantropo da incubo. - Mi dispiace, mi dispiace tanto. -

- Bazzecole! Ho detto che ti tenevo al sicuro e così è. Punto e basta. Ti va del pudding? - L'odore del miele e del latte mi prese per mano, fino a farmi drizzare la schiena. Hagrid prese una gran cucchiaiata dal pentolone, scostandolo dal fuoco, e me lo porse in una ciotola capiente. - Attento, scotta ancora. -

Guardai la ciotola, di porcellana bianca e blu con sopra disegnati fiocchi di neve. Era identica a quella in cui lui sbriciolò dei biscotti sopra il suo dolce. Copie perfette di quella di Lucky, il terranova nero che stava leccando il fondo della colazione, sdraiato sulla poltrona.

Hagrid prese posto sulla sedia a dondolo. Dalla brace del camino si spandeva un piacevole tepore, conservato dalla capanna in un abbraccio grezzo. Gli altri ragazzi dicevano che fosse solo un tugurio, ma io non avevo mai vissuto in un posto tanto accogliente, prima di arrivare ad Hogwarts. In quello spazio angusto mi sentivo protetto, durante la luna piena. Tutto il rischio se lo prendeva Hagrid, chiuso con me, lì dentro, per notti intere.

- Perché lo fai? - gli domandai all'improvviso.

Lui aggrottò le folte sopracciglia. - Che domande sono? Non è mica colpa tua se sei... sei... se sei speciale. -

- Lo so, ma potrei procurarti dei guai. Se non peggio. -

- Il professor Silente ha detto che qui ci posso stare. Ora è anche Preside, pensa. Non c'è uomo più giusto. Ha anche detto che che è compito mio fare il Guardiacaccia. E a me pare che il tuo, ehm, problema, sia compito mio. Anche se questo non è necessario dirglielo. - Annuì vigorosamente, più per convincere se stesso che me.

- Silente non approverebbe? -

La fiducia è una condizione estremamente difficile da conservare. Conquistarla, a volte, può essere naturale, ma mantenerla è tutta un'altra storia. Un capobranco deve sempre sembrare forte, per avere la fiducia di chi deve difendere, altrimenti i gregari penseranno di non essere al sicuro. Un amico deve sempre sembrare che parli nei tuoi interessi, se vuole che tu ti apra e ti fidi di lui. Così, quando Hagrid tirò fuori l'argomento, aiutato dall'intorpidimento generale e dal malessere che mi mostravano come un cucciolo ferito, mossi i primi passi. Dagli spifferi delle finestre sentivo il fiato di Ignavus farsi presente, come un fantasma infestante.

- Silente è un brav'uomo. Guarda al valore delle persone, non al loro lignaggio, come fanno certi cicisbei. Più di una volta si è fatto valere contro il parere degli altri, perfino contro il Preside Dippet. Se non fosse per lui, io non sarei qui. Non hai idea di quante volte ha stracciato le regole e le ha buttate in faccia al Ministero per poter fare la cosa giusta. -

- Veramente? - domandai con sincera curiosità.

Hagrid si nascose dietro al cucchiaio. - Forse questo non dovevo dirlo. -

- Forse dovrei avvertire qualcuno, qualcuno che ci dia una mano. Non voglio farti del male, Hagrid. -

- Sciocchezze, tu non mi faresti mai del male. Lo so che sei un bravo ragazzo, te lo leggo negli occhi! -

- Magari se chiedessi alla professoressa Black... lei insegna Difesa Contro le Arti Oscure. Potrebbe conoscere un modo per, per...-

- Per imprigionarti? Per renderti docile come un furetto ammaestrato? Fidati, Clarabella è una brava insegnante, ma non è morbida di cuore. Lupi più vecchi di te ne sanno qualcosa. -

- Cosa intendi dire? -

Spalancò le palpebre e giocherellò con la ciotola ormai vuota. Le dita del gigante tremavano, lo scarpone batteva sul pavimento e cercava disperatamente un improbabile aiuto. - Tieni, Lucky, goditi il fondo - disse al cane, offrendogli l'ultimo assaggio di pudding.

Io scostai la coperta. Mi alzai lentamente, ascoltando ogni singolo lamento dei muscoli di gambe, schiena e braccia. Pensai che ero stato fortunato, dopotutto, ad aver trovato qualcuno che si prendeva cura di me. E ancora non sapevo quanto.

Accarezzai il pelo morbido di Lucky, che in risposta si sdraiò a pancia all'aria, strappando ad Hagrid un complimento e una risata.

- Hagrid, - insistetti - di cosa parlavi? Cos'è che mi nascondi? -

- Io? Proprio niente, proprio niente. Io non nascondo niente. -

- Chi, allora? -

- Ascolta, non sono discorsi da ragazzini. Ho già detto troppo - bofonchiò spaventato.

- Ti prego, Hagrid. Io devo sapere da cosa mi sto nascondendo. Dovrò vivere in questo modo il resto della vita e vorrei solo sapere perché. -

- Beh, perché agli altri non piaci. Non tu, ma quelli come te. Volevi saperlo? La verità è questa. C'è stata gente cattiva, un po' di tempo fa. Neanche tanto. C'è stata una guerra. -

- E la professoressa Black era cattiva? -

- Non era cattiva. Era spaventata. Come tutti, del resto. Solo pochi sanno come avvicinare certe creature, tantomeno se sono in branco. Oh, scusa... intendevo, lo sai, persone diverse. -

Cominciai ad avere una strana sensazione, come la punta di una lama gelida che ticchettava giù per la schiena, sbattendo contro ogni singola vertebra. - Ci sono branchi di licantropi? E dove? -

- Non lo so. Nessuno lo sa. I pochi sopravvissuti si sono sparpagliati per tutta Europa. Qualcuno è anche andato al di là del mare. A vivere come fuggiaschi, dicono. Riparati nelle grotte e in capanni abbandonati. -

- I sopravvissuti? I sopravvissuti a cosa? -

- Allo sterminio. I licantropi non sono state le uniche creature magiche a essere internate durante la guerra. Venivano fatti dei grandi campi, con reti e tutto il resto, dove quelli come te venivano rinchiusi come le bestie. Alcuni si autodenunciarono e furono convinti a salire sui treni, che pensavano di arrivare in un posto sicuro coi cuccioli. Altri sono stati cacciati. E poi, dentro i campi, venivano tenuti sotto sorveglianza. Clarabella è stata una guardia, per un anno o due. -

- E poi? - Le immagini di sofferenza erano vivide di fronte ai miei occhi. I miei simili, la mia gente, trattata come animali da pelliccia. E un uomo, in mezzo alla folla, aveva il volto conosciuto di mio padre. Lui non ne aveva mai parlato. Furono le parole del Guardiacaccia a cominciare a farmi aprire gli occhi. A comprendere il comportamento di mio padre, dei suoi no, delle sue reazioni folli e deboli, secondo il mio giudizio di bambino.

- In realtà non volevano tenerli li. Volevano ucciderli! - Hagrid cominciò a piagnucolare, impaurito, disperato, indignato oltre ogni limite.

- Perché Grindelwald voleva uccidere i licantropi? -

- Non Grindelwald! Il Ministero! Te l'ho detto, insomma, avevano tutti paura. Nessuno sapeva quanti fossero i lupi mannari. Già, alcuni erano pericolosi. Poi è successo qualche incidente, ed ecco che tutti si spaventano. Gridano "prendete i lupi!" e "non li vogliamo!". Poi un giorno arriva Grindelwald, con le sue parole, e convince un sacco di gente ad andare con lui. Gli mette in testa che per far valere i propri diritti devono combattere. Così il Ministero pensa: quanto ci metterà a radunare anche i lupi mannari? E poi chi, le veela? I folletti? I giganti? -

Prese un enorme fazzoletto, grande quanto una coperta, per asciugarsi le lacrime. Era furente, come se la cose lo riguardasse personalmente.

Continuò: - I licantropi non avevano un posto dove stare, le persone li odiavano solo per quello che erano... anche se alcuni erano i loro fratelli, i loro padri, le loro madri, i loro figli. Dopo l'annuncio sulla Gazzetta del Profeta, li hanno cominciati a denunciare e gli Auror arrivavano.  All'inizio dissero che li rispedivano a casa, ovunque questo posto doveva essere. Nella foresta, forse, non lo so. Poi, dissero che era meglio rinchiuderli. Per la sicurezza della brava gente. E alla fine... -

- Hagrid, come sai tutte queste cose? Chi te lo ha detto? - domandai, calmo in viso ma con una mandria al galoppo nel petto.

- Silente mi raccontato tutto. Volevo aiutare qualcuno, entrare nei campi, perché io so che i lupi mannari sono persone come le altre. Ma non ha voluto, e mi ha spiegato il motivo. -

- Non ha voluto che tu andassi via? -

Pesantemente, Hagrid scosse la testa bovina. Senza rendersi conto, rispose come faceva sempre: con sincerità e innocenza, lontano dalle implicazioni che possono comportare poche, semplici parole. - Non ha voluto farmi entrare. -

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Capitolo 17
*** Diciassettesima Parte ***


17/50

Con le sciarpe bene avvolte attorno al collo, io e Driade restavamo ad osservare i fiocchi di neve scendere come soffici piume e posarsi sulla fontana, aggrapparsi alle colonne di pietra e infilarsi fra le fessure nei ciottoli del cortile. Ci sentivamo affini ai piccoli cristalli: lasciati cadere da un piccolo nido in un mondo ostile, troppo vasto per noi. 

Era stato l'animo di Driade a farci legare, spontaneo e sincero come acqua di fonte. All'arrivo delle vacanze invernali, l'astio verso Diggory si era fossilizzato in un vero e proprio disprezzo. Possedeva una tale arroganza farmi prudere le mani. Cercavo di stargli il più lontano possibile e così finivo per evitare anche Rumble e Tattercow, parti ormai inscindibili del terzetto. Se Diggory pontificava al Campo di Volo, gli altri due si univano a dare dimostrazioni che la professoressa Spine aveva espressamente proibito.

Se ci penso ora, nonostante l'antipatia che provavo all'epoca, direi che erano solamente dei ragazzi. Buoni studenti, con amici, bravi negli sport: non avevano motivo per non comportarsi da perfetti idioti.

Moody, seduto sotto uno degli archi perpendicolari al portone, spalle a una colonna e con un tomo di Difesa Contro le Arti Oscure aperto sulle ginocchia, era un'altra faccenda. Sembrava che il mondo attorno non potesse sfiorarlo. Passava le giornate a leggere e a esercitarsi con la bacchetta, sempre solo. Ero abbastanza sicuro che si stesse portando avanti con il programma, perché in più di una occasione lo avevo visto cercare in biblioteca testi più avanzati dei nostri. Mi piaceva, Alastor. Immagino che, in un certo senso, anche io piacessi a lui, pur mancando qualsiasi minimo interesse a darne dimostrazione.

- Penso che sarà bello passare qui le vacanze. - Driade, gambe a penzoloni, teneva lo sguardo perso nel cielo sterminato.

Il fiato mi si condensò in una nuvoletta bianca. - Potremo stare tranquilli per un po'. -

- E portarci avanti con le lezioni. O in pari - mi disse, strizzando l'occhiolino.

- Non è colpa mia se Lumacorno va alla velocità dei suoi preferiti. -

- Oh, non importa. Anche se parlasse lento come una lumaca tu faresti solo pasticci. - Sorrise, allungando i petali di rosa che aveva al posto delle labbra.

- Scusa, se non sono bravo come te. -

- Ognuno ha il suo. Con gli incantesimi te la cavi decisamente bene. Potresti anche darmi qualche aiuto, non so. -

- Zittawack dice che sono uno sregolato. Se lo sento ripetere un'altra volta che ho bisogno di disciplina, potrei esplodere. -

Driade mise i piedi sul ciottolato, abbandonando la protezione delle arcate. - Non è bellissimo? - I fiocchi di neve le si posavano sulla pelle di luna, soffici quanto i suoi passi sul velo candido del cortile. - Vieni, Fen! Vieni a ballare. -

Forse aggrottai la fronte, forse un insensato tremore mi percorse il viso, perché lei mi guardò e rise. - Come mi hai chiamato? - Sentii le pupille dilatarsi, una reazione incontrollata e inspiegabile. Osservavo la sua pelle, alabastro perfetto, e non riuscivo a spiegarmi come potesse il calore delle sue gote sciogliere la neve in un battito di ciglia.

Lei ballava, da sola, leggera e incantata. Ancora non la vedevo in quel modo, ma fu allora che mi accorsi di quanto fosse bella. I ragazzi degli altri anni si fermavano ad ammirarla dal corridoio, soprattutto quelli più grandi, già pronti a lasciare Hogwarts per fare ritorno alle proprie case. Chi l'aveva ancora, una casa: quasi un terzo degli studenti sarebbe rimasto a scuola durante la pausa. Eravamo i figli della guerra. In molti non avevamo un posto dove tornare, o qualcuno che stesse aspettando davanti al camino.

Nemmeno Driade l'aveva.

- Guarda un po' chi da spettacolo: la gitana! -  La voce squillante di Alice Fawley ruppe in mille pezzi il quadro di cristallo che Driade tracciava nell'aria.

- Non sai che non è buona creanza mostrarsi in certi atteggiamenti, signorina? - Si era fatto avanti anche Preston Van Rubin, a quei tempi compagno di torture della Fawley. Si conoscevano da prima dell'arrivo a scuola. Quando Selwyn, minuscolo Corvonero, li incrociava nei corridoi, si affrettava ancora a cambiare strada. La cioccorana intera nello stomaco gli era costata la prima notte a Hogwarts in infermeria. 

A quei Grifondoro, però, piaceva mettersi in mostra. Di bell'aspetto, con accessori firmati (persino Van Rubin, che era nato babbano, ma in una famiglia oscenamente ricca), in vista... erano la versione disgustosa di Diggory, Rumble e Tattercow. E anche loro avevano un terzo compagno di crudeltà: Frank Paciock.

- Se ti devi comportare come una ragazzina indecente, forse dovresti farlo a casa tua - le intimò Alice, mani in tasca e sciarpa a penzoloni, mentre la neve le tingeva di bianco i capelli cortissimi.

- Quale casa? - fece eco Frank - Una con le ruote? Lo sai dov'è casa tua, Despins? -

- Forse non può tornarci, poverina - continuò Preston, avvicinandosi a lei come un principe pavone. - Hai bisogno di un passaggio per tornare dai tuoi? Ci sono ancora i tuoi, vero? -

- Lasciatela stare, razza di imbecilli. - Mi avvicinai a loro, fronteggiandoli come potessi abbatterli tutti con un solo pugno. A Driade mancarono le parole, ma nei suoi occhi vidi il fuoco accendersi d'impeto.

- E tu? Cosa sei, il cagnolino? - Frank si fece una grassa risata. Batteva i guanti nuovi, applaudendo alla propria stessa sagacia.

- Dì un po', - mi incalzò Preston - tu ce l'hai una cuccia dove tornare? No? Poverino. Poveri, strambi, depressi fifoni. -

Li guardavo, tutti e tre, prepotenti idioti come i ragazzi del Palo del Martire. Le immagini del sangue del furfante sulle mie mani tornarono vivide alla mente. Mi domandai se dovesse essere poi tanto diverso uccidere un ragazzino povero o uno ricco. Si sarebbero piegati, avrebbero urlato e poi lo stupore sui loro volti sarebbe diventata stupida rassegnazione. Se mi avessero incontrato la giusta notte, nemmeno me la sarei posta la domanda. Non avrei perso tempo a immaginare.

In quel pomeriggio scorsi invece una differenza: non in ciò che erano, boriosi arroganti alla ricerca del loro posto a scuola, ma in ciò che avevano fatto. Nel loro vissuto. Erano diversi dai ragazzi del Palo: lo sentivo dal loro odore. Dal tremolio incerto negli occhi. Loro non lottavano per sopravvivere. Lo facevano per noia.

Avevano aperto le code a ruota e cercavano di impressionare un pubblico, ragazzi e ragazze più grandi attorno al cortile zuppo di neve e terra.

- Lasciateci stare. - "Dai loro una possibilità" mi dissi, stringendo i pugni. Per gli insulti ricevuti, anche se non la morte, meritavano una punizione. Se non per me, almeno per Driade.

Alice Fawley mi fissò, arricciando le labbra, indignata. - Altrimenti? -

Strinsi i denti.

Strinsi i pugni.

"Stai calmo". 

Ma Paciock allungò il braccio. - Allora, cagnolino? -

La spinta fu la goccia che fece traboccare il vaso.

La furia è qualcosa di difficile da controllare. Pochi ne hanno davvero idea: tutti si arrabbiano, ma essere infuriati, ricolmi di quel liquido bollente e puro, è cosa davvero rara. Si perde il senso dello spazio, del giusto e sbagliato, i movimenti accelerano e sembra di guardare fuori dagli occhi di un'ape impazzita. 

E proprio come un insetto lunatico fui spazzato via, sbalzato a terra sulla schiena, a una manciata di metri di distanza. Il colpo fu forte e improvviso, ma ne avevo sopportati di molto peggiori. Così, dopo un istante di stordimento, alzai la testa: Preston Van Rubin impugnava all'altezza della vita la sua bacchetta. Aveva farfugliato qualcosa e ora scagliava il suo secondo incantesimo: un sorriso languido a Driade, spaventata e furibonda.

BOOM, ragazzo-cane - sputò fuori Frank.

- E tu, ora vedi di... -

Non lasciai terminare Alice di nuovo. In meno di un istante fui in piedi, lanciato come una belva contro quel bastardo di Frank Paciock. Nemmeno immaginava quanto brucianti fossero i suoi stupidi insulti! Non aveva idea nemmeno del perché se la stesse prendendo con noi: seguiva solo la corrente. Ma un fiume di collera stava risalendo verso la fonte.

- Fen, attento! - Driade urlò e portò le mani alla bocca.

Van Rubin rialzò la bacchetta, puntando verso quel facile bersaglio che gli stavo offrendo.

Un secondo dopo, la voce di un cannone colpì: - Flipendo! -

Van Rubin fu spinto a terra, inzaccherandosi i pantaloni e soprattutto mancando il colpo. Io, su Frank, non mancai. Il pugno si piantò dritto fra zigomo e naso. Frank si inginocchiò, coprendosi il viso e cercando segni del proprio sangue.

- Mi hai rotto la faccia! Mi hai rotto la faccia! -

Respirai a fondo, per riprendere il controllo. Solo allora mi accorsi di Preston, con quell'espressione disarmata per il fango sui vestiti immacolati. La bacchetta era finita nella neve, ma lui era scivolato nella poltiglia e fatto un volo a sacco di patate dove umidità, foglie e terriccio si erano mescolati in un lordo amalgama.

- Ne vuoi ancora? Afferra la bacchetta, dai. Sto aspettando. - Quella voce. Non avete idea di quanto mi manchi, quella voce.

Magnus, avvolto nel lungo mantello bordato di verde, si scostò il lungo ciuffo dalla fronte. Puntava la bacchetta contro i tre, ondeggiandola come se fosse senza peso.

- Non puoi farlo, Lovegood. Non sai che è vietato? - L'unica cosa che riuscì a inventare Alice Fawley, trovandosi improvvisamente a parti invertite, fu una mera idiozia.

- Allora dovremmo dire a qualche professore che avete iniziato un duello magico con V. e Despins. E che loro, nel rispetto delle regole, hanno risposto senza magia. Giusto? -

Così com'era iniziato, tutto finì in un batter d'occhi. Fawley, Paciock e Van Rubin si tolsero di mezzo, preoccupati più degli sguardi divertiti dei ragazzi più grandi, piuttosto che di me, Magnus o Driade.  Si ritirarono come topi all'arrivo del contadino.

- Guardati, - mi disse Magnus, facendo sparire la bacchetta e rimproverandomi con lo sguardo - sei tutto sporco. Hai la schiena tutta grigia di fango. -

- Grazie - esplose Driade, recuperando all'improvviso la parola. Abbassò la voce: - Grazie per averci aiutati. -

- Ce l'avrei fatta - millantai. Non conoscevo nemmeno un singolo incantesimo che avrebbe potuto servirmi a difesa. A far levitare le piume ero piuttosto bravo, ma con le mie competenze magiche potevo ancora fare ben poco.

- Avresti potuto star zitto e toglierti di mezzo. Ti sei graffiato e sporcato e quasi umiliato solo per proteggerla. - Quella di Magnus non era una domanda.

- Se il prezzo è aver la schiena grigia, non è poi così un grande problema. -

Driade mi prese sottobraccio. Poi fissò Magnus, indecisa per qualche istante su come comportarsi. Ma aveva già deciso che il tondo biondino le piaceva.

- Andiamo, dobbiamo darti una pulita, Fen. -

- Perché mi chiami Fen? - le domandai. Ma lei scrollò le spalle e ammiccò, come se sapesse un segreto del quale non voleva rendermi partecipe.

- E insegnarti qualcosa - aggiunse Magnus. - Prima di tornare a casa, lascia che ti spieghi una o due cosette che puoi fare agitando il bastoncino che tieni in tasca. -

Ci trascinammo lontano dal cortile, non senza l'applauso di qualcuno, divertito dallo spettacolo. La calma tornò a scorrere al comparire di un perplesso professor Lumacorno, che salutò ogni volto noto incontrato nei passatoi senza comprendere il motivo di un tale assembramento di studenti.

All'altro lato del cortile, Alastor Moody chiuse il suo libro. Mi fissava con il volto inespressivo di chi ha poche risposte a una quantità preoccupante di domande.

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Capitolo 18
*** Diciottesima Parte ***


18/50

***

26 Dicembre 2008

Villaggio di Glamis - Contea dell'Angus

Scozia

Scelsero una notte buia e senza luna per avvicinarsi a quella che, tra i colleghi dell'Ufficio Auror, già era stata soprannominata Wolfhome. Eric Dean amava dare nomi alle cose, dare vita a voci di corridoio e, quando era fortunato, a qualche nuova tradizione. La scaramanzia gli era rimasta appiccicata addosso dai tempi del G.U.F.O., quando batteva con il piede per terra tre volte prima di intingere la penna nel calamaio. In qualche modo il bagaglio di riti e tic nervosi che aveva accumulato si erano rivelati efficaci. Era diventato un Auror e finalmente partecipava a un'azione sul campo.

«Sarebbe stato meglio se fosse venuta anche Lizbeth.» Sam Roland si drizzò il colletto del cappotto, guardandosi attorno circospetto, teso come una corda di violino.

«Sei proprio uno stronzo, Sam.» Clarity fece cenno con la testa verso la capitana. Qualsiasi fosse stato il motivo che aveva spinto il Capo Dipartimento ad assegnare la Despins alla squadra Auror di Lizbeth Urquart non era affar loro. Certo, le due non potevano convivere: la guida della missione era stata semplicemente sostituita.

Eric batté tre colpi su un palo della luce. Le strade del paesino ghiacciato erano deserte, schiacciate sotto un cielo nero come le ali di un corvo. 

«Fa silenzio, dannato imbecille» lo apostrofò Clarity, stupendosi della propria reazione. Non era mai stata tanto tesa in sei anni di servizio. Forse le prime volte, durante i primi arresti di criminali comuni, ma era un tipo di sensazione diversa. Ora aveva paura. Paura di incontrare i bersagli. Mentre l'aria fredda gli scendeva nei polmoni e una nuvoletta di vapore cristallizzava davanti alle labbra truccate di viola, sperò con tutto il cuore di essersi messa la divisa solo per scoprire una vuota catapecchia diroccata.

Eric non badò a nessuno. Teneva le orecchie tese e la bacchetta di frassino nella mano guantata. Una sola: sull'altra aveva bisogno della sensibilità della nuda pelle. Il motivo non gli era chiaro, dipendeva forse da una forma di claustrofobia localizzata, ma era pienamente accettabile fintantoché non inficiava in alcun modo le sue abilità. Seguiva la Despins a pochi metri di distanza, lungo la carreggiata umida per le deboli piogge del pomeriggio.

Le suole delle scarpe dialogavano incessantemente con l'asfalto grigio. Fu Sam a incantare con il silenzio, in un rapido gesto, i passi dei compagni.

«Ehi, Clarity,» bisbigliò sottovoce Sam, mettendosi in linea con lei come se andassero incontro a un duello all'americana, «Potter che ha detto? Vivi o morti?»

L'Auror di Cardiff si levò i guanti. Le mani tatuate, minute come le ali di un cardellino, afferrarono saldamente la bacchetta. «Il Capo del dipartimento ha dettato una linea chiara. Niente passi falsi. Dobbiamo riportarli per il processo.»

Avrebbe voluto dire di più, spiegare a Sam che questa volta non avrebbe potuto fare l'idiota, senza Lizbeth a coprire gli eccessi. Ma il pensiero non arrivò alla bocca.

«E così, accade di nuovo!» Il cupo ringhio di disprezzo rimbalzò fra le case di legno e mattone, rompendo la calma spettrale, frantumandola in mille pezzi impossibili da ricomporre. L'ombra avanzò, un'ombra dal volto umano, appena rischiarata dalla tenue luce dei lampioni. Le sopracciglia ispide e folte si strinsero sulla fronte, lineamenti di un volto selvaggio spinto fra spalle massicce. «Mandati dal Ministero a reprimere e distruggere. Schiavi di una società malata, che guarda altrove per rimanere pura, mentre manda i sicari a estirpare i figli meno amati.»

Eric si bloccò, esattamente come Driade Despins. Al loro fianco, sulla linea immaginaria dell'orizzonte degli eventi, Sam e Clarity puntarono le bacchette verso la figura che si era piazzata in mezzo alla strada per bloccare loro il passo.

Sam parlò con autorità. «Dobbiamo presumere di avere di fronte...»

«Hati.» Fu un sussulto quello di Driade, nel trovarsi faccia a faccia con il licantropo ricercato. I capelli bianchi come la neve le incorniciavano un viso ormai invecchiato, eppur liscio e bellissimo come un tempo. Le labbra di rosa erano diventate dure, ma pur sempre petali dopo anni di danze alla luce del sole e della luna. Impugnava la bacchetta, puntata a terra, dove le scarpette con il tacco quadrato si aggrappavano all'asfalto per non farla cadere. Driade Despins sembrava sul punto di svenire.

Hati tolse le mani dalle tasche, lo stesso gesto che avrebbe fatto un fumatore, alla ricerca del pacchetto, dell'accendino e della voglia di avvelenarsi la vita. «Sei venuta, alla fine.»

«Hati, non è la fine. Possiamo ancora porre rimedio a quello che hai fatto. Insieme.»

«Quello che ho fatto? Che IO ho fatto?» L'uomo buttò la testa all'indietro, liberando una risata terribile e spaventosa.  «Ma guardatevi! Siete qui di fronte a me, tremanti come foglie. Esattamente come era stato all'ora. Come con mio nonno. Come con tua madre! E vieni a dirmi che si può porre rimedio? Vallo a spiegare a quelli che avete fatto ammazzare, nel fango, nella paura, nel dolore...»

«Basta» urlò Sam Roland. Era pronto a lanciare da quando aveva visto il bersaglio. «Hati Greyback, sei accusato di rapimento, omicidio, uso delle Maledizioni Senza Perdono, cospirazione e, non ultimo, di essere un lupo mannaro. In nome del Ministero della Magia e del Capo del Dipartimento Auror, Harry Potter, ti dichiaro in arresto.»

Il cielo cupo raccolse l'intero mondo sotto la propria cappa. Non esisteva più nulla: solo quattro Auror, in mezzo alla strada di un villaggio scozzese, pronti a uno scontro violento pur di assicurare alla giustizia un mostro; dall'altra parte, Hati, ingobbito e con i denti sporgenti, senza la minima intenzione di cedere di un passo. Hati e un compagno, sbucato dall'angolo del caseggiato. Due compagni, dopo che una ragazza dalla pelle ramata, alta come un lampione, si materializzò a fianco del proprio capobranco.

Hati, guardando negli occhi Sam e penetrando gli anni di addestramento, di test sul campo, di esperienza e persino quel poco di coraggio che credeva di avere, parlò per l'ultima volta: «Provaci.»

Il compagno del licantropo, un ragazzo con la testa rasata a metà, alzò il braccio grassoccio verso il cielo. La manica degli ampi abiti gli ricadde fino al gomito, svelando sì del grasso, ma duro e compatto come il ramo di un albero.

Il ragazzo bisbigliò.

Nel cielo notturno, cupo e tenebroso, d'improvviso splendeva la luna piena.

Sam non distolse lo sguardo, pronto all'attacco. Aspettava solo un segno del comandante Despins, che ancora sembrava troppo indecisa. "Se ci fosse stata Lizbeth" pensò fra sé "avremmo già sbattuto questi pagliacci con il culo per terra". Forse Eric sarebbe stato d'accordo, se gli avesse letto nel pensiero. Ma era concentrato su altro: mosse la bacchetta nell'aria e recitò: «Protego Horribilis».

Fu Clarity a rendersi conto per prima (per fortuna, o sfortuna, o semplice attitudine a cogliere in fretta i dettagli) di quanto stava accadendo. Spalancò la bocca, lottando contro il panico incombente, nel vedere gli spasmi corrompere le carni dei tre criminali che aveva di fronte. Uno scossone, incontrollabile come il battito del cuore, poi un ringhio.

Il primo ad abbassarsi, il più veloce di tutti, fu Hati.

I muscoli esplosero in una nube di pelo e ferocia sbavante, mentre già il licantropo avanzava a balzi ferini verso gli Auror. Il cranio di allungò in fauci aguzze, con denti lunghi quanto una bacchetta, affilati, ingialliti, famelici. Coprì la distanza fra lui e Sam nel tempo che gli altri due compagni completarono la trasformazione. Poi fu il caos.

«Stupeficium!» Driade reagì con straordinaria rapidità, colpendo in pieno l'enorme lupo mannaro. La figura umanoide dalle zampe artigliate, ricoperta di pelo scuro e malandato, era un incubo fatti carne. Eppure Driade mise tutta la propria forza, la propria preparazione e potenza nell'incantesimo, schiantandolo. 

Lo spostò a sufficienza da far passare la zampa artigliata a pochi centimetri dal viso di Sam. Lo spostò, Hati atterrò, e fu come se non avesse nemmeno sentito il colpo.

Gli altri due licantropi attaccarono come un branco feroce, abituato a predare per sopravvivere. La lupa dal pelo di bronzo si scagliò su Driade, con un balzo inumano. Eric, trattenendo il respiro (e battendo il piede tre volte), scaricò la propria forza a protezione della vecchia Auror. Bestia e donna rotolarono lungo la strada bagnata, entrambe vive, entrambe in preda alla frenesia.

«Confringo!» urlò Clarity, puntando l'enorme capobranco, fra lei e Sam. Sembrava impossibile che avesse incassato uno schiantesimo dalla Despins senza nemmeno battere ciglio. Quella bestia fremente, invece, era atterrata sulle zampe e aveva scartato di lato, con agilità sovrumana. L'incantesimo andò a vuoto, troppo lento.

La strada si illuminò di potere magico. Sam fece le sue mosse con maestria e un muro di fuoco si alzò a ripararlo dallo sguardo mortale di Hati. Sui campi di battaglia aveva rimediato più di una cicatrice, oltre a qualche chiodo per intombare definitivamente la poca bontà di cui era stato capace. Se non possedeva l'animo più diplomatico della squadra, forse guidava la mente più letale. Così, separò il fuoco dopo pochi istanti e, senza esitazione, puntò oltre: «Avada Keda...!»

Clarity si strappò la voce nel tentare di fermarlo. Potevano ancora farcela, ne era fermamente convinta. Catturare, assicurare alla giustizia, non uccidere indiscriminatamente. Anche se gli avversari erano di tale ferocia e con una formidabile resistenza alla magia. Ma non ci riuscì. Una delle creature della notte, il lupo grasso, prese Sam al fianco mentre recitava la formula.

Le fauci della belva si chiusero sotto l'ascella, serrando i denti fra milza e polmoni. Il peso del licantropo sbalzò Sam a terra. Sputò sangue. Il lupo morse ancora, con più forza, fino a sentire il suono delle ossa che cedevano. Per Clarity fu come guardare un uomo rompere una noce con il pugno. Una noce piena di sangue.

Totalmente fuori controllo, la lupa di bronzo non si accorse della spessa corda che l'avvolse come un serpente strangolatore. Driade fu rapida nel respingere gli schiocchi delle zanne, un colpo dopo l'altro, fino a quando Eric le fornì l'opportunità di contrattaccare. 

«Eric! Continua a lanciare, o l'incantesimo incarcerante si spezzerà!» Driade balzò in piedi, trascinandosi fuori dalla portata della ragazza licantropo.  Doveva aiutare gli altri, doveva... tentare di porre fine a tutto.

Allungò le gambe, come una danzatrice, proprio come faceva cinquant'anni prima. Compose i movimenti delle braccia con precisione e delicatezza, tenendo lo sguardo fisso sul mostro intento a sbranare Sam Roland. «Bombarda

La violenza del colpo sbalzò il mostro a metri di distanza. Questa volta non atterrò sulle zampe, ma fu costretto a rotolare e ribaltarsi come giù per un dirupo scosceso.

«Driade!» chiamò Clarity «Aiuto!»

Hati si era alzato sulle zampe posteriori. Con la mano artigliata stringeva il polso dell'Auror. Lei resistette con la bacchetta finché poté. Il polso si frantumò e l'unica arma che possedeva cadde inerte ai suoi piedi.

Clarity cominciò a piangere. La testa di lupo la guardava con gli occhi del predatore, persi nella furia. Non c'era nulla lì dentro: né pietà, né malvagità, né scelta. Il tremolio delle pupille dilatate non si arrestò nemmeno per un istante.

Hati la azzannò al collo.

E strappò.

«Fermo, Hati! No!» Le preghiere di Driade rimasero inascoltate.

Non era la prima volta che Driade Despins vedeva una persona venire squartata di fronte ai propri occhi, con brutalità cieca, ma non era qualcosa a cui ci si potesse abituare. I fluidi della ragazza si mischiarono in una fontana oscena. Le lacrime e il sangue cadevano a terra in una pioggia di morte, insieme al lento sgocciolare del piscio che colava lungo la gamba. Scalciava ancora.

Qualcuno urlava, ma Driade non riusciva più a distinguere un suono dall'altro. Chi era ancora in piedi? Chi li minacciava? Quanto ancora sarebbe durato quell'incubo? Perché? Perché? Perché?

Voleva parlare, credeva di poterne avere l'autorità: per questo aveva insistito a farsi mandare. Lei poteva farcela. Lui doveva ascoltare.

«Hati» sussurrò con un fiato.

Il licantropo, avanzato, la afferrò per il collo. Strinse con le dita ruvide, sollevando di peso l'Auror fino a guardarla negli occhi.

Driade lo vide. «Sei ancora lì. Lo so che ci sei. Ti prego.»

La bestia soffiava. Il petto si ingrandiva come un mantice carico, intendo ad alimentare una fame senza fine.

«Hati» disse ancora Driade, con un rantolo «fermati. Fermati fin che puoi, piccolo mio.»

Il lupo grasso mostrò i denti ad Eric, che ancora teneva intrappolata la lupa dal pelo di bronzo. Mentre il gigantesco capobranco spalancava la bocca, Eric fece l'unica cosa da fare: batté il piede a terra tre volte e si smaterializzò.

 

***

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Capitolo 19
*** Diciannovesima Parte ***


19/50

- Sentite qua:

 

La Piaga ritorna a Godric's Hollow

Dopo quasi due decenni di tranquillità, la pace della comunità viene nuovamente intaccata dal manifesto diffondersi di bestie magiche senzienti. Il Ministero della Magia lascia intendere che non si tratti di apparizioni temporanee, quelle di cui parla ormai mezza Inghilterra.

"Alle creature, esseri, animali senzienti e affini" sottolinea il Ministro Willem Cobblepot "andrebbe imposto, con rinnovato vigore, l'obbligo di registrazione. Aggiungerei il bisogno di sottoporre all'Ufficio Regolazione e Controllo delle Creature Magiche la possibilità di introdurre un Codice di Condotta esteso, sulla falsariga di quello emanato per i Lupi Mannari nel 1637."

Come questo possa portare risultati è ancora da definire. L'esperienza maturata negli anni dell'azione di Grindelwald ha suggerito quanto poco edificante possa essere un elenco ministeriale delle creature, esseri e animali senzienti. La riluttanza all'autodenuncia si è ulteriormente acuita dopo la caccia e la reclusione non solo dei licantropi, ma anche di veela e vampiri.

Il professor Albus Silente, nuovo Preside di Hogwarts, è stato invitato dal Ministero a esprimere il proprio pensiero al riguardo, in quanto già Mediatore durante il trattamento dei casi problematici tra il 1938 e il 1942.

Per la Gazzetta del Profeta, Diedrich Marlowe.



Il gufo di Diggory si scrollò di dosso la neve appiccicosa. Allungò il becco sul tavolo della colazione, afferrando una galletta ai cereali, prima di alzarsi di nuovo in volo. Rumble si coprì la testa con entrambe le braccia: continuava a temere che gli artigli dei gufi ci si potessero impigliare e l'unica soluzione sarebbe stato rasarsi.

- Bel ritorno dalle vacanze - commentò Tattercow, scodellando una cucchiaiata di budino. - Pensi che l'unica cosa di cui preoccuparsi siano i voti della professoressa Black e invece scopri che è mille volte meglio stare qui che a casa. -

- Io non ho paura - si affrettò a dire Diggory, con un baffo di panna bianca sul labbro. - Queste bestie vengono tenute a bada. Mio padre dice che il Ministero ha tutto sotto controllo. -

Rumble, che ancora teneva gli occhi alzati nella Sala, era in trepidazione come se si trovasse in fila per il bagno. - E allora perché hanno chiamato Silente? Eh? Eh? Non sanno che pesci pigliare, con quelle bestie! - Afferrato il manuale di Pozioni sgambettò verso l'uscita. Fece un salto improvviso i libri quasi rovinarono a terra, quando il Frate Grasso sbucò dal pavimento e gli porse il saluto mattutino.

Driade, seduta al mio fianco, era chiusa nel silenzio. Non muoveva un muscolo e respirava lentamente. Avevo cominciato a capire che tipo di reazione fosse, la sua, e mi domandavo fino a che punto i nostri compagni ci considerassero semplicemente "strani". Lei aveva paura, ma non degli altri: di sé stessa. Si bloccava, come una statua di sale, nel tentativo di sopprimere le proprie emozioni.

- Rumble è un piscialetto. Se vedesse qualche pelo di cephalocereus nel dormitorio penserebbe che ci sia qualche licantropo. Ehi, che idea! Dovremmo provarci. -

- Non dire idiozie, Tattercow. - Alastor, un tavolo più avanti, leggeva un grosso tomo da prima che io e Driade arrivassimo. La sua tazza da tè non fumava, a differenza di tutte le altre. - La peluria di una pianta grassa non ha nulla a che vedere con quella di un lupo mannaro - continuò, senza distogliere lo sguardo dalle pagine ingiallite.

- E che cavolo ne dovresti sapere, tu? - Diggory si aggiustò gli occhiali. L'aria da capobanda gli mancava completamente, ma forse era l'unico a non essersene accorto.

Alastor Moody rispose con una sola parola: - Studio. -

- Non è nel programma, non dire scemenze, Moody. Scommetto che te la faresti sotto anche tu se ti trovassi di fronte un lupo mannaro, pur con tutta le tue fissazioni per la teoria. Uuuh, quest'erba e quei fiorellini mi proteggeranno, o almeno lo spero! Era scritto sul libro! Mamma che paura! -

Solo allora Alastor drizzò la schiena, guardando Diggory dritto in volto, serio come la morte. - Vorrei ben vedere. -

Non potevo starmene lì a sentire certi discorsi. L'articolo della Gazzetta del Profeta mi aveva smosso un tumulto interiore. "Si sta muovendo" pensai, cercando di soffocare la voce nella mia testa, di ridurla a un sussurro, come se qualcuno potesse sentirmi. "Come aveva detto Ignavus. Sta succedendo davvero." Ero arrivato a credere che, in fondo, Ignavus Lovegood fosse solo un vecchio pazzo. Quello che mi aveva raccontato sul Ministero, su Silente e i membri della mia stirpe possedeva connotati talmente folli che sarebbe potuto essere considerato solo il vaneggiamento di un magonò inacidito dall'età.

Poteva essere.

Ma che io ci credessi o meno, aveva poca importanza. Ero andato a Hogwarts solo grazie a lui. E ora, da fuori, mi stava mandando un chiaro segnale.

Lasciai il tavolo senza pronunciare una sola sillaba. Ai miei compagni non importava un fico secco: solo Moody mi degnò di uno sbuffo, mentre Driade rimaneva impalata davanti a un muffin ai mirtilli. Questo fino a che, un istante dopo, mi ritrovai con il culo per terra.

- H.! Scusami piccoletto, non ti avevo visto. Stai bene? - Hagrid mi raccolse dal pavimento della Sala Grande, così come si rimette in piedi un cucciolo troppo inesperto e agitato. Le sue mani odoravano di fieno ed erba di campo e io rividi subito Ursula, nella mia memoria.

- Sì, scusami tu. -

Mi fece un gran sorriso. - Eh eh, dovresti fare attenzione. Non ci posso mica esserci sempre io, per, bhé, sai... Comunque! Finisci la colazione e va'. - Superandomi, salutò con il capo l'intera tavolata. In coro risposero tutti quanti, regalando al mezzo gigante un raggio di sole.

- Hagrid! - lo fermai. Fu istintivo, eppure premeditato. Sapevo che prima o poi quel momento sarebbe giunto. Quel che non avevo potuto immaginare, invece, era quanto mi fossi affezionato a lui. Non c'è nulla più terribile, nel cuore di uno come me, del tradimento perpetrato nei confronti degli amici.

- Che c'è? Mal di pancia? T'ho detto che le caramelle non vanno bene al mattino. -

- Non è questo. Possiamo parlare un istante? -

- Ma certo. Dimmi tutto. Stavo andando dal professor Zittawack, che ho un problemino con... bhé, un problemino. -

Lo accompagnai. Evitare di insospettirlo non fu la parte difficile. Nemmeno il poco tempo a disposizione. Difficile fu guardarlo negli occhi e fargli domande di cui conoscevo già la risposta. - Il professor Silente è stato chiamato dal Ministero, per quella storia con le creature magiche. Pensi che riguardi anche me? -

- Eh, non credo proprio, piccoletto. Perché dovresti centrare tu con quelle brutte faccende? -

- Perché sono quel che sono. -

- Sciocchezze! Il professor Silente è un grand'uomo, non si sognerebbe mai di coinvolgere degli innocenti in affari del Ministero. -

- Lui lo sa? Di me? -

Hagrid abbassò il tono, fissò lo sguardo al fondo della sala e fece del suo peggio per dissimulare la scomoda conversazione. - No, no... non lo sa nessuno. -

- Ma verrà a saperlo? - gli domandai con il tono più spaventato che riuscii a esprimere.

- Non lo so. Forse. Lui viene sempre a sapere tutto. Non c'è nessuno come Silente: quell'uomo ha tutto sotto controllo. Cosa buona, s'intende. -

- Quindi lui è un amico di quelli come me? -

Qualcosa di oscuro e triste si accese negli occhi del mio amico Hagrid. La stessa persona che si era offerta di proteggermi, per un attimo (e solo un attimo), desiderò non avermi mai incontrato. - Vedrai che andrà tutto bene. Non permetterò che ti facciano del male. - Lo disse senza guardarmi, accennando un inchino a Lumacorno che aveva alzato il calice nella nostra direzione.

- So che vuoi proteggermi, Hagrid. Sei l'unica persona di cui mi posso fidare. Per questo ho bisogno di te. -

- Bisogno di cosa? - mi domandò ingenuamente.

Andai in apnea, terrorizzato da ciò che stavo per chiedergli. - Di portare alla luce la verità... la fine che Silente ha fatto fare alla gente come me durante la guerra. -

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Capitolo 20
*** Ventesima Parte ***


20/50

***

15 Novembre 2009

Il Wampus d'Argento - Liverpool

Le assi del pavimento scricchiolavano sotto il peso di Burke, un lamento interminabile e concertato col vento, con la pioggia, rinforzato dallo zampettìo dei ratti e il vociare degli ospiti. Il legno sognava il tempo in cui era stato bosco, anni sfuggiti tra le radici come rivoli d'acqua che vi passavano al fianco, a un universo di distanza dalla loro immobilità. Sembrava dolersene l'intera locanda, dalle fondamenta al tetto sferzato dalle intemperie.
   - Mi perdoni, signor Greyback, ma non posso accettare simili irragionevoli illazioni. - Cornelius strinse istintivamente il pugno e lo nascose sotto al tavolo. - Non pretenderà che possa mettere la mia firma su accuse infondate, mosse a un uomo stimato e amato come Albus Silente. Sarebbe un suicidio professionale. Inoltre, l'intero suo racconto ne verrebbe quantomeno sminuito, intaccato. -
   Fenrir Greyback ringraziò con un cenno Burke. Cornelius non riuscì a evitare di fissare l'orrenda cicatrice che gli deturpava il volto, mentre quel vecchio sbavante consegnava un incartamento di documenti al capobranco. Lo mollò di colpo sul tavolo, sollevando un polverone e facendo sobbalzare Morgan, che ancora prendeva appunti.
   - E per giunta a raccontare simili assurdità è un mago oscuro, giusto? - Fenrir si sporse in avanti, viso a viso con il giornalista. - Addirittura un lupo mannaro. Chi crederebbe mai a un individuo del genere? -
   Cornelius deglutì rumorosamente. Ebbe la terrificante consapevolezza, tutta d'un tratto, di essere commestibile. L'uomo che aveva di fronte, i suoi compagni e compagne, erano senza morale, senza emozioni o rimorsi, dal suo punto di vista: pronti a ucciderlo e a chiedersi solo dopo se fosse stata una cattiva idea. Nonostante la paura, la tremenda voglia di fuggire via (se solo avesse avuto una compagna più esperta ed entrambe le mani sane!), trovava impossibile accettare quanto Greyback intendeva fargli mettere su carta. Albus Silente, l'uomo più contestato e poi celebrato del secolo concluso, non meritava simili giochetti sporchi. Nella propria carriera, Cornelius era stato di parte, agguerritamente politicizzato, ma mai distante dalla verità. Portava una spilla appuntata sulla licenza, per questo. La vita da sottoposto gli andava stretta per carattere: intendeva scegliere accuratamente le proprie battaglie e riservarsi il diritto di essere onesto, sempre, fino in fondo.
   Afferrò a due mani il coraggio e parlò con franchezza: - Ho delle riserve su questa storia, lo ammetto. La complicità di Hagrid, la sua presenza mantenuta segreta a Hogwarts, gli interessi di un magonò di cui non ho mai sentito parlare... e ora l'attacco all'uomo che ha combattuto Lei-sa-chi per ben due volte, dando la vita nel farlo. -
   - Non fu Voldemort a uccidere Silente. Furono le sue stesse menzogne, ingigantitesi negli anni, rotolate giù per il fianco della montagna del suo ego fino a diventare inarrestabili. Lei non deve credere a nulla: io le sto dicendo qual è la mia versione. Ciò che voglio che si sappia, lo pubblicherà. E se poi avrà intenzione di dare sostegno a quanto le sto raccontando, potrà usare queste. - Greyback spinse il plico di cartelle verso il capo opposto del tavolo.
   - Cosa sono? - domandò Megan, curiosa di sfogliare i documenti.
   - Le prove. -
   Cornelius, dubbioso, fissò Fenrir senza muoversi. - Le prove di cosa? -
   - Della partecipazione di Albus Silente al rastrellamento dei lupi mannari durante la Guerra. Qui c'è tutto quello che io, Magnus, Driade e Hagrid siamo riusciti a recuperare nei miei tre anni di permanenza a Hogwarts. Ogni documento che attesta gli ordini e i resoconti del Ministero in cui era implicato Silente. Date, luoghi, nomi: c'è abbastanza per riempire le pagine di un libro. -
   Nessuno dei due giornalisti osava toccare gli incartamenti. Li temevano, così come li desideravano, come un dolce meraviglioso che avrebbe provocato il mal di pancia più straziante della storia. 
   - Non è possibile, - confessò Cornelius, strizzando gli occhi inebetito - Silente è stato un grande uomo. -
   - Silente era un porco. Egocentrico ed egoista fino al midollo. Oh, certo, il più dotato degli ipocriti, molto più intelligente di quell'idiota narcisista di Tom Riddle. No, lui era della stessa pasta di Gellert Grindelwald. Ma almeno il Signore Oscuro ebbe la decenza di mostrarsi per ciò che era veramente. -
   - Un criminale? - azzardò Megan.
   - Una malattia. Un morbo oscuro e tenace che ha infettato la società per decenni, suppuandola e inacidendola, porgendo una mano solo per poter affondare il coltello con l'altra. Silente era un uomo in grado di sacrificare letteralmente chiunque per i suoi scopi. Avido di prestigio, avido di potere, non ci ha mai potuti soffrire. Noi lupi mannari, ma nemmeno le veela e vampiri. Tutte cose che non poteva controllare. Per questo appoggiò i rastrellamenti. Con la gente come mio padre dietro le recinzioni, marchiati come animali da macello, ottenne il controllo e il lustro di cui aveva bisogno. L'illusione di una società perfetta, in pace, protetta dallo Statuto Internazionale di Segretezza. Un uomo intelligente, di certo, ma non difficile da comprendere. Così come il suo scontro con Grindelwald. Così come Ariana. -
   Greyback si mostrava incredibilmente calmo. Nei suoi occhi bruciava una rabbia antica, incandescente e non più indisciplinata, di un braciere che arde da molto, molto tempo. - Riuscite a immaginare cosa pensai all'epoca? Quando misi insieme i pezzi: la fuga dei miei, la vita in isolamento totale dal mondo magico, la disperazione e la depressione di mio padre? Il suo terrore, quando gli dissi che sarei andato ad Hogwarts... ho visto il suo viso nei miei incubi per anni. Blu e asfissiato, ma al posto della corda con cui si impiccò c'erano le mie mani a stringere. Lui implorava solo un po' d'aria. Così decisi che se avessi dovuto usarle per vendicare lui e quelli come me, le avrei strette intorno al collo di Silente e dell'intero Ministero della Magia. -
   Megan era sconvolta, ma non tanto quanto Cornelius. Aveva conosciuto il vecchio Preside solo nei suoi ultimi anni e ciò che sapeva di lui era soprattutto un dipinto eroico che altri avevano tratteggiato per il pubblico. - Qual era il suo ruolo in tutto questo? Quanti licantropi sono stati rastrellati? E cosa avveniva nei campi di concentramento? -
   - Trova tutto nei faldoni, signorina Jones... -
   La porta si spalancò con gran fracasso. Burke, l'unico ad essere rimasto nella stanza con Fenrir, fece scattare in mano la bacchetta. Dovette abbassarla subito di fronte alla valchiria appena entrata, o con lo sguardo lo avrebbe incenerito.
   Lei sembrava non vedere nessuno, se non Fenrir.
   - Auror - disse con la ferocia del disprezzo. Le pesanti occhiaie le arrivavano agli zigomi, scoperti in un gesto rapido mentre si legava una fitta coperta di capelli ricci e ramati in una coda di cavallo. - Cosa facciamo? -
   Greyback espirò infastidito. Poi fece cenno, con il dito davanti alle labbra, di fare silenzio. - Assicurati che Najata sia andata via. Gli altri lasciali divertire. -
   Sul viso della donna comparve un'espressione frustrata, ma accettò gli ordini all'istante.
   - Skoll, - aggiunse Fenrir, prima di vederla sparire sul pianerottolo come un'ombra - non è ancora il momento di scontrarci con loro. -
   In quel frangente il Wampus d'Argento si era zittito. La pioggia leggera cadeva nel mondo ingrigito oltre la finestra. Il respiro pesante della masnada di ladri e tagliagole al piano di sotto era scomparso.
   Poi, si sentì un colpo, un bussare distante. Non uno, non due, ma tre volte.
   Tok-Tok-Tok.
   - Mi dispiace di dover interrompere qui la nostra narrazione, ma il vostro tempo è scaduto. -
   - Ehi, che succede? Non può lasciarci qui così! - Megan restò aggrappata alla penna come se potesse impedire che il tempo facesse il suo corso.
   Greyback si alzò dalla sedia e infilò una lunga mantella nera con cappuccio. La sua stazza metteva soggezione, in particolar modo ai giornalisti ancora seduti, spaventati e ignari. Burke si spostò a spiare fuori dalla finestra.
   - Non vi lascio - li avvertì Greyback. - Non entrambi, almeno. - Fu brutale nel sollevare Megan di peso, prendendola sottobraccio come un sacco di patate. Lei, terrorizzata, rimase di pietra. - Lei, Cornelius, ha tutto quello di cui necessita per scrivere il suo articolo. Parli di noi, di quello che le ho raccontato sul passato della nostra gente. E, vero o no, avrete un motivo per il risentimento che coviamo. Noi non siamo bestie senza una bussola. Siamo uomini e donne che sanno amare e portare rancore. -
   Le vetrate delle finestre esplosero in una nuvola di vetro. Burke riuscì a lanciare una protezione appena in tempo e salvare il poco che restava della sua faccia. Grugnì e corse ad afferrare i documenti sul tavolo.
   - Lei viene con me. Per sicurezza - concluse Grayback, tenendo ben salda Megan Jones. - E anche i documenti. Se li lascio agli Auror, sarà stata solo fatica sprecata. -
   - Fermo! - implorò Cornelius. - Non ne so ancora abbastanza! Ci sono troppe domande senza risposta! Perché fare questa confessione ora? E quale era il piano di Ignavus Lovegood? Perché si è unito a Voldemort, se lo disprezzava? I bambini che ha attaccato in questi anni: cosa significa? Dopo la Guerra dove è stato? E per quale motivo a Hogwarts nessuno si ricorda di lei? -
   Greyback snudò i denti e, molto lentamente, rise. Una risata calma, ferina, soddisfatta.
   - Alcune di queste sono le domande giuste. Le ponga a Lui, quando vi troverete faccia a faccia. -
   - Lui chi? - domandò spaesato Cornelius.
   Dalla tromba delle scale provennero i primi lampi di luce azzurra. Le urla degli incantesimi si sparsero come fiamme e il rombo dei colpi inondò le stanze. Burke si smaterializzò, portando con sé tutte le prove della violenza del Ministero e del defunto Silente verso il popolo dei licantropi.
   Un Auror con un'ampia tunica ocra e sabbia comparve dalla finestra infranta, bacchetta alla mano. Fu rapido, incredibilmente rapido e abile nel lanciare il proprio incantesimo. Cornelius si gettò a terra, ai piedi del suo protettore dagli occhiali tondi e i capelli neri. Per un attimo, sperò che fosse tutto finito. Che Megan fosse in salvo e quel pazzo, bestiale Greyback finalmente potesse essere arrestato.
   Per un attimo solo, sperò.
 

***

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Capitolo 21
*** Ventunesima Parte - Interludio Arcano ***


21/50

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23 Marzo 2010

Ministero della Magia - Livello Nove


Con il tacco quadrato dello stivale puntato nel petto, Skoll spremeva l'aria fuori dai polmoni dell'Indicibile. Le luci azzurre baluginavano sul viso del ragazzo, steso a terra, schiacciato dalla forza inaspettata di quella donna in nero.

- Resta fermo e non ti accadrà niente. Ci vorrà solo un istante e poi ce ne andremo, così come siamo arrivati. -

Il viso pallido dell'Indicibile era una maschera di terrore, incorniciata da una matassa di capelli color zucca e lentiggini. - Non potete, non potete farlo! Queste stanze sono pericolose, voi non siete autorizzati! -

Skoll non ci trovò nulla di divertente nell'ingenua paura della sua vittima, che gettava l'occhio alla bacchetta che aveva perduto, abbandonata sul pavimento, vicina ma irraggiungibile. - Fa silenzio. -

- Le porte, le porte girano. Qualsiasi cosa stiate cercando non potete raggiungerla. Sono sigillate, solo uno degli Indicibili del giusto reparto vi potrebbe fare entrare! Tornate indietro, fin che potete! -

- Apri ancora la bocca - gli intimò Skoll, puntandogli la bacchetta sul naso - e giuro che ti faccio secco. -

- Attaccando l'Ufficio Misteri voi... - Il ragazzo spaventato, a un tratto, si fermò. Riuscì solo a sospirare, pieno di sconforto, quando la danza delle torce illuminò una delle ombre nella stanza. Un'ombra che lui conosceva. - Blaise? -

Avada Kedavra. - Una luce verde volò nell'oscurità e, senza possibilità d'appello, trascinò con sé una vita. Greyback, con la bacchetta in pugno, squadrò dall'alto in basso prima sua figlia, poi il cadavere. - Stai perdendo tempo, Skoll. Molla quel Weasley e andiamo avanti. -

Skoll strinse i pugni e serrò le labbra. - Era necessario? -

- Era necessario - rispose perentorio. - Zabini, fai il tuo dovere. -

Elegante e impeccabile, Blaise Zabini si aggiustò la cravatta e divaricò le narici, soffiando per liberarsi da un disgustoso pensiero. Le scarpe rialzate lo slanciavano come uno scuro lampione, magro ma affascinante. Scavalcò il corpo senza vita del collega e scelse una porta, agli occhi degli altri perfettamente identica a qualsiasi altra. - Per di qua - li avvertì, dopo un incomprensibile mormorio.

Alle spalle di Fenrir, solo Burke si mosse senza fiatare. Najata, che stava recuperando il proprio aspetto con l'esaurirsi della pozione Polisucco, poggiò la mano sulla spalla di Skoll. Le dita si stavano affusolando, la pelle addolcendo, mentre mutavano da quelle di un vecchio a quelle di una consumata assassina. Fu delicata e, indugiando, tentò di aprir bocca, ma Skoll si alzò con decisione e si infilò oltre la soglia.

Najata fissò l'espressione vuota dell'Indicibile rimasto a terra. Gli chiuse le palpebre, lo baciò sulla fronte e lasciò la stanza.

L'Ufficio Misteri non aveva offerto una resistenza sufficiente all'intrusione del branco. I quattro lupi mannari erano illesi e, soprattutto, ancora nascosti alla sorveglianza del Ministero. I passi decisi risuonavano per i corridoi male illuminati dalle torce azzurre. Ogni svolta, ogni mattonella cupa, ogni porta sembrava uguale alla precedente, in un nonsense geometrico e labirintico.

- Sarebbe difficile trovare qualcosa, qui, senza il ragazzo. - Burke teneva sotto stretta sorveglianza Zabini, il quale sembrava piacergli meno di una serpe velenosa.

Fenrir grugnì. - Non è per questo che abbiamo bisogno di lui. Persino Malfoy aveva fatto irruzione all'Ufficio Misteri. No, non è difficile affatto. -

- Allora a cosa ci serve? Io non mi fido di lui - bisbigliò furtivo. - Potrebbe tenderci una trappola. -

- Sta' tranquillo, Burke. Fidati di me. -

Giungere alla Porta Eternamente Chiusa fu semplice. In breve tempo, i cinque ci si trovarono di fronte: profili in oro e argento contrastavano con il legno duro e cupo, inciso utilizzando ogni lingua conosciuta. Una sola parola, ripetuta centinaia di volte da uomini e donne, maghi e streghe, in ogni luogo del pianeta. Suoni che mai si sarebbero uditi ancora e altri che, in qualche luogo, venivano ripetuti in quello stesso istante fino allo sfinimento.

- Ma non c'è la serratura - commentò Burke. - Come si fa a entrare? -

Blaise Zabini sbuffò e si rivolse a Fenrir. - Senti, io ve la do una mano, ma questo bifolco deve stare zitto, ok? Anzi, sai che ti dico, da ora in avanti stanno zitti tutti quanti. E fermi. All'interno della Camera dell'Amore si può perdere il senno e la vita, se non fate come vi dico io. Va bene, bestioni? -

Fenrir Greyback fermò la reazione di Burke con un gesto. Annusò Zabini come un mastino, avvicinando il viso, saggiando fino a che punto l'altezzosità dell'Indicibile ne avrebbe mantenuto i nervi saldi. - Tu apri la porta, - gli disse - togliti dalla testa l'idea di dare un ordine anche all'ultimo dei cuccioli e forse, dico forse, te ne potrai andare con lo stesso numero di arti che hai adesso. -

Per quanto il gruppo di lupi mannari lo disgustasse, Zabini accettò il compromesso. - Devi mantenere la tua parola, Greyback. Il rituale è tuo, ma quello che mi hai promesso... -

- Quello che ti ho promesso lo avrai. Ora, facci entrare. -

E così, trascorso l'ultimo istante utile per ripensare alla validità delle proprie pretese, Zabini aprì la Porta Eternamente Chiusa con il tocco della propria bacchetta, spalancando i segreti della Camera dell'Amore ai desideri del branco.

L'interno era una stanza ovale, colma di scaffalature con marchi di colori cangianti. Il rumore sferragliante di catene si insinuava in ogni anfratto. La vista, dopo pochi istanti, cominciò ad offuscarsi: le forme e le luci si azzuffavano senza regole, in una guerra caotica capace di disorientare ognuno dei visitatori. Solo ciò che era vicino manteneva un aspetto riconoscibile, unico appiglio per non perdersi nell'oscuro carnevale di fiaccole fredde.

- Restate vicini e seguitemi - disse Zabini, in testa al gruppo. La sua voce si era fatta apra, ostile, quasi innaturale. - Non lasciatevi ingannare da ciò che vedete muoversi. Restate vicini. -

Le ombre colorate fluttuavano ai margini del campo visivo. Najata, in coda, schivò una massa a volo rapace diretta verso di lei, all'ultimo istante e con un balzo che fece ondeggiare gli scaffali.

- Fate attenzione! - urlò di nuovo Zabini.

- Voi non lo sentite? - Skoll alzò il naso al soffitto, come faceva durante le notti di luna piena una volta percepita una pista. - C'è uno strano odore qui. Sa di... fieno e... pasticcio di carne. -

- Io sento odore di sudore - le rispose Najata, aggrottando le sopracciglia. - Sudore, legna bruciata e pelo di... - Si irrigidì all'istante, presa alla sprovvista dalle sensazioni che la assalirono.

- Lo sentiamo tutti - commentò Zabini, con un incomprensibile tono sdilinquito. - È l'Amortentia. C'è una fontana, più avanti. -

- Ma non è proibita? - chiese Burke, continuando a seguire le massicce spalle di Greyback poco più avanti.

Zabini sbuffò, evitando di rispondere.

Skoll, affiancando il vecchio lupo sfregiato, gli sussurrò: - Dovrebbe avere un odore diverso per ogni persona, in base alle nostre preferenze. Scommetto che tu senti un gran profumo di buco di culo adesso. -

- Fatti montare al più presto, che ne hai bisogno. Se trovi qualcuno che ne ha il coraggio. -

Con un pugno alzato, Zabini fermò Greyback, che a sua volta fece arrestare gli altri. Le scaffalature terminavano in un passaggio ampio il doppio del corridoio appena percorso, oltre il quale le figure sfumate di mobili e oggetti si riflettevano su un'eterea superficie di cristallo. Nulla sembrava muoversi, né attorno a loro, né nella stanza. La vista aveva perso la sua utilità e i suoni erano quasi del tutto scomparsi. Ma uno spostamento d'aria, perforante come una punta di lancia, stava scuotendo le loro viscere.

Rimasero in silenzio e immobili per diversi minuti. Nessuno osava fiatare e il tempo si dilatò fino quasi a rompersi. Poi, di fronte ai loro occhi ottusi e le loro orecchie sorde, transitò un carretto, buio come la notte, irregolare in modi indescrivibili. Veniva lentamente trascinato da una figura stesa a terra, lunga non più di un metro, con due soli arti che si stiracchiavano e si contraevano, procedendo verso la meta istericamente. Ogni passo di quelle zampe d'insetto era frenetico e incerto, manchevole, incapace di aggrapparsi saldamente al pavimento. Ma ogni molti sforzi, uno portava più avanti la creatura e il suo carro, fino a che scomparve ai sensi oltre gli inganni della stanza ovale.

Zabini condusse il gruppo al loro obiettivo: uno specchio su più dimensioni, dalle forme indistinguibili, posizionato su un altare d'oro inondato da rivoli di liquido senziente, il cui odore era tanto familiare a tutti i licantropi. Sangue.

- Che diavolo era quel coso? - domandò Najata, dando una mano a Skoll per non perderla mentre rimaneva voltata, vigile sentinella nelle retrovie.

Zabini la ignorò. - Ci siamo. Ora ascoltami, Greyback: sei sicuro di quello che vuoi? -

Il capobranco non aveva titubato nemmeno per un istante. - Dimmi solo come prendere il rituale. -

- Non è ancora mai uscito di qui. Nemmeno il Ministro della Magia è stato informato del fatto che ci siamo riusciti. -

- Riusciti a far cosa? - domandò Skoll.

- Non lo sanno? Ma sei pazzo? - Zabini si tirò indietro e puntò il dito dritto in faccia a Fenrir. - Loro devono sapere cosa stai facendo! Se le cose vanno male poi non voglio che queste bestie se la prendano con me, hai capito? -

Greyback fu istintivo. Scattò a bocca aperta e azzannò quel dito accusatore che ondeggiava proprio di fronte al suo viso. Sentì in bocca il sapore della carne e le fragili falangi sotto ai denti. Morse con tutta la forza fino a staccarlo dalla mano del proprietario.

Zabini urlò, ma si mise da solo l'altra mano sulla bocca. Nella lotta contro il dolore cercò di stringere i denti, afferrare la propria bacchetta e porre rimedio agli spruzzi di sangue caldo che gli colavano fino al polso.

- Loro sanno quello che IO dico che devono sapere. E se vorranno fare la pelle a un piccolo vanitoso come te, non è un problema mio. - Greyback sputò il dito, che cadde sull'altare dorato. La carne cominciò a ribollire e a evaporare come su un barbeque. - Ora, se vuoi essere così gentile da dirmi come ottenere il segreto della Protezione Sacrificale, ce ne andremo senza altri incidenti. Se invece ti sembra che poter contare fino a nove sia ancora troppo, userò la tua dannata carcassa per scoprire se avete veramente portato alla luce l'incanto che ha usato Lily Evans Potter per sconfiggere il Signore Oscuro. -

 

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Capitolo 22
*** Ventiduesima Parte ***


22/50

***

17 Gennaio 2010

Notturn Alley - Londra

L'angolo adombrato all'esterno di Noggin and Bonce sussultò in timorose reverenze quando la porta si chiuse alle spalle di Rolf Carrow. Un nugolo di maghi pezzenti si scostò tendendo la mano sporca. Una coppia di gentilstreghe incappucciate, con altrettanti elfi domestici carichi dei loro acquisti in candele e ingredienti insoliti, accennarono un inchino, salutando con deferenza il volto nuovo e ripulito della famiglia purosangue. Rolf, che strozzava il collo a un sacco di tela dal quale provenivano voci stridule, si profuse in eleganti saluti senza rallentare.
   Le vetrine dei negozi fiocamente illuminati si innalzavano sopra cumuli di neve e pantano. Nei loro riflessi baluginava il negativo di un sabato comune: istantanee di vite normali, per maghi rispettabili ma eccentrici e per reietti alla ricerca di un angolo caldo dove trascorrere la notte. Le locande erano cariche di avventori paganti e, per chi disponeva del giusto quantitativo di galeoni, scorrevano liquori, cosciotti di maialino da latte e altri tipi di carne, di quelli che non riempiono lo stomaco ma scaldano benissimo lo stesso.
   Una stretta scalinata stazionava in agguato al fianco di Tatuaggi Indelebili. Rolf salì i gradini a due a due, passando cheto fra un capannello di straccioni. Il più grosso mostrava fiero la luna piena tatuata sul bicipite, mentre le fauci zannute di un lupo si chiudevano su di essa per ingoiarla e lasciare nuvole di inchiostro nero al passaggio. Infine, la luna sbucava di nuovo all'evaporare del colore.
   Un goblin curvo, appollaiato in cima alle scale, fuori dal proprio banco dei pegni, riconobbe il mago suadente mentre varcava la soglia de La Viverna Bianca. Tirò avidamente dalla pipa e gettò lo sguardo attraverso le minuscole vetrate. Dalla locanda proveniva un gran baccano e la cosa, senza ombra di dubbio, lo disgustava.
   Nella bolgia, nessuno fece caso al ritorno di Rolf. La musica di un violino arzillo dava il tempo alle bevute, accompagnato da una concertina spompata. L'allegra masnada aveva definitivamente abbassato la guardia.
   - Mai visti tanti lupi mannari tutti assieme. - Al bancone, poggiato con i gomiti, Harry si rivolse al compagno di branco con un ghigno ambiguo.
   - Un motivo esiste, caro mio - rispose Rolf Carrow. - E non si chiama Fenrir Greyback. - Aperto il sacco di tela, ne estrasse tre testoline rinsecchite. Cominciò a legarle, una dopo l'altra, alle mensole sovrastanti, ricolme di bottiglie mezze vuote.
   - Festa! Ma ti pare? - vociferò una delle testoline.
   - Con questo casino non riesco a sentirmi i pensieri - borbottò la seconda.
   - Io non mi sento più le gambe - gracchiò la terza.
   - Piantatela. E fate il vostro lavoro. - Rolf le pizzicò tutte alla cucitura del collo, facendole fremere come bambine divertite. Ordinò qualcosa al barista alzando un dito, poi si mise a scrutare la sala.
   - Dov'è Corvinus? - chiese ad Harry.
   Alzando la mano guantata, l'ex portiere dei Montrose Magpies puntò l'indice nella sala. - Ad affondare la faccia nelle tette della rossa. -
   Le sedie erano state sparpagliate per il locale, tanto da non permettere più di muoversi senza dover spingere qualcuno per passare. I boccali traboccavano (con buona parte del contenuto finito a terra a formare uno stagno maleodorante), mentre almeno due coppie e un terzetto avevano mezzo corpo scoperto. Alcuni dalla vita in su, altri invece no.
   Rolf decise a quel punto di cambiare domanda. - Chi è quella? -
   - Vitula Black. -
   - Ha preso in simpatia il nostro capobranco, direi. -
   - Mentre la nostra Vitula affonda la lingua nella gola di Calcifer, laggiù. - Un uomo di mezza età, con la barba già grigia e il fisico da boscaiolo, piegava indietro la testa nel ricevere un bacio più simile a una respirazione artificiale. In qualche modo sembrava comodo, a gambe larghe. Rolf poteva vedere una schiena nuda inarcata, proprio lì in mezzo. - Quella ginocchia a terra? -
   - Octavius - commentò Harry, alzando un sopracciglio.
   Rolf fece una faccia da limone: certe cose gli davano i brividi. Ma, in fondo, non aveva nulla da ridire. - I branchi stanno socializzando bene, direi. -
   - Nessun problema. Per ora almeno. Ho qualche dubbio. -
   - Di cosa parli? -
   Harry si strinse nelle spalle. - Skoll tiene la ragazza al guinzaglio fino a che non torna Fenrir. Ha passato l'intera serata a mangiare pasticcio di carne e bere burrobirra. -
   - E allora? Lasciamola perdere. Piuttosto, quel depravato, quel Calcifer, non è lui l'omega? -
   - Ecco, non ho fatto in tempo a parlare. Non farti venire in mente strane idee, Rolf. -
   - Doveva fare lui la vedetta. - L'umore di Rolf Carrow cambiò in un istante, più rapido di una nuvola che oscura il sole. Ingollò tutto quello che aveva nel bicchiere, si asciugò la bocca, e si staccò dal bancone.
   - La festa! Che festa è senza una scazzottata? - blaterò una testolina.
   Harry inspirò profondamente. Fece dei rapidi calcoli: Fenrir e Najata erano usciti, Skoll era impegnata. Anche con loro fuori gioco, il branco del grande alpha contava cinque lupi esperti. Più Charlie Burke, mezzo ubriaco e con la bava che gli colava sui calzoni. Sarebbe stato uno scontro quasi alla pari, stando ai numeri, ma non era affatto sicuro se sul piatto si fossero messe anche le bacchette.
   Rolf diede un paio di spintoni per farsi strada. - Hey, Calcifer. -
   La risposta fu una sorpresa per tutti: in mezzo alla sala, Vitula Black si era messa ad urlare come una banshee.
   - Ritira quello che hai detto, molliccio senzapalle! - Stando sulle gambe di Corvinus, mollò un violento malrovescio su quel viso sproporzionato. Lo schiaffo si sentì forte come un tuono e la guancia squadrata di Corvinus, con lo stampo di un'anello di casa Black impresso nella pelle, avvampò.
   I suonatori si fermarono di colpo quando Corvinus si alzò in piedi, lanciando Vitula sul pavimento lercio. - Sei solo una stupida vacca. Lui non ci sarà per sempre. Sta tirando le cuoia, se non l'hai capito - le disse con tono canzonatorio. L'enorme testa a lampadina del capobranco era rossa di rabbia. - Che c'è: hai scoperto che Baba Raba non esiste? -
   Vitula Black si rialzò in un istante, con il petto ancora scoperto. - Se pensi sia tanto vecchio e decrepito, prova a dirglielo in faccia. Guarda in faccia Fenrir Greyback e digli cosa cazzo pensi di lui e di suo figlio! -
   - No, signori, stiamo calmi. - Calcifer si abbottonò i pantaloni e si alzò a mani tese. - Forza, non è il momento di litigare. Vitula, metti via quelle tette. E Corvinus... -
   - Non dire a Corvinus cosa dovrebbe fare, incapace. - Rimasto in attesa, Rolf ebbe la sua occasione di sferrare l'attacco. - Se ti limitassi a fare una cosa, e a farla bene, te ne saremmo grati. -
   - Carrow, per Merlino, gli Auror... -
   - Gli Auror hanno i miei cugini. E sai dove sono adesso? Ad Azkaban! Hai capito? Per colpa tua Amycus e Alecto si stanno contorcendo in un buco oscuro nel profondo della prigione, pasto per i Dissennatori. -
   - Cazzate, - rantolò Burke, senza nemmeno voltarsi - quei due idioti sono ad Azkaban perché... perché sono due idioti. -
   - Senti chi parla, - lo incalzò Corvinus - il bastone della vecchiaia di Fenrir. E dimmi, Burke, tu cos'hai fatto per salvarli? Per salvare due dei nostri? - Una pausa e tutto tacque. - E Fenrir? -
   Burke si voltò di scatto, lanciando il boccale nella direzione di Corvinus. Lo mancò abbondantemente.
   - Non parlare male di mio padre. - Skoll si era alzata, ormai come tutti: lupi mannari o meno, maghi e streghe de La Viverna Bianca si stavano fronteggiando faccia a faccia. Le lingue lanciavano scintille e avevano tutti abbastanza alcol e furia in corpo da prendere fuoco.
   - Tu devi solo tacere. - Vitula Maxime, che fino a poco prima spingeva la lingua nella gola di Calcifer, spalancò gli arcuati occhi neri come se dovesse sparare fiamme. - Tu non conti proprio nulla in questa faccenda. Sei solo uno scarto, una figliola troppo codarda per staccarsi da paparino. Come ha fatto tuo fratello. Hati ha avuto le palle di decidere: quando il vecchio non lo ha più protetto, quando lo ha tradito. Ormai è troppo debole per guidare i branchi. Il suo tempo è passato e ora è solo un codardo. Hati prenderà il suo posto e allora, finalmente, divorerà la luna. -
   - Sono solo puttanate. - Skoll, a denti stretti, non riusciva quasi a parlare. Solo la sua mano si muoveva, lenta, verso la bacchetta.
   - Ha preferito un mago al suo stesso sangue! Ha tradito! 
   - No, non è andata così. - Chi era in grado di reggersi in piedi aveva impugnato la bacchetta. Nel giro di pochi minuti, dal profondo dei festeggiamenti si erano ritrovati a puntarsi gli artigli alla gola. Chi beveva insieme, ora si fissava negli occhi con ostilità. Chi stava gozzovigliando nel sesso meno impegnato, ora preparava sulle labbra gli incantesimi. Persino chi per l'intera serata aveva suonato insieme, Ginny e le corde del violino che vibravano sulla melodia di Xatu, si era trovato costretto a snudare le zanne. "Il branco si schiera con il branco" era una legge valida per tutti. Tutti, tranne Megan Jones, che aprì bocca scossa dal terrore.
   Corvinus, con la tozza bacchetta di faggio nella sinistra, impugnata come fosse una mazza, parlò lentamente. - Ora lasciamo parlare anche la segretaria, Skoll? -
   Prendendo il coraggio a due mani, Megan rispose: - Sono una giornalista della Gazzetta del Profeta. -
   - Dovresti essere a una fiera campionaria - la derise il capobranco.
   - Ho parlato con Greyback, tanto. In realtà ho ascoltato, più che altro. Mi ha raccontato. Mi sta ancora raccontando. Cose che nessuno sa. E non gli interessa mettersi in luce: vuole che si sappia il motivo per cui voi state lottando. Per cui hanno lottato quelli come voi, prima di voi. Per far sì che si sappia cosa significa essere un lupo mannaro. - Nessuno arretrò di un passo nelle proprie intenzioni, ma almeno (pensava Megan) non si erano ancora saltati alla gola. - Posso dirvi che non ha tradito, anche se voi lo pensate. Hati ha scritto da solo la propria condanna. -
   - Cosa vuole saperne una come te di quello che è successo? - farfugliò Rolf Carrow, disturbato dall'idea di dover ascoltare ancora per molto le parole di una simile nullità.
   - So come sono andati i fatti. So perché sono andati così. Se Fenrir Greyback è il vostro leader, il rappresentante del vostro popolo, io che ora ne ho la memoria impugno il vostro passato. Se non conoscete il vostro passato, non potete comprendere il presente. Per questo, per questo guardate ad Hati come a un salvatore! Ma Fenrir ha sempre e solo fatto la cosa giusta per la sua gente. - Prese un respiro e guardò ognuno di loro negli occhi: uomini, donne, maghi, streghe, creature della notte. Avevano tutti bisogno di capire. - Tanti anni fa, quando Fenrir frequentava il secondo anno ad Hogwarts...

 

***

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Capitolo 23
*** Ventitreesima Parte ***


23/50

Volare nel cielo come un uccello, con il vento sulla faccia e quella sensazione di fragile e assoluta libertà era il sogno di molti. Di certo, non il mio.
Al Campo di Allenamento ero l'unico a sentirsi ancora spaventato. Avevo deciso di continuare con la classe di volo del Professor Hector Baston nonostante non fosse obbligatorio. La speranza di far parte di qualcosa, però, era allettante e Baston insisteva perché migliorassi nelle doti acrobatiche.

- Sono convintissimo - mi disse il professore - che saresti un eccellente Battitore, se solo imparassi a volare come Merlino comanda. -

Diggory aveva mollato, convinto ci fossero metodi meno rischiosi per mettersi in mostra. In compenso, Tattercow continuava: ogni occasione era buona per allenarsi e dar lustro alla Casa. Sarebbe entrato nella squadra di Quidditch, senza ombra di dubbio. Cercatore, probabilmente. Era agile, veloce e preciso. Non esattamente quello che si poteva dire di Alastor Moody.

Prese le scope ed effettuata l'ordinaria manutenzione, il Professor Baston ci fece alzare in volo. Moody sembrava odiarlo, per qualche motivo. Rimaneva con le braccia tese per tenersi saldamente aggrappato, con un'espressione di rabbia e disgusto malcelata sul viso. Perché insistesse con una materia non più obbligatoria e per la quale era così poco portato, era un mistero. Forse, era solo testardaggine e incapacità di arrendersi.

Era una mattina come un'altra, ad Hogwarts. La nebbia si levava dal terreno umido, spargendosi in ogni dove, troppo rada per inghiottire veramente il castello o per impedire la lezione.

- Per oggi possiamo concludere - disse soddisfatto Baston dopo averci fatto avvitare una manciata di volte su noi stessi. - Prendete confidenza con le vostre scope. Se intendete superare l'anno, non sarà sufficiente spostarsi da un punto all'altro. Non siamo più ai rudimenti. Forza, a coppie. Fate un bel giro fuori dalle mura, costeggiate il bosco, e alla rimessa per le barche tornate indietro. Siate un po' competitivi: non si vince niente se non una rimpolpata all'orgoglio, ma tanto basta. Urquart, Tattercow: cominciate voi. -

Prima le stelle, capaci di mettere in piedi una vera e propria gara di velocità. Poi i mediocri che, salvo qualche spallata al compagno o alle mura di pietra, tornarono alla posizione di partenza tutti interi. Alla fine, erano rimasti solo i più incerti. Chi possedeva un vero talento per il volo aveva già riposto le scope, quando io e Moody ci alzammo sopra il Campo di Allenamento.

- Spingimi - gracchiò lui, senza distogliere l'attenzione dalla propria traballante monta - e giuro che ti soffoco nel sonno. -

- Se tolgo una mano dal manico inizio a volare in stile sasso - gli risposi. - Tranquillo. -

Sono sicuro di non averlo fatto ridere, neanche un po'. A quel punto si librò in aria e superò le mura di cinta senza nemmeno aspettarmi.

- Forza, forza V.! Veloce o te lo perdi nella nebbia! - Il Professor Baston mi guardò con l'ampia mezzaluna di denti brillanti. Nulla lasciava ad intendere che il suo entusiasmo fosse falso, ma dentro di sé non nutriva alcuna speranza nel mio miglioramento. Ma questo riuscii a capirlo solo un anno più tardi.

Inseguii Moody come meglio potevo. Era una gara fra lumache ubriache. Il tempo di scorgere le cime degli alberi ed eccolo lì: leggiadro come se il manico della scopa lo tenesse ficcato su per il culo. Ronzava sopra le cime degli alberi, scomparendo e riapparendo tipo fantasma. Al posto del panorama sulla scogliera si stagliava un quadro bianco, puntellato di foglie, aghi e corridoi che scendevano fino ai prati.

Alastor stava seguendo un percorso fuori tracciato. Impegnato com'era a cercare di mantenere un'aria vagamente dignitosa, non doveva essersene accorto.

Senti avvicinarsi un battito d'ali frenetico. Più che avvicinarsi, lo percepii zigzagare, troppo veloce e troppo convulso per appartenere a qualsiasi uccello che conoscessi. Pensai a una libellula e mi chiesi dove dovesse essere il suo stagno. O come mai fosse tanto in alto. Ormai avevo imparato a conoscere i dintorni del castello e se qualcosa, là fuori, non era al proprio posto, mi si drizzavano i peli nelle orecchie.

Sì, li avevo. E anche un accenno di barba lanuginosa, unico tra i ragazzi del secondo anno... e anche del terzo.

Un nuovo rumore improvviso, come una vigorosa protesta, e mi accorsi di aver completamente perso di vista Alastor. Lo chiamai, temendo di dover proseguire da solo per riportarmi sul percorso corretto. Sarei arrivato primo, forse, ma Baston avrebbe trattato il mio compagno come un vero inetto, se fossimo dovuti andare a cercarlo. Lui non lo sopportava, anzi: ne era terrorizzato. Era così spaventato dall'idea di poter fallire che non avrebbe lasciato le lezioni di volo nemmeno di fronte a un'umiliazione. Sarebbe risalito in sella e avrebbe provato, provato ancora fino a riuscire nell'intento. Le sentiva dentro, certe cose, e si lasciava avvelenare. Non volevo abbandonare l'unico Tassorosso che evitava di farmi sentire l'ultimo della cucciolata.

Un tonfo e il frusciare delle foglie sotto di me mi fecero trasalire. A quel punto ero davvero allarmato: se fosse caduto? Con tutta quella nebbia non ero riuscito a scorgerlo. E nemmeno trovarlo sorvolando il bosco era una possibilità. Così, invece che proseguire verso il tragitto prestabilito, scelsi di atterrare, perdere la sfida e assicurarmi che il manico della scopa di Alastor non avesse lasciato il cupo pertugio nel quale normalmente stava infilato.

Respirando a fondo nel sottobosco ammantato dalla bruma, mi sentii vigile, libero e perfettamente a mio agio. Ero tornato a casa, in qualche modo: nei prati isolati a giocare con il mio cane, Ursula, e a domandare ai bruchi quali fossero i loro piani una volta ottenute le ali. La Foresta Proibita, diceva Hagrid, era un po' diversa dai boschi che crescevano ancora felici e selvatici, ma non mi sarei dovuto preoccupare: mi trovavo da tutt'altra parte. Si vedeva poco e le cime degli alberi svanivano salendo, eppure dovevo essere poco distante dalla rimessa per le barche. Forse l'avrei potuta scorgere fra gli alti fusti, con un meteo meno avverso. Per cui lasciai le paure e seguii il naso: se Alastor era caduto, non poteva essere molto lontano.

Infatti, non lo era.

Ma non era solo.

Acquattato nella verzura, vidi tra i rami una vecchia coperta di stracci. Pallida come un cadavere, impugnava un paio di logore cesoie con le quali tagliava, colpo dopo colpo, gli increspati capelli di un ragazzino fluttuante.

- Moody! - Mi tappai la bocca di riflesso, infuriato per essere stato tanto stupido da lasciarmi sfuggire un fiato. Ero vicino, troppo vicino perché la Megera mi ignorasse.

Si voltò, tenendo ben serrata una mano sul braccio di Alastor. Lui fluttuava a poco più di un metro d'altezza. Cercava di divincolarsi, senza riuscire a emettere un suono mentre l'orrenda vecchia ne disponeva per i propri oscuri intenti. La scopa era a terra, spezzatasi all'impatto. Quando la Megera mi guardò, negli occhi si agitavano torbidi e divertiti pensieri.

- Tu! - Puntò il dito rachitico verso di me. Rise, senza denti, con la pelle rinsecchita che le tirava il volto scavato. - Non è ancora il momento! -

Non avevo idea di cosa mi trovassi di fronte o cosa stesse facendo al mio compagno. L'istinto prevalse: estrassi la bacchetta e la puntai contro la mostruosa creatura. Le intimai di lasciare immediatamente Alastor, se teneva alla vita. Per quanto potessi apparire selvaggio, ero solo un ragazzino troppo ignorante per essere spaventato. E questo lei lo vide benissimo.

La Megera alzò un dito, mollando la presa. Fu come un incantesimo, senza parole e senza bacchetta, un ordine a cui solo le bestie potevano rispondere. Il ronzio, quello che avevo udito in volo, tornò su ali d'insetto.

Uno sciame di minuscole creature blu zaffiro si radunò di fronte a me. Le ali, attaccate attorno alla testa, ruotavano a una velocità folle e, senza indugio, mi caricarono.

Li avrei scacciati a manate, se non li avessi riconosciuti. I lunghi pungiglioni mi passarono sopra la testa, mentre mi buttavo a terra. "Billywig!" pensai. "Se mi pungono, mi ritrovo a fluttuare come Alastor". Mai visto né sentito, ora come allora, di qualcuno che avesse addestrato i Billywig. Con una puntura sarei rimasto sospeso a mezz'aria in balia della Megera. Con troppe, avrei rischiato di non poter mai più rimettere piede al suolo.

La flotta di insetti schizzava a destra e a sinistra, allungando le appendici nel tentativo di sedarmi. Mi rotolai fra il fogliame e mi gettai fra gli arbusti, ormai con un unico pensiero: sfuggire a quei cosi. Se mi avessero consegnato nelle mani della Megera, potevo solo immaginare il destino orribile che mi sarebbe toccato.

Di sicuro uno studente più accorto di me sarebbe stato svelto abbastanza da reagire alla minaccia e correre in aiuto dell'amico in difficoltà. Io impiegai più tempo, con ogni fibra muscolare che urlava di fuggire, per ricordare una lezione da poco appresa della professoressa Black.

Immobilus! - Lanciai l'incanto due, tre volte, fino a quando il tremendo ronzio non si spense. I Billywig erano bloccati. Che ironia vederli sospesi fra gli arbusti, come se si fossero punti da soli! In ogni caso, non avevo tempo per pensare. Sperai solo di aver fatto bene e non ritrovarmi poi, all'improvviso, avvolto dallo sciame.

Mi voltai verso la Megera, pronto a sfoderare ciò che Magnus mi aveva insegnato. Stavo imparando a difendermi non solo con la forza bruta, ma anche con la magia e pregustavo già la soddisfazione di schiantare per davvero qualcuno. Così come lui era stato capace di difendermi, ora sarei stato io a difendere uno dei miei compagni.

Quella creatura, però, in un battito di ciglia, era già sparita nel fitto della foresta e della nebbia.

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Capitolo 24
*** Ventiquattresima Parte ***


24/50

I corridoi del castello sono lunghe arterie buie nelle quali perdersi. Le scale girano, cambiano, fanno di testa loro. Non è sempre facile darsi appuntamento fuori dalle stanze, di notte, e aspettarsi la puntualità quando anche i quadri vanno a dormire.

La rimessa per le barche costituiva un luogo relativamente sicuro dove incontrarsi, abbastanza lontano da professori insonni e raggiungibile dai dormitori in poco tempo. Le acque placide del lago, inoltre, mi erano d'aiuto. Ascoltando il pigro sciabordio allentavo la tensione. 

In parte celata tra le nuvole, la luna cresceva verso il suo apice. Ci sarebbe stata la luna piena entro tre giorni e già il sangue cominciava a ribollire.

Temevo solo una cosa, là fuori: di essere osservato. Non dai professori, o dal Preside o i compagni, ma dalla creatura che ancora si aggirava per i boschi. L'intera scuola ne era stata informata e Silente aveva disposto di fare attenzione, rispettare il coprifuoco e bla bla bla. La verità era che aveva incaricato la professoressa Black, il professor Zittawack e Hagrid di stanare la Megera. "Una creatura infida e pericolosa" aveva detto. Quello che avevo saputo io, invece, era un po' diverso. Ma cosa poteva saperne un ragazzino con un'idea buona solo per le voci di corridoio?

Il pontile scricchiolò sotto al peso di passi leggeri.

- Magnus, finalmente - bisbigliai, uscendo allo scoperto da dietro una catasta di botti. Il mio disappunto fu violento, nel trovarmi di fronte un cespuglio di capelli asimmetrici. - Che cosa diavolo ci fai tu qua? -

- Potrei farti la stessa domanda - rispose Alastor Moody. - Fa freddo e l'umidità ti entra nelle ossa. - Sputò nell'acqua, mancando di poco una misera barchetta di legno ormeggiata. Poi mi allungò da sotto il mantello una fiaschetta cucita a mano. - Sorsino? -

- Dovresti essere a letto - insistetti io.

- E tu pure. Vogliamo continuare questo gioco per molto? -

- Io devo incontrare una persona. -

- Immaginavo non fossi preda di un attacco di romanticheria. Bevi la cioccolata calda. Ci ho messo anche un po' di cannella. -

Non volevo nient'altro che se ne andasse. Avevo già messo sufficientemente in pericolo Magnus e Driade, con la nostra caccia al tesoro. Per non parlare di Hagrid. Dall'inizio dell'anno coglievamo ogni occasione per infilarci dove non avremmo dovuto, sulla pista degli interessi equivoci di Silente. Diligentemente accumulavamo informazioni, piccole o grandi, mentre Driade le catalogava con cura. Continuavo a pensare che saremmo stati presi, prima o poi, espulsi e anche peggio. Temevo saremmo stati tacciati come traditori, forse persino collaborazionisti, immischiati negli attacchi degli esseri senzienti a danno dei maghi in tutta l'isola. Avrebbero scoperto la mia natura e poi...

- Alastor, tornatene al castello. Non sono affari che ti riguardano. -

- Questo è un parere. Io ne ho un altro, vuoi sentirlo? -

- No. -

- Io dico che c'è del marcio, in questa scuola. Ce l'hanno tutti sotto agli occhi, ma non vogliono vederlo. -

Senza aver fatto alcun rumore, improvvisamente, Magnus comparve nella rimessa. Alla luce pallida del cielo notturno sembrava un fantasma. Bacchetta alla mano, puntò Moody. - Lo vedo io, qualcosa di marcio. E ora gli faccio fare un bella nuotata nel lago. -

Alastor non si scompose, ma alzò le mani e la sua fiaschetta. - Lovegood. -

- Che ci fa questo ficcanaso qui? - mi domandò Magnus, irritato.

- Credo mi abbia seguito fuori dalla Sala Tassorosso. -

- E ora che ne facciamo? Non può stare qui mentre... discutiamo. -

Il vento spirò abbastanza forte da aprirci i mantelli come le ali dei corvi. Alastor, il cui ultimo pensiero doveva essere stato quello di farsi sistemare i capelli, in parte potati dalle cesoie della Megera, abbassò le braccia. - So già più di quanto immaginiate voialtri. Fatti un favore, Lovegood, abbassa quella bacchetta. -

- E che vorresti sapere, tu, topo di biblioteca? - chiese Magnus, più divertito che perplesso.

- Delle antipatie del Ministero verso gli esseri senzienti. Delle brutte cose che sono accadute qui durante la guerra. Del fatto che gente come la Black dovrebbe marcire ad Azkaban, piuttosto che poggiare il suo grasso culone su una cattedra a Hogwarts. - Poi mi guardò, come se tutti i misteri del mondo fossero solo uno scherzo per lui. - O che tu sei un lupo mannaro, per esempio. -

Il cuore prese a martellarmi nel petto. Come poteva sapere una cosa del genere? Ero stato accorto, Hagrid mi aveva sempre aiutato... per scoprire infine che era stato tutto inutile! La mia vita sarebbe potuta finire in un istante, se avesse aperto bocca con le persone sbagliate. E le persone sbagliate erano praticamente tutti.

Magnus sembrò fare lo stesso pensiero. Si avvicinò lentamente, sempre tenendo la bacchetta puntata alla pancia di Moody. Aveva quel suo solito volto inespressivo, di un altro mondo, come la sua mente imperscrutabile.

Si avvicinò guardandolo negli occhi e, con il braccio, scattò.

Afferrata la fiaschetta di Alastor, tolse il tappo con i denti e ingollò una calda sorsata di cioccolata.

Espirai tutta l'aria che avevo nei polmoni, colmo di tensione. Magnus sorrise e mi invitò a bere. - No, grazie, - gli risposi - non mi piace il sapore del cioccolato. -

Per qualche minuto, la serata sembrò prendere una piega più serena. In tre, con le gambe a penzoloni dalla banchina, ci sentivamo a nostro agio. Io un po' meno, con il mio costante formicolare dei nervi, ma tentai di non farci caso. La luna piena si stava avvicinando: era normale sentirmi agitato. La Furia dava le prime avvisaglie, ringhiando e scalciando in lontananza. Mi veniva incontro a grandi passi, ululava, graffiava, sbuffava...

- Come hai fatto a sapere di queste cose? - domandò a un certo punto Magnus ad Alastor, entrambi con lo sguardo rivolto ai monti.

- Non sono stupido quanto te. - Un istante di silenzio e poi Moody allargò un sorriso su quel volto di legno grezzo.

Magnus non aveva la minima intenzione di accettare la battuta. Corrugò la fronte e si accigliò, come non gli avevo mai visto fare. - No, sul serio. Stai sempre con il naso fra i libri e noi siamo più che attenti. Non ci sono riusciti i professori, ad accorgersi di noi. Non ancora, almeno. Quindi non puoi avercela fatta tu. - Il labbro di Magnus tremava, in preda a quella che scambiai in un primo momento per rabbia. - Chi te le ha dette queste cose? -

Alastor, il ritratto della serenità, si dondolò sulle braccia, prima di tirarsi in piedi. - Me le ha dette lui. Ignavus. - Non avevo mai udito la sua sincera risata. Posso giurare di essermene accorto immediatamente: nemmeno in quel momento pensai di poter scambiare il latrato osceno che fece per la vera voce di Alastor Moody.

Sia io che Magnus fummo presi dal panico. Balzai indietro, mettendo distanza fra me e l'ammasso di carne ribollente che era stato il mio compagno di Casa. La faccia gli si stava gonfiando, mutando, allungando fino ad assumere nuove e più primitive spoglie. Ebbi una sensazione terribilmente familiare nel vedere un individuo cambiare aspetto ma, invece che trovarmi faccia a faccia con zanne e artigli, alla fine della mutazione ciò che avevo di fronte erano le rachitiche spoglie di una vecchia orripilante.

Ero pronto allo scontro, bloccato fra la creatura e il lago. Invece che combattere, però, fui pietrificato dalla più forte delle magie: la paura. Magnus strisciava sul pontile, incapace di reggersi sulle gambe. Si reggeva la testa, afflitto da dolori e spasmi. I muscoli di gambe e braccia si contraevano da soli... e un Billywig, uscito da sotto la gonna della Megera, ronzò fulmineo verso di lui, infilzando il pungiglione nel collo scoperto.

Urlai con ferocia, infischiandomene della possibilità di essere scoperto a violare il coprifuoco. Nel tentativo di soccorrere Magnus provai a scartare la Megera di lato, scoprendo quanto il corpo da vecchia deforme fosse solo questione di estetica. Di certo non era prestante, ma si mosse velocemente per sventolarmi di fronte al naso un dito contrariato.

- No, proprio no, piccolo lupo - disse con voce stridula. - Se tentassi un'altra volta, il tuo amico ne risentirebbe. Un puntaspilli per la vita diverrebbe, un destino triste e cupo. -

Impugnai la bacchetta saldamente, facendo memoria di tutti gli insegnamenti appresi fino a quell'istante nell'arte del duello. Ci vollero pochi secondi per passare a scandaglio i due incantesimi che conoscevo. Nonostante la Megera non portasse alcuna bacchetta, ero io a sentirmi completamente indifeso.

- Torcigli un capello e ti verrò a cercare con la luna piena. - Magnus aveva cominciato a levitare come una prugna-dirigibile attaccata a un ramo secco dalle dita fameliche.

- Non è mio interesse, se vuoi capirmi. I piani a lungo fermi han fatto adirare colui che tesse. -

- Smettila di recitare filastrocche! Cosa vuoi? Perché ti ha mandato qui? - Ero fuori di me, sull'orlo della Furia anche senza essermi trasformato. Pensai che avrei potuto farcela, così come avevo ucciso quel ragazzino al Palo del Martire. Strapparle il naso adunco dalla faccia e infilarle i pollici negli occhi fino a sentire il sangue colare sulle mie mani... avrei potuto, ma non evitando conseguenze irrimediabili per Magnus.

La Megera, con un gesto, fece scivolare il mio amico fin sulla barchetta sgangherata. Poi allungò le gambe, lunghe zampe ossute d'insetto, e mi rivolse un ghigno agghiacciante. - Non puoi sfuggire te stesso per sempre. I clan sono tornati e fuori abbiamo visto Silente. Ora sai come lui vi ha trattati, non puoi far finta di niente. Ti aspetto sotto la tua grande luna: o porti la guerra o lui vola per sempre. -

Con un gesto leggero cominciò a far muovere i remi. La barca si allontanò lentamente, nell'oscurità, lasciandomi solo sul pontile, senza idea di cosa stesse accadendo o di come porvi rimedio.

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Capitolo 25
*** Venticinquesima Parte ***


25/50

***

28 Febbraio 2010

Spinner's End - Cokeworth

Inghilterra

Salvador Arcan salutò con un rispettoso cenno del capo la signora Mallory, chiedendosi se mai fosse possibile che, dietro quel barile di grasso e lentiggini, si celasse un altro Auror in incognito. Sembrava non avesse null'altro da fare se non raccogliere le rape, in particolar modo la domenica. Probabilmente era più sensato estrarle dalla terra alla fine della settimana, invece che all'inizio. Chi vorrebbe mai incappare nella propria fine mentre principia una nuova, piccola, avventura?

Attraversando la strada grigia e sporca, Salvador si affacciò oltre la staccionata dell'orticello.

«Quelle rape sono davvero orripilanti, signora Mallory.» Cercò nel cesto se ce ne fosse almeno una non guasta, senza successo. Le foglie erano verde marcio, mollemente inchinate al gramo destino.

«Cosa vuole che cresca, in una terra così?» rispose la donna con un sorriso obeso. «L'aria è di fumo e nebbia, l'acqua piena di rifiuti. La terra dovrebbe essere diversa?»

«Perché coltivare, allora?» domandò Salvador inarcando le sopracciglia.

«Dovrò pur mangiare. Non crede?»

Da quando si era trasferito a Cokeworth, su espresso e ostinato consiglio di un amico fedele, Salvador aveva lentamente cominciato a percepire la cancerosa mano della prigionia afferrarlo per la collottola. Senza poter più frequentare i vecchi circoli, le vecchie compagnie, stava perdendo di vista il senso di affidarsi completamente al Ministero. "Forse," pensava ogni tanto "e solo forse, quella bestia non aveva tutti i torti". La casa assegnatali era piccola, angusta, costruita con opprimenti e smunti mattoni accatastati l'uno sull'altro, ma secondo il capo dell'Ufficio Auror era un luogo sicuro. Salvador aveva riempito la libreria con ciò che era riuscito a portarsi dalla vita precedente. Ben poca cosa, se paragonata al lustro guadagnato in tanti anni di duro lavoro.

Da quando aveva messo piede nel salottino, uno squittio stridulo si era alzato per accoglierlo. Dietro a una bassa rete di fortuna, che regalava a una famiglia di Purvincoli metà della stanza, proveniva quel richiamo capace di sciogliergli la tensione nel cuore.

«Almeno voi mi riconoscete anche con questa orrenda barba.» Sollevò Jenkin con attenzione: era il suo preferito. L'unico che mostrasse qualche interesse anche dopo essersi riempito la pancia. «Guardami un po' come sono ridotto» disse al Purvincolo eccitato. Quello alzò il musetto e, senza esitare, cominciò a rosicchiargli la punta della barba grigia e arruffata.

Il pomeriggio passò e Salvador si prese cura delle proprie bestiole. Nella dispensa, mezzo pasticcio di zucca stava cambiando colore in un verde inquietante.

«La bottiglia andrà bene» disse fra sé, andando a sistemarsi sulla poltrona. A ogni sorsata non riusciva a far altro che fissarsi le mani, ormai prive di qualsiasi macchia d'inchiostro. Stava maturando l'idea di eliminare gli specchi, in casa. Davano troppo disturbo e lo costringevano a porsi domande ogni volta che incrociava l'uomo che viveva dall'altra parte. Al giornale avevano creduto davvero alla storia della pensione? O forse le inimicizie negli anni erano cresciute abbastanza da far semplicemente alzare le spalle ai colleghi, pronti a voltargli le spalle e a litigarsi i resti dello spazio lasciato vuoto?

Un altro sorso e si sentì stanco. Fissò la bacchetta, abbandonata sul tavolo come una comune posata. "Ho fatto bene" si ripeteva. "Ma non ho idea del prezzo che mi toccherà pagare."

Un nuovo sorso e si addormentò.

Al calar delle tenebre, lo strillo soffocato dei Purvincoli lo svegliò di soprassalto. Le imposte scricchiolavano sotto la spinta bruta del vento: nell'aria c'era l'odore della tempesta. Filtravano sospiri di fantasmi attraverso i passaggi aperti nella vecchia e brutta casa, incapace di tenersi le cose dentro... così come di tenerne altre fuori.

«Salve, Cornelius.» C'era un uomo nella stanza, appoggiato alla libreria, ricurvo sulle pagine aperte di un volume impolverato.

Salvador strofinò gli occhi, indeciso se ancora stesse sognando. «Chi?»

«Suvvia,» rispose l'ombra dalle spalle larghe «non mi prendere per il culo.» Lanciò il libro come fosse spazzatura e il tonfo risvegliò del tutto Salvador.

«Mi chiamo Salvador Arcan. Cosa ci fate in casa mia? Chi siete?»

Il gorgoglio minaccioso dell'uomo, intento a perquisire distrattamente la stanza, mise a Salvador i brividi. Gli rivolgeva la parola, ma agiva come se non ci fosse nessun'altro. Tra le ombre, appariva come un energumeno brutale, animalesco. «Come preferisci, Cornelius. Ma puoi risparmiarti la farsa. Pensi che basti un nome farlocco e farti crescere la barba, per sparire nel nulla?» Scostò il quadro di un'impaurito giovinetto dalla parete, prima di lasciarlo cadere per la delusione di averci trovato dietro solo altri mattoni. «Per i fessi della Gazzetta del Profeta, forse.»

L'artiglio gelido del terrore prese alla schiena Salvador (che non era mai stato bravo a mentire sotto pressione). Si lanciò in corridoio, rinunciando a ogni senso che non fosse adatto alla fuga. "Non è qui, non può avermi trovato" sussurrava da solo, ripetendo ossessivamente lo stesso pensiero.

Il corridoio portava alla porta di casa. Una casa piccola, facile da controllare, dove una sola donna, alta e dalla pelle ramata, poteva impedirgli di abbandonare la nave. Cornelius allora si gettò nella stanza a fianco, sperando di arrivare a una finestra. Il sudicio vicolo sul lato occidentale della costruzione sarebbe bastato a portarlo lontano, almeno fino al rifugio sicuro. Dove diavolo erano finiti gli Auror? Dov'era Garrick, che doveva piantonare Spinner's End notte e giorno?

Cornelius si ritrovò a immaginare dove potesse essere finito. Non avendone qualche certezza, ma basandosi esclusivamente sul modo in cui un ragazzo sovrappeso lo guardò negli occhi, quando ci sbatté contro. Stava distendendo l'ultimo Purvincolo sul tavolo, con una luce verde che scemava rapidamente dalla punta della bacchetta.

«Keziah...» bofonchiò Cornelius, nello scorgere il vuoto nell'occhio spento della matriarca. Il roditore teneva la bocca spalancata, con uno spasmo di terrore innocente, totalmente ignara di quale destino la stesse attendendo oltre l'angolo. Per un istante, a Cornelius venne in mente l'anziana madre e si domandò se l'avesse salutata prima di partire.

«Allora, Cornelius. Facciamo in fretta.» Il lumos dell'energumeno rischiarò i volti di tutti. «Non ho molto tempo per fare domande.»

«Non ho detto niente, lo giuro» blaterò Cornelius, tentando di mantenere un briciolo di dignità. Le ginocchia tremavano ed era pronto a piangere e implorare, pur di salvarsi la vita.

«Oh, ma lo so. Per questo siamo qui. Giusto, Mandor?»

«Giusto, Hati» rispose in automatico il ragazzo in sovrappeso. La voce limpida lo fece sembrare ancor più giovane di quanto dovesse essere.

«Allora dimmi, caro Cornelius: dov'è mio padre? Mi sta cercando?»

Una fitta alla mano e l'ex giornalista della Gazzetta del Profeta si tirò verso la parete. Dove aveva lasciato la bacchetta? «Non lo so, lo giuro. Quando gli Auror mi hanno salvato era a Liverpool. Ma è scappato. Non so altro.»

Hati ridacchiò, fissando il pavimento. Era come se gli ingranaggi nel cervello stessero elaborando una risposta. Quando finì, spinse il braccio di quercia sul petto di Cornelius e lo schiacciò contro i mattoni della sudicia casa. «Ho detto che non ho molto tempo per le domande. Preferisci il crucio

Nei mesi passati in isolamento, allontanato dalla società civile a scopo di protezione, Cornelius aveva avuto occasione di interrogarsi a fondo sulle intenzioni di Fenrir Greyback e sull'incredibile storia di che gli aveva raccontato. Un'idea, se l'era fatta. Così cominciò a parlare.

«L'Ufficio Auror mi ha messo sotto protezione, con l'esplicito patto di non divulgare quanto raccontato da tuo padre. Per questo non l'ho detto a nessuno. Mi hanno spedito qui, con l'intento di tenermi al sicuro. Ma forse non sanno esattamente fare il loro lavoro.»

«Dimmi quello che non so, veloce» ringhiò Hati.

«Si è smaterializzato davanti ai miei occhi. Non so dove sia finito, lo giuro. Ha portato con sé una mia collega.»

«Come si chiama?»

«Megan Jones» rispose Cornelius, chiedendosi se veramente non lo sapesse. Aveva cominciato a sospettare che ci fosse almeno una talpa alla Gazzetta, ma se così non fosse? Come aveva fatto il criminale a trovarlo?

«Chi c'era con lui? Burke, sicuro. E poi?»

«Non lo so. Non conosco quella gente. Mi stai soffocando!»

«Sforzati un po' di più, spremi le meningi.» Hari gli puntò la bacchetta alla gola e fece pressione.

«Ho sentito due nomi: Najata e Skoll. Non so altro su di loro e comunque non dirò niente! Non io almeno. Se vuoi mettere a tacere la cosa devi trovare la ragazza. Lei, lei è il tuo problema.»

«Tu pensi di conoscere i miei problemi? Eh, Cornelius?»

«N-no, intendevo...»

«Non è la prima volta che il grande Fenrir ci prova. Ma che sia scritto su un diario o raccontato ai giornalisti, non fa differenza. Finisce sempre tutto nelle mie mani. E questa volta non potrà impedire l'inevitabile.»

Hati, lasciata la presa, fissò intensamente Cornelius negli occhi. "Non assomigliano per nulla a quelli di Fenrir" pensò Cornelius. La bestia che si nascondeva nei panni dell'uomo rozzo che aveva di fronte era di un altro stampo, di una risma più primitiva.

«Ultima cosa. Hai scritto quello che ti ha detto? Hai messo su pergamena le storielle idiote che ti ha raccontato?»

Cornelius, naturalmente, non l'aveva fatto. Aveva seguito le istruzioni che il capo dell'Ufficio Auror, Harry Potter, gli aveva consigliato. «No. Puoi stare tranquillo.»

«Lo sarò quando avremo fatto la nostra rivoluzione. Ma ti credo.»

Alzò la bacchetta con pacata ferocia, la puntò sul vecchio giornalista e la agitò per risolvere definitivamente l'ennesima, spinosa, questione. «Avada Kedavra

 

***

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Capitolo 26
*** Ventiseiesima Parte ***


26/50

 

L'unica persona di cui potevo fidarmi era anche la sola che non avrei voluto coinvolgere.

- Non esiste possibilità che ti lasci andare da solo. - Driade mi afferrò per i polsi e mi guardò dritto negli occhi. - Magnus è anche amico mio. -

Davanti alla sua sincera preoccupazione ero più inerme che fra le zampe di un drago. - È troppo pericoloso. La Megera attaccherà, lo so. Non voglio averti attorno e dover pensare a badare anche a te. - La verità, in quei momenti, ancora mi sfuggiva. Me ne sarei accorto più tardi, con il passare del tempo. La premura e l'affetto nei confronti di Driade aumentavano ogni volta che si imbronciava per il mio comportamento ruvido o che si lasciava andare a ballare da sola, di fronte alle fiamme del camino, nella Sala Comune Tassorosso. Per gli altri ragazzi erano momenti di imbarazzo e qualcuno, come Diggory, si prendeva anche gioco della meravigliosa creatura che era Driade. Forse il sangue di lupo mi faceva maturare in fretta, o forse i ragazzi sono davvero semplicemente stupidi, ma dal suo fascino io ero stato profondamente ferito... e sanguinavo.

- Ti continui a comportare come un lupo, Fen - mi disse, usando quel nomignolo che a lei faceva tanto ridere. - Ma ti svelo un segreto: non siamo un branco. Tu non comandi un bel niente. - Allo scoccare dell'ora, si diresse a lunghi passi verso la Torre di Astronomia, lasciandomi nei corridoi affollati. - Ci vediamo dopo cena, ai piedi della Guferia! -

Di motivi per i quali mi dovessero tremare le vene ai polsi ne avevo un calderone. Cosa voleva la Megera da me? Le sue stupide frasi in rima mi erano entrate da un'orecchio e uscite dall'altro: non riuscivo a ricordare le parole. Aveva parlato di Ignavus e della sua impazienza, mancando completamente di offrirmi un elemento di riflessione. Perché rapire Magnus? Il vecchio pazzo era davvero disposto a sacrificare suo nipote, in nome di una lotta personale, un conflitto che comprendeva le creature magiche, la guerra passata e il Preside di Hogwarts? In tutto questo, però, mi domandai, come poteva essere stato coinvolto Ignavus Lovegood?

Le nubi in cielo correvano come dei Granio al galoppo, spinte dal vento secco dell'entroterra. Oramai avvezzi alle fughe notturne, io e Driade attraversammo silenziosamente il verde prato, indirizzati verso la foresta. Come luogo dell'appuntamento, potevamo solo sperare nel desiderio di trovare meno trambusto possibile da parte della creatura. Oltre le mura della scuola, avrebbe potuto aggredirci in molti posti: ai margini degli alberi, alla rimessa per le barche, sulle rive del lago o fra i costoni di roccia sporgente. Eravamo intenzionati a percorrere in lungo e in largo le possibilità, fino a che non avessimo trovato Magnus.

Mi mancò l'esperienza, l'intelligenza (o l'età, se preferite), per cogliere il senso di quella sera e il piano dell'orribile vecchia. Fui colto impreparato quando, ancor prima di sgattaiolare oltre la cinta di pietra, vidi sbucare dalle ombre la sagoma crudele della Megera. I capelli secchi le cadevano ai lati della testa come una capanna di spine, dalla quale sbucava il naso ricurvo e appuntito come un pugnale. Nella quiete, potevo sentire le vibranti ali dei Billywig sotto la sua gonna di cenci.

- Come vedi, sono venuto. Dov'è Magnus? - Non riuscivo a vederlo. Nell'aria gli odori si mescolavano in strane note fastidiose e la copertura delle nubi oscurava le stelle.

- Sei venuto, questo lo vedo - rispose la Megera. - Anche se non ci credo, hai portato un aiuto. -

Driade aveva già impugnato la bacchetta. La sua mano stringeva fortissimo, nel tentativo di non tremare.

- In ogni caso, qui c'è il tuo amico, - continuò la creatura, allungando le dita fin sotto la gonna - ma io te lo dico: per chi alla verità rinuncia, la morte si annuncia. - Estrasse una bottiglia, grande abbastanza da contenere un Pixie. La agitò proprio di fronte ai nostri nasi, come se si aspettasse che ne distinguessimo il contenuto. - Forse è ferito, forse è allarmato, forse è pronto per un bel travaso. -

Un terzetto di Billywig ronzò intorno alla bottiglia, mentre la Megera dai denti rotti la scuoteva divertita. Impiegai qualche istante prima di comprendere. Con la luce giusta, l'ombra del contenuto si disegnò come una figura umana. Flebile e lontanissimo, lanciava un grido disperato.

La Megera lanciò allora la bottiglia a metà strada, sul prato.

- Fen! Lì dentro c'è Magnus! - La voce di Driade era come le unghie sulla lavagna, strappata fuori dai denti stretti. 

Non avevo mai visto una cosa del genere. Per alcuni istanti riuscii solo a pensare alle lezioni: come potevo riportarlo al sicuro e alle dimensioni naturali? Cosa gli aveva fatto quella creatura? Avrei voluto correre da Lumacorno e scoprire quale arcano artificio avesse rimpicciolito Magnus e se fosse possibile salvarlo. Volevo, ma non lo feci.

Il sangue mi pompava nella testa più potente di qualsiasi incantesimo.

Alzai la bacchetta e Driade mi seguì a ruota.

- Liberalo! - urlai in faccia alla Megera.

Quella, con le mani a coppa, stava facendo bere i propri insetti. Gettò poi una fiala a terra, si buttò nella gola il contenuto di un'altra, e solo allora si decise a rispondermi: - Sono venuta a liberare te, non lui. -

I Billywig si gonfiarono, ingrandendosi una, due, dieci volte. In pochi istanti, i minuscoli insetti erano diventati grandi come aquile, con occhi neri e profondi e zampette acuminate. In un batter d'ali, si fiondarono su di noi.

Istintivamente balzai in avanti, a braccia tese verso la bottiglia-prigione. Dovevo portare Magnus in salvo, prima che nella battaglia il vetro andasse in frantumi e lui finisse schiacciato da un insetto da galoppo.

Stupeficium! - lanciò Driade, centrando uno dei Billywig. Alle loro attuali dimensioni, non erano veloci come prima. Eppure, una delle bestie fu sufficientemente rapida da arrivare alla bottiglia prima di me e sottrarmela con una virata verso il cielo.

Urlai di rabbia e frustrazione, con la bacchetta puntata. Non potevo colpirlo, non così in alto: se avesse lasciato cadere la refurtiva, avrei dovuto comprare per Magnus la bara più piccola del mondo.

- La bacchetta! La bacchetta! Hai imparato a usare il legno? Lo sai che è uno sfregio in faccia a noi e in faccia a lui? - La Megera gracchiava, avanzando verso di me. Era alta, questo sì, ma il mio polso era largo quanto il suo collo. Ebbi tutto il tempo di lanciare il mio incantesimo per difendere Driade, più scattante e caotica degli insetti, prima di alzare il braccio sinistro a riparo dal colpo della vecchia mostruosa.

La violenza stupefacente con la quale mi investì per poco non mi fece svenire. Fui sbalzato dalla forza sovrumana della Megera, incapace di comprendere da dove arrivasse tutta quella brutalità.

- Piccolo, sveglia! - urlava, colpendomi ancora.

Quel che potevo fare era schivare i suoi colpi feroci, ripararmi dietro gli incantesimi. Il mio stesso sangue colava dalla labbra. Ne sentivo il gusto nella gola. Forse mi aveva spaccato il naso.

- Sveglia! Sveglia! - continuava la Megera. - Ci sono i tuoi amici! -

La patina vermiglia della Furia calò dentro agli occhi. Il cuore pompava, le ferite bruciavano e un solo pensiero schiacciava gli altri.

- Fen! Fen! - Driade allontanò nuovamente il lungo pungiglione del Billywig. Si destreggiava bene, con grazia e potenza. Ma sul volto sembrava sull'orlo del precipizio. - No, Fen! Resisti, ti prego! Non cambiare! -

Digrignai i denti, mentre la nube sopra le nostre teste correva via spaventata. - Non avere paura, Driade. Io sono sempre io. - 

Sotto la luce della luna, assunsi la vera forma della mia gente, squarciando i vestiti, spalancando le fauci alla notte, artigliando il terreno. Il flusso dei pensieri si interruppe e caddi nel mare burrascoso degli istinti. Per quanto lei potesse pensare diversamente, non avevo mentito a Driade. Io ero diverso da mio padre. Io non l'avrei azzannata alla gola, come se fosse un'ombra indistinta fra le tante. Perché anche nella Furia, nel rollio della barca in burrasca fra vita e morte, riuscivo a riconoscerla.

Ciò che non riconoscevo erano le silhouette apparse al limitare del campo, brandendo torce e grida come piccole spaventate creature. Alcune erano alte, la maggior parte basse, alcune col cappello a punta e altre con lo sguardo severo e il panciotto. Una si fece strada, nel mezzo, con la lunga barba da vecchio che si agitava nel vento.

Non mi importava niente di loro.

Mi importava del pungiglione del Billywig vicino al volto di Driade.

Saltai e colpii, dilaniando e mordendo. Sentii il gigantesco ago infilarsi nel fianco, sotto alle costole, penetrando pelliccia e muscoli. Alle mie spalle, grigia come un fantasma e dagli occhi infuocati, Driade era protetta. E l'insetto era mio.

Lo spezzai in due con la forza delle mani artigliate. La Megera tentò di schiantarmi nuovamente, come aveva fatto in precedenza. Mi sembrava tanto lenta, in quel momento. Così lenta che la ricordo ridere stupidamente, guardando me e la folla. Urlava improperi, spiegava le proprie ragioni, sollevando le braccia alla luna e tentando di rompermi il cranio.

Le fermai le braccia, che ora non sembravano più tanto forti. Quella blaterò qualcosa che non compresi. E io la fissai negli occhi, rimestando nella torba della sua anima oscura.

Mi chiesi solamente, mentre saggiavo il disgustoso sapore della sua carne, se stesse ripensando alla scelta di combattere sotto il segno della luna piena. Forse era per quello che rideva mentre moriva. 

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Capitolo 27
*** Ventisettesima Parte ***


27/50

***

17 Gennaio 2010

Notturn Alley - Londra

 
   Quando la porta de La Viverna Bianca si spalancò, fu come se il gelo dell'inverno più profondo avesse cristallizzato i presenti con un soffio.
   - Adesso basta. - Gli scarponi di Fenrir risuonarono sul pavimento di legno, pesanti come macigni. Al suo fianco, la giovane Najata passò gli occhi su ognuno dei maghi e delle streghe e un brivido attraversò più di una mente. Qualcuno si preparava a uno scontro. Ma Fenrir teneva lo sguardo fisso sulla giornalista della Gazzetta del Profeta.
   Mentre le testoline appese al bancone diffondevano un basso chiacchiericcio incomprensibile, Corvinus drizzò la schiena. - Finalmente, Fenrir. Cominciavamo a pensare che volessi stare lontano dal branco. -
   - Questa storia - continuò imperterrito Greyback - non è per spettegolare attorno al fuoco. E non è per loro. -
   Megan, la più indifesa e spaventata dei presenti, si rimise a sedere, pentita della propria narrazione.
   - Ti stava difendendo - disse Rolf Carrow, cogliendo l'occasione. - Se riesci a rendertene conto. -
   La tensione faceva tremare i peli sulle braccia ai due branchi di licantropi. Si erano quasi saltati alla gola, prima di calmarsi al suono del racconto, ma per quanto fossero interessati, nessuno aveva cambiato le proprie convinzioni per così poco.
   Fenrir si aggirò per la stanza guardando tutti dall'alto in basso. Sosteneva lo sguardo di Corvinus, l'altro capobranco, con la cassa toracica che si espandeva ritmicamente come un mantice. Arrivò al bancone, zittendo con la sola presenza persino le testoline.
   Con un gesto fulmineo, sfoderò la bacchetta con una mano e afferrò per il collo Rolf con l'altra.
   Sulle sedie, sui tavoli o saldamente piantati sulle proprie gambe, tutti i lupi mannari scattarono sul piede di guerra. Najata ringhiò, snudando i denti come avrebbe fatto in forma bestiale, tenendo sotto tiro metà del branco di Corvinus con la propria bacchetta.
   - Hai qualcosa da recriminare, Carrow? - Sentendo il pugno di Fenrir stringersi, Rolf cominciò a tremare, lottando per non cedere alla paura.
   - Dico... solo... quello che pensano tutti - rantolò. - Corvinus... diglielo. -
   Bacchette alla mano e tendini tesi, i branchi aspettavano solo un cenno, un comando da parte dei leader, per scatenare un'orgia di sangue. Ma Corvinus non parlò.
   Fenrir puntò la bacchetta alla guancia di Rolf. - Basium argenti. -
   Dalla bocca di Rolf Carrow uscì un fumo caldo e sfrigolante, un alone argentato e luminoso come in una fornace . Si alzò verso il soffitto, nell'interdizione generale. Poi, cominciarono le urla.
   Bloccati dal terrore e dall'incertezza, nessuno osava intervenire. Il Grande Capobranco strinse gli artigli e torturò a proprio esclusivo piacere per un tempo apparentemente interminabile, ignorando le grida di dolore, gli spasmi e i tentativi di ribellione. Non diede alcuna importanza a chi stava a guardare o a chi potesse udire le richieste d'aiuto all'esterno. Continuò, fino a che dalla gola di Rolf non uscì solo un gorgoglio inespressivo.
   Lo lasciò cadere a terra, osservando disgustato il tentativo di strisciare lontano. - Corvinus. Tu sei il capobranco. Se vuoi dire qualcosa, questo è il momento. -
   - Io e gli altri ci stavamo chiedendo... - rispose quello, con la consueta durezza - ...quali fossero le prossime mosse. -
   Najata si insinuò fra i due capibranco, con il naso arricciato e i denti in mostra. - Dove hai lasciato il rispetto, Corvinus? -
   Lui inspirò a fondo e, senza esitare, disse nuovamente: - Cosa vuoi che facciamo, Grande Alpha? -
   Fenrir prese una bottiglia di liquore e la stappò con un morso. - Voglio che vi ricordiate chi siete e per cosa combattete. Quindi smettetela di comportarvi come dei cuccioli piagnucolosi. - Li fissò tutti di nuovo. Erano impressionati, impauriti, sperduti. - Lo so, cosa pensano alcuni di voi. E so anche che a qualcuno possa sembrare convincente il richiamo di Hati. -
   Najata gli poggiò una mano sul braccio, più dolcemente di quanto avesse voluto. - No, Fenrir. Abbiamo un solo Grande Alpha. -
   - E così deve essere. Hati si è smarrito. Lo so, perché anche io ho corso lo stesso rischio. Io c'ero, quando il mondo magico è entrato in guerra. Ero al Ministero, quando Voldemort ha preso il potere. A Hogwarts ho ucciso, in nome dell'idea folle del Signore Oscuro. Tutto per niente: il mostro è caduto, noi siamo stati trattati anche peggio di prima. Quanti sono morti dei nostri? Quanti, perché il Signore Oscuro capisse che non si può spazzar via gli indesiderati dalla faccia della Terra? Ci aveva provato il Ministero sessant'anni fa, ci ha provato lui dieci anni fa e prima ancora... e ora vuole provarci Hati. - Bevve una sorsata abbondante dalla bottiglia, poi puntò il dito verso Rolf Carrow, che si reggeva a uno sgabello con le mani sulla bocca. - Se volete dimostrare di essere dei coglioni senza cervello, fate pure. Ma abbiate almeno il coraggio di fare una scelta. -
   Vitula Maxime, Harry, Octavius, tutti quanti rimasero in silenzio a contemplare il capobranco, domandandosi se fosse davvero diventato debole. Se fosse davvero così vecchio.
   Un versaccio gutturale proveniente dal pavimento precedette la ricomparsa nel mondo della veglia di Charlie Burke. Il suono di vetro in frantumi e il suo battere delle mani fu come dare il via libera alla concertina di Xatu. La musica riprese lenta, nascondendo la tensione sotto al tappeto e lasciando respirare i più deboli di cuore.
   - Najata, - le ordinò Fenrir - pensa tu a istruire Cornelius. -
   - Che vuoi fare? - chiese lei, scorgendo una strana smorfia nel viso del capobranco.
   Fenrir la baciò. Un bacio freddo, rapido come un semplice rituale, prima di fare cenno a sua figlia di raggiungerlo di sopra, nelle camere da letto della locanda.
   - Calcifer! - tuonò Fenrir, prima di lasciare la sala e permettere ai lupi di distendere i nervi. - Vieni con me. -
   Nel corridoio, ogni quadro alla parete era stato accuratamente girato contro il muro. Quando passava qualche avventore, si potevano udire strani mugolii provenire dai dipinti, poesie antiche e oscene che irridevano gli ospiti con giochi di parole. I ragni avevano fatto la tela negli angoli bui del soffitto, ma la cosa non pareva interessare a nessuno, tantomeno a Calcifer o a Skoll. I due avevano passato notti in luoghi ben peggiori di quello, senza il calore dei compagni o delle testoline appese alle maniglie.
   - Fenrir non aveva la faccia di uno che vuole essere disturbato! - li rimbrottò la rinsecchita palletta dalle labbra cucite con il cuoio.
   Il barbuto Calcifer la premiò con una schicchera sull'occhio. - Le testoline non dicono ai lupi cosa fare. -
   Greyback aveva abbandonato la bottiglia sulla scrivania, un modesto pezzo di legno spinto contro la parete. Era completamente vuota, diversamente da una piccola fiala adagiata lì accanto.
   Quando Calcifer chiuse la porta, Fenrir sferrò un pugno alla parete, mandando frammenti di legno marcio in ogni direzione.
   Lo sguardo di Skoll svelava ogni suo amaro pensiero. - Padre... -
   - Non ve ne rendete conto, vero? - disse Greyback.
   - Abbiamo ancora la situazione sotto controllo - rispose Calcifer, incrociando le braccia. - Sono ancora dalla tua. Hanno solo bisogno di essere rimessi in riga, ogni tanto. -
   - Questa non è la mia guerra. Io l'ho combattuta già due volte. - Fenrir, imponente, appariva ai due come tutt'altro che debole. Eppure, qualcosa nei suoi occhi fiammeggianti suggeriva il contrario. - Io morirò comunque. Presto. Ma se non vi decidete a farla diventare vostra, sarà esattamente come l'ultima volta. -
   - La storia non può più ripetersi - disse Skoll, insicura.
   - Si ripete sempre. Forse non nello stesso modo, ma accadrà. Hati va fermato, o quella che ne seguirà sarà l'ultima battaglia dei lupi mannari. -
   Calcifer si lisciò la barba grigia. - Noi lo sappiamo, Fenrir. Non è noi che devi convincere. -
   - Non c'è più nessuno da convincere - ringhiò il capobranco. - C'è solo da scendere per le strade e fare quello che va fatto. -
   - Possiamo affrontare Hati. Lui è forte, ma noi siamo di più - suggerì Skoll.
   - Non ne farò un martire. -
   - E allora? Intendi aspettare che ci trovi e ci sgozzi nel sonno? -
   Fenrir piegò il capo verso la boccetta di liquido trasparente. - No. Intendo fare quello che nessuno si aspetterebbe da un lupo mannaro. -
   - Cos'è quella? - chiese Calcifer.
   - Un ricordo. E uno dei motivi per cui possiamo ancora farcela. -
   Skoll sembrava non capire. Era informata di tutto, o almeno, così credeva. - Che ricordo sarebbe? E di chi? -
   - Io, te, Burke e Najata andremo al Ministero, molto presto - continuò Fenrir. - Calcifer, tu devi andare a Durmstrang. -
   - Cosa? Perché devo andare a gelarmi il culo? -
   - C'è un vecchio nemico del nostro nemico... e spero tu possa convincerlo a farti consegnare una cosa per me. -
   Fenrir prese la boccetta del ricordo e la infilò in una tasca sotto il cappotto. Molto presto avrebbe avuto a disposizione tutto ciò di cui aveva bisogno per mettere in scena l'ultimo atto della propria esistenza. Contro tutti, contro tutto. E per la sua gente.
   Incrociando un istante lo sguardo di Skoll, però, percepì il riaffiorare del più terribile dei segreti, una consapevolezza che i branchi non dovevano e non potevano conoscere. Anche se la sua vita stava giungendo al termine, pensò, era sicuro di aver già fatto qualcosa di così grande da dare un senso al suo posto all'inferno.


***

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Capitolo 28
*** Ventottesima Parte ***


28/50

***

Estratto da:
Demonolatria
di Nicholas Rèmi (Remigius)
Anno 1582

[...] È provato che Satana li fornisce di tale forza, ben al di là di quella umana. E così possono con semplicità uccidere persino le bestie più grosse nei campi, e persino divorare carne cruda [...] e in ogni modo imitano la natura degli animali dei quali assumono la forma. Ora, tutto questo non può essere spiegato come un semplice incanto per mezzo del quale i sensi vengono confusi nella maniera descritta, perché lasciano dietro di sé tracce concrete della loro attività.
 

***

Quando ripresi conoscenza, ero sdraiato fra le radici nodose di un albero immenso e avevo la bocca impastata del sapore nauseante della morte. Ebbi paura: non ero alla capanna di Hagrid, non ero all'interno della scuola e nemmeno in qualsiasi luogo in cui fossi mai stato. C'erano solo fronde scure che si piegavano a osservarmi, come un topo di campagna ora perduto nel fitto della foresta.

Sulle braccia e sulla schiena avevo ferite lunghe e tumefatte, frustate violente ricevute durante la fuga. Cercavo di ricordare, ma vedevo solo foglie e rami che mi si abbattevano contro, mentre lasciavo alle spalle, sempre più lontane, voci impaurite, infuriate e violente. Non c'era altro, nel mio sogno ad occhi aperti.

I raggi del sole non sembravano capaci di raggiungere il suolo, in quell'antro verde e grigio. Doveva essere però mattina: gli scriccioli e i tordi cantavano piano, da qualche parte, lontano.

Avevo sete. Mi sembrava ancora di avere le zanne snudate, lasciate a rinsecchire al vento fino a che ogni goccia di saliva fosse evaporata dalla gola. Quando provai a muovermi, ad alzarmi sulle gambe nude, i muscoli non ressero il mio stesso peso. Rotolai a terra, dolorante, fra le foglie. 

Scoprii anche un foro, all'altezza del costato. Era già quasi richiuso. Ringraziai la mia stessa natura e, toccando la cicatrice, ricordai di essere stato fortunato. Quel pungiglione di Billywig non aveva cercato di iniettare veleno (o non solo), ma di trapassarmi un polmone.

La Megera, almeno, era morta. Qualsiasi fosse stato il prezzo da pagare, ero contento di avercela fatta. Immaginai Magnus in infermeria, a chiedersi il perché di tante attenzioni da parte di compagni e professori. In fondo, era solo stato ritrovato dentro una bottiglia.  Una risata da parte dei Serpeverde, prima della sincera preoccupazione di Driade.

Driade. Ero riuscito a difenderla? Tutto ciò che ricordavo era il tentativo disperato di proteggerla. Che paura doveva aver avuto, pensai, nel vedermi trasformare. Nel vedere il mio lato più selvaggio e brutale.

- La parte di me che ci ha fatto sopravvivere - mormorai a voce bassa. E avevo ragione.

Dormii fino a pomeriggio inoltrato, o almeno così credetti. Nonostante il dolore, o forse proprio per quello, mi svegliai con la sensazione di non essere solo. Tesi l'orecchio: nel sottobosco si udivano passi pesanti.

Mi rannicchiai meglio sotto le radici dell'albero, cercando di scomparire, di farmi ingoiare dalla foresta. Sapevo che non c'era modo di passare veramente inosservato, nelle condizioni in cui ero. "La bacchetta!" pensai. Dov'era finita? Non potevo scappare, non potevo combattere, ma avevo ancora la magia. Se solo fossi riuscito a scacciare il velo lattiginoso che mi offuscava la vista...

La bestia, però, fu più rapida.

Colto alla sprovvista, incapace di difendermi, fui assalito da una lingua sbavante e inarrestabile, un naso umido piantato in faccia e uno scodinzolare fragoroso.

- H.! Finalmente! Lucky, buono, buono cagnolino. - Come se uno degli antichi alberi muschiosi si fosse mosso in mio soccorso, così Hagrid si chinò su di me, apparso tra le collinette rocciose e aguzze. - Guarda come ti sei ridotto. Brutta faccenda, brutta molto. Ma ora ci sono io, non ti preoccupare. Saremo al castello in un battito... -

Le sue mani si avvicinarono per sollevarmi, ma io le scacciai. - Non mi toccare, Hagrid. Sta lontano da me. -

Il mezzo gigante si fermò, pietrificato. - Ma sei ferito. Ti devo portare in infermeria! -

- Non mi toccare - era l'unica frase che mi arrivava alle labbra.

Hagrid si rialzò, in tutta la sua imponenza. Si guardò attorno, ben consapevole dei pericoli che correvamo entrambi a starcene fermi in quel posto. - Ascolta, piccoletto... non ti posso lasciare nella Foresta Proibita. Non è posto per... per... e comunque il professor Silente non vorrebbe saperti in pericolo. -

- Ora? Ora è tardi. Per fare quello che avrebbero dovuto fare i professori mi sono condannato da solo. -

- Non dire così, non è vero. -

- Per salvare i miei amici, dentro Hogwarts, dove Silente dovrebbe proteggerci tutti, mi sono dovuto trasformare. Mi hanno visto, Hagrid. E Silente non ha fatto niente. -

- Silente ti ha coperto. Non dovrei dirlo, ma è così. Lui lo sa che sei un lupo mannaro, cosa credi? Che un segreto simile si possa tenere sotto agli occhi di un grand'uomo come Albus Silente? -

- Che cosa? - Non potevo crederci. All'ombra dei rami oscuri della Foresta Proibita, sentivo il sangue ribollire in pieno giorno. - Tu gli hai parlato di me? -

Hagrid sbiancò. Con gli occhi cominciò a fuggire, cercando spazio, sotto la soffocante cappa oscura che nascondeva il cielo. - No. Non proprio. Non volontariamente, ecco. Diamine, lo avrebbe scoperto comunque. -

- Tu mi hai tradito. Hagrid, tu mi hai tradito! - Volevo urlare, ma i polmoni bruciavano e le costole si rompevano mentre allargavo il petto.

- No, no, non è vero! Stai calmo, H., hai addosso tante di quelle brutte botte... la Foresta si difende a volte, quando viene scontentata. E tu sei fuggito, ma nessuno ti ha visto davvero. Il professor Silente doveva saperlo... ha mandato la professoressa Black e il professor Zittawack a cercarti. La scuola ti sta ancora aspettando, non devi pensare che... -

- Dimmi che ne è stato di Magnus e Driade. -

- Loro stanno benone, benone ti dico! Quando il professor Lumacorno ha preso in mano la bottiglia con il piccolo Magnus, be', è stato così curioso della pozione che... -

- Allora torna da loro, Hagrid. Lasciami solo. -

La voce del gigante buono si spezzò. - Ma non ti posso lasciare. Se succede qualcosa? Se ti vede addormentato un'acromantula? Non lo sa che sei vivo e che hai chi ti aspetta a casa. -

Io, però, avevo già chiuso gli occhi. Non potevo guardare quel volto barbuto e arrossato che si preoccupava per me. Avevo un unico pensiero: Hagrid mi aveva tradito. Il mio segreto era nelle mani di Albus Silente, l'uomo chiamato dal Ministero della Magia a porre fine alla piaga delle creature senzienti. L'uomo che che aveva chiuso mio padre in un campo di concentramento. Un mago così assetato di potere che il ruolo di Ministro a lui sembrava un passatempo per sciocchi. E ora mi stava cercando.

- Non tornerò - risposi ad Hagrid, chiudendomi a riccio. - Anche questa notte ci sarà la luna piena. Il mio corpo guarirà da solo. -

- Ma... e poi? Cosa puoi fare, qui fuori, tutto solo? Devi tornare a scuola, H. I tuoi amici ti stanno aspettando! -

Troppo stanco per rispondere, mi addormentai al suono della voce addolorata di Hagrid. Povero, stupido Hagrid. Ero furioso, sì, ma non con lui. Aveva tradito il nostro segreto, ma per questo non aveva messo in maggior pericolo me, piuttosto i miei amici e sé stesso. Si era reso complice e aveva persino confessato.

Sciocco, sciocco Hagrid. Lo respinsi con tutte le forze, costringendolo prima a sedersi a poca distanza, vegliando su di me, poi ad andarsene prima che spuntasse la luna. Se fosse rimasto, lo avrei inevitabilmente ucciso. Facendolo uscire dalla mia vita, invece, lo stavo salvando. Come lui aveva salvato me, tante, tante volte.

Non potevamo più essere complici. Silente lo avrei dovuto affrontare da solo, sia che significasse l'espulsione, la prigionia o la morte.

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Capitolo 29
*** Ventinovesima Parte ***


29/50

***

7 Febbraio 2010

Notturn Alley - Londra
 

   L'acqua nelle vasche era così bollente che i vapori oscuravano la vista e ovattavano i suoni. Megan Jones, sola nei bagni termali del nuovo rifugio alla Bocca dell'Inferno, immaginò di essere tornata ad Hogwarts. Un po' per i richiami al castello, per le vasche di pietra e la sensazione di calore nei ricordi della tana dei Tassorosso, un po' per la nebbia fitta che là ammantava prati e boschi, dove solo il lago offriva, a volte, uno spiraglio di lucidità. Per il resto, era come essere avvolti in un sogno vivido, caldo e denso, con i peli delle braccia ritti a ogni scricchiolio per l'incapacità di comprenderne la provenienza.
   In ammollo come un panno, sentiva i muscoli rilassarsi e sciogliersi, trasportare via le tensioni accumulate nei giorni e, con un lampo di sorpresa, capì che per la maggior parte non riguardavano più la propria incolumità. Fra i pensieri annebbiati, Megan cominciava a sospettare di aver trovato un sentiero da seguire, e non una prigione. Di certo come giornalista, ma...
   Si ritrasse, cercando di scacciare il pensiero, diventato improvvisamente scabroso quando vide la sagoma di un'altra persona entrare nei bagni.
   - Chi è? - chiese spaventata, immergendosi fino al collo.
   I passi sulla nuda pietra si avvicinarono, solidi e decisi. Dapprima, Megan si sentì sollevata nel riconoscere la figura di Skoll Greyback accostarsi alla vasca. Al tramonto, poteva anche essere tornato qualcuno dell'orribile branco di Corvinus, o quell'ambiguo Calcifer, del quale non era ancora riuscita a farsi un'idea precisa. Non le piaceva affatto come alcuni dei maghi l'avevano guardata, soprattutto quel Rolf Carrow. Aveva cercato di evitarli in ogni modo, stando vicina a Skoll la maggior parte del tempo e scoprendo così che la compagnia della valchiria, una volta superato il primo strato di rude ostilità, non era poi così terribile.
   Questa volta, però, Megan realizzò in fretta un particolare che rendeva l'esperienza del tutto nuova. Skoll era completamente nuda.
   Non chiese il permesso di unirsi al bagno, ma si infilò con lentezza, un pezzo alla volta, nell'acqua bollente. Fino a quel momento, Megan l'aveva immaginata ben poco attraente sotto le vesti pesanti che portava abitualmente. Quell'altezza e possanza, poi, scoraggiava chiunque a vederla come una femmina, nonostante i lineamenti fossero tutt'altro che sgraziati. E, forse, era stato proprio quello il primo errore di valutazione.
   Pur alta quanto il padre, pensò la giornalista della Gazzetta del Profeta, e le spalle larghe di una guerriera, possedeva una incredibile e geometrica proporzione in ogni parte del corpo. Le braccia erano muscolose, non pesanti. Il petto ampio non faceva affatto scomparire il seno, di dimensioni contenute ma talmente ben fatto e sodo che Megan si chiese se fosse merito di qualche speciale unguento. Una fossetta attraversava dall'alto in basso i muscoli addominali, scolpiti al centro di un bacino dalle curve leggere. No, quella donna non era affatto un fiore delicato, quanto piuttosto un maestoso e raro albero da frutto di un paese lontano.
   Megan si accigliò, mentre sotto il bordo dell'acqua scivolavano le cosce di Skoll e lo sguardo le cadde su una lunga cicatrice, dritta e spessa, stagliata per una ventina di centimetri tra le radure del ventre e la selva che cresceva più a sud.
   - Da quanto sei qui? - le chiese Skoll. Allargò le spalle e chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal calore.
   - Poco, da una decina di minuti credo. -
   - Perché tieni le braccia incrociate? Di che ti vergogni? -
   Megan, con titubanza, prese un profondo respiro e cercò di rilassarsi. Quasi non si era accorta di stare coprendo le proprie grazie come se si sentisse in imbarazzo. Ma Skoll, nonostante l'acquisita familiarità, nonostante avesse il compito di proteggerla (e di farle la guardia), nonostante fosse nuda e in ammollo, non smetteva di turbarla. Anche senza bacchetta o artigli, con la dozzina di chili di muscoli in più di cui era fornita l'avrebbe potuta affogare usando una mano sola.
  Nel tentativo di scacciare pensieri inquietanti, Megan si trascinò a una mensolina ricavata nella parete della grande vasca. Pochi passi attraverso il suono placido dell'acqua. Una serie di boccette colorate erano state riempite a metà, o anche meno, di sali da bagno, unguenti e profumi dall'odore spiazzante.
   - Preferisci "Albero del Tè", "Essenza di Purvincolo e lavanda" o... "Babbatacia tarantolata"? Cosa sarebbe? -
   Skoll emise uno sbuffo divertito. - Cerchi di ammorbidire la pelle o di rilasciare la tensione accumulata? -
   - Non saprei. Da quando siamo qui l'unica cosa di sicuro non mi è mancata sono state le lunghe ore di riposo. -
   - Allora prendi la boccetta arancione - rispose Skoll, nuotando fino alla panca sommersa - e vieni qui. - Si sdraiò sopra, uscendo quasi completamente dall'acqua, come su un lettino lambito dai caldi effluvi del bagno termale. Adagiò il capo e rimase a fissare Megan. Quegli occhi da lupa scorsero ogni imbarazzo della giovane giornalista nell'osservare il profilo della sua schiena bagnata e le forme forti dei muscoli, dal fondoschiena fino ai polpacci.
   Megan le porse l'unguento, ma Skoll restò immobile con la testa poggiata sulle braccia.
   - Devi spalmarlo. -
   - Sulla schiena? - domandò senza guardarla negli occhi.
   - Sì. Con i pollici, in piccoli dischi circolari. - Nel notare l'impaccio, Skoll pensò di dover specificare: - Quella è Mistura di Diricawl. -
   Per Megan, fu come se le avesse parlato in una lingua sconosciuta.
   - Ma quanti anni hai, dodici? -
   - Scusami... credo di avere poca esperienza con cose come queste. Ho sempre lavorato tanto e, sembra incredibile a dirsi, ma il periodo più lungo di riposo che ho mai avuto è questo passato con voi. - Si guardò attorno, beandosi dei vapori e del tepore dei bagni. - E questa è la prima volta che faccio un bagno di questo tipo. -
   Skoll ascoltò con pazienza, senza battere ciglio. Poi la invitò a stendere il liquido denso e cremoso sulla sua schiena, a partire dalle spalle, a destra e a sinistra della spina dorsale, distanziandosi di un paio di dita da un punto all'altro. - Quando premerai sui muscoli, - le spiegò - la stessa pressione avverrà da tutti i punti in cui hai spalmato la mistura. E le tue sole due mani basteranno a farmi un massaggio come si deve su tutte le parti importanti, in contemporanea. -
   Megan dubitò dell'efficacia solo fino a quando ebbe poggiato le dita alla base del collo di Skoll. Sulla pelle nuda, la pressione dei pollici era visibile fin sopra i glutei torniti, piccole fossette che ritmicamente si spostavano in accordo con i suoi movimenti.
   Restarono in silenzio (o quasi, considerando i sommessi ma corposi sospiri di Skoll) per diversi minuti, nel rilassamento totale di una camera che aveva lasciato lo scorrere del tempo oltre la soglia.
   - Com'è andata a finire, poi? - mugugnò Skoll, a occhi chiusi, all'improvviso.
   - Com'è andata a finire che cosa? -
   - Con mio padre. Nella Foresta Proibita. -
   Megan cincischiò. - Con fatica è riuscito a tornare a scuola, per un breve periodo. Non te lo ha mai raccontato? -
   - Credo che mio padre abbia rivolto più parole a te in queste settimane che a chiunque altro nella sua intera vita - rispose.
   - Mi spiace. - Megan si sentiva impreparata ad affrontare una simile verità. Si sentiva solo capace di dispiacersi per gli altri, senza alcuna idea su come portare conforto.
   Ma in quel caso non si rivelò necessario. - Dimmi come ha fatto a sfuggire a Silente - continuò Skoll, che non sembrava avere più una preoccupazione al mondo.
   - Questo è semplice. Non lo ha fatto. - Passò le mani dall'alto in basso, su quella schiena potente, ricordando la fragilità con cui l'assassino, il lupo mannaro, l'oscuro mostro le aveva parlato dei propri momenti segreti. - Per tre giorni e tre notti, Fenrir si nascose nel fitto del bosco, curandosi le ferite e sopravvivendo alle tenebre in forma di lupo. Né Clarabella Black né altri professori riuscirono a trovarlo o anche solo intravederlo. Furono invece i centauri a catturarlo, la quarta mattina. Era ricoperto di sangue e icore di nemmeno lui sa cosa. Le ferite si erano richiuse, per sua fortuna, perché i centauri non risparmiarono le bastonate e i calci con gli zoccoli. Volevano impiccare la bestia. E fu poco prima di finire i suoi giorni appeso a un ramo che incontrò un uomo che non vedeva ormai da più di due anni. -
   - Chi? - domandò Skoll, aprendo gli occhi e poggiandosi sui gomiti.
   Megan ritirò le mani, strinse le labbra e disse: - Ignavus Lovegood. -
   - Cosa? Come poteva trovarsi lì? -
   - La Megera lo aveva anticipato, nel suo modo contorto. Ignavus aveva raggiunto Hogwarts per fare in modo che si realizzasse il proprio piano. Ormai Fenrir era una pedina quasi del tutto sacrificata, ma poteva ancora costringerlo a una ultima azione. Per potersi vendicare di Silente, lui... -
   Skill non la lasciò continuare. - Basta - sussurrò, scendendo più a fondo nell'acqua, lasciando la comoda distesa e avvicinandosi a Megan, immersa solo dall'ombelico in giù. - Mi sento troppo bene per questo genere di storie. Lascia l'orrore e i soprusi per momenti più cupi. Meglio se continui un'altra volta. - Le mise le mani sul collo, delicatamente, come se dovesse sorreggerle il viso imperlato di sudore. - Non so perché abbia scelto te, Megan, ma credo tu sia la persona giusta. -
   - La persona giusta? Per cosa? -
   - Per raccontare quello che nessuno vuole sentire. La verità, che la accettiamo o meno, è inesorabile. Né buoni né cattivi, né vinti ne vincitori... - Negli occhi placidi di Megan, Skoll riuscì a specchiarsi. C'era del timore, della paura, e una tremante incapacità di muovere un muscolo.
   Si avvicinò ancora, con il cuore pronto ad accelerare, fino a che le braccia si posarono sulla pelle morbida della spalle. Il seno muscoloso di Skoll sfiorava quello più generoso e dolce della giornalista, paralizzata. Il solo suono delle piccole onde provocate dai loro corpi si infrangeva sulle pareti.
   - Cosa...? - mugugnò Megan, presa dal panico.
   La valchiria le sorrise. - Non mi dire che non ti è mai capitato. - Con lentezza esasperante portò le labbra su quelle di Megan, baciandola con delicatezza, tenendole il viso fra le mani come un amante esperto con una giovane e incerta sognatrice.
   La baciò di nuovo, rubandole il fiato, domandandosi quanto potesse prendere da lei prima che si sentisse aggredita. E al terzo bacio, quando una mano di Skoll si era portata sulla schiena della ragazza, premendola contro di sé fino a sentire la tenerezza del suo seno inturgidirsi, Megan rispose.
   La gentile Tassorosso non avrebbe mai immaginato che una cosa simile potesse accadere. Si sentiva terrorizzata ed eccitata allo stesso tempo. La spinta che sentiva dalla bocca dello stomaco, però, voleva che si abbandonasse completamente ed accettasse di mettersi in balia della potenza della lupa mannara.
   Ricambiò i baci, con calda passione, sentendo montare un fiume in piena più caldo delle acque termali. Cercò di stringerla, di sentire sotto le dita la durezza del suo corpo e la violenza delle cicatrici. Ma Skoll le afferrò i polsi e la fermò.
   - Sdraiati fuori dall'acqua - le disse, quasi ordinandolo.
   Megan eseguì. E quando le vide prendere la Mistura di Diricawl, versarsene un po' sulle mani e spalmargliela prima sul collo, poi sul seno e infine scendere con la mano fra le gambe, ebbe un sussulto.
   - Con questa, - le spiegò Skoll - si può fare ben più che un semplice massaggio. -

 

***

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Capitolo 30
*** Trentesima Parte ***


30/50

Alla fine, il momento di ripagare il mio debito era giunto.

Ogni lembo del mio corpo si era abbandonato al dolore. Ero provato nel fisico e nella mente dalla permanenza nella Foresta Proibita... e dal trattamento ricevuto da Ignavus e i suoi compari. Ma mi aveva lasciato andare, così da poter passare definitivamente il testimone e ritirarmi dal gioco.

Non sapevo a cosa credere. Sarei potuto davvero rientrare a Hogwarts? Ancora non sapevo in che modo ero stato visto, chi sapeva, chi sospettava e chi stava solo in attesa di potermi consegnare nelle mani degli Auror. Le voci riferite dai centauri raccontavano del Ministero in arrivo a scuola, dopo che la notizia di ciò che era accaduto. Un licantropo e una Megera, all'interno del cortile, con gli studenti messi in pericolo. La sorveglianza sarebbe stata estrema e il Ministero fremeva per intervenire direttamente, strappando il potere dalle mani di un Preside amato o odiato. Superare l'ingresso, sapendo di dover uscire nuovamente, sarebbe stato troppo pericoloso.

C'erano solo due persone delle quali potevo fidarmi.

- Fen! - Driade mi gettò le braccia al collo, quasi in lacrime, non appena ci ritrovammo  sotto le mura a nord. Il crepuscolo era sicuro: sarebbe stata la prima notte senza la luna piena. - Oh, Fen, pensavo di non rivederti più. -

Riuscii solo a tossire. Le ossa facevano talmente male che il dolce abbraccio di Driade pareva quello di Hagrid.

- Mollalo, o farà la fine del tubetto del dentifricio. - Avvolto nella sciarpa verde e argento, Magnus allungò un sorriso sottile da orecchio a orecchio. Mi osservava compiaciuto, come se non avesse mai avuto un singolo dubbio sul mio ritorno.

- Sono contento di rivedervi, ragazzi. State bene? -

- Stiamo bene? - domandò Driade, con un tono di voce indisposto, come se l'avessi insultata. - Tu devi dirci se stai bene, stupido! Sono giorni che non ti vediamo e non sappiamo nulla... -

- L'ultima volta che vi ho visti io, lui stava in una bottiglia e tu cercavi di non diventare uno spiedino di Billywig. -

- Ce la siamo cavata. E abbiamo fatto poco, - disse Magnus - considerando che tu ti sei mangiato la Megera. Un attimo dopo il professor Silente era nel cortile, e gli altri dietro. Avresti dovuto vedere che facce pietose. -

Con terrore, gli posi la domanda più importante: - Mi hanno visto tutti? -

- Sì - continuò Magnus. - Hanno visto le zanne, gli artigli e tutto il resto. Coda, zampe, pelo... -

- Magnus! - lo riprese Driade. Un attimo dopo stavano ridendo, e io dietro di loro, più per la tensione che per altro.

- Durante la trasformazione c'eravamo solo noi, gli insetti e la Megera. Silente ha sospeso le lezioni per fare la conta degli studenti e tenerli al sicuro: questa storia è finita sulla Gazzetta del Profeta. Ti stanno cercando, ma non sei l'unico che manca all'appello. -

Speranza. Una fiammella debole, piccolissima, ma c'era. Un punto di luce minuscolo, sufficiente a bucare la notte delle mie paure. Poteva ancora risolversi per il meglio.

- Avete portato quello che vi ho chiesto? -

Driade, che doveva aver patito più di chiunque altro la mia assenza, sembrava avercela con me. - Tutto qui? Non ci vuoi nemmeno dire cosa ti è successo? Noi stiamo in attesa di un tuo cenno di vita per giorni e notti e a te interessa solo di quelle stupide carte? -

Prima che potessi rispondere, Magnus balzellò verso di me. Nella fioca luce, che a malapena illuminava le rocce e i ciuffi d'erba, mi consegnò una serie di fogli tenuti insieme dalla rafia. - Tutto quello che abbiamo raccolto. Ho dovuto anche chiedere un favore, dato che ti eri tenuto parte dei documenti di Silente sotto al letto. -

Non ci avevo pensato, ma parte del materiale che avevamo faticosamente raccolto durante l'anno era nel dormitorio maschile dei Tassorosso. - Come hai fatto? -

- Mister-odio-il-mondo si è ricordato di avere un piccolo debito di vita con te. -

- Alastor? -

- Proprio lui. Ha borbottato qualcosa ma, dicendogli che sarebbe potuto servire per aiutarti, non ha battuto ciglio. Potresti avere un amico di cui non avevi idea. -

Pensai a Moody. Nella mia mente era ancora il ruvido ragazzino scostante del primo giorno. Forse avevamo davvero molto più in comune di quanto fossimo disposti ad ammettere.

- Grazie, davvero. Non so cosa farei senza di voi. -

- Impareresti a leccarti le palle da solo. -

- Magnus! -

Per quanto avrei voluto restare in loro compagnia, il tempo che mi era stato concesso giungeva a termine. Ignavus mi stava attendendo nella Foresta e le parole della Megera mi risuonavano ancora in testa come una maledizione: "i piani a lungo fermi han fatto adirare colui che tesse".

- Devo andare. Ma tornerò presto, lo prometto. -

Driade e Magnus credettero di non aver capito bene. - Cosa? Non vieni con noi? -

- Non posso. Devo... è complicato. Domani, domani sarò di nuovo al castello. E vi prometto che non me ne andrò più. - Fissai Driade negli occhi. Aveva bisogno di molte più rassicurazioni del mio vecchio e pazzo compagno. O, forse, avevo bisogno io di dargliene. - Sarà tutto finito. -

Lei si avvicinò tanto da sfiorarmi il viso. Il suo respiro, mentre il tepore del sole abbandonava la terra verde, sapeva di rose selvatiche. Quel che ricordo meglio è il calore della sua pelle, del suo sguardo, della sua voce. Si sarebbe appoggiata alle mie labbra, timidamente, se non  le avessi voltato le spalle per correre, correre lontano, verso il ventre della Foresta Proibita e il cuore malato di Ignavus Lovegood.


***


Appunti per la bozza "senza titolo".
Greyback: Moonchild (?) Biografia di un licantropo (?)
Pensaci su ancora un po', Megan. Sai fare di meglio.

Quando Greyback racconta questo passaggio, i suoi occhi si velano. Ma non è tristezza. Si addolcisce al pensiero di un momento positivo nell'infanzia terrificante che ha avuto? Non oso domandare.

Nota per me: omettere dalla stesura finale. Temo quel che potrebbe pensarne. Forse dovrei parlargliene e fargli capire che l'empatia umana sarebbe un aspetto non trascurabile per rendere il suo racconto più efficace. Ora ho fame, ci penserò su. Mi dispiace solo di non riuscire più a guardare una bistecca nello stesso modo di prima.

Povera Rosmerta. Che faccia farà quando al posto della shepherd's pie comincerò a ordinarle carote stufate e cipolle sottaceto? 


***


Fu come levarsi una spina dalla zampa. Doloroso per poco e con una sensazione di sollievo infinita in tutto il corpo.

Consegnai quanto raccolto nel corso dei mesi: articoli, appunti scarabocchiati, lettere ufficiali (e qualcuna ufficiosa) su, da e per Silente. Le avevo lette e, ad essere sincero, non ci trovai nulla di sconcertante. Insieme ad Hagrid ci eravamo intrufolati ovunque possibile, lui sempre con l'intento di fare qualcosa di buono, io con quello di accontentare il vecchio pazzo che mi aveva permesso di entrare ad Hogwarts. All'Ufficio del Preside, naturalmente, non riuscimmo nemmeno ad avvicinarci.

- Questo è tutto. - Ignavus mi stava a fissare con lo sguardo storto, il suo bastone storto e la schiena storta. In due anni sembrava invecchiato di secoli. Mi ricordava le immagini confuse delle rane riflesse nello stagno e disturbate dai cerchi concentrici che si propagavano dai miei sassolini.

- Bene, - gracchiò lui - sei stato un bravo ragazzo. Vedi che non era difficile? Oh, sì! Puoi giurarci che non era difficile. E sei anche sopravvissuto, giusto? -

Per quanto mi inquietasse, non ne avevo paura. - E sono anche libero, ora. -

- Libero? -

- Come avevi promesso. Tu hai fatto qualcosa per me e io ho fatto qualcosa per te. Siamo pari. -

- Pari? Io non credo - rispose passandosi fra le mani i documenti. Sbatteva le palpebre come un colibrì sbatte le ali. - Oh, oh, sì! Giusto, corretto: siamo pari. Ecco qua, ragazzo. - Mi diede un paio di deboli pacche sulla spalla e congiunse le mani al petto.

- Che significa? -

- Che puoi andare. Via. Come, come... come una cosa che va lontano e... ecco. Sciò, sciò. -

Prima che potesse ripeterlo una seconda volta, l'antro oscuro in cui ci eravamo incontrati era diventato soltanto un ricordo.

Restava solo una cosa da fare. Incontrare Silente e porre fine alle mie preoccupazioni una volta per tutte. L'ombra grigia che mi perseguitava si era dissolta, i mostri morti o scomparsi e i miei amici in salvo. Hogwarts era in uno stato di fermo, l'ideale per rientrare senza troppa chiarezza, senza dover spiegare l'inspiegabile. Portare immediatamente l'attenzione sul fatto che fossi vivo, che uno degli studenti mancanti (così avevano detto Magnus e Driade) fosse rimasto impaurito nella Foresta Proibita, prima di ritrovare la strada di casa, era possibile.

Con questa convinzione mi presentai all'Ufficio del Preside. Mi ci accompagnò Thomas Giggle, il nostro Prefetto, che per l'eccitazione di avermi fra le mani quasi se la fece nei pantaloni. Non smise un istante di parlare, né mi levò la mano dalla spalla. Piangeva e rideva allo stesso tempo.

- L'ho trovato, signor Preside. L'ho trovato! Guardi come sta bene. Non ha nulla che del buon riposo non possa spazzare via! -

Silente, dopo aver alzato la testa e lo sguardo dalla propria scrivania, si prodigò a raggiungerci, avvolto in una sontuoso abito canarino.

- Lo credo, signor Giggle. La ringrazio per la sua solerzia, ma preferirei fosse il signor V. a illustrarmi le proprie condizioni. - Ronzò giù dai gradini, con un dolce sorriso che spuntava dalla barba. - La prego, - insistette verso il Prefetto - ci lasci un istante. Lo restituirò al calore della vostra Casa in un attimo. -

Ci trovammo soli. Avevo la spiacevole sensazione che quell'uomo riuscisse a leggermi dentro, che non fosse possibile nascondere alcunché alla sua mente affilata. Eppure non mutò il proprio atteggiamento, o i propri gesti accoglienti nei miei confronti.

- Ora che siamo al riparo dalle punizioni di Casa Tassorosso, - esordì, con voce complice - possiamo parlare con sincerità. Oh, non credere che non lo sappia, giovanotto. Tassorosso è intransigente, per quanto riguarda il cuore dei propri membri. Molto più che i coraggiosi Grifondoro. In tempi bui, nessuno è più affidabile di voi. -

- Sono stati dei giorni e delle notti molto dure, Professor Silente. Vorrei... vorrei farmi un bagno. E mangiare. -

- Oh, lo credo, caro ragazzo. Lo credo. Posso offrirti delle api frizzole? -

Sgranai gli occhi, sicuro di non volerle affatto.

- Che sciocco che sono. Mi dispiace, per quello che è successo l'altra notte, con quella creatura. - Non calcò la parola, non la pronunciò con enfasi o disprezzo. Eppure, sentii una rabbia primordiale crescere in me. E in lui. Per la prima volta, i nostri spiriti, senza che ne capissimo il motivo, si innalzarono furiosi uno avanti all'altro, bruciando come fiamme impure.

- I miei amici stanno bene, - risposi - io sto bene. Sono felice che sia andato tutto per il meglio. -

- Capisco e approvo. C'è solo una cosa che mi sfugge, signor V. Lei è stato molto fortunato, a uscire indenne dallo scontro con la Megera. -

Confuso, chiesi: - Questa è una domanda? -

- No davvero. La domanda sarebbe questa: se si è battuto con la signorina Despins, nel cortile, contro la Megera, come potrebbe mai essere fuggito dal lupo mannaro? -

Il pesante portone si aprì. Silente dovette portare l'attenzione alla professoressa Black, comparsa sulla soglia. Anche Giggle aveva fatto un passo all'interno.

Confido debba aver dato fondo alla propria calma, per mostrare un viso vagamente sorpreso ed espirare un serafico: - Sì? -

- Posso disturbarla, signor Preside? Ci sono delle persone che desiderano vederla. -

- Hanno detto "immediatamente" - specificò Giggle. - Ho provato a dir loro che l'autorità esterna conta fino a un certo punto, qui a Hogwarts, ma sono insistenti. -

Clarabella Black mosse a malapena il collo da arpia e i lati della bocca si incresparono a uncino.

Silente sospirò. - Se è assolutamente inevitabile. Prefetto, accompagni il signor V. a riposarsi e rifocillarsi. Avremo tempo per... -

- Lasciate il ragazzo lì dov'è. Lui può restare. - Tre uomini e una donna fecero il loro ingresso nell'Ufficio del Preside. Il rumore delle suole rinforzate sembrava quello di una marcia militare. Portavano mantelli lunghi, guanti, due di loro il cappello e i simboli del Ministero della Magia.

- Buongiorno, signori. Posso chiedere il motivo della piacevole visita, del tutto inaspettata, da parte degli Auror del Ministero? - Silente li fissò, uno a uno. Li squadrò come fossero sulla pedana per i duelli. Sono sicuro che ricevette lo stesso trattamento, con la differenza che lui non aveva alcuna esitazione, alcun tremolio, alcun dubbio.

Li fissò e cercò nella memoria se (e dove) avesse mai visto prima quelle facce.

Se riconobbe qualcuno, non lo diede a vedere. Io, però, sentii un tonfo nel petto talmente forte da rimbombare per le sale di tutto il castello.

Appoggiato a un bastone storto, presentandosi con un saluto storto, il sedicente capo della squadra Auror scandì candidamente il suo vero nome: - Ignavus Lovegood, signor Preside. Essere qui, per me, è un immenso piacere. -

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Capitolo 31
*** Trentunesima Parte - Interludio Errante ***


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01 Febbraio 2010

Aula di Storia della Magia - Durmstrang

 

   L'attesa nei corridoi stava mettendo a dura prova i nervi di Calcifer. Gli studenti erano chiusi nelle loro aule e per il castello non sembrava potersi muovere nemmeno un fantasma. Ogni passo lontano rimbombava fra le pareti austere come in un dedalo sotterraneo e lui, con i postumi della luna piena, attendeva segretamente fra le colonne di mattoni cupi. Era stato costretto ad attendere, attendere fino a che l'astro d'argento non fosse arrivato al suo picco. L'unico modo per ritrovare la strada di casa, fra le lande ghiacciate e le cime innevate, senza poter fare affidamento sulla memoria.
   Il castello, invece, era ancora come lo ricordava. Sembrava forse più piccolo, senza che questo limasse il portamento marziale di ogni singola pietra, ogni singola arcata o finestra. Durmstrang era ancora la sua scuola.
   Ma non era più studente. Il ricordo di come raggiungerla era stato cancellato. Il naso, però, e l'altra mente, non potevano essere ingannati dalla magia. La pazienza era sempre stata una virtù, per il lupo omega. Aveva atteso il suo momento e, alla fine, l'occasione si era presentata.
   Si augurava solo di rimanere nell'anonimato fino alla fine dell'incursione.
   Quando le porte delle aule si spalancarono, una frotta di ragazzi e ragazze invase i corridoi. Calcifer sobbalzò, tentennando nell'appoggiarsi a una colonna, cercando di mostrare sicurezza come se avesse pieno diritto a trovarsi lì. Per l'occasione aveva preso in prestito una giacca di pesante pelliccia d'orso, stivali imbottiti e aveva anche lasciato crescere la barba. Siccome non era particolarmente portato nel ricordare gli impegni fuori dal branco, già sospettava che il prestito sarebbe diventato a tempo indeterminato.
   Attese che l'orda schiamazzante si diradasse, prima di entrare nell'aula di Storia della Magia.
   - Esattamente uguale. - Passò il dito sui banchi di legno, invaso dalla nostalgia per quegli anni di spensierata lotta contro le piccole cose. I calamai, gli arazzi consunti alle pareti, la cattedra con il professore: si sentì come se il giorno del diploma fosse passato solo da una settimana. Ma aveva una barba lunga ora, non curata da più di sette giorni. E il professore, l'uomo che stava cercando, che se ne stava seduto a vergare le pergamene con i propri appunti... era ora una donna.
   Lei aveva capelli bianchi come oro, la pelle di alabastro perfetta fino alle delicate pieghe del collo, scolpito da un abile artigiano almeno fin dove il pelo dell'ermellino ne celava il prosieguo. - Desidera? - domandò, abbozzando un sorriso raffinato.
   Come primo istinto, Calcifer pensò quanto sarebbe stato meraviglioso domandarle di uscire dai freddi confini della scuola, per conoscersi meglio davanti al fuoco. Pensò che le avrebbe potuto mostrare una cosa nuova, o forse due, così che tanta gelida bellezza si aprisse alla vita. Ma a bocca mezza aperta (che solo la folta barba salvò dal farlo sembrare idiota), si accorse di stare guardando in occhi molto più vecchi, molto più saggi e arcani dei suoi.
   - Lei non è il professor Chernobog. -
   La donna annuì, arcuando le sopracciglia. - Evidentemente, no. -
   - Naturalmente, certo che no. Mi scusi... stavo cercando il professore di Storia della Magia. Questa è la sua aula, giusto? -
   - Lo era. Il professor Chernobog non insegna più qui. Ora mi occupo io della materia. Lei chi sarebbe? -
   - Oh, non si disturbi, allora - si ritirò subito Calcifer. - Se mi dice dove posso trovarlo, sparisco in un lampo. -
   - Non posso risponderle. Dragan Chernobog è, come dire... disperso, allo stato dei fatti. -
   Per Calcifer fu un colpo al cuore. Istintivamente mise la mano sulla tasca, dove il gonfiore della fialetta con il ricordo consegnatogli da Fenrir diventava ora improvvisamente scomodo.
   - Ad ogni modo, lei chi è? - insistette la donna.
   Il tempo della copertura stava scadendo a una velocità inaspettata. - Chernobog aveva una cosa, - tentò di spiegare, lanciandosi in un tentativo disperato - una cosa mia. Avrei assolutamente bisogno di riaverla. -
   La professoressa, a quel punto, si alzò. - Lei mente, giovanotto. E devo darle un'altra brutta notizia: la giratempo del professor Chernobog è, come può ben immaginare, scomparsa proprio come lui. Ora, possiamo stare a disquisire sulle ipotesi riguardanti il misterioso fato del mio predecessore, oppure lei mi mostra immediatamente il suo permesso firmato. -
   - Potrei averlo lasciato nell'altra giacca - rispose Calcifer prontamente.
   - Dato che non fa parte del personale docente, - continuò la donna, ora con un'inquietante incrinatura nella voce - non è uno studente, né un collaboratore, deve avere avuto il permesso del Preside per essere stato condotto a Durmstrang. Nessuno trova Durmstrang da solo. -
   - Sono davvero rammaricato, professoressa, ma ora si è fatto tardi. Cercherò Chernobog per conto mio - rispose. Senza indugi, prese la via tra i banchi. Il piano di Fenrir era palesemente fallito.
   - Lei non può lasciare la scuola. -
   - Vogliamo scommettere? - Calcifer abbozzò un sorriso, smargiasso. E quel che vide poi lo allarmò al punto da estrarre la bacchetta.
   - NON MANCARMI DI RISPETTO, PICCOLO BUGIARDO! - Il volto idilliaco della donna, in un istante, si contorse come Calcifer non aveva mai visto fare nella vita, ma solo sui libri. Divenne un mostro (non riusciva a definirlo diversamente), una orrenda parodia di ciò che era stata fino a poco prima. Gli occhi avrebbero potuto perforargli i vestiti, la pelle, la carne e le viscere, mentre le mani si corrompevano in artigli uncinati di bestia, dalle lunghe dita mortali. Letteralmente, le andavano a fuoco.
   - Porca puttana, sei una Veela! -
   - Altra grande intuizione. Ora, per l'ultima volta, dimmi chi sei e come sei entrato qui. O a parlare sarà solo la cenere. -
   Calcifer la puntava con la bacchetta. La professoressa (il mostro, la Veela), non ne aveva bisogno. Nei palmi si erano accesi due focolai che avrebbero potuto mandare all'inferno all'intera stanza. Così, il lupo omega decise in fretta.
   - Va bene, va bene, calmati. Abbasso la bacchetta, ok? - Sciolse la guardia, continuando a fissare l'iraconda creatura che avrebbe potuto bruciarlo vivo. - Mi chiamo Vassily Calcifer. Ho studiato qui, tanti anni fa. -
   - Menti! Il ricordo di dove si trova il castello viene cancellato dalla memoria degli studenti! -
   - Non dai recessi più remoti della mente. Nelle notti di luna piena... una parte di me trova la strada di casa. -
   La Veela, così come era mutata in mostro, tornò alla placida forma umana. - Sei un lupo mannaro - bisbigliò esterrefatta.
   Calcifer annuì. - Mi hanno mandato per portare una cosa a Chernobog. Ma dato che non è possibile, il mio compito è terminato. Non voglio fare nulla di male. -
   Confusa, la professoressa lasciò la cattedra, avvicinandosi a Calcifer, squadrandolo per leggerlo come se fosse un libro. - Ti manda Fenrir Greyback, non è vero? -
   - Come...? -
   Con un gesto della mano, la Veela chiuse la porta dell'aula, sigillando entrambi all'interno. - Cosa sei venuto a portare? -
   - Non è per te - rispose Calcifer.
   Quel che fece la donna, qualsiasi cosa fosse, qualsiasi magia naturale scaturisse dal movimento sinuoso delle sue esperte mani, lo punse nello spirito e nell'anima. Lui si sentì debole, arrendevole, persuaso ad accontentare ogni desiderio che gli fosse stato espresso. Così, senza che fosse necessaria alcun'altra domanda, mise la mano nella tasca ed estrasse la fiala che risplendeva di un tenue bagliore.
   - Un ricordo... - La Veela accettò il dono estorto e ordinò a Calcifer di sedersi. Prese posto accanto a lui, come una vecchia amica, mentre il lupo non riusciva a far altro che fissarla, tanto quanto lei con la fiala.
   Alla fine, dopo aver chiesto aiuto alle proprie capacità, così distanti da quelle dei maghi, e aver dato vita a una minuscola, tenebrosa tempesta di nubi vorticose fluttuanti sul piano di legno, vi versò dentro il ricordo e tutta sé stessa.
   I venti del passato si condensarono, evocando le stanze di una scuola che non era Durmstrang. La Veela ne fu completamente catturata: quelle voci, quelle persone... facevano parte di un'epoca terminata nel sangue e nella menzogna. Le sue mani tremarono, il respiro si accartocciava come fogli nel braciere. Quante notti erano trascorse dall'ultima volta che aveva visto quel viso? Da quando l'aveva abbracciata, tenuta fra le braccia, sorretta nei primi passi. Nei sogni, presto diventati incubi colmi di rabbia, ne aveva risentito la voce candida, ma ora... era lei, perduta per sempre, insieme all'uomo (nel ricordo un ragazzo) che ne era stato la causa. Se non l'avesse conosciuto, se non l'avesse seguito, se non l'avesse amato...
   E poi, gli altri. Serpi velenose, cacciatori di innocenza: quanto li desiderava morti! Morti, ancora morti! Il fato si era già disfatto di loro, di tutti loro, e non aveva lasciato nient'altro che cenere spazzata dal vento.
   Ma così non era stato per lei, la sua gioia... né per lui. E non lo sarebbe stato mai.
   La Veela osservò e ascoltò ogni parola. Non aveva mai potuto vedere, prima di allora. Non aveva mai potuto capire.
   Quando si riprese, Calcifer strabuzzava gli occhi, incredulo di aver permesso a un'estranea di impossessarsi di ciò che Fenrir gli aveva affidato.
   - Cosa hai fatto? - le domandò, sentendo la rabbia montare. - Lui non me lo perdonerà. Non me lo perdonerà mai! -
   - Ero io a pensare di non poterlo perdonare - rispose la Veela. - Per quel che ha fatto alla mia piccola Driade, lo ho maledetto per questa vita e per l'altra. Per tutte le vite... mia dolce Driade... - Mentre una lacrima scendeva limpida sul volto della donna, lei ebbe il coraggio e la fermezza di parlare a Calcifer guardandolo negli occhi. - Dimmi tutto quello che il tuo alpha ti ha chiesto, Vassily Calcifer. Dimmi di cosa ha bisogno per far sì che il suo amore eterno non si spenga nella notte in un rantolo di terrore. - 

   

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Capitolo 32
*** Trentaduesima Parte ***


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07 Novembre 2009

La Testa di Porco - Hogsmeade


«La burrobirra è fantastica e i barili sono pieni,» avvertì l'oste ammiccando «ma se pensa di mandare al tappeto Hagrid così, devo proprio farle le mie condoglianze. C'è bisogno di ben altro per questa roccia!» Batté una mano sulla spalla del mezzo-gigante, mettendoci tutta la forza per dargli un amichevole strattone. Se Hagrid non avesse dondolato da solo, gongolandosi di quelli che non potevano essere che gran complimenti, sarebbe rimasto immobile come le montagne. L'unica cosa che fu in grado di smuovere fu un'esplosione di polvere e peli di animale dal cappotto.

«Dean è troppo pessimista, te lo dico io. Non ci pensare, stai andando bene!»

Lo straniero seduto di fronte fissò i due nuovi boccali schiumanti. Hagrid si rendeva conto che, al confronto, un uomo normale sarebbe sembrato imponente. Per quello scricciolo era già un successo aver terminato al prima burrobirra e riuscire a tenere ancora le palpebre alzate. No, la questione era un'altra: ne andava dell'ospitalità e della buona educazione.

«Forse dopo questa...» sospirò lo straniero.

L'oste si fece una grassa risata, poi gli sussurrò, mettendo una mano a fianco della bocca: «Avrà anche barba e capelli bianchi, ma è un più abituato di te a bere, amico, lasciatelo dire.»

«Dean, non essere scortese. Il mio amico... ehm...»

«Eric.»

«Il mio amico Eric e io oggi faremo tardi. Ci sono cose di cui dobbiamo parlare. Quindi tu porta quando dentro qua non ci vedi più niente. Giusto Eric?»

«Almeno fintanto che riuscirò a tenere il culo dritto sulla panca.»

L'oste scosse la testa divertito. Imbracciò il vassoio e tornò a curare i propri affari che, quella sera, richiedevano più impegno del solito. La locanda era piena come un calderone e tre volte più ribollente.

Hagrid puntò il grosso pollice alle proprie spalle. «Dean Thomas. Bravo ragazzo. Gli piace scherzare. Non te la sarai presa, vero?»

«Perché dovrei? Stiamo facendo una gara?»

«No, bhé, diciamo... Scusa, non è quello che stavamo facendo?» Hagrid aggrottò le sopracciglia e strinse saldamente il proprio boccale.

Eric scostò il mantello invernale, ormai asciutto. «Credo di essermi scaldato abbastanza. Meglio toglierlo, o sembrerò un idiota. O un tipo losco, un tipo losco e idiota.> Si stiracchiò le dita feline, poi i polsi e tutte le giunture. Il freddo intenso lo aveva bloccato in una posizione statica che faticava a sciogliere nonostante il clima da stalla nella taverna.

«Oh, per Dean non c'è problema. Sai, da quando Aberforth...»

«Eh già. Brutta faccenda.»

«Brutta, bruttissima.» Hagrid bevve una profonda sorsata e sgocciolò ovunque, sulla barba, sul panciotto e sul tavolo. Prontamente, usò la manica per asciugare. «Anche se non è stata per nulla una buona idea quella del Ministero.»

«E cosa avrebbero dovuto fare, secondo te? Passarci sopra? Dopo quello che è successo l'altr'anno con gli Scamander?»

«Loro sapevano cosa stavano facendo, è diverso! E poi anche loro si sono opposti. Rolf Scamander ha lavorato tanto per farlo capire agli zucconi incravattati. Lì, nei loro uffici, senza nemmeno vedere che faccia hanno quelle povere creature.»

Bagnandosi appena le labbra, Eric sgranò gli occhi. La reputazione di Hagrid non era stata sufficiente a prepararlo a certe uscite. «Povere creature?»

«I lupi mannari sono brava gente. Sono solo incompresi. Vorrei vedere te, con l'obbligo di isolarti ogni quattro settimane, e convivere con il disprezzo di tutti. Gli sputano addosso, ovunque vadano. Maghi e streghe non lasciano giocare i bimbi con i loro. Che male gli hanno fatto? Quando non c'è la luna piena sono persone come tutti gli altri.»

«Quella lupa ha quasi ammazzato Scamander. Gli stava offrendo rifugio e lei gli ha portato via una mano. Finire ad Azkaban era il minimo, Hagrid. Sarebbe potuto succedere molto di peggio, se Rolf non avesse parlato in sua difesa.»

«Visto? Visto? Proprio come ti dicevo» si accese Hagrid, usando l'indice come una bacchetta e agitandolo di fronte al naso incassato di Eric. «Non è colpa della licantropa. Anche loro lo sanno.»

«Comunque poco da fare, poco, poco da fare ormai. Dopo l'evasione, non si torna indietro.»

Hagrid continuò a bere, sempre più avidamente. Gli occhi erano diventati lucidi e pieni di tristezza. Con le grosse dita rugose giocherellava con il boccale, cercando di identificare il proprio riflesso nelle chiazze baluginanti sul metallo. Se solo l'immagine distorta avesse potuto dargli consiglio, l'avrebbe colto al volo. «Non è giusto. Erano così vicini. Avremmo potuto vivere tutti in pace.»

«La colpa non è nostra, amico mio. Ci hanno provato. Sinceramente: il Ministero non era mai stato così vicino a garantire dignità ai lupi mannari. Ma ti capisco. Anche io sono preoccupato.» Eric si appiattì contro il tavolo e abbassò la voce, come se gli schiamazzi, le grida e le oscenità urlate nella stanza non fossero sufficienti a farlo sentire sicuro. «Ho paura che il bando contro gli esseri e le creature magiche, questa volta, sarà davvero pesante. Se quel... Hati Greyback... non verrà messo presto dietro le sbarre, temo per i cuccioli della mia cara Euriale.»

Così dicendo, Eric aprì la borsa appoggiata sulla panca, quanto bastava per lasciare intravedere ad Hagrid un uovo grosso come una pluffa, liscio e di color verde sottobosco.

«Com'è piccolo!» disse Hagrid con una vocina commossa. Per l'intera serata aveva atteso il momento di scorgerlo, impaziente e curioso. Avrebbe voluto prenderlo fra le mani, appoggiarci l'orecchio e scoprire se dentro qualcuno era altrettanto impaziente di comunicare con lui.

Toc. Toc. Toc. 

Eric batté le nocche sul guscio duro. «Sarà pronto a schiudersi entro la fine dell'anno. Sono terrorizzato dall'idea che possano portarmelo via.»

«Senti, Eric... So che ci sei molto affezionato, è normale. Chiunque proteggerebbe una vita così, senza volerla affidare a nessuno, senza volere che te la strappino dal nido. Devi sapere che è successo anche a me, una volta o due. So come ci si sente.»

«Grazie, Hagrid. Alla tua» rispose Eric, proponendo il brindisi.

Con le guance rosse, Hagrid fece tintinnare i boccali. «Grazie a te. E sappi che se dovessi avere bisogno... ecco... puoi contare su di me.»

«Davvero?»

«Certo! E, se posso, come dire, spiegarti le mie ragioni, penso anche che sarei un'ottima scelta per prendermi cura del tuo piccolo.»

Eric, che stava solo aspettando quel momento, cercò in ogni modo possibile di apparire sinceramente stupito, sfociando fin nel plateale e farsesco, spalancando le braccia e portandole poi al cuore. Le sue capacità di attore erano risibili. Eppure, sufficienti per Hagrid, che mai si sarebbe accorto di quel che chiunque avrebbe notato: Eric stava recitando. «Sarebbe un sollievo incredibile, sapere di consegnare l'uovo in mani sicure. Con gli Auror obbligati a direttive stringenti, non c'è scusa che regga nemmeno per il solo possesso.»

«Non con me!» ribadì Hagrid. «Conosco Harry Potter da quando era un frugoletto alto così. Combinava un sacco di guai, eh eh. Ma è un bravo ragazzo. Ora ricopre un ruolo importante ed è comprensibile che sia spaventato, dati gli attacchi dei lupi mannari e delle altre creature. Tutta quella storia della guerra, della ribellione, dei rapimenti e degli omicidi sarebbe troppo per chiunque. Povero Harry. In ogni caso è solo questo: spaventato. La situazione si risolverà per il meglio, vedrai. E nel frattempo, fino a che ci sarà il bando, posso occuparmi io dell'ovetto.» Fissò il grosso uovo come se si fosse già schiuso e (qualsiasi cosa contenesse) gli stesse rivolgendo il più dolce dei sorrisi. «Gli Scamander rimetteranno le cose a posto.»

Mescolando un mazzo di carte unte, usate un'infinità di volte, Eric assunse un'espressione pensierosa. Attese a lungo prima di parlare, come se fosse assillato da dubbi roventi. «Una partita?»

«Solo se posso offrirti un altro giro.»

«Non sono in grado di reggere il tuo passo, Hagrid. Ma chiama pure Dean. Giocare senza bagnarsi la gola sarebbe inaccettabile.»

Senza pensarci due volte, Hagrid si fece portare da bere. Dean Thomas arrivò con la più grossa tazza fumante che La Testa di Porco avesse mai visto: un manico ricurvo attaccato alla vasca per il punch di zucca. L'unico modo, a detta sua, di soddisfare una sete da giganti.

Il viso rubizzo di Hagrid cominciava a spuntare impertinente in mezzo alla chioma bianca, ogni sorso più audace. Appropriato, dato l'avvicinarsi dell'inverno.

Eric diede la prima mano, buttando sul tavolo l'apertura. «Sai, Hagrid, non riesco proprio a capire come fai ad essere così tranquillo e sicuro quando si parla di lupi mannari. Io mi agito al solo pensiero di trovarmi interi branchi per le strade da un momento all'altro.»

«Sono solo incompresi, te l'ho detto. In realtà sono creature fedeli, sincere. Possono essere anche dolci e affettuosi, se li sai prendere.»

«Esperienza personale?»

«Ma certo! Ne ho conosciuto più di uno in vita mia. E mai un problema.» Dopo aver riflettuto meglio, borbottò: «Più o meno.»

«Dannazione, non ho nemmeno un otto in mano. Non sarai un maestro anche in questo tipo di sfide?»

Hagrid si fece una risata. «Giocavo da prima che tu venissi al mondo. Anche con Silente: il più temibile degli avversari. Una volta ho vinto un uovo di drago al gioco. Proprio qui, su questo tavolo! Ma non dire che te l'ho detto.»

«Stai per vincerne un altro, mi sa. Anche se non di drago.»

«Dici sul serio?» Ad Hagrid mancò un battito. Avrebbe così tanto desiderato prendersi cura di una nuova, innocente creatura bistrattata dal mondo, che sarebbe stato capace di fare qualsiasi cosa, pur di agguantarne l'opportunità.

«Sei uno di cui fidarsi. Anche se ci siamo conosciuti da poco, non credere che non sapessi bene chi sei, Guardiacaccia e Custode delle Chiavi.»

«Io famoso? Non diciamo sciocchezze. Harry Potter è famoso. Un sacco di ex studenti alla Scuola sono famosi. Ci sono perfino lupi mannari famosi. Ma di certo non io.»

«Lupi mannari? Conoscevi studenti licantropi?» domandò distrattamente Eric.

Hagrid sistemò le carte, prima di fare la sua mossa. «Forse non dovevo dirlo. No, non dovevo proprio.»

«Certo, scusami, immagino sia una questione privata. Solo mi stupisco che bestie di quel tipo avessero frequentato Hogwarts.»

«Non sono bestie. Sono persone. E molti di loro sono brave persone, non come Hati.»

«Hati ha fatto l'unica cosa che gli riesce naturale: una dei suoi è stata imprigionata e per risposta si è messo a uccidere e reclutare un esercito per la guerra. Sono aggressivi e irrazionali.»

«Uno non è tutti! Dovresti capirlo, Eric. Anche tu hai a che fare con creature che non vengono comprese. O pensi che siano cattive dalla nascita?»

«No, certo che no.»

«Ti stupiresti nel sapere che alcuni di loro, anche quelli che sono stati considerati dei mostri, erano dei ragazzini come gli altri, che hanno solo bisogno di essere amati come tutti. Quando Greyback veniva a scuola non era niente più e niente meno che uno studente, con amici e rivali, interessato a studiare e ad essere normale e giocare e mangiare cioccorane. Impazziva quando provavano a scappargli, eh eh.»

Eric calò la mano, in preda allo shock. Questa volta, come non avrebbe potuto immaginare, fu una reazione sincera. «Hati Greyback è stato a Hogwarts?»

«No, no» si affrettò a rispondere Hagrid. «Fenrir. Ma forse questo non dovevo dirlo.»

«Ti prego, parlami di Fenrir Greyback. Nessuno sa più dove sia, dicono addirittura che sia morto. Venuto dal nulla e scomparso nel nulla, come un fantasma.»

«Che sciocchezze. Sono queste stupidaggini ad alimentare i pregiudizi verso la sua gente.»

«L'aver aggredito bambini non è un pregiudizio, Hagrid, ma un fatto. L'aver combattuto per Lord Voldemort, anche. Fenrir Greyback è un criminale.»

«Giochiamo a carte, che è meglio.»

Hagrid si rabbuiò. Vedeva le carte senza riuscire a focalizzarsi. Non ci pensava. La sua mente era partita per un viaggio e navigava in acque scure e turbolente. «Odio i segreti.»

«Facciamo un patto» propose Eric. «Io mi fido di te, se tu ti fidi di me.»

Incurvando la schiena, Hagrid si sentì punto sul vivo. Poteva essere un problema, parlare con il nuovo compagno di bevute? Poteva un uomo così premuroso verso le proprie creature avere torbidi intenti?

«Pensi di poterti occupare dell'uovo di Euriale?»

«Senza dubbio. Non ci sono mani più espertissime delle mie.»

«Mi faresti un favore incredibile. E mi piacerebbe poter ricambiare.» Eric, al quale non importava minimamente delle carte, spinse le spalle in avanti e bagnò le labbra nel baffo bianco della burrobirra. «Lo vedo che hai un peso, Hagrid. E so che vuoi bene ai lupi mannari, nonostante tutti ne hanno una paura folle. Anche io ne ho paura. Ma mi piacerebbe capire. Se capissi, sai, sarebbe un primo passo.»

«Non lo so...» bofonchiò Hagrid.

«Invece sei l'unico che lo sa. Se capissi io... forse potrebbero capire anche gli altri. Lascia perdere Hati: è andato fuori di testa quando la compagna ha perso il figlio in grembo. Questa è Azkaban e forse hai ragione tu a dire che non ci sarebbe dovuta andare.»

«Rolf Scamander l'aveva difesa» ripeté Hagrid.

«Già. Non ci doveva andare. Ma l'hanno consegnata lo stesso loro, giusto?»

«Te l'ho detto. Quella è gente leale. E lui sperava di non mandare in malora tutti i sacrifici fatti.»

«Chi? Chi? Chi, Hagrid?»

Hagrid prese una lunga sorsata, rovesciandosi in gola una cascata d'alcol in grado di stendere un ippogrifo. Si teneva dentro un segreto da tanti, troppi anni. Da quando Albus Silente era morto, la sola idea di nascondere la verità gli era parsa insopportabile. Prima, significava essere degno della fiducia di un grand'uomo, ma ora quella stessa sensazione si era trasformata in un viticcio infestante che lo aggrediva dal profondo.

«La colpa è solo nostra. Di tutto quanto. Questa gente ha sofferto ed è stata maltrattata perché qualcuno li odia, come è normale che sia. Lo capisco: la gente ha paura di quello che non conosce. Ma noi, tutti quanti, siamo stati a guardare. Da sempre, da prima che Fenrir venisse a Hogwarts, e dopo che cominciò a dare la caccia ai figli dei maghi. Mi aveva chiesto di non dirlo a nessuno...»

Eric, esasperato, perse anche l'ultimo barlume di intento recitativo. «Hagrid, che rapporto hai con Greyback?» Fissando gli occhi gentili del gigante, batté il piede a terra tre volte e si morse il labbro inferiore.

«Lo conosco da quando era un frugoletto alto così, Harry. Cioè, Fenrir. Al terzo anno è stato fatto sparire da Hogwarts, puff, dopo che aveva salvato la vita a due amici. Dopo che il professor Silente aveva dovuto nascondere il primo attacco dei Mangiamorte. Non si chiamavano ancora così, naturalmente. Quando tutte le bugie che ci hanno portato fino ad oggi sono cominciate, pensavamo che si potesse fare. Che fosse giusto, che il fine giustificasse i mezzi. Almeno così diceva Silente. Ma si sbagliava. E sai perché?»

«Dimmi: perché?»

«Perché la verità è come una bollicina nella birra: trova sempre il modo di venire a galla.»

 

***

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Capitolo 33
*** Trentatreesima Parte ***


33/50

 

- Ascoltami bene, Hagrid, perché non mi ripeterò. Il ragazzo - disse Silente all'unica persona che si era data pena per la mia condizione, negli ultimi due anni - è di capitale importanza che rimanga nascosto il più possibile, durante i giorni del plenilunio. -

- Non si preoccupi, professore. So bene come fare. - Raccolto nella pelliccia d'orso, Hagrid strinse ritmicamente i pugni, passando lo sguardo da me a Silente. - Voglio dire, lo immagino. Voglio dire, ho delle idee. -

- Mi caro Hagrid, sono sicuro tu sia perfettamente in grado di assolvere a questo gravoso compito. - Silente strizzò gli occhi e allargò un sorriso complice. Avevo pochi dubbi sul fatto che fosse già a conoscenza del comportamento tenuto da Hagrid due anni precedenti e, ora, in qualche modo, se ne stesse prendendo implicitamente il merito.

- Grazie, professore. -

Lasciai che i due si chiarissero, quella e altre due volte durante la settimana successiva. Silente non intendeva perdere il controllo sulla sua scuola, di certo non così presto. E per quanto fossi convinto che il suo gesto non fosse basato su sentimenti di compassione e affetto, ero obbligato a fidarmi di lui.

La scelta era diventata semplice: rimanere a Hogwarts alle condizioni di Silente, sotto il costante pericolo di essere arrestato o peggio, oppure prendere le mie cose e sparire. Ma per andare dove? Non esisteva più una casa a cui tornare. Né madre né padre sulla soglia ad attendere un figlio reietto, senza un futuro, al quale dispensare severità e amore. Nemmeno la famiglia Lovegood sarebbe stata più disposta ad accogliermi. Forse, in nome dell'amicizia con Magnus, si sarebbero potuti offrire di garantirmi uno o due pasti, prima di chiedere gentilmente di non farmi più vedere.

A quel punto, ciò che era fatto era fatto. L'aver ucciso Ignavus Lovegood sarebbe stato un biglietto di sola andata per Azkaban. E non sapevo nemmeno come fosse successo.

- I compiti puoi anche farli insieme ai tuoi amici - mi disse Hagrid, accarezzando il suo nuovo cucciolo di mastino appena accolto in casa, durante gli ultimi giorni d'autunno. - Si è tutto sistemato, per quella faccenda. Non ti devi chiudere sempre qui con me. -

- Non si è sistemato proprio niente. Ed è meglio così, fidati. - Ero pieno di rabbia e di paura. Magnus, oramai, era costretto a starmi lontano. L'avevo voluto io, dati i guai in cui l'avrei ora potuto trascinare. E Driade, che continuava a tornare in sogno per darmi un bacio umido di lacrime, sembrava sempre sul punto di mandare all'aria il suo terzo anno e dare fuoco al mondo.

- Il Ministero della Magia sta solo controllando. Se ne andranno presto. Anche se non è mai troppo presto - commentò.

- Sono venuti perché Hogwarts non è più sotto controllo. Sulla Gazzetta del Profeta non parlavano d'altro. Lo sanno tutti ormai. -

- Sanno cosa? - chiese, sinceramente dubbioso.

- Che ci sono Esseri in grado di entrare e uscire dal castello e che intendono farlo. Che ci sono studenti le cui origini devono essere vagliate con attenzione. Mezzi-giganti, mezzi-goblin, sangue sporco di creature che gente come Ignavus e i suoi finti Auror hanno aizzato contro il Ministero. - La penna, mentre scrivevo i rotoli di pergamena per i compiti di Incantesimi, continuava ad attrarre il cucciolo senza nome, che sia Hagrid che Lucky tentavano di trattenere. - Gente con il sangue sporco. -

- Non dire una cosa simile. Il Professor Silente non lo permetterebbe mai. -

La verità era che Silente era proprio il loro uomo. L'unico che sapeva come stavano le cose e chi rendeva la sua presa sulla scuola traballante agli occhi del Ministro della Magia, tanto da obbligarlo ad accettare che gli Inquisitori Auror stabilissero un ufficio nel castello per vagliare le condizioni degli studenti e la loro sicurezza.

- Lascia stare. Vado nella serra di Erbologia. -

Sopportare le battute di Diggory e degli altri fu la parte più facile. Ero scappato la sera dell'aggressione, cercavo di stare tutto il tempo con il Guardiacaccia, tornavo indietro nei corridoi quando avvistavo le divise degli Auror fuori dalle aule di lezione: la logica conclusione era che fossi un cacasotto. Nessuno mancò di farmelo notare, soprattutto gente come Lizbeth Urquart e i fratelli Nott. Dovevo reggere con due mani i libri di testo per evitare che finissero a terra ogni volta che ricevevo uno spintone o uno sgambetto. Si erano già dimenticati della Megera, del mio tentativo di proteggere Moody, se mai l'avessero davvero saputo.

Avevo imparato a conoscerli. Non mi aspettavo nulla di diverso, per uno che dal gruppo era rimasto sempre all'esterno. Solo una persona mi sembrava reagire alla pressione in modo diverso: Charlie Burke. Il bullo che c'era in lui cercava ancora di imporsi sui suoi stessi atteggiamenti, come un burattinaio dai fili d'argento, ma quando mi vide entrare a prendermi cura delle piante di Grinzafico mi rivolse parole nuove.

Eravamo completamente soli.

- Magnus ti saluta - esordì, alzando e abbassando la testa nello stesso modo in cui potrebbe salutare un mulo.

Speravo ancora di trovare un po' di pace, almeno nella serra. - Ho altro a cui pensare, in questo momento. -

- Immagino. Sarai teso. -

Lo squadrai con sospetto da capo a piedi. Il labbro era gonfio e arrossato, ma a parte quel dettaglio era il solito granitico Burke: un animale da soma, con gli stessi muscoli e lo stesso sguardo vacuo. Non credendolo capace di compiere fini ragionamenti (o anche solo dei ragionamenti degni di tale nome), cercai di accantonare la mia paranoia. - Non hai da fare da qualche altra parte? -

- A dire il vero, no. I test di trasfigurazione non li posso superare nemmeno se studiassi giorno e notte. Cosa che mi guardo bene dal fare. -

- Allora vai a restituire il favore a chi ti ha lasciato quel segno in faccia - gli risposi, pensando ad annaffiare le piante.

Per qualche istante, Burke sembrò imbarazzato. Si portò la mano al labbro, tastandolo e cercando di guardarselo senza successo. Sembrava non gli provocasse alcun dolore. - Credo di... l'ho già fatto. Cioè, ci ho già pensato. Una scazzottata. Sì, un bel pugno in faccia. Fanculo, chi sei, mia madre? Fatti gli affari tuoi. -

- È quello che sto cercando di fare. -

Burke galoppò fino all'uscita, incerto su come reagire, dato che non aveva intenzione di alzare le mani. Si fermò in fondo ai tavoli, vicino ai vasi di mandragole appena interrate. - Ascolta, - disse guardandosi la punta delle scarpe - non pretendere che sia bravo con le parole. -

- C'è qualcuno in questa scuola che ti ha chiesto una cosa simile? -

- So cosa hai fatto per Magnus. E ti ringrazio. -

Rimasi di sasso. Sapeva? Cosa sapeva? Chi lo aveva informato? Se una zucca vuota come Charlie Burke era a conoscenza del mio segreto, potevo dirmi pronto a fare i bagagli: nel giro di un mese, tutta la scuola mi avrebbe additato come un lupo mannaro.

Mentre i pensieri si affollavano nella mente, lui, per la prima volta, mi sorrise con sincerità. - Se hai bisogno di una mano, se quelle teste di cazzo dei Nott ti fanno del male... tu fammelo sapere, ok? - Prese la porta e, senza attendere una risposta, se ne andò.

Il mondo aveva fatto un giro completo su se stesso ed era tornato al punto di partenza cambiato. I nemici diventavano protettori, i compagni finivano a proseguire sulla loro strada lontani da me, che potevo solo ferirli e peggiorare la loro condizione, mentre fuori, alla luce del sole, gli Auror avevano cominciato a darmi la caccia. A me, come ad ogni altra creatura infelice a causa delle prevaricazioni degli uomini.

Uomini come Ignavus, e la sua sete inesauribile di vendetta, e di "menti più oscure", ad usare le parole dello stesso Silente. Ma non avevo idea di cosa mi avesse portato a quel punto.

Non sapevo dove avevo sbagliato, nel vivere i due anni precedenti come un normale studente desideroso di ricavare la sua nicchia nel mondo. Non sapevo dove avevo sbagliato, quella notte in cui Silente mi prese sotto la sua ala, portandomi lontano da Ignavus e dai suoi uomini con il tatuaggio del teschio e del serpente, prima di rubarmi il ricordo del motivo per cui Driade stesse piangendo e mi stesse regalando un bacio. La notte in cui l'intero nostro mondo era stato definitivamente condannato.

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Capitolo 34
*** Trentaquattresima Parte ***


34/50

PER ORDINE DELL'INQUISITORE SUPREMO DI HOGWARTS

Agli studenti è vietato uscire dalle mura del castello, anche di giorno, se non sotto la costante sorveglianza di un professore.

Chiunque sia a conoscenza di legami di sangue, nella propria o altrui parentela, con una creatura non umana, è invitato a informare l'ufficio inquisitoriale. Per creatura non umana si intende tutto ciò che non appartiene alle categorie mago, magonò o babbano.

Chiunque fosse sorpreso ad aiutare e/o nascondere Esseri o Bestie Magiche senza approvazione, sarà immediatamente espulso dalla scuola.

Per garantire la sicurezza degli studenti, tutti si rendano disponibili a fornire il proprio aiuto nel momento in cui verrà ritenuto necessario.

Firmato: l'Inquisitore Supremo di Hogwarts, Edward McGriffit

 

- Renderci disponibili? Che cosa significa? - domandò Rob Paxter, di fronte al cartello appeso fuori dalla Sala Grande. Era al suo primo anno a Hogwarts e aveva avuto difficoltà ad ambientarsi. Perfino in Casa Tassorosso qualcuno poteva rimanere escluso. Ogni novità lo spaventava a morte e questo contribuiva, insieme ai dentoni da castoro e allo sputacchiare continuo, alla sua impopolarità.

- Che se vorranno interrogarti - gli risposi - lo faranno con le buone o con le cattive. Che se penseranno che tu stia nascondendo qualcosa, te la tireranno fuori con le pinze. Faranno di tutto pur di dare la caccia a chi ha il sangue sporco. -

- Non hai niente da temere, Paxter. La tua famiglia di tosapecore è a posto. - Tattercow, diventato idolo delle ragazze da quando era entrato a far parte della squadra di quidditch come Cercatore, diede un pugno sulla spalla del ragazzino. - Solo chi ha qualcosa da nascondere deve preoccuparsi. Noi siamo gente di sani principi. -

Lo passai da capo a piedi con lo sguardo, dal sorrisetto impertinente, alle spalle larghe, fino agli stivali nuovi. - La sorella di tua nonna ha sposato un mezzo-gigante - gli dissi, disgustato da tanta stupidità. - Lo hai detto a tutti tu l'anno scorso, quando i Nott ti hanno battuto come un tappeto impolverato. -

Fu come se all'improvviso avesse dovuto ingoiare un limone intero. Farfugliò qualcosa di cui non mi importava minimamente: idioti del genere erano ovunque. Si credevano fuori dal raggio dei controlli, al sicuro, dalla parte del giusto, solo fino a che non saltava fuori qualche particolare fastidioso a inguaiarli. Solo allora perdevano quell'orribile comportamento da "non mi importa, non riguarda me".

La pressione a scuola si stava facendo insostenibile. Silente non avrebbe dovuto permettere che si arrivasse a tanto. Erano solo ragazzi e ragazze innocenti...

Davanti all'aula di Pozioni, mi scontrai con Magnus. Attendeva fuori dalla porta, spalle poggiate al muro, senza degnare di attenzione i compagni che entravano e lo salutavano. Pareva perso in un altro luogo, la mente lontana dal corpo intenta a vagare fra spazi cosmici e futuri possibili. Quando lo affiancai, però, l'incantesimo si ruppe.

- Devi stare attento, Fen. Prima o poi arriveranno a te. -

- Ora ti ci metti anche tu a chiamarmi così? -

- Driade ha ragione. Sei come il Grande Lupo. Ma ricordati una cosa: nel mito, alla fine viene ammazzato. -

- Grazie per avermi fatto sentire più tranquillo. -

- Ascoltami. Io lo capisco. Allontanarti da tutto e da tutti non ti farà stare meglio. -

Digrignai i denti, prima di rispondere. - Da solo posso essere sicuro di non nuocere a nessuno. Essere sicuro di farcela. -

Magnus mi guardò come se stessi mancando completamente il punto. - Hai legato, ormai. E non intendo dire che sei legato a obblighi di qualche tipo, ma che hai preso affetto da altri, che a loro volta lo hanno preso da te. La tua mancanza porta anch'essa dolore. Non puoi più essere un lupo solitario. Ora sei... -

La porta dell'aula si aprì sul muso di Lizbeth Urquart, che sopraggiungeva proprio in quel momento. Per poco non la centrò il piena faccia. Una cosa che all'autoritaria Serpeverde non piacque per nulla.

- Stai attendo, brutto...! - Ad uscire, avvolto nella cappa nera e blu del Ministero, c'era la figura tarchiata di Edward McGriffit. I capelli gli scendevano a boccoli fino alle orecchie, aggrappati alla disperata in cima alla fronte, diradati e unti come quelli di un vecchio ubriacone, nonostante l'uomo avesse poco più di trent'anni. L'ombra perenne della barba appena fatta bloccava il volto in un'espressione rigida, quasi indossasse un elmo. Lizbeth pensò, solo per un attimo, di ricoprirlo di insulti per aver rischiato di romperle il naso. Dietro di lei, gli ultimi compagni si accalcavano per la lezione.

- Signorina Urquart - squillò McGriffit, regalandole uno sguardo rapace. - Suo padre e Mary Beth mi hanno molto ben parlato di lei. -

Lei alzò il mento e corse in aula a prendere posto. Così, per alcuni istanti, rimanemmo in tre nel corridoio. McGriffit si spostava lentamente, pesante quanto un gorilla, ma i suoi occhi affilati si attardarono su di noi. Cercava qualcosa che con la mente ancora gli sfuggiva, pur cogliendo inconsciamente di avere a portata delle ruvide mani il miglior pasto per un Inquisitore.

Forse non mi conosceva. Non ancora. Non volevo che mi associasse in qualche modo a Magnus perché, arrivato il momento, sapevo che avrei dovuto rinunciare a tutta la mia vita. Non potevo sopportare che Magnus dovesse rinunciare alla sua.

Sgattaiolai fino al mio banco, lasciando cadere i libri con un tonfo sordo. L'aula era ormai gremita e il professor Lumacorno stava poggiando in cattedra uno stuolo di provette e barattoli mezzi vuoti.

A un paio di posti di distanza, Driade alzò la mano per salutarmi. Sembrava appena uscita da un bagno di vapore, con la pelle solo vagamente lucida e i capelli straordinariamente gonfi, come una montagna di brillante zucchero filato. Mentre le sue labbra descrivevano un sorriso, sentii il cuore fatto a brandelli dal dover abbassare lo sguardo e ignorarla. Pensavo che facesse più male a me che a lei, in quel momento.

- Molto bene, signorini e signorine. Quest'oggi ho pensato che potremo renderci tutti utili ai laboriosi inviati del Ministero, qui per la nostra e la vostra sicurezza. Già. - Lumacorno si sistemò il panciotto, si stampò in volto un'espressione felice completamente in contrasto con i suoi occhi e ballonzolò avanti e indietro per darsi un tono. - Qui al terzo anno ci sono elementi più che validi, studenti promettenti - continuò, offrendo un cenno del capo a Lizbeth e Alastor - delle cui abilità ci siamo beati gli anni scorsi. Molti di voi sono in ogni caso molto competenti, quindi credo si possa fare una piccola sfida, che ne dite? Dovrò solo prendere qualche accorgimento - disse più per sé stesso che per noi. - Signor Burke, ehm, per questa lezione potrebbe individuare un compagno o una compagna da assistere, cosa ne pensa? -

Charlie Burke si stava grattando la punta del naso con la penna. - Magari guardo. -

- Bene, signor Burke, apprenda, apprenda. L'importante è che non tocchi niente. Oggi, cari ragazzi, ci impratichiremo nella preparazione della Pozione dell'Incubo di Smeraldo, comunemente nota come Drink del Colpevole. Un nomignolo curioso, non trovate? Proprio non saprei perché chi si sente in colpa dovrebbe fare ricorso a un simile preparato. Bene, aprite il vostro libro di testo al capitolo quattordici, sezione otto. -

Per una intera ora fummo costretti a triturare, schiacciare, spremere e rubarci a vicenda le poche dosi di ingredienti necessari a proseguire nella preparazione. I fratelli Nott si fecero beffe dei primi ad avere incidenti, come Amos Diggory. Il suo paiolo cominciò a vomitare una limaccia verde che sembrava infinita e intenzionata a infilarsi dritta nelle scarpe e nei calzini. Distrusse naturalmente anche il lavoro di Rumble e Tattercow, rimediando una impietosa espressione di condiscendenza da parte del professore.

La mia preparazione procedeva in modo accettabile, anche se nemmeno lontanamente paragonabile a quelle di Lizbeth e Alastor. In più, leggendo la ricetta, mi trovai a rallentare, vagando con il pensiero sul significato di "renderci utili al Ministero". L'intruglio che Lumacorno ci stava facendo preparare possedeva qualità oscure e poco rassicuranti.

- Eccellente, signorina Urquart! - esclamò il professore, testando il prodotto con una foglia di mandragora. - Quasi pari al perfetto risultato del signor Moody, ma decisamente eccellente. Entrambi vi siete meritati cinque punti per le rispettive case. Sapete, questa pozione è stata utilizzata fin dall'antichità per raggiungere una maggior consapevolezza di sé stessi. Una sorta di viaggio catartico nelle esperienze traumatiche della vita, se vogliamo dire. Poche gocce e i momenti più duri, a volte spaventosi, del nostro passato tornano a galla, per darci una seconda possibilità di affrontarli e superarli. A volte seppelliamo certe cose sotto la sabbia, che restano lì a marcire, a sedimentare, fino a provocare gravi e gravi problemi nel comportamento. Ma con il giusto aiuto, tutto passa e si può riscoprire il piacere delle piccole cose. - Batté le mani sul panciotto e aggiunse: - Alcuni ottimi studenti, anni fa, ne andavano matti. Uno in particolare ricordo che mi riempì di domande, per pura curiosità accademica. Mi aspetto ne facciate anche voi. -

Magnus, che appariva distratto senza esserlo, si fece avanti con Lumacorno. - Perché il Ministero dovrebbe usare una pozione del genere, professore? -

- Ma per aiutare i ragazzi, mi pare ovvio. Sono successe brutte cose e la preoccupazione di tutti è che nulla rimanga in sospeso. L'importante è che non ne facciate uso da soli, ragazzi. Una dose eccessiva può portare a rivivere situazioni spiacevoli con troppa intensità. Credo sia questo il motivo del nome comune. -

- Drink del Colpevole? - domandò Driade, con una certa preoccupazione.

- Certamente. Chi ha compiuto qualche scelleratezza si troverebbe a riviverla. E a soffrire per essa, immagino. Ma non preoccupatevi, non è il caso vostro. Siete solo dei ragazzi, suvvia. - Lumacorno si prodigò in un sorriso amichevole e cominciò a raccogliere le pozioni di qualità almeno accettabile. 

Se gli Inquisitori avevano intenzione di farne uso con gli studenti, l'effetto sarebbe stato drammatico. Forse non per gli altri, ma per me. C'erano molti momenti del mio passato che non desideravo rivivere, né rivedere. E se avessi parlato nel mentre...

Pensai solo a raccattare i miei libri e a scomparire. Hagrid mi avrebbe accolto come al solito e nella solitudine del suo rifugio avrei potuto studiare e rimanere al sicuro, riflettere e valutare il mio atteggiamento verso i miei amici.

Forse Magnus aveva ragione. Forse l'isolamento non poteva essere la soluzione. Queste, però, non furono le sole questioni alle quali avrei voluto avere una risposta: per quale motivo Lizbeth Urquart si era infilata in tasca una boccetta della pozione, prima che Lumacorno mettesse gli intrugli sottochiave?

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Capitolo 35
*** Trentacinquesima Parte ***


35/50

***

08 Novembre 2009

La Testa di Porco - Hogsmeade

 

«Sta dicendo: "Certo che me lo ha detto lui. Mi raccontava tutto. Aveva fatto dei sogni strani, qualche tempo dopo. Verso primavera, perché preparavo il crannachan con le fragole. Ma non era colpa del dolce. Si era avvelenato, secondo me."»

«Recupera l'orecchio, Nora. Abbiamo sentito abbastanza.» Ad Hati non piaceva spiare dalle finestre della locanda. Restava in disparte nel vicolo a fumare una miscela di erbe pungenti da una pipa in schiuma di mare, avvolto in una cappa di pensieri.

 «Quel vecchio grassone ha decisamente raccontato troppo» commentò Mandor, alzando gli occhi alla mezza luna in cielo. Si tirò su le maniche con un gesto da tic nervoso. «Ma ora risolviamo.»

Un ragno lungo e piatto sbucò da una fessura negli infissi della locanda. Nora lo stava tirando con uno spago, come fosse uno strano cucciolo tenuto al guinzaglio. «Non credo siano necessarie le maniere forti. Lo avete visto, è un povero tonto.»

«Lui è l'ultimo di quelli che sanno» ringhiò Hati, senza voltarsi.

«E che male può fare?» domandò Nora, sciogliendo l'incantesimo-spia.

«Davvero non riconosci l'uomo a cui sta facendo tutte queste confidenze?»

Nora lo osservò ancora una volta. Aveva una faccia comune e sciatta, da irlandese tisico. Decisamente invisibile, agli occhi di Nora, che non era mai riuscita a prestare grande attenzione a ciò che la annoiava. Stava per rispondere «Io non...» quando, al tavolo con Hagrid, quello batté tre volte le nocche sulla pinta di burrobirra, prima di svuotarne l'ultimo dito.

«Fa parte degli Auror» la anticipò Mandor, con un placido ghigno sul volto paffuto. «Ci era scappato, l'altra volta.»

«E se ne andrà sulle sue gambe anche oggi.» Quello di Hati, come sempre, era un ordine perentorio. Ma a Mandor non piacque affatto.

«Dovremmo prenderlo ora che ne abbiamo la possibilità.»

«Noi non ci scontreremo con lui, questa notte» disse Hati, tirando profondamente dalla pipa. «Tenete d'occhio Hagrid, invece. E non fatevelo scappare.»  Come uno stanco avventore notturno, si allontanò a passi lenti sul ciottolato. Alla locanda era quasi ora di chiusura e i più ritardatari, decisamente ubriachi, ciondolavano fuori dalla porta alla ricerca di un appiglio e sforzandosi di non rimettere in un solo getto quanto avevano pagato durante la serata.

Nora e Mandor rimasero pazientemente in appostamento, così come desiderava il Capobranco. Osservarono l'anziano Guardiacaccia, che nessuno dei due aveva mai conosciuto personalmente, mettere le ruvide manone su di un uovo enorme. Il suo compare gli diede una borsa nel quale custodirlo, prima di stringergli la mano. Sembrava improvvisamente sconvolto, forse soddisfatto, per quanto Hagrid gli aveva appena finito di raccontare.

«Ora se ne va» commentò Mandor, respirando a fondo.

Nora non lo degnò di uno sguardo e intrecciò le braccia alla vita. «Sì. Se ne va.»

Pur scalpitando, il giovane mago tenne fede al proprio impegno. Concentrò la propria attenzione sul mezzo-gigante dalla barba sporca di birra. Quello, dopo aver scambiato poche battute con l'oste, qualcosa di divertente, svuotò un ultimo bicchiere e si diresse alla porta. Sembrava un magico abete innevato che si spostava lento per evitare di franare al suolo.

Entrambi i mannari sapevano come muoversi. Avevano pedinato disparati soggetti molte altre volte e questa sarebbe stata anche più semplice del solito. Mandor estrasse la bacchetta e si lanciò per primo per le stradine male illuminate di Hogsmeade.

Come ombre seguirono il loro bersaglio, angolo dopo angolo, attendendo il momento giusto in cui fossero stati completamente soli. Non fu difficile tagliare per uno stretto viottolo per ritrovarsi pochi passi avanti ad Hagrid che, abbracciato alla propria borsa, faticava persino a vederli.

Nora gli bloccò il passo. «Ciao, bestione.»

Hagrid strizzò gli occhi. A malapena notò la figura snella e scura della strega che gli rivolgeva la parola. Si era fatto molto tardi e l'unico pensiero cosciente era che avrebbe dovuto trovarsi già al capanno. «Scusami,» biascicò in un rutto «sto andando a casa.» Quando provò a scartarla, lei si spostò per fermarlo.

«No, non devi. Ti abbiamo aspettato a lungo. Sarebbe scortese lasciarci aspettare ancora.»

Lottando contro l'ebbrezza, Hagrid cercò un punto di equilibrio. «Ci conosciamo?»

A rispondere fu una voce roca, animalesca, di un uomo spuntato dal cuore oscuro della notte. Un paio di sopracciglia folte fissavano il povero Hagrid con sguardo famelico, mentre l'ultima nuvoletta di fumo si disperdeva nell'aria sottile. «Abbiamo conoscenze in comune. Ma questa non è una cosa buona. Non per te.»

Hati restò a debita distanza. Spense la pipa, lasciando cadere il tabacco bruciato al suolo, e la mise in tasca. Poi, estrasse la bacchetta.

«Quest'uovo me lo ha dato un amico alla taverna. Non potete portarmelo via» disse Hagrid, spaventato per la piccola vita che trasportava e non per la propria.

«Sei proprio scemo come dicono.» Hati lo puntò, a braccio teso, con un'espressione di disgusto tracciata sul viso. «Non ti serviranno spiegazioni. Con te, il suo passato finisce per sempre.»

Tutti e tre i lupi mannari mostrarono le bacchette, pronti a lanciare la maledizione e concludere nel modo più pulito possibile l'appostamento. Nessuna indecisione, nessun rimorso: solo un passaggio obbligato verso la rivendicazione del loro diritto di esistere.

Il polso di Hati roteò con velocità e decisione. La punta dell'arma divenne verde, per un rapidissimo e mortale istante.

E la sua bacchetta volò in aria, scalzata a una decina di metri di distanza.

«Hagrid! Vattene!» Alle sue spalle stava avanzando una donna con le vesti del Ministero, i capelli grigi e gli stivali di pelle, comparsa come un angelo protettore dagli occhi di fuoco oscuro. «Vattene ho detto, dannato imbecille!»

Nora e Mandor passarono le loro bacchette da un bersaglio all'altro, poi a un terzo e un quarto, presi completamente alla sprovvista. Nella strada si era materializzata in rapida sequenza un'intera squadra con le spille appuntate al petto.

«Quello è l'Auror della locanda» gracchiò Mandor, quasi felice di rivederlo. «Hati, abbiamo molta più gente alla festa!»

Hati non si scompose. Inspirò profondamente, mentre infilava di nuovo la mano in tasca. Se aveva già visto due volte il ragazzo dai capelli rossi, che così ostentatamente cercava la morte, non poteva dire lo stesso per gli altri due Auror di mezza età comparsi insieme a lui. Entrambi con la barba sfatta di giorni, come se fossero stati impegnati in un compito che aveva richiesto una dedizione totale. Proprio come si era immaginato dovesse essere ai comandi della donna che lo aveva disarmato.

«Lizbeth Urquart» le sibilò in faccia. «Allora non è ancora tempo per la pensione.»

«Lo sarà appena avrò riportato l'evasa ad Azkaban e te con lei.»

Nora, nel rivedere la propria carceriera, sentì una scarica elettrica percorrerle il corpo fino alla punta delle dita. «Col cazzo che ci torno, brutta puttana sadica!»

«Ma i Dissennatori sentono la tua mancanza.» Lizbeth mostrò un falso sorriso pieno di denti marci e si leccò il labbro superiore. «Arrendetevi ora,» li ammonì, mentre uno dei compagni trascinava per la manica Hagrid, imbambolato e confuso «se volete continuare a vivere. Ma immagino che degli animali come voi non diano il nostro stesso valore alla vita.»

Hati, che con la mano destra aveva sfilato il lungo bocchino della pipa - che solo una pipa non era affatto -, alzò il naso al cielo. Fissò la mezzaluna e sospirò: «Per noi vale molto di più.»

In un istante, la notte si riempì di folgoranti lampi di magia.

Mandor fu il primo a scagliare contro gli Auror. Con impeto irrefrenabile schiantò la pavimentazione della via, che esplose in una pioggia di frammenti e sassi. Eric e l'uomo segaligno che lo affiancava si gettarono a terra, per non essere travolti dalla violenza del colpo. Solo Lizbeth rimase in piedi, ruotando la bacchetta per creare uno scudo fisico. Non aveva tolto gli occhi da Hati, ma per difendersi non riuscì ad intervenire abbastanza in fretta.

Hati usò la piccola bacchetta d'emergenza per un: «Accio!» e ritornare in possesso della sua fedele arma. Un istante ancora e passò con la mira da Lizbeth a uno degli Auror, che ancora stava cercando di mettere Hagrid in salvo. «Confringo

Lizbeth lanciò un urlo. Stava per fermarlo, ancora una volta, quando corde spesse le strinsero gambe e busto come fossero serpenti. All'angolo, Nora ribadiva le proprie volontà: non sarebbe tornata in prigione se non da morta.

A risponderle fu uno schiantesimo partito da Eric. La colpì in pieno, lanciandola contro la parete di legno di una casa buia. L'altro Auror liberò Lizbeth che, come una furia, cominciò una sfida diretta con Hati, costretto a difendersi dai rapidi affondi.

«Non sei così male, per essere una vecchietta» la sbeffeggiò Hati. Indietreggiava, eppure ogni colpo veniva perfettamente parato, deviato o scudato. «Potresti anche dare del filo da torcere alla tua cognatina, eh, Liz?» Deviò l'ennesimo colpo con la bacchetta, restituendolo al mittente e guadagnando secondi preziosi per il contrattacco.

Lizbeth spaccò la terra, per farne sgorgare violentemente l'acqua necessaria a ripararsi dalle fiamme voraci soffiate da Hati. Una testa di lupo infuocata si trasformò in vapore denso quando tentò di oltrepassare l'improvvisata fontana. «Scommetto che potresti anche tu» gli rispose. «Minerva non sa chi era tua madre. Potresti sorprenderla. Ma non me, cane bagnato.»

Gli altri due Auror - solo due, poiché quello che aveva estratto Hagrid dallo scontro non si era più rialzato - puntarono Hati, costringendolo a parare a ripetizione. Nel tentativo di abbatterlo, diversi colpi andarono a segno, ma lui non barcollò. Non prima di aver dato il tempo a Mandor di agire.

Il solido lupo mannaro aveva pensato, in più di un momento, di evocare una splendente luna in cielo. Sarebbe stato facile. Il pensiero di poter mutare e sbranare gli ennesimi idioti gli metteva l'acquolina in bocca. Ma aveva anche imparato ad eseguire i comandi del Capobranco alla lettera, senza fare di testa propria. Il che significava fare meno baccano possibile e ammazzare il mezzo-gigante.

Oltrepassò il corpo dell'Auror e scrutò nel vicolo, un passaggio lercio di legno e pietra fra due scricchiolanti edifici. Hagrid era ancora lì, con la mano a cercare un appiglio, barcollante e impaurito.

«Merda, merda, merda» rantolò Eric. Accorgendosi del pericolo, mollò all'istante i compagni per correre a difendere Hagrid. Non poteva lasciarlo solo. E non voleva.

Hati guadagnò un colpo. Nora, feroce, lo affiancò. In mezzo alla strada, due Auror d'esperienza affrontavano i criminali più ricercati del decennio.

«Non puoi scappare, Hati» gli intimò Lizbeth. «Oramai sei finito. Come ho preso lei, in un momento in cui era molto più pericolosa di così, prenderò te. Puoi solo scegliere se seguirmi nella maniera indolore, oppure nella maniera divertente.»

Nora torse la bacchetta e innalzò un muro di pietre strappate alla passeggiata. L'Auror dai baffi folti che aveva di fronte la bombardò all'istante.

«La cosa veramente divertente, Liz,» disse Hati, con una voce tutto fuorché divertita <è che tu lo sai davvero chi era mia madre. E pensi che per questo io abbia ereditato una lieve affinità con i lumini da notte. Dimmi, vecchia stronza, ti sembra che da Fenrir Greyback io abbia avuto solo un cappotto di pelliccia?»

Lizbeth sgranò gli occhi, mentre Hati agitava le braccia con precisione e una grazia sovrannaturale, da direttore d'orchestra, assolutamente in contrasto con il suo aspetto rozzo e primitivo. Il suo compagno Auror tentò di schiantarlo, ma Nora lo protesse rapidamente.

Fino a che Hati sospirò: «Ardemonio.»

Fauci infuocate di lupo, occhi di drago e ali ardenti di fenice si riversarono tutt'attorno. Le fiamme danzarono frementi e, in pochi istanti, divamparono squarciando le tenebre.

A Hogsmeade, ogni porta, ogni tetto, ogni sedia e ogni trave di legno tremò di paura.

 

***

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Capitolo 36
*** Trentaseiesima Parte ***


36/50


In primavera, la brezza che spirava fra le travi e il parapetto del Ponte Coperto portava con sé un carico di profumi rinvigoriti dalla rinascita dei prati. Amavo passare ore affacciato sulla gola, cercando quel poco di libertà che avevo tanto desiderato e che avevo sperato di trovare nella comunità dei maghi. In quei giorni, con agenti del Ministero a dare la caccia a ragazzini come se fossero mostri, con cartelli appesi ovunque che invitavano al collaborazionismo, il sogno sembrava svanire.

Ma l'esterno del castello riusciva comunque a regalarmi un po' di serenità. L'odore degli aghi di pino e il canto degli uccelli mi aiutava a uscire dalla mia personale prigione, andare lontano con la mente, fuori dai corridoi di pietra, lontano dalle statue e dai fantasmi impossibili da rinchiudere. Per la prima volta dopo tanto tempo, sentivo di nuovo il desiderio di fuggire.

A tenermi ancora attaccato alla scuola, però, c'era Driade. Mi aveva seguito sul ponte, avvicinandosi quasi di soppiatto, forse per paura che la potessi scacciare di nuovo o allontanarmi senza dire niente.

- Il tuo silenzio spacca i timpani - mi disse, appoggiandosi al parapetto, poco distante.

I raggi del sole tagliavano in due la coperta di nubi. Da lontano provenivano le urla di incitamento dei tifosi Grifondoro. Si stavano preparando al Campo di Allenamento per la partita della settimana seguente.

- Non vai a vedere giocare Paciock? - le chiesi, sovrappensiero. - Magari si fa male anche questa volta. -

Driade sbuffò, abbozzando un sorriso. - Magnus è bloccato a Divinazione. Il professor Damanoster si è convinto abbia grandi doti da sviluppare. Quindi credo che la scopa di Paciock non farà le bizze, oggi. -

- Il professore sarebbe stupefatto di questa profezia. -

Non parlavamo da così tanto tempo che avevo scordato il piacere di un semplice botta e risposta con lei. Negli anni era diventato talmente naturale, talmente essenziale, che recidere quel cordone faceva terribilmente male, oltre a richiedere un'enorme fatica.

- Fammela tu, una profezia. - Driade si sistemò i capelli scossi dal vento. La divisa si stava riempiendo di pelucchi bianchi, semi vaporosi portati dal vento.

- Potrebbe farla chiunque, a questo punto. Anche Diggory. - Mi era chiaro ciò che voleva sapere. Il futuro che mi stava attendendo, però, cominciava a delinearsi da solo.

- Perché dici così? -

- Driade, andiamo, apri gli occhi. Cosa ci faccio io, qui? Ormai è evidente che nessuno mi vuole. Sono un pericolo per chi mi sta attorno. E ora hanno cominciato a darmi davvero la caccia. Quanto pensi ci metteranno gli Inquisitori a rendersi conto che a scuola c'è un lupo mannaro? -

Lei mi fissò, senza compassione, e disse: - Sei ancora convinto di essere l'unico con qualcosa da perdere? -

Fu come se il ponte di legno traballasse, scosso da un terremoto che solo io potevo sentire. Stavo davvero pensando solamente a me stesso? Nonostante le persone che lungo la strada camminavano con me, che mi avevano dato riparo, amore, amicizia, l'unica cosa a cui riuscivo a pensare era la mia tristezza, la mia sensazione di amara persecuzione? Lei era lì, a un soffio da me, con la verità in mano, mai veramente nascosta, mai veramente svelata. Se dicessi che non me ne ero accorto mentirei. Forse avevo solo paura di chiedere.

- Tu sei...? -

I passi flemmatici sulle assi, la voce decisa, la veste azzurra: quel circo ambulante di Albus Silente si fece udire chiaramente fin dall'ingresso del Ponte Coperto. Avrei preferito se si fosse tenuto a debita distanza, mai troppa in quei giorni, ma sembrava divertirlo darmi il tormento con la sua finta apprensione. Peggio che mai, in quel momento non era solo.

Silente gesticolava vistosamente, tenendo avvinta l'attenzione dell'Inquisitore Supremo McGriffit.

- Presto, vattene. Vai via di qua. - C'era solo una direzione che Driade avrebbe potuto prendere, a meno di spingerla di sotto.

- Fen, dobbiamo parlare. -

- Non ora. Vattene, prima che ti veda con me! - Lei era ferma impalata e io la guardavo con il cuore lanciato al furioso galoppo. Desideravo solo volasse lontano, al riparo dai pericoli. Lontana da me, che solo con la mia presenza avrei potuto rovinarle la vita. Se l'incontrarmi non l'aveva già fatto.

Per scacciarla, per tenerla fuori dalla portata del viscido e sorridente McGriffit, andai incontro a Silente. Ogni scusa sarebbe stata buona. E poi ero convinto stessero già venendo a cercarmi.

- Salve, professore. - Salutai il Preside a denti stretti, pronto a sorbirmi l'ennesimo balletto di cortesia, che sarebbe diventato rapidamente disgustoso a causa dell'Inquisitore.

Invece, Silente fece finta di non vedermi. McGriffit girò il capo per darmi uno sguardo, ma Silente, con una mano sulla spalla, lo costrinse gentilmente a girarsi e scrutare l'orizzonte.

- Vede? In questa stagione i colori sono meravigliosi durante tutta la giornata. La sensazione di libertà è incomparabile, in effetti. Non crede anche lei che sia meraviglioso? -

- Certo, come no - rispose seccato McGriffit, ancora curioso di quel ragazzino con più di qualche accenno di barba, fisso impalato in mezzo al ponte.

- Ed è per questo che gli studenti non sentiranno il peso della vostra attività qui. A meno che intendiate essere più presenti, certamente. Ma sappia che i dintorni del castello fungeranno da ottima sacca di dispersione, per allentare le tensioni, rincuorare gli animi e, lo confesso, anche godersi gli incontri di Quidditch. Lei ama il Quidditch, signor McGriffit? - Così dicendo, lo trascinò con sé in una lenta passeggiata. Da dietro la schiena, con la mano, Silente mi fece cenno di scomparire.

Basito, non me lo feci ripetere due volte. Colsi l'occasione e girai i tacchi. In un attimo, rientrai dai portoni, osservato solo dalle statue impassibili, e mi nascosi dietro l'angolo.

Qualsiasi cosa stesse orchestrando Silente era oltre la mia portata. Non avrei saputo immaginare che tipo di relazione stesse intessendo con gli agenti del Ministero.

Ma d'improvviso fu lui a svelarsi.

Sbucò dal dietro al muro pochi secondi dopo, come se mi avesse seguito. Non avevo ancora fatto in tempo a rallentare la mia apprensione e riprendere fiato.

- Confido che questo non sia il suo piano a lungo termine per nascondersi - ironizzò.

- Cosa? Dov'è...? -

- Il signor McGriffit sta cercando di scorgere la sfuggente fenice che costruisce il nido fra gli abeti che gli ho indicato. -

- Fanny? Da quando fa il nido tra gli alberi? -

Silente scosse il capo. - Mai fatto. E dubito che mai lo farà. -

Ero ancora terrorizzato e la voglia di stare a certi giochi mentali era morta da tempo. - La deve smettere di prendere in giro le persone. Dovrebbe risolvere il problema degli Inquisitori, non portarli a spasso. -

- La questione è più grande di quanto lei possa pensare. Il programma contro le creature attuato dal Ministero è una macchina complessa e senza cuore: nessuno può fermarla da solo. Non più ormai. -

- Bene - ringhiai. - Faccia come l'ultima volta allora. Ci consegni tutti quanti! Cosa aspetta? Problemi in meno per tutti! Ho visto quel tappo di Dutch prima: secondo me è un mezzo-goblin. Andiamo a prendere anche lui? Chiamo Hagrid, così sono due piccioni con una fava. -

- Anche se crede che il mondo intero abbia come unico interesse, nelle ore di veglia, rovinarle l'esistenza, sono spiacente di rivelarle che non è così. Ciò che è stato fatto doveva essere fatto. Così come lo sarà in futuro. -

La mia capacità di sopportazione era giunta al limite. Se solo avessi potuto vedere la luna in quel momento, sarei morto con la gioia di assaggiare il sangue di quel vecchio bastardo. - Io lo so cosa ha fatto alla mia gente! Dei campi di reclusione, dello sterminio, dei rastrellamenti porta a porta. Anche mio padre era uno di loro, uno di quelli raccolti come spazzatura da gettare nelle fiamme. Si è portato dentro ciò che ha vissuto fino al giorno della morte. - Strinsi gli occhi, cercando di non piangere e non rivedere nel buio il volto cianotico di papà, con la corda legata attorno al collo. - Per quelli come me il destino è già segnato a causa di gente come lei. -

Silente, impassibile, immobile come mai capitava di vederlo, si oscurò in volto. Stava lasciando fuori il mondo, per difendersi dai ricordi. O forse cercava di spaventarmi, o sembrarmi un amico preoccupato. Ad non lo saprei dire. - Io credo che in questo mondo ci siano delle grandi forze. Credo nel bene e nel male, ma non si inganni: non esiste solo bianco o nero. A volte, per fare del bene, è necessario accettare un male minore. E nel male, anche quello più grande, è davvero raro non si nasconda un seme d'amore. Le persone fanno cose terribili, davvero terribili, in nome di ciò che credono giusto e buono. Forse questo fa di loro persone malvagie? O se il risultato è lodevole, benefico per i più, possiamo giustificare quanto compiuto in nome di una tale salvezza? -

Lo fissai. Strinsi i pugni. Non sapevo cosa rispondere.

- C'era un uomo, un grande mago, - riprese Silente - che con l'appoggio di nobili e indomabili creature, ingannate in nome di una libertà ingannevole, avrebbe assoggettato il mondo al proprio capriccio. Il potere di quest'uomo era grande: sapeva convincere le persone che il suo pensiero fosse retto e caritatevole. L'incantesimo più potente, il più terrificante, se nelle mani sbagliate, è quello delle giuste parole. Credo di potermi vantare, senza falsa modestia, di possedere almeno i rudimenti di tale potere. E ne conosco gli effetti tremendi, buoni o meno che siano. Per questo, lasci che le dica solo un'ultima cosa: non abbia la presunzione di comprendere come va il mondo. Nemmeno io ne ho davvero idea, che ci sono dentro da molto più tempo di lei. Ma abbia il coraggio di battersi per i suoi ideali. Per la vita, per l'amore, per la musica e ciò c'è di nobile. Altri, più potenti e saggi di lei, non lo faranno mai. -

Silente si guardò le mani e le nascose nelle maniche della tunica, quasi se ne vergognasse. Senza aggiungere altro mi lasciò nel corridoio, in compagnia di fantasmi che ancora oggi, dopo cinquant'anni, non intendono prendere congedo.

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Capitolo 37
*** Trentasettesima Parte ***


37/50
 

***

Appunti per la bozza "senza titolo".
(Ancora per poco)

Di Megan Jones
(se trovate questo testo, non provate a fregarvi il merito)

Ci sbagliavamo. Io, mi sbagliavo. Non me ne faccio nemmeno troppo una colpa: sarebbe stato impossibile aprire gli occhi da soli. Serviva che qualcuno spiegasse bene come stanno le cose, la serie di chicome in che modo, altrimenti è naturale che la nostra opinione fosse influenzata solo dalle poche notizie di atti criminosi riportati dai giornali. Mi sembra logico. Quindi non capisco perché continuo a sentirmi così sporca e colpevole. È del tutto irrazionale.

Queste ultime settimane sono state... non saprei definirle. Mi sento contemporaneamente più lucida e più confusa. Alcuni... fatti recenti hanno di certo contribuito più di altri ad avvicinarmi a queste persone. A vedere le cose dal loro punto di vista. Penso che stia accadendo anche il contrario, in un certo senso. La mia vicinanza non rende più il branco nervoso, il che ha contribuito non poco ad allentare la sensazione di trovarmi in costante pericolo.

L'unica persona che continua a terrorizzarmi è Fenrir Greyback. Il racconto sul suo passato ha posto sotto una nuova luce quello che ha fatto e quello che ancora sta cercando di fare. Fatico a immedesimarmi in una vita all'insegna del terrore, di ciò che il mondo ha voluto fargli e  di quello che ha provocato alle persone che ama. Una condizione simile, così aliena, così innaturale, avrebbe conseguenze disastrose sulla più solida delle menti e la più pura delle anime. Cosa che Greyback non è. Lui è una persona ordinaria, alla quale sono capitate per tutta la vita vicende straordinarie.

Straordinarie e terribili.

Credo abbia intenzione di completare il racconto del suo ultimo anno ad Hogwarts, ma non oltre. Il fermento dei branchi è palpabile e Fenrir è molto inquieto in questi ultimi giorni. Si sta preparando a scontrarsi con Hati, suo figlio. Forse con l'intero dipartimento degli Auror e con Harry Potter in persona. Dubito avrò ancora molto tempo per mettere nero su bianco quello che è il suo passato. Che è anche il passato di una intera generazione di lupi mannari, radunati da una parte o dall'altra, o ancora nascosti come ratti nelle fogne per paura di essere coinvolti in una caccia al mostro.

Solo ora comprendo quanto il mondo magico sia stato cieco nei confronti di queste persone. Abbiamo fatto finta che non esistessero, per un po', ignorando semplicemente l'idea che non fossero solo argomento di conversazione da taverna o da libri di storia, ma veri e carnali individui, con bisogni, amicizie, desideri... e drammi. Abbiamo creduto che i nostri problemi fossero gli unici, i più grandi, i più importanti: le regole per l'accesso alle finali di quidditch, l'accoglienza o meno dei maghi americani a Hogwarts, le strisce di gossip sulla Gazzetta del Profeta o l'eterna lotta per i privilegi reclamati dai purosangue. Tutte queste sciocchezze, mentre brave persone diventavano prima insofferenti, poi criminali.

Non sono tutti malvagi, ho imparato a conoscerli. Ho una discreta familiarità, dopo questi mesi, con i lupi mannari. Sono convinta che non ci siano più di uno o due veri stronzi, fra loro: una quota normale, soprattutto in considerazione di alcune familiarità (i Carrow sono sempre i Carrow). Molti, però, hanno indurito i loro spiriti. Si sono fatti cinici, incapaci di sopportare anche il minimo screzio. Sono convinti che il mondo fuori dal branco sia solo pieno d'odio per loro.

Come dargli torto. Solo che, a differenza di quel che siamo stati abituati a credere, la colpa non ricade sul loro istinto bestiale.

La colpa è nostra, maghi e streghe di ogni generazione. L'immagine che vedete nello specchio: essa è l'artefice del male, madre dei mostri. La portatrice d'odio, che dispiega le proprie ali nell'oscurità dell'ignoranza e della paura. Si solleva silenziosa sul mare placido dell'indifferenza e caccia, caccia fino allo sfinimento, poiché ogni piccolo pasto, invece che saziare, incrementa ancora di più la fame. 

Così la Bestia è stata liberata.

Non dico che loro siano esenti da colpe. Fenrir Greyback ha fatto cose terribili nel corso della vita. Il male gli è stato tirato fuori giorno dopo giorno, con le parole e con la frusta. Lui non lo nega, anzi: insiste perché ciò che è successo sia lasciato come insegnamento ai posteri. Il dolore genera dolore, in un circolo vizioso difficile da interrompere. La grande differenza è che lui ne è perfettamente consapevole. Non si nasconde dietro un mare di ipocrisie. La responsabilità è un fardello che porta con grande rispetto, per essere d'esempio, certo, nel bene e nel male, ma anche per sentirsi in pace. Anche se lo spirito è indomito, il corpo è ormai agli ultimi giorni. La resa dei conti, per lui e per tutti, sta arrivando a grandi falcate.

Ed eccomi giunta alle pagine finali del mio resoconto. Quel che sarà me rimane un mistero, per ora. Skoll e io, ecco, siamo diventate molto unite. Ma cosa accadrà quando si troverà di fronte suo fratello? Fenrir ha intenzione di affrontarlo direttamente, per mettere fine a un comportamento che sta trascinando la comunità magica in una nuova guerra senza senso. Spero che riesca, anche se l'intero mondo è gli è contro. Lui crede di poter salvare tutti: la sua gente e la sua famiglia. Odio ammetterlo (e ho evitato di esprimere il mio parere di fronte ai lupi mannari) ma sono convinta che sia una lotta impossibile. Il lieto fine va oltre il potere di chiunque.

Posso fare la mia parte, però. Intanto ho trovato un titolo per questa biografia: "Stay wild, moon child". Spero sia accattivante, ma questo lo decideranno gli editori. Sì, ho intenzione di consegnarlo alla stampa (non riesco a credere che lo sto per fare sul serio. Non riesco nemmeno a dirlo ad alta voce, ma se lo scrivo è un po' lo stesso, no?). Fino a ieri mi occupavo solo di scemenze, piccoli eventi, qualche articolo di cronaca locale, nulla che meritasse nemmeno un angolo nelle prime cinque pagine della Gazzetta del Profeta. Ma ora, ora ho tra le mani qualcosa di importante. Qualcosa che tutti dovrebbero sapere. Come è nato Fenrir Greyback e come sono stati gli ultimi anni della sua vita. Quale eredità lascia. Quali sono stati i suoi errori e le sue colpe.

Ciò che lo ha reso un uomo e non un animale.

Meglio che mi vada a stendere un attimo. Dovrò concludere il prima possibile la storia della sua fuga da Hogwarts, se voglio sperare di avere il tempo di annotare anche ciò che sta accadendo in queste settimane. In qualsiasi modo andrà a finire, per me non sarà facile.

ANNOTAZIONE (che mi è venuta in mente ora, ma meglio ribadire): consegno questo testo nelle mani dei posteri. Sii diligente, lettore. Non lasciarti attrarre da avidità, pregiudizio o, più terribile di ogni male, indifferenza. Permetti alla verità di emergere. Diffondi quello che ho cercato di tracciare in queste limitate righe. Fallo tuo! 

...

Ok, forse sono troppo melodrammatica. Avrei bisogno di più tempo.

Ma il tempo è implacabile. Quante scelte avremmo compiuto diversamente, se solo avessimo avuto più tempo per valutare le variabili? Bisogna fare il possibile con quello che ci è dato. Così sto facendo: per dare voce a chi non ne ha più avuta da secoli. Fenrir Greyback è l'ultimo Grande Alpha dei lupi mannari, maghi come noi, genitori, figli, fratelli e sorelle, amanti, sognatori. Per quanto piccole, le sue gesta hanno modificato il corso della storia di questa nazione. Forse, del mondo intero.

Così devo fare anche io. Scegliendo di rimanere selvaggia e libera, invece che in prigionia di un'accidiosa felicità. Come i figli della luna.

Ecco, dunque, come iniziò la più lunga caccia che gli Auror possano ricordare.

 

***

 

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Capitolo 38
*** Trentottesima Parte ***


38/50
 
Una estenuante paranoia si faceva il nido nella mia testa durante la notte, per poi urlare a squarciagola per tutto il giorno come un cuculo appena nato. Continuavo a ripensare alle voci divertite e spaventate dei miei compagni quando arrivammo a pagina trecentonovantaquattro del manuale di Difesa Contro le Arti Oscure. L'incubo si era materializzato e io rischiavo di pisciarmi addosso per la paura ogni volta che qualcuno mi toccava alle spalle o chiamava il mio nome.

La professoressa Black era stata infida. Ignoravo quello di cui fosse realmente a conoscenza, ma ritrovarmi in una classe di ragazzi a cui veniva insegnato come puntare il dito contro i lupi mannari fu tremendo. Le domande stupide, le battute sui cani e i paragoni con gli animali mi facevano infuriare, ma non erano la cosa peggiore. Quello che mi faceva sentire un verme era la paura che serpeggiava al di sotto dei commenti spavaldi di gente come Diggory. Il terrore e il raccapriccio di mostri nascosti sotto la pelle di uomini e donne solo all'apparenza uguali agli altri, pronti a uccidere e strappare ogni parvenza di sicurezza dalle vite dalla brava gente.

Il subbuglio nello stomaco mi obbligò a vomitare il pranzo fra i cespugli nel Cortile della Torre dell’Orologio. Dai gruppi dei ragazzi che studiavano o giocavano a gobbiglie si alzarono una serie di versi disgustati. Alcune delle voci erano anche conosciute, ma non ebbi la forza di voltarmi a guardare in faccia chi si prendeva gioco di me.

- Hey, ehm, tutto bene? Butta fuori tutto. Se c'è qualcosa che fa torcere le budella, meglio lasciarla alle piante, dico io. - Spuntata da chissà dove, mentre ero preoccupato solo di non inzupparmi di poltiglia maleodorante la divisa e le scarpe, la grossa mano di Hagrid mi diede un paio di colpi fra le scapole. Che gli altri guardassero pure: quel poco di familiarità contribuì a far di nuovo entrare aria pulita nei polmoni.

- Grazie, Hagrid. Ora mi sento meglio - dissi asciugandomi la bocca con l'interno della manica. - Devo tornare a lezione. -

- Non se ne parla. Per oggi hai finito: vai a sdraiarti da me. Quando arrivo metto su una teiera sul fuoco e ti porto un paio di biscotti. Vedrai che qualsiasi cosa ti sei preso, passerà in un lampo. -

Avrei voluto far finta di nulla e ingoiare il malessere che mi dava il tormento, ma non ci riuscii. Volai fino al capanno con l'unico desiderio di rintanarmici e non aprire più la porta, mai più.

Il pensiero di vivere come Hagrid, in quel momento, mi sembrò desiderabile. Ai limiti della società, in quella che era solo una stanza con scricchiolanti pareti di legno grezzo, mai incluso veramente nella vita degli altri o trattato come pari, ma tranquillo. Preso in giro, ma non temuto e cacciato. Sarebbe stata una soluzione possibile? Chiedere a Silente di proteggermi, trattarmi come una specie di cane da guardia per il resto dei miei giorni, fino a che le sbarre della mia cella a forma di castello fossero sfumate completamente nel paesaggio e riuscire, finalmente, a credere di essere felice?

Dovetti essermi addormentato per un po', poiché nel mezzo dei miei pensieri ricomparve Hagrid, sbattendo la porta abbastanza forte da far risvegliare anche i morti.

- Prima o poi ci resto secco, oh sì! Quel Rumble, mi fa scompisciare! - Appoggiò un cesto di vimini sulla tavola e riempì la teiera di acqua da mettere sul fuoco. - I ragazzi sono in pensiero per te - ammiccò. - Si preoccupano, anche se tu continui ad allontanarli. -

- L'impicciarsi degli affari miei per poterne sparlare non è preoccupazione. - Mi tirai a sedere, per poter allungare le mani e sbirciare il contenuto della cesta.

- Allora come lo spieghi che ti hanno preparato dei pasticcini? Eh? - Con un sorriso e un occhiolino, Hagrid si appoggiò soddisfatto allo schienale, in attesa del tè. 

Cinque muffin al cioccolato con ciliegia caramellata in cima riposavano come soldati disciplinati nelle loro vaschette di carta.

- Li hanno fatti davvero per me? - chiesi incredulo. Ne sollevai uno, lo squadrai: non era perfetto, ma sembrava invitante. Decisamente non erano stati comprati. Ne staccai un piccolo morso, temendo uno scherzo, magari sale al posto dello zucchero o qualcosa di simile. Ma era buono.

- Certamente! E tutti insieme mi hanno detto, pensa. Anche se, ecco, non è chiaro il tuo problema... specifico, gli Inquisitori nel castello stanno stressando tutti, mettono i ragazzi sotto torchio e fanno pressioni, e questo crea casini non soltanto a te. E poi, nessuno sospetta che... che... - Hagri non finì la frase. Alzò la manona, come a voler dire "tu lo sai", e distolse lo sguardo, insicuro. Forse pensava di offendermi con questi discorsi, quando invece erano gli unici momenti di conforto che avevo.

Mentre versava il tè nelle tazzine rigate, ingoiai il muffin in tre morsi.

- Ringraziali domani, intesi? - disse Hagrid.

Dovetti riflettere più di un istante, per immaginare come fare una cosa simile. - Dovrei ringraziare tutti i compagni di Casa insieme, magari nella sala della Tana Tassorosso. Sarebbe più facile. -

- Forse, ma non ti sentirebbero tutti quanti. Hai anche dei Serpeverde da ringraziare. -

Naturalmente. - Magnus capirà. Mi conosce meglio di chiunque altro. -

- Non stavo parlando di lui, ma della signorina Urquart. - Hagrid strizzò l'occhio con complicità, come se si aspettasse che fossi in imbarazzo.

Ma la mia sensazione era un'altra. - Liz? Perché lei? -

- Mi ha portato lei i dolcetti. Si è fatta portavoce di tutti quanti, non è carina? Secondo me sotto c'è qualcosa. Potrebbe anche piacergli qualcuno. Che ne pensi? Eh? H.? - La sua voce si stava perdendo nell'antro profondo di una caverna, un'eco sempre più lontana e annebbiata. Guardai Hagrid in volto e vidi solo un paio di labbra strette e occhi gentili che scomparivano nella foresta di nidi di corvo sulla sua testa. 

Da dietro la poltrona si alzò un'ombra familiare, su fino a coprire le travi del capanno con l'ampio petto e le braccia ferine. Incapace di reagire, la fissai  invaso dal terrore. Non aveva un viso da guardare, ma sapevo che non stava fissando me. Io non ero interessante, chiuso fra sbarre troppo alte, nemmeno capace di cambiare posizione. Quello che voleva era il sangue, la liberazione della carne da un incubo eterno.

Una donna urlò fino a che il suono acuto della sua paura divenne un rantolo gorgogliante strozzato dagli artigli del mostro.

- Cosa sta succedendo? - La mia voce era cambiata, distorta anche se ancora riconoscibile. - Hagrid? - Nella stanza, il buon gigante non c'era più. E io non ero più nel capanno, di fronte al fuoco. Le pareti erano crollate, svanite in silenzio per ricomporsi in mezzo al campo erboso di un paesino sperduto. Era solo una catapecchia quella che avevo di fronte, rovente come l'inferno e congelata come le mattine d'inverno del nord.

Dall'interno, proveniva il suono di artigli che grattavano. Grattavano per uscire.

Non riuscivo a dire una parola, nonostante volessi urlare: - Papà! Papà! - Il mio petto era un mantice vuoto, bloccato dalla pressione dell'aria attorno. Sentivo che sarei potuto implodere, rannicchiarmi nell'angolo più oscuro dei ricordi e diventare minuscolo, sempre più piccolo fino a scomparire per sempre. Nessuno mi avrebbe più trovato. Lì sarei rimasto solo con me stesso, nel crocevia piovoso e inzaccherato del passato, con la sagoma di mia madre dipinta in rosso sulla parete di una distilleria e mio padre appeso a una corda, legato per il collo di fronte alla porta, sbattuto come una campanella mentre clienti torvi ma ingioiellati entravano e uscivano senza vedermi.

Sotto la pioggia battente, un uomo storto, retto su un bastone che assomigliava a una bacchetta spezzata, stava picchiando un bambino. Rideva, alzava il braccio e lo colpiva con violenza. A ogni vergata, il naso mi si riempiva dell'odore del fango e del piscio che il bambino si era fatto addosso.

Corsi verso di lui, per tentare di aiutarlo. - Lascialo stare! - urlai, inferocito, con la rabbia che mi montava alle tempie. 

L'uomo continuava a colpire, senza girarsi, cantilenando parole senza senso. - Questo è perché non hai fatto niente e questo è perché hai fatto troppo. Comprendi? Questo è per non essere rimasto al tuo posto e questo è per essere andato troppo lontano. Comprendi? - E a ogni domanda, una bastonata: sulla testa, sulle costole, sulle gambe del bambino che cercava di proteggersi.

Estenuato dalla visione, afferrai l'uomo storto per la manica. Non mi venne nemmeno in mente di usare la bacchetta: volevo distruggerlo a mani nude. Una furia incontrollabile era cresciuta nel lunghissimo percorso che mi aveva separato da lui e, quando riuscii ad afferrarlo, lo strattonai con tutta la forza.

L'uomo storto non cadde. Come il Platano Picchiatore rimase solido e radicato nel fango, ruotando solo il busto per permettermi di fissarlo dritto in volto. E quel volto, era il mio.

Ricordo la rabbia fatta carne evaporare in una nuvola d'inchiostro nero. Il bambino, assalito dai rampicanti, veniva consumato dalle creature del suolo mentre l'uomo che ero io mi divorava con la propria essenza furibonda.

Lentamente, quel viso ormai svanito cominciò a riformarsi, con più barba, più capelli, con occhi più gentili.

- Per la barba di Merlino, riprenditi! Sei con me? Sei con me adesso? - Hagrid mi stava scuotendo per le spalle come se fossi un sacco di patate.

La testa rimbombava e le immagini si confondevano. Di Hagrid, io ne vedevo quattro.

- Santo cielo, che cosa ti è successo? - mi domandò, come se non fossi appena tornato da un incubo ad occhi aperti.

- Ti prego, Hagrid, smettila di agitarmi. -

- Oh, sì, scusa. Ma avevi gli occhi girati all'indietro e straparlavi. Mi hai fatto preoccupare. Non è ancora sorta la luna, non capivo. -

- Non è stata la luna - mugugnai.

- Ah no? -

- Mi hanno avvelenato... con la pozione del professor Lumacorno... Fammi un favore, - dissi - non accettare niente di preparato per me se non è fatto da Magnus e Driade. - Ero stremato. Mi sdraiai, completamente svuotato da ogni energia.

Le coperte di Hagrid erano calde e impregnate del mio sudore. E fuori dalla finestra, il sole stava calando. La prima notte di luna piena sarebbe cominciata in poche ore.

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Capitolo 39
*** Trentanovesima Parte ***


39/50


Vennero a prenderci durante un pomeriggio baciato dal sole. Il vento proveniva da lontano e sapeva di sale, come una carezza ruvida sui prati e sulle colline attorno al castello, che svettava imperioso come sempre, con le sue guglie appuntite e le finestre attraverso cui scorgere il brulicare degli studenti. Nessuno sapeva cosa stava per succedere, mentre seguivamo i prefetti e gli insegnanti fino ai prati sulle sponde del lago.

Da un lato l'acqua limpida, dall'altro i boschi sfiorati dall'erba verde smeraldo, da dove proveniva il canto stridulo degli ippogrifi in amore. Noi di Tassorosso fummo i primi a trovarci all'esterno, con l'intera Casa che si chiedeva in quale tipo di scampagnata ci stessero trascinando.

- Nessuna scampagnata, signor Tattercow - disse il professor Zittawack, arricciando i baffi. - Solo un'esercitazione, per ordine dell'Ufficio dell'Inquisitore. -

- Esercitarci a fare cosa, un pic-nic? - Rumble era costantemente affamato e, in pochi istanti, si accorse di essere causa del suo stesso male. - Allora avremmo dovuto portare qualcosa. Perché non abbiamo preso da mangiare? -

- Non ce ne sarà bisogno - ribadì il professore. - Cercate solo di mantenere un po' di contegno, se ci riuscite. -

Moody, che aveva con sé la tracolla e un paio di rotoli di pergamena, si sedette all'ombra degli alberi a leggere in tranquillità. Quando arrivarono anche quelli di Corvonero, molti lo imitarono.

Alcune delle ragazze andarono a rinfrescarsi i piedi a bordo lago, ma non Driade. Lei restò accanto a me, anche se preferimmo sempre mischiarci agli altri anni per non attirare eccessiva attenzione. 

- Guarda, stanno arrivando anche i Grifondoro. - Puntò il dito verso le mura e un cupo professor Baston che accompagnava disciplinatamente i propri verso l'ampio prato. - Vedo la faccia da idiota di Paciock. C'è anche la Fawley e van Rubin. Secondo te cosa sta succedendo? Perché ci radunano tutti qui? -

- Non ne ho idea - confessai. - Forse vogliono perquisire i dormitori. O le aule. -

- Non possono farlo, è contro il regolamento. -

- Loro ci pisciano sul regolamento, sono il Ministero. -

- Silente dovrebbe impedirlo. Nemmeno il Ministero ha diritto di... -

La interruppi bruscamente. Driade non stava afferrando il punto, già per me fin troppo chiaro. - Il Ministero decide chi ha diritti e chi no. Non è mica una legge universale: possono modificare le loro intenzioni quando vogliono. Hanno deciso di allontanare le creature magiche e nessuno riuscirà a impedirlo. Nemmeno Silente, ammesso che lo desideri. -

Ci volle un'ora prima che tutte le classi delle quattro Case di Hogwarts fossero radunate. I professori ci disposero in file ordinate, distanziati gli uni dagli altri in attesa di qualcosa... o qualcuno.

Io mi guardavo intorno, cercando con apprensione di trovare Magnus tra la folla, ma i Serpeverde erano troppo lontani perché riuscissi a placare le mie paure. Mentre cercavo, però, mi accorsi di un'altra mancanza.

- Driade, tu lo vedi Hagrid? - Il grosso tontolone sarebbe dovuto spuntare sopra le teste di chiunque. La sua chioma di rovi avrebbe dovuto essere visibile da ogni punto del prato. Eppure, non c'era.

- Anche Silente non è venuto - sussurrò lei.

Dov'era il Preside? Aveva promesso... aveva promesso di proteggermi. Invece quel pomeriggio non era venuto: gli era mancato il coraggio di guardare in faccia i suoi studenti mentre l'Inquisitore Supremo Edward McGriffit faceva il suo proclama.

Era affiancato dagli altri due Inquisitori incaricati dal Ministero: Lenora Greengrass e Bartemius Crouch. Avvolti nelle cappe nere ci osservavano come avvoltoi pronti a lanciarsi sui resti dei primi caduti.

- Vi starete chiedendo il perché - disse McGriffit, rivolgendo un sorriso compiaciuto agli studenti. - Come mai. Cosa vogliamo da voi. La risposta è semplice, cari ragazzi: lealtà. Sono diversi mesi che operiamo con solerzia affinché la scuola possa dirsi sicura. Al riparo da minacce dirette o indirette. D'altro canto, anche per chi tra voi ha dovuto subire misure restrittive, vi assicuro che tutto è stato fatto nell'interesse della comunità. Siete ben al corrente dei disordini che ormai imperversano da nord a sud nel nostro amato Paese. Disordini causati da creature che non intendono adeguarsi a una pacifica convivenza con maghi e streghe. E per questo, ci vediamo costretti a operare in maniera più... stringente. -

Fissai intensamente Driade. La fronte era già imperlata di sudore. Ma ancora non avevamo capito su chi pendeva più gravemente il giudizio dei funzionari.

- Rimarrete qui fino al tramonto - continuò McGriffit. - I Prefetti e gli insegnanti si preoccuperanno di mantenere l'ordine. Non è affatto una punizione fisica: se avrete bisogno di dissetarvi, chiedete agli incaricati che passeranno regolarmente. Ma non saranno accettate scuse per allontanarsi. Lo scopo di questa richiesta, ragazzi miei, - concluse l'Inquisitore con un piglio beffardo - è di assicurarci che chiunque fosse a conoscenza di creature non-umane nella scuola, anche solo di ascendenza dubbia, parli ora. Dopo la giornata di oggi, chiunque fosse trovato in possesso di informazioni ed avesse evitato di farsi avanti, sarà espulso. -

Un mormorio preoccupato si sparse come un'onda gelida. Gli Inquisitori ci fissavano, uno per uno, scrutandoci intensamente come se sulla fronte avessimo inciso i nostri diritti di nascita. Quella trovata, però, era assai debole. Lo capii immediatamente, così come Driade e anche Magnus, quando ne parlammo molto tempo dopo. L'intento intimidatorio era irrilevante. Chi sapeva qualcosa, aveva già parlato.

Lo scopo di farci rimanere in piedi, all'esterno, costantemente sorvegliati fino al tramonto, era tutt'altro.

Quella notte, ci sarebbe stata luna piena.

Il cuore mi batteva all'impazzata e sembrava volermi schizzare fuori dal petto. Il mio stesso respiro fu l'unico suono che riuscivo a sentire, mentre lo sguardo si faceva nebuloso. Ero bloccato all'esterno, in mezzo ai miei compagni, in mezzo ai professori. La sera sarebbe calata in fretta in un bagno di sangue.

- Fen! Fen! - Non avevo idea da quanto mi stesse chiamando, a qualche posto di distanza nella fila. Driade si stava spostando sempre più vicina, scambiandosi di posto con gli altri Tassorosso che le permisero di arrivare a stringermi la mano.

- Sei pazza? - le ringhiai sommessamente. - Allontanati. Devi starmi il più lontano possibile. -

- Io non ti lascio. Fen, dobbiamo andarcene. -

Fu una pugnalata al cuore. - Tu hai il tuo posto. Sono io che devo sparire, prima che mi possano prendere. - Le mollai la mano, terrorizzato da me stesso. - Prima di fare una strage. -

- Sei stato costretto. Non è colpa tua: sono loro che non vogliono accertarti. -

- Dal primo momento mi sei stata vicina, Driade, e nulla di quello che io possa dire sarà mai abbastanza per esprimere cosa ha significato per me. Vorrei starti vicino, vorrei poter avere una vita normale, ma... non c'è posto dove io possa nascondere ciò che sono. - Le parole uscirono da sole, un fiume libero che mai aveva potuto superare le cateratte della paura. - Quando mi guardi negli occhi, quando mi senti vicino, senti anche quello che si nasconde in me. So che lo senti. Resterà sempre lì, in agguato sotto la pelle. Manda in frantumi tutti i sogni e le speranze che abbia mai avuto, mi allontana dalle poche persone che mi fanno sentire accettato, che mi fanno sentire una creatura degna della vita come le altre. Non ti voglio condannare, Driade. Io sono legato al lupo e lui è incatenato nella mia anima. Nessun altro deve patire questa condanna. -

Prima che finissi di parlare, gli occhi di Driade si erano fatti umidi. I raggi obliqui del sole fecero risplendere le lacrime che le scesero lungo le guance.

- Da quando riesco a ricordare, - disse, asciugandosi il naso con la manica - tutto quello che ho dentro sta cercando il suo posto. Ogni volta che ho provato, sono sempre caduta. La gente mi guarda e non mi vede. Nessuno, Fen, nemmeno tu. Ma c'è una differenza: non sai cosa vedi, ma lo senti. Per questo sono così libera, insieme a te. -

- Non capisco - piagnucolai. La verità è che sapevo già da tempo, ma avevo sperato per lei un'altro tipo di vita.

- Se ti dicessi cosa sono, avresti paura di me? Se ti dicessi che sono pericolosa, che non posso controllare la mia rabbia... -

Tirai un sorriso umido sul volto. - Credo di avere qualche esperienza in questo campo. -

- Sento di dover affrontare la verità. Sono diversa dagli altri. Dovrei fuggire e nascondermi, prima che uomini come McGriffit riescano a mettermi le mani addosso. - Prese un profondo respiro, chiuse gli occhi e disse: - Dovremmo andarcene insieme, Fen. Il lupo e la mezza veela. -

Lo avrei voluto davvero. Per me, per tenermi stretto un angolo di felicità grande come un mondo. Ma non potevo permetterlo. - Allontanati. Quando la luna spunterà in cielo, per me sarà la fine. La mia fine, non la tua, Driade. Ora non dire più un'altra parola, o giuro che andrò in pezzi prima che le bacchette degli Inquisitori possano fare il loro lavoro. -

I miei sogni erano stati piccoli, in quegli anni, molto più piccoli degli incubi, e forse per questo speravo che si sarebbero potuti realizzare. Qualcosa di minuscolo, per una piccola creatura che non aveva chiesto di essere diversa, ma che aveva l'imperdonabile colpa di non vergognarsene. 

Qualcuno ci aveva creduto. Hagrid, che temevo fosse stato allontanato proprio perché era un mezzo gigante. Magnus, che non poteva vedermi, bloccato fra le fila dei Serpeverde in attesa del peggio, delle urla e di un amico che stava per lasciarlo. Per loro, come per Driade, provai una profonda tristezza, più intensa di qualsiasi altro sentimento mai provato prima.

Nel dare a loro la mia amicizia, li stavo trascinando nell'oblio.  Il mio ultimo gesto da uomo libero, l'ultimo della mia intera esistenza, fu per loro.

Ruppi la fila e, senza voltarmi mai, cominciai a correre più veloce che potevo verso il bosco, con il vociare dei miei compagni alle spalle e Bartemius Crouch che sfoderava la bacchetta, alla ricerca dell'origine del disordine. 

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Capitolo 40
*** Quarantesima Parte ***


40/50
 

Gli schianti si propagavano nel fitto della foresta, seguendo fischi rapidi di saette che mi passavano a poche spanne dalle orecchie. Io correvo a perdifiato nel sottobosco, inseguito dal latrare degli Inquisitori: almeno due, ne ero certo. Crouch era stato il più vicino e il più rapido a tentare di colpirmi con un incantesimo. McGriffit non si sarebbe perso la caccia per nulla al mondo.

Il crepuscolo stava lasciando spazio alla notte. Sapevo che sarebbe stata questione di poco tempo, prima che gli uncinati raggi della luna venissero a prendermi, tra le fronde, rivoltandomi la pelle.

"Bene" pensai, rivolto ai miei aguzzini. "Se è quello che volete, vi darò qualcosa di cui avere davvero paura."

Terra e foglie esplosero a meno di un metro, un istante dopo che ebbi cambiato direzione per seguire le curve del terreno. I due uomini erano vicini, troppo vicini. Sentivo le loro voci. Non mi intimavano di fermarmi, arrendermi o ripensarci. Cercavano solamente il modo migliore per abbattere il loro bersaglio: un bambino poco più che tredicenne.

Dovevo resistere e continuare a fuggire, almeno fino a trovarmi al cospetto della luna. Allora mi sarei potuto voltare e fare a brandelli i mostri, ma non prima. La mia magia era buona, anche se non paragonabile a quella degli Inquisitori. Non avevo speranze di batterli in duello.

Corsi, gettandomi fra le radici e gli arbusti, abituato a un mondo ben più selvaggio di quello dei miei inseguitori. Potevo ancora far perdere le mie tracce, se mi fossi nascosto bene, senza fare rumore, mentre quelli scagliavano dalle bacchette come se avessero voluto radere al suolo l'intera collina.

Mi acquattai fra i rampicanti che salivano sugli alberi fino alla volta del bosco. Speravo di essere stato abbastanza rapido da non farmi scoprire. In pochi istanti, scorsi McGriffit. Avanzava a grandi passi, tracotante ma impacciato dalla sua stessa mole. Urlò a Crouch (che doveva essersi spostato di qualche metro) di usare tutte le risorse a disposizione, senza farsi alcuno scrupolo. Ne andava della sicurezza della comunità.

Mentre i due continuavano in avanti, io condussi i miei passi il più lontano possibile. Non mi importava dove, in quel momento, bastava non tornare indietro e non farmi prendere. Per tre notti ci sarebbe stata la luna piena e non avrei avuto difficoltà a vivere nella foresta. Ben più tempo di quello che i miei inseguitori erano in grado di trascorrervi, sempre ammesso che fossero stati in grado di trovarmi. In quel caso, ne avrebbero pagato le conseguenze.

Muovendomi lentamente, attendevo lo spuntare in cielo del disco d'argento. Nel giro di poco i miei sensi si sarebbero tesi, la forza aumentata a dismisura, così come la velocità e l'agilità. Sarei svanito per sempre, portando in salvo me stesso e trascinando lontano il pericolo dai miei amici.

Finalmente sarei riuscito ad abbandonarli a un destino migliore, se non fosse stato per la lealtà che nessuna minaccia poteva spezzare.

Tra gli alberi, vidi avanzare a tastoni la persona che meno di tutte avrei voluto vicina in quel momento.

- Driade! Cosa stai facendo? Sei impazzita? - Parlavo piano, un sospiro quasi, trattenendo la rabbia e la paura che mi avevano invaso.

Lei mi guardò, prima con sorpresa, poi con fierezza, e rispose solamente: - Io non ti lascio. -

Sopra le nostre teste, le chiome degli alberi lasciavano filtrare la pallida luce delle stelle. Come potevo tenerla con me? Come avrebbe mai potuto starmi vicina in quei momenti? Stavo per scacciarla l'ennesima volta, anche con cattiveria se necessario, pur di evitare di farle del male, quando sentii qualcosa muoversi alla mia destra.

All'epoca non sapevo di stare osservando il Patronus di qualcuno. Ciò che vidi, era la luminosa sagoma di un cigno. Mi fissò dritto negli occhi e, in un soffio, scomparve.

- Che cos'era? - domandai istintivamente a Driade, ma invece che parole, alla mia richiesta venni raggiunto in pieno petto da uno scoppio di magia.

Sbalzato a terra, fissavo uno scorcio di cielo stellato senza nemmeno rendermi conto di cosa fosse successo.

Dal fogliame, rapido e sicuro, sbucò l'Inquisitore Supremo Edward McGriffit.

- Signorina, - disse puntando la bacchetta - consegni immediatamente la sua bacchetta e si allontani. Prenda anche quella del fuggitivo, già che c'è. -

Io mi rialzai a fatica, con la schiena sporca di terra e foglie e la testa che ronzava, mentre Driade si era immobilizzata. Negli istanti di silenzio che seguirono, McGriffit non aggiunse mai quello che entrambi ci saremmo aspettati: "consegnatele e non vi sarà fatto alcun male".

- Conto fino a tre - aggiunse l'Inquisitore, senza premurarsi di dare altre specifiche, ma continuando a tenerci sotto tiro. - Uno, - pronunciò con un largo sorriso - due... -

I capelli di Driade, la sua pelle, le sue vene e persino il suo fiato si tesero come non avevo mai visto prima. Vibrava di una rabbia ingabbiata e spaventosa, tanto ardente da far scintillare di microscopiche fiammelle l'aria attorno a sé. Alzò il braccio e urlò: - Incendio! -

McGriffit, che mai si sarebbe aspettato l'attacco da parte di una giovane studente, tanto meno con l'intento di bruciarlo vivo, non era comunque uno sciocco. Nonostante la mole si destreggiò rapidamente con la bacchetta, costretto da una furente Driade a parare una serie di colpi e spegnere, con invocazioni di acqua, le fiamme che divampavano verso di lui come lingue di drago.

L'Inquisitore riuscì anche a rispondere e, come avevo capito da tempo, non aveva alcuna intenzione di risparmiarsi solo perché eravamo dei ragazzini. Impugnai la bacchetta per aiutare Driade e tentare di disarmare McGriffit. Lei non capiva più nulla: continuava imperterrita in una serie di attacchi violenti e rapidi, con uno sguardo che sarebbe bastato da solo a incenerire chiunque.

Dopo una breve serie di Stupeficium deviati e qualche Expelliarmus andato a vuoto, però, il nostro grasso e ghignante avversario ci scagliò entrambi a terra. Con rapidità da maestro scalzò la bacchetta di Driade e spinse i viticci dei rampicanti ad abbracciarla stretta al tronco di un albero.

Io, nuovamente a pancia all'aria, non riuscii a trattenere la bacchetta in pugno.

- Fine della corsa, piccolo animale. - McGriffit rimaneva a qualche passo di distanza, in valutazione. - La luna ti fa così paura? -

- Dovrebbe farne a lei, signore - ringhiai. Ero completamente stravolto nella mente, dove una tempesta terrificante stava per prendere il sopravvento.

- Oh, solo in parte, io credo. Ci sono cose pericolose, cose infide, cose immonde in mezzo a noi. Creature che tramano e ci infestano, come i parassiti. Ma non per molto. Il Ministero ha la cura. - Soppesò con attenzione le ultime parole e mi guardò come si guarda un ratto ferito. - Cominciamo questa sera. La scuola verrà presto sanificata e in breve lo sarà anche il Paese intero. -

Il vento passò tra gli alberi, scuotendo le chiome e portando con sé una voce. Una voce conosciuta, inaspettata, troppo vicina e chiara per essere solo frutto dell'immaginazione.

- Questi discorsi stanno diventando troppo comuni, per i miei gusti, signor McGriffit. - Albus Silente, in una veste grigia e azzurra, con la barba legata da un anello alla base del mento, puntava la nodosa bacchetta verso l'Inquisitore. - Credo di dover manifestare il mio disaccordo con veemenza. -

- Signor Preside, posi subito la bacchetta. Si rende conto che questa è una minaccia all'autorità del Ministero? -

- Me ne rendo conto e me ne dispiaccio - rispose lui. - Certamente potrà capire che si tratta di un fatto di incredibile eccezionalità. Non posso lasciare che torturiate e uccidiate i miei studenti. Questo lei può capirlo. -

McGriffit storse le labbra. - Capisco che lei si troverà ad Azkaban, questa sera stessa. -

- Le passerà la voglia di parlare tanto, in compagnia dei Dissennatori. - Alle spalle di Silente, giunto di soppiatto, era comparso Bartemius Crouch, che non aveva mai mollato la caccia.

- Comprendo la vostra riluttanza, Inquisitori. In fondo, state solo facendo il vostro lavoro. La banalità con cui eseguite i compiti che vi vengono assegnati dall'alto, senza domandarvi se siano giusti o sbagliati, è disarmante. Probabilmente, credete che uccidendo questo ragazzo, avrete svolto con dedizione il vostro ruolo di tutori dell'ordine, senza che gli incubi del suo sangue sulle vostre mani possa venire a tormentarvi la notte. - Silente lasciava che il fiume di parole continuasse a scorrere, sempre più a lungo, mentre sentivo le tempie scoppiarmi e le pupille dilatarsi. Ormai ero perfettamente consapevole della foresta attorno a me, mentre lottavo per trattenermi e fissavo il terreno per non incrociare lo sguardo della luna.

- Gli ordini sono ordini - rispose McGriffit. - Che razza di arrogante è lei, da pretendere di scegliere come e quando disobbedire? -

Silente aggrottò le sopracciglia. - L'anima è la sua, signor Inquisitore. E un'anima lacerata, una che perso la propria integrità, sarà sempre più incline a lacerarsi nuovamente. Possiamo solo scegliere se lasciare che i pezzi diventino sempre più piccoli, fino a scomparire del tutto, o aggrapparci e lottare per ciò che ci è rimasto. Non è dono per tutti, quello della purezza. Ma c'è chi trova il modo di creare un quadro più grande con il proprio pezzetto, quando riconosce dei lembi che combaciano alla perfezione con i propri. Dico bene, signor Lovegood? -

Con la bacchetta quasi poggiata fra le scapole di Crouch, Magnus era ancora avvolto dall'oscurità quando, invece che rispondere alla domanda di Silente, pronunciò con convinzione il proprio incantesimo. - Expulso. -

L'Inquisitore, che non aveva fatto in tempo a voltarsi, rovinò a terra e si contorse in pochi spasmi, prima di smettere di muoversi.

- Avevamo detto che un Confundus sarebbe andato bene - sussurrò Silente alle proprie spalle.

Magnus rise. E quella risata fece eco nella mia testa fino a ingigantirsi mille e mille volte.

Alzai gli occhi al cielo, piegato sulle ginocchia.

La luna era lì ad aspettarmi.

- Come ha osato aggredire un Inquisitore del Ministero! - si infuriò McGriffit. - Ne risponderete tutti di fronte al Wizengamot! -

- Non credo, signore - insistette Silente. - Perché non posa la bacchetta, prima che qualcuno si faccia accidentalmente del male? -

McGriffit esitò, indeciso sulle possibilità di vittoria contro il più grande mago vivente.

Driade, approfittando della distrazione, tentava di strisciare fuori dalla presa delle piante.

Magnus fece due passi avanti e mi indicò distrattamente con la bacchetta. - Pensa di decidersi prima che lui vi mangi tutti quanti? -

Dopo tutto quel tempo a trattenermi, la trasformazione fu brutale.

Saranno Driade e Magnus a raccontarmi come andarono le cose, molto tempo dopo, quando ci riunimmo definitivamente. Di quegli attimi, io ricordo solo la furia, il sangue, i tagli e gli schianti.

Balzai immediatamente contro McGriffit, il più vicino, la fonte delle mie sofferenze, con le fauci spalancate. Con un urlo terrorizzato lui riuscì a reagire, appena in tempo per non finire schiacciato sotto il mio peso che, pur essendo ancora un ragazzino, in quella forma sarebbe bastato per spremere tutta l'aria fuori dai suoi polmoni.

Silente ordinò a Magnus di aiutare Driade a liberarsi e di portarla al riparo, mentre lui fu costretto a lanciarsi in soccorso dell'Inquisitore. Non poteva permettersi una morte simile. Lo capisco, ora. All'epoca, pensai fosse stato solo un codardo a scagliarmi lontano, di pura potenza magica, schiacciandomi a terra ancora una volta.

Ma ancora una volta, io mi rialzai.

Gli corsi incontro con gli occhi iniettati di sangue, gli artigli snudati, pronto a fare a pezzi le catene del mio tormento. Passai al lato di Silente, muovendomi con rapidità sovrumana, per mordere la mano che stava per incantare il vecchio, egocentrico Preside di Hogwarts.

Portai via a McGriffit tre dita. Fu fortunato: sarebbe potuta andare molto peggio. La sua stupida bacchetta, però, rilasciò parte dell'incantesimo nella mia gola, il residuo spezzato di qualsiasi cosa volesse fare a Silente.

Faticavo a respirare. L'aria non passava più.

Rantolai, come se dovessero essere i miei ultimi istanti di vita.

Negli occhi Driade e Magnus, che mi guardavano con il cuore colmo di paura per me (e non di me).

Nelle orecchie le urla di dolore di McGriffit, che si stringeva il polso per non morire dissanguato.

Sulla schiena, sulle spalle e suoi fianchi le cicatrici dei colpi ricevuti, dei tagli, della violenza dell'odio che il Ministero mi aveva riservato. Che i maghi avevano coltivato.

Poi Silente, con un lampo dorato, mi fece respirare di nuovo.

L'odore della foresta fluì nei miei polmoni. Non pensai ad altro che a correre, correre in avanti verso la libertà, verso la notte. Avevo vinto la mia battaglia: sarei stato me stesso, da quel momento in avanti, per tutta la vita.

Lasciai alle spalle i miei due amici e la scuola. Passò del tempo, prima di rivedere qualcuno di loro. E fino a quel momento, non ebbi più nome.

- H. V. è morto questa notte - diede istruzione Silente, mentre cancellava le memorie dei due Inquisitori. - Un lupo mannaro ha aggredito i rappresentanti del Ministero, che eroicamente hanno difeso voi due, signor Lovegood e signorina Despins, dalla ferocia della bestia. Sfortunatamente, non c'è stato più nulla da fare per il giovane Tassorosso senza famiglia. -

Magnus non ebbe alcuna difficoltà ad adattare la propria versione. - H. V. non c'è più. Il lupo Fenrir lo ha portato via. -

- Un lupo davvero eccezionale, devo ammettere - sospirò Silente. - Con un notevole controllo di sé. E una determinazione fuori dal comune. La sua capacità di rialzarsi mi atterrisce, ragazzi cari. Spero di non aver commesso uno sbaglio, a lasciare andare quel lupo dalla schiena grigia. -

Driade, trattenendo le lacrime, raccolse la sua bacchetta. - Ha la schiena grigia perché ha sempre affrontato chi voleva fargli del male. E chi voleva farne ai suoi amici. Dal primo momento, fino a questa notte. Il fango e la terra non sono una macchia: sono il segno di quanto sia stato coraggioso e leale. -

- Oh, sì, questo è certo - concluse, infine, Silente. - Questo lupo Fenrir, come dice il signor Lovegood, porta paramenti umili, ma che risplendono come il più grande dei tesori, agli occhi di chi sa cosa guardare. -

- Paramenti? - domandò Magnus, perplesso. -

- Le sue vesti, il significato del suo aspetto, signor Lovegood. Per lui sarà sempre motivo d'orgoglio poter dire che il lupo dalla schiena grigia ha difeso ciò in cui credeva. -

- Schiena grigia - mugugnò Magnus. - Greyback. Mi piace. Chissà se mi ricorderò di dirlo a Fenrir, la prossima volta che ci incontreremo. -

Ma prima del loro diploma a Hogwarts, non ci saremmo più rivisti.

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Capitolo 41
*** Quarantunesima Parte ***


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 IL             

CAVILLO

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PER QUANTO ANCORA SHACKLEBOT TERRÀ LA TESTA NELLA BOLLA?

Ben noti sono i disordini che stanno sconvolgendo l'intero Paese, da Londra a Hogsmeade, passando per Liverpool e Godric's Hollow. Maghi e streghe vengono aggrediti nelle proprie case: quale sia il criterio, non è ancora chiaro. Ad oggi sono 13 le vittime certe o sospette di Hati Greyback e dei suoi seguaci, ma nonostante questo il Ministro si rifiuta di ammettere lo stato di emergenza.

"Le opere di un criminale simile" dichiara Shacklebot, pressato dalla stampa "sono sempre considerate un grave danno per nostra comunità. La sicurezza è al primo posto e vi assicuro che l'Ufficio Auror sta prendendo molto seriamente l'intera vicenda. Il signor Potter mi ha assicurato la piena efficienza delle indagini. Ma evitiamo allarmismi: non c'è in atto alcuna insurrezione, di nessuna natura. Pochi maghi oscuri stanno agendo per il proprio tornaconto e presto verranno catturati e imprigionati."

Possibile che il Ministero ignori il collegamento tra l'incidente avvenuto a casa Scamander, noti attivisti del P.R.O.D.E. (movimento Per il Rispetto Onnicomprensivo Degli Esseri), e le violenze dei licantropi che sono successivamente divampate, dopo un lungo periodo di calma?
Grazie al lavoro svolto da persone come Hermione Granger, già promotrice del C.R.E.P.A in tema di sensibilizzazione verso gli elfi domestici, il mondo magico si muove verso giorni di maggiore uguaglianza sociale.

"Pensavamo di esserci lasciati alle spalle le discussioni sulla purezza del sangue, ma forse siamo miopi: elfi, goblin, veela, vampiri e altre creature (sì, anche i lupi mannari) devono al sangue ciò che sono. Abbiamo già sperimentato a fondo la pacifica convivenza, va solo portata alla luce e fatta conoscere alla gente. La colpa della paura è l'ignoranza." Queste le parole di Rolf Scamander, interrogato dopo l'incidente con la maga-licantropa Nora Pennington. Nonostante l'appello accorato, in molti guardano con sospetto al signor Scamander, forse a causa della cicatrice che Pennington gli ha procurato.

Possiamo davvero basarci esclusivamente sulle apparenze per lanciare giudizi come fossero bombarde?

Continua a pagina 3


Parla Lazlo, l'elfo domestico di casa Urquart                            

"La signorina Lizbeth aveva ragione."                                                

Esordisce così l'appuntito servitore della                                         
defunta Lizbeth Urquart, Auror e stimata                                         
allevatrice di matagot, scomparsa lo scorso                                   
8 Novembre.

"Quei luridi lupi mannari, tutti
vanno uccisi, tutti quanti. Oh, povera padrona,
Lazlo lo sapeva che il Ministero doveva darle
retta!
"

Eppure, il Ministero lo aveva fatto. Su spinta
della Urquart era stata imprigionata ad
Azkaban Nora Pennington, a seguito
dell'aggressione della famiglia Scamander.
Questa azione, forse poco assennata,
ha scatenato una cascata di reazioni sempre
più violente da parte della comunità degli
Esseri, mobilitati con ferocia dal famigerato
capobranco Hati Greyback. Siamo convinti che
il pugno duro sia sempre la soluzione migliore?
Lazlo afferma:

"Uccideteli tutti e il problema

scompare."

Sarà davvero quello che la gente si
aspetta dal Ministero?Ora le voci, che più solo
voci non sono, dicono che lo scontro sarà
inevitabile. I licantropi vengono radunati giorno
dopo giorno, nonostante si voglia credere il
contrario. Le città rischiano di doversi chiudere
come fortezze durante le notti di luna piena?
Scopriamolo a pagina 16.

Hati: figliol prodigo o lupo ribelle?

Hati Greyback è il figlio del noto criminale,
mago oscuro e mangiamorte Fenrir Greyback.
Al servizio del Signore Oscuro, Fenrir aveva
sparso il terrore, commettendo una lunga lista
di atrocità, anche a danno di bambini, allo
scopo di incrementare la propria armata
di lupi mannari, ma scomparve dopo la
Battaglia di Hogwarts. Di lui si sono perse
tutte le tracce, comprese quelle sul figlio.
Ma cosa sappiamo di Hati? Non molto, in realtà.
Non abbiamo una data precisa di nascita,
né sappiamo se sia mai stato ad Hogwarts,
magari sotto falso nome, aiutato da qualcuno.
La sua vita è cominciata nell'illegalità e lì
ancora muove i suoi passi furtivi.
Lucius Ridgewick si domanda nel dossier
se questo pericoloso lupo mannaro abbia
intrapreso la strada tracciata dal padre in
tarda età, abbandonando una vita condotta
essenzialmente in anonimato, oppure sia
un ribelle che cerca di smarcarsi da quelli
che sono stati gli infamanti fallimenti
di Fenrir. Ma come? direte voi.
Seguiamo il pensiero di Ridgewick
a pagina 10.


L'inserto: crea a casa la tua pozione antilupo in 128 semplici passaggi

Se siete preoccupati per graffi e morsi accidentali, seguite le istruzioni riportate nel vademecum che accompagna l'edizione odierna. Lo stimato professore Horace Lumacorno ci spiega come prepararci in casa una versione più che soddisfacente della pozione antilupo. "Non vorrei farlo ed è molto pericoloso se si sbaglia. Tossico direi" dichiara il professore. Ecco perché vi consigliamo di prepararla seguendo le istruzioni che lui stesso ci ha fornito: tutti più sicuri, tutti più contenti! (Pergamena in allegato - Reagenti non forniti con l'edizione del giornale)
 

ESCLUSIVO!

Perché le persone ci compaiono in salotto?

Più di un mago e una strega si stanno interrogando
sullo strano fenomeno che impazza in tutta
l'Inghilterra. Vi è capitato di trovare uno snaso
che non conoscete dentro la credenza
dell'argenteria? Potrebbe essere anche un caso.
Vi siete alzati di notte per andare in bagno e lo
avete trovato occupato da una tempesta magica
caraibica? Bizzarro, ma può capitare.
Ma quando anche voi scendete a fare colazione
e Seamus Finnigan è legato e imbavagliato dietro
la teiera, prima di scomparire in un vortice,
troppo rapidamente per poter domandare se ha
bisogno dello zucchero, allora la cosa è sospetta.

Anne Corner e Solima Astrachandra, le mogli del
signor Finnigan, lanciano un appello: "Chiunque
possa aiutare Seamus avrà la nostra eterna
riconoscenza. La casa è vuota e il letto è freddo
senza la sua esplosiva voglia di vivere.
"
(Se avvistate il signor Finnigan, siete pregati
di recapitare velocemente un gufo al Ministero,
Ufficio Misteri, con le specifiche del caso e
sul suo stato di salute).

Cosa stia accadendo, rimane un mistero. Dal
Dipartimento per l'Applicazione della Legge
Magica, Hermione Granger ci fa sapere che il
fenomeno è stato chiamato "Calamità" ed è al
momento in fase di osservazione da parte di un
team di esperti.
Esperti di cosa, dato che nessuno ha idea di cosa
stia accadendo? Scopriamolo a pagina 29.

BREAKING NEWS!

 

Harry Potter alla Coppa del Mondo
(come stare rilassati mentre il mondo si sgretola)

 

Le foto confermano la presenza del Capo dell'Ufficio
Auror, Harry Potter, alla Coppa del Mondo di Quidditch
che sta avendo luogo in Moldavia. Indossa un largo
trench e la sciarpa della nazionale, mentre sorride
e saluta i nostri giovani campioni.

"Emozionante, davvero emozionante" dichiara alla
stampa locale. "Non mi perderei questo evento per
niente al mondo. E poi sono i nostri ragazzi.
Dobbiamo credere in loro e supportarli, no
?"

Parole di conforto, per le decine di maghi e streghe
che hanno visto uccidere i propri famigliari,
non ce ne sono state. Ci chiediamo dunque se il
signor Potter stia lavorando seriamente e, nel
caso, quando. (Per farci sapere, scriva pure
alla redazione.)

La nazionale, in ogni caso, ha preso una batosta
dalla Polonia, che vince 310 a 40. Non la peggiore
sconfitta di sempre, ricordando quella del 1994,
ma comunque non un buon momento. Speriamo
che il signor Potter porti maggior fortuna al proprio
dipartimento, dove le sconfitte non si tradurrebbero
solo in una grande delusione.

I risultati delle altre partite in coda all'edizione.

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Capitolo 42
*** Quarantaduesima Parte ***


42/50

***

20 Marzo 2010

Three Rivers - Hertfordshire

 

Mandor si era sempre considerato un tipo estremamente pratico. Fin da cucciolo (come preferiva definirsi, invece che semplice bambino) sentiva una naturale distanza dai pensieri inutilmente articolati, speculazioni da salotto e discussioni teoriche. Al mondo c'erano solo due scelte possibili: quello che una persona può fare e quello che non può. Con questa idea bene piantata in mente aveva risposto ad Hati, il giorno assolato e ventoso che lo conobbe. Quando il Capobranco gli raccontò di come il proprio padre, Fenrir Greyback, fosse stato la causa della sua licantropia (e della cicatrice sulla coscia, un morso stampato nella carne), Mandor non avvertì alcuna reazione emotiva. Né rabbia, né riconoscenza, né domande sul perché un uomo come Fenrir se la prendesse tanto con i bambini. Invece ascoltò Hati e la sua proposta di seguirlo, oltre a una serie di informazioni che non gli interessavano.

Gli fece un'unica domanda. «Sei in grado di sconfiggere Fenrir Greyback e metterti alla guida di tutti i lupi mannari del Paese?»

La risposta di Hati fu schietta e concisa. Prima di notte, Mandor aveva lasciato Cardiff sotto al mantello del Capobranco, senza rivolgere parola a parenti o amici e con solo la propria tracolla rigonfia di libri.

Anni più tardi, ogni singola parola era stata mantenuta. Ogni promessa, ogni punto delle intenzioni chiare e semplici di quell'uomo dal carisma imponente. Finalmente, passo dopo passo, tutto era stato approntato con determinazione. Mentre Mandor raggiungeva Hati, sapeva perfettamente che era giunto il momento di completare la traduzione delle parole in azioni.

Il tramonto delle discussioni e delle vuote ideologie era giunto.

Mandor sapeva quasi sempre dove trovarlo. Non si allontanava mai dall'accampamento, tra gli alberi  folti e la spianata ai piedi della collina, dove le tende protette dagli incantesimi si confondevano perfettamente con la natura circostante. Tutti gli altri lupi non avevano alcun problema a mostrarsi nelle loro attività quotidiane, ma Hati voleva maggiore discrezione.

Le urla soffocate condussero Mandor nel bosco. Il ringhio regolare come un battito cardiaco arrivò per primo, ma lui non si fermò. Non si era mai considerato un elemento separato del branco: era la parte di un tutto. Giunse quindi con le mani nelle mani e il cappuccio calato sulla testa, in attesa di intercettare parte dell'attenzione che Hati stava concentrando su Nora. Ancora mezzi vestiti, la teneva schiacciata a terra, con il rozzo piede piantato sul collo. Lei lanciava urla sincopate, con la faccia nel manto erboso neanche fosse un cuscino.

Il Capobranco, che con le mani le reggeva bene in alto i fianchi, aggrottava la fronte in una espressione di intangibile decisione, che trasformava le due irsute sopracciglia in una unica criniera bestiale. Ad ogni violento colpo con il bacino, lui ringhiava e lei sobbalzava, percorsa da spasmi.

Mandor si chiese se i graffi sulle cosce nude e il sedere di Nora avrebbero potuto diventare rossi o se quella pelle ambrata si sarebbe sempre e solo limitata a scurirsi.

Quando Hati finì, lanciò uno sbuffo profondo, che raccolse da ogni muscolo del corpo, come un toro al massimo sforzo. Mandor storse il labbro, nel non sentire un ululato che doveva essere rimasto soffocato, da qualche parte, dentro di lui.

Hati lasciò Nora, che si accasciò lentamente, respirando a fondo. Lui si tirò su i calzoni e, come se nulla fosse, si avvicinò al compagno.

«Non dovresti darle una mano?» La voce di Mandor era quasi atona, priva di ogni sfumatura di giudizio.

Hati snudò i denti, marci e affilati. Ma non fu lui a rispondere.

«Sto bene, brutto coglione.» Nora, sdraiata su un fianco fra foglie, terra e ciuffi di erba selvatica, si stava lentamente coprendo. 

Mandor fu imperturbabile. «I branchi sono tutti arrivati. Mancano all'appello diversi singoli e coppie, ma Sansers dice che altri si uniranno dopo che avrai sistemato la faccenda di tuo padre.»

«Sansers è un codardo» vociò Hati. «Vuole tenersi aperta una via di fuga.»

«Sta troppo a pensare. Se avesse avuto le palle, sarebbe venuto con noi a tirar fuori Nora da Azkaban.»

Hati chiamò Nora che, recuperando le forze, si alzò per seguirlo. Tutti e tre lasciarono il bosco, diretti all'accampamento.

«La paura è un sentimento accettabile» disse Hati, con lo sguardo fisso di fronte a sé. «La codardia, invece, è un'altra cosa.»

Vennero in molti a parlargli, nelle ore successive. Un saluto, un ringhio, una richiesta, e Hati prestava attenzione ogni uomo o donna che desiderasse un contatto. Fra le tende, levate a rifugi temporanei per quei giorni di latitanza, gli ultimi che ognuno sperava di dover vivere, i lupi stavano saldando legami che non avevano sperato di poter avere. Una comunità cresciuta nell'ombra, per costrizione e non per volontà, che si scopriva capace di stare alla luce del sole.

Hati, in mezzo a loro, sembrava emanare inconsciamente una solida aura di comando, un capo afflitto dai pensieri e avvolto dal suo branco.

Nel disturbarlo di nuovo, sottraendolo a una coscia di pollo che stava sbranando a partire dalla pelle grassa, Mandor gli porse una lettera appena arrivata. Ad un gesto della mano, capì di doverla leggere ad alta voce... con la dovuta cautela.

«Rolf Carrow» sussurrò Mandor. «Dice che si stanno muovendo ancora.»

Hati azzannava la carne come se non mangiasse da una settimana. «Dove vanno?»

«Corvinus porta i suoi a Tendrill's Den. Dice che Najata gli ha ordinato di attendere istruzioni. Nient'altro, non osa chiedere: sembra che in molti non si fidino di lui.»

«Fanno bene» rispose Hati. «Mio padre?»

«Ha mandato via Calcifer, Carrow non sa dove. Non sa un cazzo questo idiota. Che razza di spia sarebbe?»

«Una che vuole rimanere viva. Mio padre sarà anche vecchio e rammollito, ma se solo sospettasse di lui gli staccherebbe la testa per pisciarci dentro.»

Mandor si fece una mezza risata a denti stretti. «Dimmi, non ti starà venendo un po' di strizza all'idea di affrontarlo?»

Hati spezzò con un morso le ossa di pollo. «Ormai abbiamo quasi finito. La loro generazione è sottoterra ormai. Manca solo Charlie Burke. L'ultimo dei relitti che Fenrir Greyback si è trascinato con sé.»

«A quello ci penso io, non ti preoccupare.»

«Non sono preoccupato. Sono...» La parole di Hati si confusero, quasi facesse fatica a parlare. «Skoll non deve morire, siamo intesi? Non voglio che le venga fatto del male.»

«Capisco che è tua sorella, ma si è schierata con Fenrir. Non ha detto una parola quando Nora è stata processata, quando nessuno tranne gli Scamander hanno provato a difenderla!»

«Risponde al Capobranco, come tu rispondi al tuo, Mandor. Chi ha preso la decisione di rivoltarsi contro il proprio sangue è stato Fenrir. Ha deciso lui di voler sacrificare la donna che portava in grembo suo nipote, per il bene della comunità. Nella speranza che non ci attaccassero, che non urlassero al mostro. Ma i mostri la hanno chiusa lo stesso ad Azkaban e i Dissennatori la hanno torturata. Il poco tempo che la hanno avuta è bastato a farle perdere...» Un istante di sospensione e poi alzò di scatto. Cercò Nora con lo sguardo, alla tenda degli omega. Una coppia di bambini le correva intorno a piedi scalzi. «Fenrir deve morire. Non è la guida di cui i lupi mannari hanno bisogno. Basta con i soprusi, basta essere trattati come animali. Se il Ministero continua a voltare lo sguardo, allora faremo in modo di non poter più essere ignorati.»

Si avviò a passo spedito, Mandor dietro di lui.

«Cosa hai in mente, Hati?»

«Raduna i branchi. Vaglia quanto di quello che dicono gli Alpha sono cazzate e quanto c'è di vero. Li voglio tutti pronti per l'attacco.»

«Perfetto. Saranno tutti eccitati. Qual è il bersaglio?»

Hati non titubò nemmeno un istante nel pronunciare con chiarezza: «Gli Scamander.»

Mandor parve perplesso. «Ma sono gli unici che ci hanno aiutato.»

«Proprio per questo» rispose Hati con voce aspra. «Sono gli unici che fanno opposizione ora, tra i maghi. Se dovesse succedere qualcosa a loro, chi difenderà i poveri lupi mannari? Chi eviterà che i potenti Auror si scaglino contro di loro per ricacciarli nelle tenebre? Te lo dico io: nessuno. E sarà una guerra impari, ma loro ancora non lo sanno.»

«Mi piace. Ma sapranno del mio incantesimo ormai.»

«Così dovranno avere paura che la luna possa comparire ad ogni istante. La luna... sai chi è la moglie di Rolf Scamander?»

«Un altro Rolf? I purosangue dovrebbero avere più fantasia.»

«Luna Lovegood. La nipotina di Magnus.»

Mandor rise, stiracchiando una falce crudele sul volto. Hati, al contrario, si fece più cupo che mai.

«Vedremo anche a quale famiglia tiene di più mio padre: il sangue del suo sangue o quella del defunto compagno al quale ha distrutto la vita. Lo vedremo, li affronteremo tutti. I cani, il Ministero, gli Auror: uccideremo chiunque si opporrà al nostro diritto di essere liberi. L'era del controllo e dell'oppressione è finita. L'unica legge sarà quella del più forte.»

***

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Capitolo 43
*** Quarantatreesima Parte ***


43/50

***

14 Aprile 2010

Villa Scamander

   I bambini erano al piano di sopra. A quell'ora sarebbero dovuti essere affondati nel mondo dei sogni, cullati da pensieri avventurosi pieni di animali fantastici, o semplicemente perduti in un guazzabuglio di suoni incomprensibili e forme colorate. Invece, dalla loro culla, fissavano divertiti loro madre, addormentata accanto alla finestra. Li aveva nutriti, cambiati e fatti giocare fino alle sfinimento, ma alla fine era stata lei a cedere. Quando la finestra si aprì, forzata dall'esterno, Luna Lovegood non si accorse di nulla.
    In casa, i soli ad allarmarsi furono i corvi nella biblioteca. Al piano di sotto si stavano litigando un agile libricino di poesie di Edwige Otter Try. Rolf li teneva liberi e sapeva bene quanto amassero fare baccano durante la notte: per questo motivo lasciava la porta della biblioteca aperta e scendeva in cantina, dove aveva allestito un ricovero per bestie magiche di ogni sorta. Seguiva attentamente ogni piccolo o ingombrante paziente che aveva in cura, forniva loro il pasto notturno e infine si ritirava nelle stanze al primo piano. Più di una volta aveva sollevato Luna tra le braccia per portarla a letto, senza che lei nemmeno si svegliasse: accudire Lorcan e Lysander era un compito a tempo pieno, il più difficile che lo stesso Rolf avesse mai affrontato. Era felice che i gemelli crescessero circondati da serenità, duro lavoro e amore. Stava dando tutto, perché un giorno potessero essere felici.
   Quando chiuse la porta della cantina, dove era andato a cercare gli ultimi rimasugli di foglie di biancospino, sentì i corvi gracchiare agitati. Poi, un tonfo attutito.
   - Stanno ancora litigando per i libri - mugugnò fra sé. Aveva quasi terminato. Sarebbe salito di lì a poco: gli serviva solo il tempo di provare a spalmare sul petto e sul collo il nuovo preparato con latte di mooncalf. Non sperava in grandi miracoli: un semplice ammorbidimento delle cicatrici sarebbe stato un successo. Gli squarci degli artigli gli attraversavano carne e ossa, ben nascosti dall'ampia camicia. Nelle notti di luna piena diventavano particolarmente fastidiosi e, sebbene avesse la situazione sotto controllo, cercava di prepararsi per tempo a lenire i dolori che lo rendevano tanto irritabile. - Hai sbagliato tu, vecchio mio - disse all'immagine allo specchio. - Devi fare attenzione, con i lupi mannari. Devi fare più attenzione o farai più danni che altro. -
   Per fortuna, la luna piena era molto lontana.
   Quando la porta in cima alle scale sbatté con violenza, Rolf smise di rimirare la propria cicatrice allo specchio.
   - Luna? - chiamò, gettando uno sguardo sospettoso. Forse una corrente d'aria aveva richiuso la porta, perché raramente sua moglie si preoccupava di ciò che fosse aperto e di ciò che fosse chiuso, di fuochi accesi o di panni da lavare. - Sarà scesa a prende un bicchiere di latte - si disse, cercando di fare un riepilogo di tutti gli animali che avevano bisogno nel ricovero. Non aveva dimenticato nessuno, tranne i corvi.
   Sbucando in corridoio, però, non c'era traccia né di Luna, né di uno spiffero, né del gracchiare degli uccelli.
   La casa era avvolta nel silenzio come non lo era mai stata. Rolf vide luci e ombre allungarsi dalla biblioteca. Ascoltando con attenzione riusciva a sentire lo sbattere di ali e qualche lento passo sul pavimento di legno. Non poteva essere Luna, ne era sicuro, perché lei in casa non portava mai le scarpe.
   Sbirciò all'interno, cercando di non farsi vedere.
   C'era una donna, voltata di spalle, con lunghi dreadlock e fasciature nere agli avambracci, sui quali si erano posati i corvi, uno a fianco all'altro, tre per parte. Solo uno ancora sbatteva le ali, indispettito, appollaiato sulla libreria. Quello si voltò verso di lui e, piegato il capo sottosopra, gracchiò cupo. La donna si voltò rapidamente ma con fluidità, senza abbassare le braccia. Lo vide e gli sorrise, mettendo in mostra due fila di denti appuntiti.
   Prima che potesse anche solo decidere cosa fare, i bambini si misero a piangere. Rolf arretrò e si fiondò al piano di sopra, ormai certo del pericolo.
   - Luna - chiamò, sfoderando la bacchetta. Ma appena giunto sul pianerottolo, prima ancora di scorgere la presenza di almeno due uomini nascosti nelle ombre, si raggelò alla vista della moglie e dell'uomo sfregiato che la teneva per i capelli, puntandole la bacchetta alla gola. - Luna! -
   - Zitto, Scamander! - Il ringhio ferino arrivò deciso e fulmineo, accompagnato da una stretta al collo che avrebbe potuto spezzarglielo in due. Lo piantò contro la parete e l'uomo sbucato dalle ombre lo fissò negli occhi.
   Rolf aveva visto occhi simili solo nei grandi predatori.
   - Fenrir - mugugnò nel riconoscerlo. - Cosa...? -
   - Siete stati dei veri idioti. Tutti e due. - Greyback snudò le zanne: non avrebbero potuto definirsi in altro modo, nonostante la forma umana.
   Rolf, terrorizzato, sentì Luna sopprimere un gemito, nel vano tentativo di non agitare ancora di più i gemelli nella culla. L'uomo che la teneva stretta, in ostaggio, agitò la bacchetta verso i bambini. Più veloce di un lampo, i vagiti cessarono.
   Fu allora che il padrone di casa lo riconobbe. - Charlie? Charlie, cosa stai facendo? Ti prego, è come se fosse la tua stessa famiglia! -
   Ma Charlie Burke, ubriaco e sbavante dalla ferita mai rimarginata sulla guancia, affondò la punta della bacchetta nella bianca gola di Luna, e non disse una parola.
   - Hai mentito, Scamander. - Fenrir Greyback era colmo di rabbia, desiderio di vendetta e... paura. - Avevi giurato di proteggerla. Avevi giurato sulla tua vita. -
   Rolf respirò a fondo, sicuro di ciò che stava per dire. - Lo ho fatto. Ma non mi hanno voluto ascoltare. -
   - Avresti dovuto parlare più forte. Hai idea delle conseguenze che ha provocato? Sai quanti morti ci sono stati, solo perché non hai protetto una donna che aveva bisogno del tuo aiuto? -
   - Fenrir, abbiamo fatto di tutto. Luna ha riempito le pagine de Il Cavillo per spiegare l'accaduto e non solo: è andata a pregare Harry Potter di lasciar perdere. Abbiamo parlato di fronte all'assemblea dei maghi e... -
   - Io mi sono fidato. E lei è stata chiusa ad Azkaban. Data in pasto ai Dissennatori. -
   - Ed era incinta. - Megan Jones portava un lungo cappotto nero che rasentava il pavimento. Aveva tagliato i capelli e ora fissava Rolf negli occhi, per nulla turbata dalla mano di Fenrir che ne stringeva il collo e lo costringeva a stare sulle punte per non soffocare. - Cosa mai potrebbe sopravvivere, quando viene gettato come spazzatura nel dimenticatoio? -
   Luna, che nonostante il cuore le battesse all'impazzata e pensasse solo a come portare i suoi bambini fuori da lì continuava ad apparire calma, riconobbe Megan a dispetto dei cambiamenti. - Tu sei la giornalista scomparsa, non è vero? -
   Megan strinse i pugni e serrò la bocca.
   - Non devi aver paura. Hai fatto una scelta - disse Luna. - Loro non ti hanno fatto del male, non è così? -
   Megan scosse la testa. Si sentiva sul ciglio di una terra inesplorata, ancora più selvaggia e pericolosa mentre lo sguardo coglie i paesaggi del proprio passato. Aveva davvero scelto? Era davvero arrivato il momento di chiudere con una vita di decisioni opportune, e fare ciò che riteneva giusto?
   Si avvicinò a Luna, in un momento surreale di minaccia e connessione. Charlie Burke allentò la presa. Megan estrasse da sotto il capotto un libricino, un'agenda, e la appoggiò sul fasciatoio.
   - Qui c'è tutta la storia. Quello che c'è da sapere. Tienila tu. -
   - Perché la dai a me? - chiese Luna, con pacato stupore.
   - Dirigi Il Cavillo, no? La Gazzetta del Profeta è troppo politicizzata. Temo che ne trarrebbero un messaggio sbagliato. -
   - Quale messaggio? -
   - Che diversi non si nasce. Si diventa. - Fenrir mollò Rolf che, prima di riuscire a massaggiarsi il collo, si trovò una bacchetta puntata contro da parte di una donna più massiccia di lui, bionda e avvolta dall'oscurità del corridoio.
   Fenrir si affiancò alla culla con i gemelli.
   - No! - Gridò Luna, senza nemmeno provare a divincolarsi, a bocca aperta e occhi sgranati.
   - Mordili giovani - ruggì Fenrir, mentre un antico e sadico sorriso si allargava sul suo volto ingrigito dal tempo.
   - Greyback! Ti prego, non farlo! Ci siamo battuti per difendere i lupi mannari, non puoi fare del male ai bambini! - Rolf, pur con il timore di venire ucciso all'istante da Skoll, non poteva rimanere fermo mentre Fenrir strappava i suoi figli dalla culla.
   - Male? Questa non è una punizione, signor Scamander - rispose Fenrir, divertito. - Questo è un dono. E un'assicurazione. Che i vostri interessi e i nostri coincidano. - Lorcan piangeva disperato, ma non emetteva alcun suono, come il fratello, silenziati dalla rapida magia di Burke. Fenrir lo afferrò per una gambetta e lo sollevò come fosse un pezzo di carne. Snudò i denti appuntiti e la pelle sul suo volto si tese come sul muso di un lupo prima dell'attacco.
   Non si curò nemmeno di esporre la pelle del bambino: affondò le zanne e trapassò insieme stoffa e tenera carne.
   I genitori, terrorizzati e disperati, vennero costretti all'immobilità: troppe bacchette puntate contro di loro, troppo vicine. Braccia forti e mani violente li incatenavano allo spettacolo del grande lupo mannaro che si leccava le labbra sporche di sangue, mentre mollava il piccolo Lorcan sul suo cuscino.
   - Mi sono sempre piaciuti i bambini. - Non si era trasformato, quella notte la luna era completamente nuova e buia, eppure aveva azzannato lo stesso con le motivazioni che lo avevano reso famigerato per tutta la vita. Luna e Rolf sapevano perfettamente a cosa andava incontro un lupo mannaro: un'intera esistenza di sofferenze e terrore, per lui e chiunque gli stesse vicino. Anche se in qualche raro caso, come il vecchio professore di Luna, Remus Lupin, un licantropo riusciva a patinare le proprie giornate di normalità, nel mondo che li aspettava oltre la soglia di casa non c'era ancora posto per loro.
   Erano reietti, criminali, mostri. Persone da avvicinare con cautela. Creature da abbattere, secondo la direzione che stava prendendo il Ministero. E Fenrir Greyback stava tenendo sollevato il secondo gemello, Lysander, ed espirava dal naso come un toro. Sembrava impegnato in una discussione interiore e sul bisogno di convincersi a non mangiarlo.
   Su dalle scale arrivò un grido deciso: - Fenrir! - Il rumore di ali e il gracchiare dei corvi si sparse per la casa, mentre Najata saliva i gradini a tre a tre. Guardò in faccia il Capobranco: il resto non aveva alcuna rilevanza. - Sono arrivati. Lui è qui. -
   - Merda. Ha fatto troppo in fretta. - Fenrir lasciò cadere Lysander vicino al fratello, la cui tutina si macchiava del sangue che sgorgava dal morso profondo. - Non possiamo più portarli via. Andate fuori, - ordinò - tutti quanti, tranne la signorina Jones. -
   - Cosa? - Megan trasalì per la decisione che, evidentemente, non si aspettava.
   - Tu resti qua, piccolina - le disse Skoll, lasciando sfilare gli altri, compreso Burke, fuori dalla stanza.
   - Non ci penso nemmeno. Io combatto con voi! -
   Skoll si fece una sincera risata. - Non sai fare del male a una mosca. E non sei un lupo mannaro. - La baciò sulla bocca con passione e ferocia, tenendole premuta una mano dietro la testa. - Resta con gli Scamander. Tu non hai fatto niente di male. Se Hati ci ammazzerà tutti, portali lontano e racconta la nostra storia al Ministero, agli Auror o a chi cazzo ti pare. Fa' la brava. - Strizzò l'occhio, quella valchiria di ghiaccio che non si lasciava coinvolgere da nessuno... da nessuno, o quasi.
   Fenrir ebbe delle ultime parole per Rolf, prima di uscire in strada. - La differenza è questa: io non ti ucciderò, lui sì. Io credo in quello che stai facendo, che ci possa essere una convivenza, dovessi inculcarvela a forza. Lui è venuto per vendicare suo figlio mai nato. Hai capito? -
   Rolf annuì, terrorizzato.
   - Allora non fare cazzate. Chiuditi dentro e usa bene la bacchetta, se non vuoi finire mangiato. -
   Con il resto del branco raggiunse Najata, già fuori casa, con uno dei corvi ancora sulla spalla, nascosta fra le siepi. I lampioni erano l'unica fonte di luce nell'intera strada. Oltre le staccionate e i praticelli curati, non una sola finestra era illuminata nelle ville vicine. L'aria era tesa e densa, palpabile.
   - Li vedi? - Chiese Skoll a Najata, che lanciava occhiate in alto, dove alcune ombre nere sorvolavano ad ali spiegate il quartiere. Ma lei scosse la testa.
   Fenrir ringhiò. - Ne sento l'odore. -
   Poi, da lontano, un ticchettio. Un paio di stivali sul manto stradale, lenti.
   Guardarono tutti nella stessa direzione, in attesa, trattenendo il fiato.

***

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Capitolo 44
*** Quarantaquattresima Parte ***


44/50

***

14 Aprile 2010

Villa Scamander

   Nemmeno ricordavano più da quanto tempo non si vedevano: quando era stata l'ultima volta? Quanto Hati aveva implorato suo padre di salvare la propria compagna incinta? O quando gli Auror l'avevano bloccato in casa per indagare sulla sua vita, mentre Fenrir, prima di sparire con la metropolvere, gli aveva chiesto di tenere la bocca chiusa?
   Lui l'aveva fatto. Aveva ascoltato gli ordini di suo padre ancora una volta, convinto che ci fosse nel Capobranco una saggezza che i suoi giovani occhi non erano in grado di cogliere.
   Ma il tempo era passato e ora vedeva con chiarezza oltre l'aura di terrore e forza, bucava senza sforzo quella che credeva fosse una pietosa finzione di un'uomo al tramonto.
   Quel che vedeva erano una manciata di lupi, vecchi e donne, che attendevano di fronte alla tana dei filistei.
   - È così che vuoi che finisca, padre? Il tuo branco distrutto per difendere dei traditori? -
Fenrir rimase in silenzio. Fissava suo figlio, ciò che era diventato... ciò in cui lui lo aveva trasformato. Nora e Mandor affiancavano Hati, serrando le distanze, impavidi e carichi di risentimento.
   - Allora, sei pronto, padre? Arrenditi. Fallo adesso e vivi i tuoi ultimi giorni con il poco di dignità che ti rimane. Libera il Popolo dal peso del tuo egoismo e codardia. Lascia che vengano a me... e non patiranno più la vergogna. -
   Najata fremeva al fianco di Fenrir. Sentiva il desiderio bruciante di rispondere a tono ad Hati, ma se lo avesse fatto gli avrebbe solo offerto il fianco, sostituendosi all'alpha. Ma Fenrir continuava a tacere, immobile, tranne per l'ampio torace che si gonfiava ritmicamente.
   - Non te lo chiederò un'altra volta - disse Hati. - Ritirati e voi quattro vivete. - Dai vicoli, dalle ombre e materializzati dal cielo, una folla di maghi e streghe si radunò al suo fianco. Molti di loro Fenrir li conosceva personalmente fin da bambini: era stato il suo morso a trasformarli.
Ritrovarli alla fine della strada, era sempre stato nei piani. Mai, però, aveva pensato che un impulso d'odio, nato dall'ingiustizia, sarebbe cresciuto talmente tanto da rischiare, quella sera, di ingoiarli tutti.
   Sapeva che sarebbe successo dall'istante in cui incrociò lo sguardo con Hati.
   - Tutti qui, quelli che ti hanno seguito? - ridacchiò Fenrir. - Pensavo sarebbe stato molto più difficile. -
   Hati, per nulla impressionato dalla spavalderia del padre, provò quasi compassione. Credeva che, in fondo, il vecchio avrebbe tenuto la testa alta fino al suo ultimo respiro. Poi, dopo un istante di fumo nero che si diradava in fretta, il branco di Corvinus si schierò al fianco di Fenrir. Da Xatu a Harry, da Octavius a Vitula Maxime, tutti i lupi fedeli erano venuti. Uno dei corvi scese in picchiata verso il lampione più vicino e, prima di toccare terra, era tornato ad essere Vitula Black, bacchetta alla mano, pronta a combattere per l'unico Grande Alpha che riconosceva.
   - Ora che sei arrivato, figlio, ti restituisco ciò che è tuo. -
   Corvinus, circondato dai suoi, a un cenno di Fenrir lanciò un sacco ai piedi di Hati. Volò come una palla sgualcita e cucita male e, quando atterrò, per l'impatto si aprì. La testa di Rolf Carrow rotolò fuori per alcuni metri, descrivendo una falce di luna sul cemento.
Hati sfoderò la bacchetta e scagliò in un istante tutta la rabbia di cui era capace.

X - X - X

   Nel furore della battaglia che incendiava la notte, l'odio di Hati non era l'unico che cercava soddisfazione. Charlie Burke, quasi accecato dall'alcol e dalle esplosioni, barcollava lungo la strada con un solo obiettivo in mente.
   Sembrava un ragazzino perso nella pioggia dei propri incubi. Gli incantesimi lo sfioravano senza che intendesse reagire. Più di un colpo gli passò a pochi centimetri dalla testa, indirizzato a lui o ad altri nella foga dello scontro. Ma a Charlie non importava.
   Nemmeno sentì Octavius urlargli di fare attenzione. Stava solo a pochi passi da lui, con la fronte sanguinante per le schegge di un muretto esploso. Non avevano mai avuto grandi rapporti, Charlie e Octavius, membri di branchi diversi, di età diverse, di caratteri incompatibili.       Eppure, mentre uno vagava in mezzo al pericolo come incantato, l'altro usò il proprio tempo per scudarlo dall'attacco di ghiaccio di una ragazza che non portava a caso il nome Furia.
Chalie, però, neanche di questo si accorse.
   Nel suo campo visivo non c'era una battaglia in corso, un numero impressionante di maghi e streghe, tutti lupi mannari, intenti ad azzannarsi al collo con la magia. C'era solo lui, vecchio e marcio, e il ragazzo sovrappeso con i tatuaggi sulle braccia.
   Stava aspettando Charlie con il sorriso sul volto.
   - Vedo che ti ricordi di me - gli disse, anche se non ne aveva mai avuto alcun dubbio.
   Gli occhi vacui di Charlie bruciavano, come fuoco dietro a un vetro opaco. Impugnava saldamente la propria lunga bacchetta curva. La strinse con forza, incapace di formulare in parole tutti i pensieri che gli attraversavano la mente.
   Infine, disse solamente: - Tu lo hai ammazzato come un cane. -
   Mandor incrociò le braccia, sicuro di sé, infilando una mano nella manica. - Se devo essere onesto, non come un cane. Non ho mai conosciuto un animale tanto cinico. -
   - Lui era tutto per me - bofonchiò Charlie, rendendo incomprensibili le parole. - Tutto il mio mondo. Magnus era... era... -
   - Parla chiaro, o non ti capisco, brutto bifolco ubriacone! Vuoi vendetta? Forza, sono qui! Io non avevo niente contro Magnus Lovegood, nemmeno lo conoscevo. Dovresti ringraziare Hati, per questo. Facciamo così: lo farò io per te, dopo. - Mandor, che riteneva di aver preparato la propria mossa a sufficienza, dato il rischio di essere colpiti dagli incantesimi scagliati a destra e a sinistra, sfoderò la bacchetta dalla manica e con un gesto deciso scagliò un lampo azzurro contro Charlie.
   Quello che pensava fosse (non a torto) solo uno storpio, vecchio alcolizzato, parò il colpo muovendo solo l'avambraccio.
   Immobile in piedi, come un fantasma o un cadavere animato, fissava Mandor con occhi da basilisco. - Lui era tutto per me - ripeté ancora una volta. - E tu me lo hai ammazzato. -

X - X - X

   Di fronte all'ingresso della casa degli Scamander, Rolf Sansers e il suo braccio destro, Percival, scatenavano una pioggia incessante di bombardamenti violenti per lasciare campo libero ad Hati. Sansers si considerava un leader prudente, ma la verità era più profonda. Roso dal dubbio, non aveva intenzione di affrontare Fenrir Greyback faccia a faccia. Seguiva un intento più semplice: liberare il campo dagli impicci e lasciare che fosse Hati a dimostrare il proprio valore. Per questo motivo, tutti i suoi sforzi erano indirizzati alle donne: Najata e Skoll, che affiancavano Fenrir, dovevano togliersi di mezzo, così che i due grandi lupi fossero costretti a concentrarsi l'uno sull'altro.
   Skoll, però, non aveva intenzione di farsi sviare.
   - Hati! Metti fine a questa follia! - Parava e contrattaccava, preoccupandosi più per quello che accadeva alla sua famiglia che a sé stessa.
   Fenrir non dosava colpi: dalla punta della bacchetta fuoriuscivano lampi e il vialetto si sgretolava, le piante cadevano tagliate a metà e Hati, veloce come la sua stazza non sembrava poter permettere, alzava scudi con la pietra e faceva infuriare i venti.
   Un turbine simile a una tromba d'aria scese dal cielo. Fenrir balzò lontano appena prima che quello toccasse terra: si materializzò sul tetto per lanciare un Incarceramus su Hati, ma in quel battito di ciglia era già sparito.
   Fu la voce di Skoll a richiamare l'attenzione. Il ciclone aveva diviso i contendenti, che si reggevano a fatica per non essere spazzati via. Sansers, senza perdere un istante, si ritirò a debita distanza.
   - Mi rendi le cose più facili, padre! - urlò Hati, con la voce rotta. - Se non posso entrare in quella casa, devo solo impedire che chiunque possa più uscire. - Agitò la bacchetta attorno a sé, ringhiando in preda al furore. Il fuoco cominciò a zampillare fuori come acqua da una fonte infernale.
   In brevi istanti una marea di fiamme, in forma di tori, draghi e serpi, si scagliò contro la facciata della villa, dritta contro Najata e Skoll, rimaste senza più avversari di fronte all'ingresso, e Fenrir in cima al tetto.
   - In un colpo solo, il vecchio mondo avrà fine e il nuovo comincerà! - Hati, illuminato dalla furia del proprio incantesimo, ben più potente di ciò che suo padre era mai stato in grado di fare, serrò le labbra con tutte le forze, mentre il calore spazzava via ogni più piccola goccia salata dal viso che nessuno poteva vedere.
   L'Ardemonio bruciava ogni cosa lungo il proprio cammino.

X - X - X

   Primo colpo sulla coscia.
   Secondo colpo sulla coscia.
   Terzo colpo sulla coscia, o da qualche altra parte, dato che sfiorò la fibbia dei pantaloni (per quanto storta, non poteva essere finita sulla coscia).
   - Oh merda. -
   Eric di scontri ne aveva visti, soprattutto negli ultimi anni. Atti violenti, maghi oscuri, cose atroci. Aveva anche già incontrato alcuni di quelli che, insieme ai migliori Auror del dipartimento, era andato ad arrestare. La soffiata c'era stata, grazie anche a tutto il lavoro ben svolto per seguire le piste più probabili, i luoghi possibili di interesse per i licantropi e l'intero puzzle dei loro spostamenti nel Paese. Quello che si trovò di fronte, però, non se lo era aspettato.
   - Signori! - urlò il Capo del Dipartimento, sceso in prima linea per farla finta, una volta per tutte. - Sapete cosa fare! - Per primo, si smaterializzò, seguito dall'intera squadra.
   Riapparvero un centinaio di metri più avanti, dove sul campo di battaglia, il più massiccio raduno di criminali e ricercati si stava ammazzando senza pietà.
   Li avevano tenuti d'occhio. C'era sempre stato un Auror a sorvegliare Villa Scamander, pronto a intervenire o avvertire il Ministero.
   Questa volta (cosa di cui erano convinti in molti) sarebbe stata la volta buona.
   Anche Eric, come i compagni, si trovò rapidamente a stringere un cerchio di sicurezza (poco cerchio ma, soprattutto, con ancor meno sicurezza) attorno all'area dei combattenti. Volavano incantesimi e materiale di ogni tipo, che in molti si scagliavano addosso, o cercavano di ergere a protezione.
   Una donna con i capelli rossi schiantò un uomo molto più vecchio di lei, con barba bianca e incolta, quasi ai piedi di Eric. Poi, lo vide.
   Gli Auror iniziarono a urlare di fermarsi: puntarono le bacchette e spararono ordini a raffica, nel tentativo di far cessare gli scontri.
   Qualcuno dei maghi oscuri si voltò contro di loro.
   Qualcuno continuò a combattere.
   Nessuno riuscì a ignorare le fiamme infernali che imperversavano davanti a Villa Scamander.
Due donne stavano, freneticamente e con immenso sforzo, provando a bloccare l'avanzata del fuoco. Eric riconobbe entrambe: la bionda lottatrice, la figlia di Fenrir, gridava la propria fatica estrema nel controllare acqua e vento con la propria bacchetta, nel tentativo di arginare la forza infernale del fratello.  L'altra donna, all'incirca della stessa età, doveva essere la compagna del vecchio. Sferzava le lingue demoniache a colpi di potenza magica e attenti incantesimi scudo.
Quello che aveva fatto anche Liz Urquart, quando con Eric e gli altri Auror si erano ritrovati ad affrontare Hati.
   Insieme, le due donne non riuscivano a contrastare la potenza magica di Hati. Fu allora che Eric si accorse di un'altra persona, impossibile da non riconoscere: Fenrir Greyback, sul tetto della casa, che si univa al tentativo di arginare l'Ardemonio. Avrebbero potuto spostarsi e lasciar distruggere l'edificio e la famiglia Scamander. Avrebbero dovuto, sarebbe stato logico.
Invece la difendevano, contro un nemico della cui potenza non avevano davvero idea.
Hati, concentrato e stanco dei contrasti, separò le bestie incendiarie che avevano preso forma dal suo incantesimo: le fece scattare, correre non solo in avanti, ma anche ai lati, fluide come acqua, letali e terrificanti.
   La prima cadere, fu Najata.
   Le lingue di fuoco la raggiunsero al fianco, un calore estremo, impossibile da sopportare. Quel cedimento, quella frazione di secondo in cui perse il controllo, il serpente di fuoco la usò per avvolgerla fra le spire. Le urla disperate della donna entrarono nella testa di Eric, che la osservava da breve distanza, mentre i dreadlock di lei si incenerivano, la pelle ribolliva e si staccava dalla carne e l'aria nei polmoni diventava pura fiamma.
   Il contraccolpo fu violentissimo. Skoll provò a difendersi. Suo padre stava usando tutte le forze, fino all'ultima goccia, per cercare di fermare il proprio stesso figlio... o quello che era diventato.
Ma non ce l'avrebbe fatta.
   Hati era troppo forte. Se si fossero spostati, avrebbe dato inizio alla guerra con il mondo magico. Se fossero rimasti, sarebbero bruciati come una famiglia.
   All'improvviso, però, le fiamme si scomposero. Traballarono, le bestie si alzarono al cielo, urlando di rabbia, mentre venivano spinte indietro.
   Una scarica magica potentissima, e l'equilibrio fu prima ristabilito e poi ribaltato.
   Hati dovette richiamare all'inferno i propri demoni, o avrebbero distrutto anche lui.
   Sul tetto di Villa Scamander, un aiuto era accorso al fianco di Skoll e Fenrir.
   - Fenrir Greyback - disse il Capo dell'Ufficio Auror, ritirando la bacchetta e puntandola blandamente contro di lui. - Sei in arresto. -
   Fenrir fissava il cadavere bruciato di Najata, ai piedi del vialetto, senza battere le palpebre. Non si voltò nemmeno per dire: - Devo fermare mio figlio. Poi risponderò io, per i crimini della mia gente. -
   Sistemandosi gli occhiali tondi sul viso, l'Auror annuì. Poi si voltò verso il più pericoloso nemico sul campo di battaglia, il lupo tra i lupi, ed urlò solo il suo nome.
   - Hati Grayback! -
   Hati, con la pelle del viso arrossata e gli occhi gonfi e lucidi, passò lo sguardo sugli Auror comparsi all'improvviso.
   Il suo non fu un grido, ma un sussurro ringhiato alla notte più dura della sua vita.
   - Harry Potter. Ci incontriamo, alla fine. -

***

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Capitolo 45
*** Quarantacinquesima Parte ***


45/50

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14 Aprile 2010

Villa Scamander

Per Nora non ci furono dubbi: lo scontro stava volgendo al peggio. Non solo i lupi di Fenrir stavano lasciando morti e feriti sul campo, ma erano comparsi anche gli Auror. Cosa avrebbero fatto gli altri? Tre gruppi e ognuno nemico: Fenrir avrebbe preferito, ancora una volta, il mondo magico ai propri fratelli? Lei aveva già patito quella sorte... non l'aveva fatta sentire arrabbiata (forse all'inizio sì, per un po'), ma ferita. Tradita, dalla propria famiglia.
- La famiglia - disse fra sé - è l'unica cosa che conta. - Si toccò il grembo, senza nemmeno pensarci, in un gesto incontrollabile che l'aveva fatta sentire vuota per tanto tempo.
Fino a quella sera.
Non sarebbe mai più dovuto accadere. Hati non l'avrebbe più permesso.
Ma era circondato dai nemici. Quel codardo di Sansers si era tirato indietro, più preoccupato di ritagliarsi una via di fuga tra gli Auror che difendere il proprio Alpha.
Doveva aiutarlo. Hati fronteggiava suo padre, sua sorella e il famoso Harry Potter, in uno stallo dall'esito complicato. Si puntavano contro le bacchette, pronti a scagliarsi l'uno sull'altro.
Nora li vedeva parlare tra loro. La tensione era palpabile, si spargeva sul campo di battaglia, dove gli altri lupi mannari non si erano di certo fermati al comando di un gruppo di funzionari del Ministero.
Molti degli Auror non sapevano come gestire un simile assembramento di ricercati. Alcuni esitavano, altri urlavano, mentre buona parte dei lupi pensava di approfittare della distrazione per affondare il colpo decisivo contro il proprio avversario.
Poi, qualcuna delle guardie in giacca e guanti, decise di lanciare un attacco, forse con l'idea di mettere fine agli scontri o mostrare la propria forza.
Una delle fedeli di Fenrir, una donna dai capelli arruffati e dal fisico tozzo e abbondante, che Nora sapeva chiamarsi Cleia, venne colpita alle spalle. Lo schiantesimo dell'Auror la buttò a terra. Non sembrava un colpo estremamente violento, ma Cleia non si rialzò.
Attorno a lei, maghi e streghe si voltarono verso l'agente, che intimava loro nervosamente di gettare le bacchette e arrendersi. Nessuno lo ascoltò.
A queste scene accadute pochi istanti prima, Nora aveva dato poco peso. La guerra era tutti contro tutti e chi colpisce per primo colpisce due volte. Per questo motivo, terrorizzata dall'idea che Fenrir o Potter potessero sparare su Hati, fiancheggiarlo, ucciderlo o peggio, arrestarlo per rinchiuderlo per sempre ad Azkaban, balzò a fianco del compagno brandendo undici pollici e mezzo di corniolo moderatamente flessibile.
Lo puntò contro il Capo dell'Ufficio Auror.
Gli gridò: - Mai più! - e scagliò con ogni fibra del proprio corpo la più distruttiva maledizione che sentisse nel cuore. - Avada Kedavra! -

X - X - X

- Non deve finire così, Hati! Ferma questa follia! - Skoll deviò il tentativo di Expelliarmus dell'Auror dai capelli rossicci e rispose frantumando sul selciato. Sperava così di dividere sé stessa e suo padre dall'intralcio degli uomini di Potter, mentre si sgolava per arrestare il fratello. - Possiamo ancora parlare! -
Hati, però, non ci sentiva. Non più ormai: Nora giaceva a terra, morta o priva di sensi, abbattuta prima di potersene rendere conto. La destrezza del Capo degli Auror, la sua preparazione, la forza di spirito con cui aveva reagito l'avevano sopraffatta. Era caduta ai piedi di Hati, che era accorso senza pensare alle conseguenze.
Le scostò i capelli insanguinati e le mise l'orecchio davanti alle labbra.
Respirava ancora.
Gli occhi di Hati divennero una fessura, uno scorcio di ribollente luce infernale.
- Hai avuto la tua ultima, pessima idea, Potter. - E prima di lasciare il tempo di una qualsiasi risposta, incrociò la propria potenza magica con colui che aveva sconfitto l'ultimo Oscuro Signore.
Eppure, non era così semplice: Fenrir lo sapeva. Lord Voldemort era stato molto potente, ai suoi tempi, e il giovane uomo che era Harry Potter non avrebbe mai potuto sconfiggerlo in un duello di pura forza e abilità. C'era qualche altro motivo, qualche altro inganno che aveva portato alla sconfitta di Riddle... qualcosa di subdolo, così come ogni azione del Ministero.
Fenrir era fermamente convinto che Hati fosse più forte del suo avversario e questo significava rovina. Se avesse ucciso il famoso Harry Potter, Capo dell'Ufficio Auror, mago rispettato e stimato, padre di famiglia, eroe di guerra, per i lupi mannari sarebbe stata la fine di ogni speranza. Quale trattamento avrebbero potuto sperare di ottenere a quel punto? Con quello che veniva percepito come il crudele capo dei licantropi che faceva a pezzi un mago tanto amato, che speranze ci sarebbero state? Nemmeno altri dieci Scamander a supportare la loro causa avrebbero sortito alcun effetto.
Doveva fare qualcosa. E sapeva esattamente come fare.
Prima di scattare, però, un dardo sfolgorante gli passò a mezzo metro dal viso. Se lo avesse colpito, probabilmente la sua testa si sarebbe presa una vacanza dalle spalle.
- F-fermo lì, Fenrir Greyb-back! - Un giovane Auror tremolante gli puntava contro la bacchetta, mentre un secondo correva ad affiancarlo. - A-arrenditi subito, e... -
Prima che finisse di parlare, Fenrir aveva completato il movimento con il polso, fissando il ragazzo negli occhi, senza bisogno di pronunciare l'incantesimo con cui gli aveva aperto la gola da parte a parte.
Il sangue si infranse sulle scarpe e sulla strada come una densa cascata rossa.

X - X - X

Si sarebbe aspettato di tutto: un gioco sporco, qualche trucchetto di bassa lega, persino di dover rispondere a raffiche di anatemi brutali. Quelle cose, Mandor sapeva come affrontarle. Era abituato a pensare fuori dagli schemi. Invece, Charie Burke, l'ubriacone, il vecchio stanco e bavoso, rientrava in uno schema fin troppo preciso: quello del duellante.
Mandor strinse i denti, lasciandosi sfuggire più di un sussulto d'allarme quando rispondeva all'ultimo secondo agli attacchi di Burke.
Quello lo fissava con sguardo omicida, ripetendo ossessivamente le stesse cose che gli avevano fatto marcire il cervello negli ultimi anni: - Me lo hai ucciso tu! Non hai niente di valore nella tua misera vita che possa strapparti, non posso farti provare quello che ho provato io... ma farò del mio meglio perché tu possa avvicinarti a capirlo! -
Lingue taglienti sferzavano la pelle di Mandor, che non poteva badarci, se intendeva rimanere vivo. Gli assalti di Burke erano rapidi, precisi, difficili da deviare. Mandor arretrava, cercando di non inciampare sui suoi stessi piedi, alzando parti di terreno come muri che puntualmente Burke faceva esplodere. Una volta su tre riusciva anche a rispondere, tentando prima con uno speranzoso expelliarmus, poi con tutti gli schiantesimi che gli venivano in mente. Erano le magie più rapide per i duelli, e dubitava avrebbe avuto il tempo di fare qualcosa di più elaborato senza lasciare una finestra d'attacco al proprio assalitore.
Per la prima volta dopo numerosi e pericolosi scontri, Mandor si sentì davvero sulla soglia della morte.
Qualcuno, in un altro punto del campo di battaglia, lo chiamava a gran voce. - Mandor! Mandor, presto! - urlava una donna, Nora probabilmente, ma le orecchie del giovane lupo fischiavano per la paura. - La luna! Ci serve la luna, ora! -
Il suo personale, stupefacente incantesimo, lo avrebbe potuto salvare. Se l'abilità magica di Burke era oltre le sue aspettative, una volta trasformati non avrebbe più potuto reggere il confronto. C'era solo un problema: aveva bisogno della concentrazione che, in quegli istanti, era tutta dedicata alla sopravvivenza.
La stessa Nora, però, non poteva aiutarlo. Mandor si accorse all'improvviso che non era lei a chiamare e a chiedere disperatamente il suo aiuto. A sgolarsi, impegnata nel combattimento con gli Auror, era Skoll.
Prima ancora di potersi realmente chiedere cosa stesse accadendo, una luce azzurra diffusa fece rallentare tutti, persino Burke, abbastanza per voltarsi a osservare qualcosa che non aveva mai visto nei lunghi anni di latitanza. A pensarci bene, Burke non lo credeva nemmeno possibile: restò senza fiato, confuso e spaesato, nell'osservare un mastino cupo e severo, traslucido come ogni Patronus, mettersi a difesa dell'uomo che lo aveva evocato.
Fenrir Greyback, dopo l'Incanto, torreggiava su suo figlio Hati, che aveva un braccio squarciato e una coppia di Auror a puntargli contro le bacchette. Il loro capo fissava Fenrir da dietro gli occhiali tondi e gli intimava di farsi da parte e arrendersi.
"Il colpo fortunato di qualcuno" pensò Mandor, nel vedere Hati ferito. La sorella e il padre, che fino a un attimo prima erano i nemici giurati, lo stavano difendendo dalle grinfie del Ministero. Sull'intero campo di battaglia aleggiava una nebbia di morte, pronta a calare al minimo sospiro.
Così Mandor, che credeva fermamente all'azione prima dell'idea, alla forza prima della discussione e all'unico obbiettivo, vincere, ebbe la sua occasione.
Si infilò nella frazione di secondo persa da Charlie Burke e gli strappò l'anima con un singolo incantesimo.

X - X - X

Con l'evocazione, Skoll vide il mondo congelarsi attorno a suo padre. Il mastino si era messo a sua difesa, mentre lo stesso Fenrir faceva da scudo con il proprio corpo ad Hati, che con il braccio squarciato si rifiutava di lasciare il corpo inerte di Nora.
Skoll sapeva che Fenrir si era preparato a quello dal giorno in cui avevano forzato la Porta Eternamente Chiusa al Ministero della Magia. Si era preparato nella speranza fosse uno sforzo non necessario.
- Tu... come puoi evocare un Patronus? - Si chiese Harry Potter. Passava con lo sguardo dall'animale arcigno agli occhi profondo di Fenrir. Strinse saldamente la bacchetta, come se avesse paura che gli si sfilasse di mano. - Sei solo un essere meschino. Ci sono solo malefatte nella tua via, nulla che possa valere come pensiero veramente felice. -
Fenrir fece una risata roca, gorgogliante, il rantolo di un orribile mostro senza pietà. - Nella notte più profonda, - rispose - tre stelle sole possono brillare come la luna piena. -
Skoll urlò di nuovo, sperando che Mandor, ovunque fosse, potesse sentirla. Erano bloccati l'uno contro l'altra, la famiglia riunita nella paura l'uno degli altri: di un padre padrone, di un figlio avvelenato, di una sorella dal cuore spento. Attorno, gli Auror del Ministero e il loro Capo, il Prescelto, colui che aveva sconfitto il Signore Oscuro. Non ce l'avrebbero fatta, Skoll lo sapeva. Non in quella forma, nella quale erano fragili come chiunque altro.
Troppe armi puntate addosso e nessuno spazio in cui fuggire.
Esattamente quello che stava pensando Eric, nel battere lentamente il piede a terra.
Tok.
"Quelle bestie hanno ammazzato decine di persone, amici, grandi streghe come Lizbeth Urquart, proprio di fronte ai miei occhi" stava pensando. "Non possono scappare. Non meritano di salvarsi".
Tok.
"Il signor Potter pensa di poterli arrestare, ma io ho visto di cosa è capace Hati Greyback. Non si arrenderà mai."
Tok.
"Giustizia ha la la bilancia in una mano e la spada nell'altra" si disse. "Ma porta la benda sugli occhi".
Avada Kedavra! -
Dei secondi successivi, nessuno avrebbe potuto tener traccia. I polsi ruotarono, maledizioni esplosive e mortali scoccarono dalle bacchette, il fuoco eruppe e il verde baleno della morte tagliò l'aria in più direzioni.
Lo scoppio degli incantesimi incrociati abbagliò tutti per un istante. Sbattendo forsennatamente le palpebre, Skoll, che si era gettata a terra, non credeva ai propri occhi.
Hati, accasciato, teneva lo sguardo vitreo rivolto verso l'alto, trattenendo il fiato.
Il primo corpo che cadde a terra, quello di Eric, si era spento. La sua maledizione era (cosa impossibile) rimbalzata, tornando indietro al mittente. Hati non si era parato: la maledizione lo aveva colpito, ma lui era ancora vivo. 
Harry Potter quasi non si accorse di aver perso un altro uomo: si stringeva la mano, dove la manica completamente bruciata lasciava esposte le vesciche sulla pelle. Per poco il confringo non lo aveva mutilato. Ma nemmeno questo poteva smuoverlo dall'avvenimento più incredibile a cui avesse mai assistito due volte.
A differenza della prima, questa l'avrebbe ricordata per il resto della vita.
Il patronus di Fenrir Greyback non c'era più. Sul viso del lupo mannaro, le due fila di denti appuntiti si stringevano nel più terrificante dei sorrisi.
Solo quando alle loro spalle, nel mezzo degli scontri, Mandor riuscì ad alzare la bacchetta e lanciare nel cielo una luna gonfia e stiracchiata, e una brezza passeggera soffiò come lungo le sponde del mare, quella brezza gentile con cui salpano i velieri, il corpo di Fenrir stramazzò al suolo.

***

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Capitolo 46
*** Quarantaseiesima Parte ***


46/50

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14 Aprile 2010

Villa Scamander

   - Sono ancora in tempo, sono ancora in tempo... - Più lo ripeteva e meno sembrava convincente.
   Nonostante fosse un sussurro nel vento, una gracchiare da corvo ben aggrappato alla propria scopa datata, la passeggera lo udiva benissimo. Si reggeva con grazia ed eleganza, la stessa con la quale rispose: - Il ritardo è incolmabile, Vassily Calcifer. Avrei dovuto esserci mezzo secolo fa. -

   Dopo essere stato all'ultimo rifugio, Calcifer aveva scoperto di averci messo troppo a tornare dalla propria missione. Hati si era mosso velocemente e aveva costretto Fenrir a intervenire.
   La scopa era un vecchio modello rubato alla locandiera, quando si era fatto dire dove fosse finito il branco. Indizi, solo indizi. Cercava Fenrir da due giorni quando gli riuscì di scoprire da Zabiny dove fosse.
   Fenrir gli aveva lasciato un cofanetto e un indirizzo da raggiungere dopo che i giornali avessero smesso di rimuginare sull'accaduto. Il pagamento promesso per la visita guidata al Ministero.
   - Ci siamo quasi, la casa degli Scamander dovrebbe essere qui da qualche parte. - Le villette erano tutte uguali per Calcifer e ancor più per la Veela.
   - Se è qui, - disse lei - non sarà difficile trovarlo. Mio nipote cercherà lo scontro, giusto? -
   - Ben più che lo scontro - rispose Calcifer. - Vorrà uccidere chiunque non stia dalla sua. -
   - Uomini. Per voi il mondo è in bianco e nero, come i cani. -
   Calcifer sbuffò, girandole un'occhiataccia. - A una domanda categorica si può rispondere solo sì o no. Non ci sono vie di mezzo. -
   Volarono lentamente sopra i quartieri, cercando segnali della presenza dei branchi. Calcifer sapeva che se fossero passati alle mani, tutto sarebbe finito nel sangue e quello che la vecchia Veela aveva da dire sarebbe stato inutile. Fenrir si era fidato di lui per l'ultima carta da giocare.
   La notte buia, improvvisamente, si illuminò. Da qualche parte non troppo distante si alzò una luce al cielo, pregna di magia, di un tipo che Calcifer non conosceva. Tutto ad un tratto, nella volta cupa, spuntò pallida, piena e terribile.
   Il cuore cominciò a battergli all'impazzata nell'istante in cui la vide. Perse il controllo della scopa, che puntò il terreno schiantandosi fra i cespugli di un giardinetto isolato.
   Un tonfo sordo e entrambi furono sbalzati sull'erba.
   - No! - urlò Calcifer, un grido gutturale mentre la sua gola si squarciava e si ingrossava. Cercò la Veela con i grandi occhi pieni di terrore. - Vattene! Se hai le forze corri, non c'è più tempo! -
   La splendida dama, con grazia sovrannaturale, già si stava incamminando lontano da lui.
   Non gli rivolse una sola parola, lasciandolo sotto i raggi lunari a contorcersi nei dolorosi spasmi della trasformazione.

X - X - X

  Di fronte a una scena di raccapricciante terrore, l'Auror sentì le gambe tremare. - Signor Potter? Signore, cosa facciamo? -
   Harry Potter, però, non riusciva a distogliere lo sguardo da Fenrir Greyback, crollato a terra, senza vita. La cicatrice sulla fronte gli bruciò come non faceva più da anni. Si sistemò gli occhiali con la mano sana, spostando lo sguardo istericamente fra Fenrir e tutti gli altri lupi che, sotto una luna comparsa per magia, si stavano trasformando sul campo di battaglia.
   - Signor Potter, - insistette uno degli agenti - stiamo per fare la fine delle galline nel pollaio. Sono troppi lupi mannari, non possiamo fermarli! -
   Harry, con la mente e il cuore spezzati dall'immagine solo sognata della madre che lo salvò dalla ferocia di Voldemort, rispose rapidamente: - Ma dobbiamo. Non possiamo lasciare decine di lupi mannari in frenesia in una zona abitata. Dobbiamo fermarli in qualche modo. Sbrigatevi! -
   Ma nello stesso istante, il ringhio più spaventoso che avesse mai udito proruppe da una caverna dentata a pochi passi da loro. Harry si costrinse a spostare lo sguardo da Fenrir al gigantesco licantropo sbavante con il muso puntato suo viso.
   Era mutato più in fretta degli altri. Dai suoi enormi occhi gialli, pieni di fuoco e fiamme, sgorgavano impietose lacrime salate.

X - X - X

   Le imprecazioni furono intense e fantasiose, tanto che Luna si complimentò con lei prima di aggiungere: - Però cerca di evitare in presenza dei gemelli, Megan. -
   Dalla finestra riusciva a scrutare buona parte del campo di battaglia. I padroni di casa stavano chini sui bambini a curare le loro ferite e il morso di Fenrir. Rolf era frenetico, estremamente agitato, mentre faceva spola tra lo spettacolo inquietante che aveva preso forma fuori da casa loro e il pianto dei propri figli.
   Megan aveva osservato senza sosta dall'alto, temendo in ogni istante per le sorti della battaglia, dei lupi, di Skoll, del futuro. Intendeva mantenere il proposito di tenersi lontana dal pericolo, ma con quel che era accaduto, non era sicura di riuscire a controllarsi.
   - Harry è spacciato - sospirò. Lo vedeva con chiarezza: il caos aveva invaso le strade, i lupi mannari si liberavano della forma più fragile e Hati, sconvolto, pieno di rabbia e dolore e risentimento, avanzava ringhiando tra i corpi inerti della compagna e del padre.
   - Oh, Harry ha più risorse di quanti sembri - commentò Luna.
   - Quante volte ha affrontato un lupo mannaro? - chiese Megan, alzando il sopracciglio.
   - Credo una, quando ancora andavamo a scuola. Non sapevo ancora che il professor Lupin fosse uno di loro. Era una brava persona. Un po' troppo spesso sconvolta. -
   - E lo stesso immagino per i suoi rampanti Auror. Ora che la luna è alta, dovranno fuggire. -
   - Invece non fuggirà. - Luna doveva conoscere bene Harry Potter, pensò Megan. Forse aveva ragione. Ma se così fosse stato, i lupi mannari avrebbero prima fatto a pezzi ogni funzionario del Ministero e poi, nel migliore dei casi, sarebbero fuggiti.
   In caso si fosse verificata l'opzione peggiore, Megan corse al piano di sotto a sbarrare la porta.

X - X - X

   Osservare la carneficina era insieme terribile e ipnotico.
   La danza del sangue metteva in scena zanne, artigli, carne e pelliccia, lampi di fuoco e bagliori verdi che tagliavano la notte da bacchetta a bacchetta. Ogni grido, ogni ruggito, ogni ultimo rantolo di vita spazzato via dal vento era privo di corpo e significato: per lei, l'unico spiraglio luminoso era inquadrato in lontananza, dove il tempo di una vita intera si comprimeva nello spazio di un istante.
   Sapeva che, prima o poi, sarebbe successo. Lo aveva immaginato diversamente, come una notizia appresa da una lettera partita da lontano, giunta sui lidi del salotto prima di finire a bagno tra le fiamme. Erano i suoi stessi occhi ora, invece, a mostrarle il risultato degli infiniti frammenti taglienti in cui si era infranta la vita della sua unica figlia.
   Skoll, in forma di ispida lupa, inseguiva a balzi furenti il bacio fiammeggiante della bacchetta di del suo nemico. A lui caddero gli occhiali tondi e infuriò con il calore di un sole contro la lupa, pronta a divorarlo.
   L'ululato straziante di Hati era rivolto alla luna, mentre a destra e a sinistra proteggeva due corpi, come una madre che rifiuta di abbandonare i cuccioli malati. Ma questi non erano malati: erano sulle soglie dell'Altro Mondo. E la luna, fulgida e falsa, ne bagnava le membra immobili, con Hati che la pregava di dare ancora una volta, per l'ultima volta, la sua benedizione.
   Ma non poteva. La luna non poteva nulla per il suo popolo, poiché si era chiusa in lutto.
   Il suo figlio prediletto era caduto.
   Fenrir Greyback non era più.
   Così fu chiaro alla Veela venuta dall'est, il cui nome non aveva voluto rivelare al messaggero, che la bestia e il mostro che aveva tormentato i suoi sogni per tanti anni era giunto alla fine del proprio percorso così come era cominciato: da solo, nel dolore e con la massima accettazione.
   Un sacrificio che non meritava di andare sprecato.
   Per questo motivo la Veela cominciò a ballare, avanzando nel mezzo della battaglia, come un fiore trasportato fra il fango e i soldati.
   I primi a placarsi furono i lupi. La frenesia bestiale, la Furia impazzita del rancore e della paura e della sete di giustizia scomparve dagli occhi dei licantropi, facendosi sempre più piccola, mentre le pupille diventavano sempre più grandi. Le fauci si aprirono, lasciarono che il gusto per il sangue si voltasse di spalle; gli artigli tornarono sul terreno e sul cemento; le code spazzarono, le orecchie ruotarono e il battito del cuore, martellante, non rallentò, ma divenne armonioso. Ogni lupo mannaro non poteva distogliere lo sguardo dalla grazia della Veela.
   E lei continuò, fino a che gli uomini non abbassarono le bacchette. Temevano ancora per la propria vita, ma un sogno reale stava facendo muovere i pianeti e l'intero universo di fronte ai loro occhi. La musica delle sfere si districava nell'ouverture dei capelli dorati di lei, unico raggio di bellezza nella notte.
   Fu così intensa, che alla fine anche le donne posarono le armi.
   Pregando nelle proprie perdute, magiche movenze, la Veela imprigionò ognuno in una gabbia senza sbarre. Vittime e carnefici dimenticarono la rabbia e si persero lì dov'erano. Nessuno dimenticò il motivo per il quale stava combattendo, ma ad un tratto si sentirono risvegliati come da un lungo coma, un orribile incubo, reale, ma accantonato. Un incubo che poteva tornare da un momento all'altro, eppure, per quei pochi minuti, mentre la donna danzava, era divenuto senza importanza.
   In fondo al percorso, lei giunse da Fenrir. Gli occhi degli uomini e dei lupi mannari le rimanevano incollati addosso, mentre il respiro di tutti si faceva uno.
   Sì chinò e sfiorò la testa grigia  dell'assassino con un gesto dolce. Gli chiuse gli occhi e soffiò sul suo viso.
   Nel rialzarsi, un unico gesto delicato la portò da Hati, Lo toccò con il palmo fra gli enormi occhi famelici, sentendo tutto il dolore che lo divorava da dentro. Dall'altra parte della strada, fece gesto a Skoll di avvicinarsi. La prima a muoversi, l'unica ad ascoltare la muta voce della Veela.
   Sotto l'incanto, la possente Skoll caricò il corpo di suo padre sulle spalle. Passo dopo passo, si allontanò dal campo di battaglia, seguita dal branco: una scia di ombre mute che nessuno tentò di illuminare.
   Quello che fece la Veela, lo fece incontrastata. La voce di Hati si era spenta, come una candela alla fine dello stoppino. Non era ipnotizzato, non provava nulla di quello che la maggior parte degli uomini sentiva alla vista della danza della meravigliosa creatura dai capelli d'oro bianco. Si sentiva vuoto, il boccale fondo di un vino aspro, sangue di gigante essiccato attorno al cuore. La sua compagna era svenuta, ma viva. Il capo degli Auror sembrava sconvolto quanto gli altri e incapace di reagire prontamente.
   Hati pensò di ucciderlo. Sarebbe bastato poco: un semplice morso al collo, e avrebbe avuto la giustizia che bramava. Ma mentre si immaginava bere il sangue di Harry Potter, non riuscì ad evitare di sentirsi piccolo. Suo padre lo aveva difeso. Lo aveva protetto.
   Era vivo grazie a lui.
   Il folle e impossibile gesto, al di là di ogni capacità magica che Fenrir avesse mai posseduto, aveva reso Hati l'orfano che aveva da solo cercato di diventare. E per la seconda volta, alla rabbia si era affiancata una verità più triste e profonda.
   La Veela rivolse poche parole al turbato Capo dell'Ufficio Auror, che le rispose mormorando dubbi troppo terribili da rivelare ad alta voce. Poi puntò la bacchetta al cielo, dove anche i lupi rivolgevano il loro sguardo. Con un lungo, difficile gesto, pieno di potenti intenzioni, cancellò la finta luna dalla volta cupa.
   Le case, le strade, ogni albero e filo d'erba ripiombò nell'oscurità. La pelliccia tornò pelle, le zanne denti, gli artigli mani.
   La fine era a portata per gli Auror e per i ribelli di Hati. Si fissarono gli uni con gli altri, immersi in un terrore calmo.
   Hati afferrò Nora con un solo braccio, cullandola al petto, prima di scomparire.

***

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Capitolo 47
*** Quarantasettesima Parte ***


47/50

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06 Giugno 2010

La Testa di Porco - Hogsmeade

Alla Testa di Porco gli avventori di maggior discrezione erano soliti fare un gioco con le carte dei maghi. I più scaltri restavano al tavolo anche tutta la sera a osservare i galeoni degli altri che tentavano ogni sentiero per raggiungere le loro tasche.

A chi frequentava il locale era richiesta solo una cosa: lasciare i guai fuori dalla porta. Per tutto il resto, Dean Thomas chiudeva un occhio su loschi traffici, aggregazioni di personaggi dalla dubbia fama e la compravendita di manufatti. Tant'è che buona parte delle persone, quella sera come le altre, indossava mantello e cappuccio senza che ad alcuno venisse in mente di domandare il motivo di certe furtive precauzioni.

Al tavolo da gioco, cinque cappucci erano calati su altrettanti visi adombrati. Solo la stazza e le mani dei giocatori lasciavano trapelare qualche indiscrezione.

Sedevano e giocavano in religioso silenzio da più di un'ora.

Dean aveva portato tre calici di vino forte, un boccale formato Hagrid di burrobirra con la cannella e un bicchiere di frizzacqua spinosa per il più sottile dei partecipanti. Nessuno aveva ancora finito il primo giro quando l'incappucciato verde disse qualcosa che non c'entrava con le carte.

«Godric Grifondoro era un grandissimo pezzo di merda.»

Seppur le sue parole sembravano essere state messe sul piatto come una puntata, con i compagni intenti solo a valutarle senza battere ciglio, l'incappucciato grasso titubò al momento di giocare la sua carta.

«Se stessimo a dar credito a quel che si dice in giro, cosa su cui normalmente non faccio grande affidamento,» rispose mentre sceglieva fra un cinque e un otto «l'opinione generale è ben diversa.»

«Hai mai contato qualcosa l'opinione generale?» disse l'incappucciato verde.

«Abbastanza per conferire prestigio, ammirazione, una vita serena e l'intitolazione di un paio di villaggi.» L'incappucciato matto non esitava mai. Durante la serata era stato capace di giocarsi e perdere una piccola fortuna, solo per poi recuperarla con colpi di destrezza improbabili. Scommetteva come se i galeoni non fossero suoi.

«Questo è il punto. La gente si ricorda solo la parte che preferisce. Non che una scelta o due nella vita dovrebbero influenzare completamente la valutazione di un personaggio, ma quando si sceglie attivamente di ignorare una parte esagerata della storia allora si finisce col creare un inganno. Una menzogna bella e buona» riprese l'incappucciato verde.

«E com'era? Grifondoro, dico.» L'incappucciato smilzo portò in bicchiere di frizzacqua sotto la cappa d'ombra e prese un sorso silenzioso.

«Un guerriero. Armatura e spada incantata e tutto il resto. Uno che staccava teste prima di collegare il cervello. L'azione prima della domanda» continuò il verde.

«Allora credo che mi sarebbe piaciuto più del previsto» commentò l'incappucciato grasso, calando la mano e arraffando il piatto per quel giro. Una mescolata alle carte e spostò al centro una pila dorata per ricominciare.

«Può darsi» rispose il matto, senza eccessiva enfasi. «Proprio perché sei a scommetterti la cena al tavolo, ci credo. Ma come lo chiami uno che prevarica il prossimo usando il proprio potere, sottomette chiunque non la pensi come lui in nome di un ideale non condiviso, che per risolvere le controversie usa la spada? Coraggioso?»

«Violento.» La voce dell'incappucciato fosco era la più profonda e roca dell'intero tavolo. Indubbiamente un uomo, così come lo smilzo doveva essere una donna. Parlava poco, restando immobile anche durante il gioco, ma chiunque era sicuro che non si lasciasse sfuggire nemmeno una parola.

«Mi pare evidente» riprese il verde. «Questo fa di lui una persona migliore di Salazar Serpeverde?»

«Questo fa di lui uno sciocco. Ma uno sciocco onesto» disse il matto.

«Se pensassimo che l'onestà abbia un qualche peso, nessuno di noi terrebbe il cappuccio calato sul viso.» Il grasso aveva ragione: per soddisfare le proprie voglie personali, ognuno di loro partecipava al gioco indossando una maschera d'anonimato. Eppure, sembrava che la discussione intrapresa fosse un pendio capace di portarli irresistibilmente a rotolare sempre più veloce.

«L'onestà è tutto» imperò l'incappucciato fosco.

«Non sono d'accordo» disse lo smilzo. «L'integrità è tutto. Quella resta, è soggettiva ma anche oggettiva, una volta conosciuti i fatti. L'onestà è solo un modo per lavarsi la coscienza: buona cosa molte volte, ma molte altre invece no. Prendi la mia giocata. Sarei onesta se dicessi di avere un mano una coppia di scarso valore, ma mi tirerei da sola fuori dai giochi. E allora per quale motivo dovrei stare seduta al tavolo?»

«Per farci divertire» commentò il grasso, contando i galeoni.

«Una battaglia già vinta non porta ad alcuna soddisfazione. Quindi tengo nascosta la verità, così che voi possiate chiedervi se ciò che ho appena rivelato possa essere un bluff. Fa parte del gioco. La mia integrità di giocatrice, però, è fuori dallo schema. Non imbroglio, non baro, non rompo le regole che ci siamo dati nel momento in cui abbiamo deciso di iniziare. E se vincerò, alla fine, non potrete fare a meno di ammettere che vi siete sbagliati.»

Il grasso, però, non pareva convinto. «Come dovremmo fare a saperlo? Se tu fossi un abile baro, accorgercene sarà impossibile.»

«Le carte si svelano sempre, alla fine del gioco. Poi starà a voi decidere se fare altre partite, un giorno, o raccontare attorno a un boccale le vittorie e le sconfitte delle battaglie combattute. Questa è l'unica cosa che accomuna i quattro fondatori di Hogwarts. Grifondoro era un bastardo prevaricatore? Ha giocato secondo le regole e ne è stato riconosciuto il coraggio. Serpeverde era un subdolo razzista? Ha mantenuto la sua coerenza, lasciando un mondo in cui non credeva e scegliendo una via onesta. Durmstrang ne è il risultato. E mezzo mondo gli è riconoscente. Così come a Tosca Tassorosso.»

«La ridente cicciona ha dato vita alla più insulsa delle Case della scuola. Idioti mollicci e incapaci che non hanno le palle o il cervello per aspirare a qualcosa di più.» La risposta del grasso, in qualche modo sincera, sembrò tirare una stoccata sbagliata, un colpo scorretto e ignobile. Il giro di scommesse si concluse rapidamente: tirarono le somme e, momento fortunato, toccò al matto portare a casa la posta.

Nel resto della locanda, la serata era una semplice serata. Dean Thomas si faceva aiutare da un paio di studentesse del quarto anno che cercavano di raccimolare abbastanza da potersi comprare un carretto attrezzato per la riparazione delle scope. La febbre delle corse stava crescendo di anno in anno e alcuni dei più intraprendenti, studenti o meno, cominciavano a vedere la possibilità di fare una piccola fortuna. O almeno rendersi indipendenti.

Qualcosa che l'incappucciato fosco aveva conquistato da tempo. E, nonostante questo, appariva lontanissimo dall'orizzonte della felicità.

Prese la sua nuova mano di carte e la tirò verso il bordo del tavolo, senza guardarle.

«Il coraggio non è né positivo né negativo. Nemmeno l'astuzia» ringhiò.

«Così, neanche la dedizione e la pazienza» rispose l'incappucciato verde. «Solo da cosa ne fai, si può capire se è bene o male. Positivo o negativo. Qualcosa da apprezzare o da ricoprire di sputi.»

«Solo alla fine del gioco» aggiunse lo smilzo.

Il grasso puntò e passò la mano al fosco. Questo, però, rimaneva immobile, con il volto oscurato rivolto all'altro capo del tavolo. Il respiro pesante seguiva il movimento dell'ampio torace sotto le vesti.

Ci fu una lunga pausa. I giocatori erano a uno stallo ma, soprattutto, si resero conto, uno dopo l'altro, di non essere più dei semplici scommettitori notturni. Qualcuno più di altri, stava mettendo sul piatto qualcosa di estremamente più pesante.

Infine, il fosco si rivolse allo smilzo. «Perché sei venuta?»

L'incappucciato smilzo non cercò nemmeno di nascondere le proprie intenzioni. «Non sono venuta per te, se è questo che ti preoccupa. Non ora, non la scorsa volta. Noi non ci siamo mai conosciuti, ma con tuo padre è diverso.»

«Hey,» bofonchiò il grasso, rivolto al fosco «non dovremmo parlarne. Sarebbe più sicuro...»

Lui lo ignorò. «Attenta a quello che dici, perché l'essere in un luogo pubblico non ti proteggerà.»

«Della mia incolumità lascia che sia io ad occuparmene» rispose lo smilzo. «Ciò che mi interessa è che tu abbia i pezzi del gioco davanti. Quel che ne farai è affar tuo. Mi sono nascosta per anni in una rabbia che mi ha divorata dentro, riducendomi a una candela sciolta. Non hai davvero idea di cosa possa provocarti un fuoco inestinguibile, quando ti volti e scopri di aver rovinato tutto con le tue mani.»

«Quello che ho fatto...» cercò di ribattere il fosco, alzando la voce, interrotto inaspettatamente da un chiaro timbro di donna che aveva smesso di celarsi.

«Lo capiamo. Tutti lo capiranno, te lo assicuro.» Il matto, che mai avrebbe creduto di possedere un tale coraggio, si tirò il cappuccio indietro fino alle orecchie, svelando il volto di una giovane giornalista della Gazzetta del Profeta. Forse ex-giornalista, ma ancora non le era dato sapere. Fino a quel momento, per i molti mesi precedenti, Megan Jones aveva vissuto nel terrore di incontrare quell'uomo faccia a faccia. «Farò in modo che sia così. Il Ministero sta traballando, da quando Harry Potter ha rifiutato di fornire informazioni ulteriori sul tuo branco e su quello che successe a Villa Scamander. Kingsley comprende i fatti meglio di quanto lasci a intendere.»

«Kingsley è un falso e un ipocrita!» Il grasso batté il pugno sul tavolo, ritirandolo subito dopo per nascondere i toni accesi al resto della Testa dei Porco.

«Non abbiamo detto che ci dobbiamo fidare» continuò il verde. «Dico solo... ascolta, Hati, facciamola finita. Siamo venuti con le orecchie abbassate e la coda tra le gambe. Non per scusarci, non per rinnegare la nostra diversità di vedute, ma per il sangue del tuo sangue che è anche il nostro.» Calcifer mostrò il viso e lo ricoprì subito dopo. «Fenrir era l'Alpha di tutti. Era la mia famiglia. Così come Megan ora fa parte della tua.» Si stropicciò il naso e ammise senza esitare: «L'ha mandata Skoll.»

«E prima ancora,» concluse lo smilzo «era la mia, di famiglia. Come lo sei tu. C'è il mio retaggio nelle tue carni. Per quanto lo abbia osteggiato negli anni, mia figlia aveva scelto e sarebbe ormai un insulto a tutto ciò che è stata rinnegare quella scelta. Tua madre ti ha voluto bene fino all'ultimo.»

Hati inspirò ed espirò. Poi lo fece ancora, più profondamente. Nemmeno il grasso osava più aprire bocca, quando percepiva un simile stato d'animo nel suo capobranco. Per quanto cinico e violento e scorretto, Mandor non era mai stato uno stupido.

«Ascolta solo una volta, nipote mio. Ascolta una voce che arriva dal passato, una che persino io avevo cercato di evitare.» La Veela celata estrasse una fiala dalla tasca, poggiandola sul tavolo da gioco. Riluceva di luce propria come la stella del mattino. «Hai sulla tua pelle il calore che ti ha rivolto tuo padre. Nelle tue vene scorre la sua ferocia, ma anche la sua dedizione. La sua convinzione. Tu sai che è così, anche se non sei stato in grado di accettarlo.» Spinse la boccetta verso le mani guantate di Hati, che la fissava da sotto il cappuccio.

«Cosa vuoi che veda?» chiese con voce stanca il possente licantropo.

«Un istante, di molti anni fa. Quando tuo padre e tua madre erano solo ragazzini. Quando le forze dell'oscurità e della luce hanno provato a depredarli di loro stessi. Quando uomini molto più potenti li ignoravano, assorbiti nei giochi di potere. Voglio che tu veda quando i licantropi non contavano nulla e Fenrir era solo un cucciolo insignificante. Voglio che tu veda» aggiunse infine con enfasi «quando è nata la tua stirpe. Quella che tramanderai ai tuoi figli e Skoll ai suoi. Guarda con occhi nuovi chi era Fenrir Greyback. Poi fai della tua vita ciò che ritieni più giusto.»

Così dicendo, la Veela si alzò dalla sedia. Con pacata lentezza la seguirono anche Calcifer e Megan, fuori dalla locanda, nella notte ormai assopita, ancora troppo buia perché si potesse essere certi che il domani sarebbe sorto.

***

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Capitolo 48
*** Quarantottesima Parte ***


48/50
 

L'abito color canarino di Silente gli conferiva uno strano tipo di autorità, altera e fragile allo stesso tempo. Con lo sguardo affilato teneva sotto controllo i falsi Auror entrati nel suo ufficio. Io non sapevo chi fossero quelle persone, tranne una, il capo: un uomo dall'animo incrinato come il corpo.

- Avremmo bisogno di conferire con il Preside riguardo ai recenti fatti accaduti nel cortile della scuola - recitò Ignavus Lovegood, sporgendo il mento e inclinando la testa come una civetta. Contemporaneamente, i tre compagni di Ignavus, due uomini distinti e una donna dallo sguardo rapace, fissarono la professoressa Black e il prefetto Giggle così intensamente da costringerli a cercare riparo in un cenno di Silente.

Il Preside annuì. - Potete andare, molte grazie. -

I due ci lasciarono soli. Quando la porta si chiuse, l'aria si fece pesante e densa di scintille. Silente si porse in modo amichevole, finemente distaccato, nonostante fosse chiaro l'astio che provava verso gli sconosciuti.

Che, sconosciuti, in fondo non erano.

Ignavus, non appena si sentì certo di trovarsi al sicuro da orecchie indiscrete, decise di deporre ogni filtro e parlare con il Preside come a un vecchio amico.

- Non sai quanto ho atteso questo momento, Albus - disse fremendo di eccitazione. - Dopo tutti questi anni, dopo tutto quello che mi hai costretto a vivere, come se fossi un babbano qualunque… hai idea dell’umiliazione, Albus? Di sentirsi come uno degli inutili insetti che uccise tuo padre senza nemmeno pensarci? -

Silente strizzò gli occhi. Le folte sopracciglia si mossero come onde di un mare in tempesta. - Ciò che ti è accaduto, Ignavus, non è affatto colpa mia. Sono state le tue azioni a trascinarti nella secca, e sempre le tue scelte a portarti ad odiare la tua stessa vita. -

- Le mie scelte? - ripeté Ignavus con scherno. - Ho scelto io di essere coerente? Avevamo un accordo, Albus. Eri convinto anche tu, come lo era Gellert. Vi siete scontrati. Io ho eseguito gli ordini fino all’ultimo, sicuro che tu sapessi cosa stessi facendo. E cosa ne ho ottenuto? -

rispose Silente, senza essere ascoltato.

- Mi hai castrato! Quello che hai fatto a me, o sì Albus, devo ammetterlo, è stato qualcosa di incredibile. Se solo uno di noi fosse davvero un Auror avrebbe di che riferire al Ministero. Come sarebbero entusiasti di saperlo, non credi? Tagliare fuori un mago dalla sua magia… che grande luminare che sei! Con i lupi avevi in mente di fare altrettanto. Quanto hai sperimentato su di loro, eh? - Ignavus, all’improvviso, si rivolse direttamente a me. - Comprendi, ragazzo? Spezzare l’anima di un’altra persona. Tagliare una parte di lei, come un’amputazione. Strappare via la bestia dal mago ha reso menomati decine di lupi mannari. Si trascinavano avanti e indietro per il campo, fissando la luna e sbavando, ululando senza potersi più trasformare, dementi che cercavano di muovere una coda che non avevano e si rompevano i denti azzannando con tutta la forza le catene. E poi, alla fine, arrivò il mio turno. -

- Ciò che eri diventato era aberrante, Ignavus! Ma non è per parlare del passato che sei venuto. Suvvia, non essere reticente. Risolviamo la questione, se ti aggrada. Perché sospetto che dietro tutti gli straordinari avvenimenti di quest’anno, e forse di più, ci sia il tuo insanabile desiderio di vendetta. -

- Riscatto! - urlò il mio storto precettore. - Non vendetta. Non posso farti quello che hai fatto a me. Non posso portarti via la magia. - Poi, prendendo una pausa, sorrise. - Ma posso portarti via un altro dei tuoi talenti. Sì, possiamo. E sarai tu a farlo. Parlerai alla scuola. -

- Se credi che darò credito alle tue follie, temo di doverti deludere. -

- Oh, ma tu lo farai. - Ignavus, con un gesto, diede istruzioni a uno dei suoi. L’uomo con i baffi arricciati mi afferrò per il braccio, strattonandomi e stringendomi a sé. - Tu hai trattato gli altri come bestie per raggiungere i tuoi scopi. Vediamo se la lezione è stata imparata. -

- Non fare del male al ragazzo. Tu è con me che intendi arrivare a un confronto - disse Silente, senza perdere il controllo.

- Confronto? Anche se avessi ancora la mia magia non potrei batterti neanche se ti legassi le mani dietro la schiena. Non sono uno stupido, per chi mi hai preso? No… -

Non mi ero reso conto di quanto Ignavus avesse programmato la propria mossa fin dal principio. Il suo gioco aveva escluso lo scontro diretto, un confronto nel quale sapeva che ne sarebbe uscito sconfitto. Il campo di battaglia, invece, era stato preparato a dovere.

Mandò la cupa donna fuori dalla stanza, a eseguire compiti preordinati. Si comportava da generale in battaglia: ogni mossa era studiata e ben gestita. Ma ciò che desiderava richiedeva un pubblico e per questo Silente riuscì a provocare un primo errore.

- Se fai portare gli altri mezzosangue, - disse Silente - riempirai solamente il mio ufficio di ragazzi impauriti e dalle capacità singolari. Cosa desideri, Ignavus? So che il tuo cuore è già spinto avanti. Se possiamo risolvere… -

- Lo stiamo facendo. Non comprendi? Ora andremo fuori, nei cortili, e tu parlerai alla scuola intera. Alla nazione, persino. Tu confesserai, Albus Percival Dannato Bastardo Silente. Racconterai in faccia ai ragazzi e le ragazze con il sangue sporco le crudeltà che hai inflitto ai loro genitori durante la guerra. Di come hai cercato di impedire che le creature seguissero Gellert rastrellandole, rinchiudendole e torturandole. Di come hai sempre trattato chiunque avesse finito di esserti di una qualche utilità. E della montagna di menzogne che hai raccontato a te stesso per poter continuare a guardarti allo specchio. Vendetta dici? No… io sono finito. Ho perso la magia per sempre. Ma posso ancora ottenere giustizia. -

- Perché non la torre di astronomia, dunque. Ritengo possa essere un pulpito più adatto. - Silente sbuffò come se si sentisse impotente. - Farò radunare nei giardini insegnanti e studenti, così che tutti possano udire. E se sarai soddisfatto, lascerai che ogni cosa faccia il suo corso. Ma tutti assisteranno da un luogo sicuro. -

Ignavus agitò la testa come un tacchino, scattando a destra e a sinistra. - Bene - rispose. - Andiamo alla torre. Che tutti vedano. Che tutti sappiano. - Poi si girò verso di me e aggiunse: - Anche che tu sei uno schifoso lupo mannaro, naturalmente. Risolveremo tutti i problemi questa notte. Che le creature immonde abbiano i loro spazi, e non si mischino mai più con la nostra gente. Lupi mannari, giganti o veela che siano. -

Mi sentivo sballottato fisicamente ed emotivamente. Ancora in dubbio di sentirmi puntato alla schiena il giudizio del preside, della scuola, dell’intera comunità dei maghi per quello che era accaduto con la Megera, faticavo a trovare la forza di reagire. Seguii Ignavus e i suoi, che tallonavano Silente talmente da vicino che ne avrebbero potuto percepire il battito del cuore. Il Preside manteneva contegno come al suo solito, apparentemente in grado di gestire la situazione. Non sembrava affatto un prigioniero.

Io non riuscivo a ragionare. Per questo avevo aiutato Ignavus fino a quel momento? Per quella scena ridicola che stava cercando di imbastire? La vendetta del magonò, che aveva tramato l’odio per gli esseri magici, l’intervento di Silente al Ministero, l’attacco a scuola e tutte le orribili cose che avevano portato a un clima di tensione estremo, erano finalizzate a distruggere l’opinione che la comunità aveva del Preside di Hogwarts?

Sapevo poco della guerra magica a cui Silente aveva posto fine, sconfiggendo Gellert Grindelwald, il grande mago oscuro, ma Ignavus sembrava profondamente legato alla vicenda. La maggior parte dei particolari ero convinto che non li avrei mai conosciuti. Il poco di afferrabile, però, mi bastava.

Ignavus e Silente erano della stessa, ignobile pasta. Pronti a imbrogliare, a manipolare gli altri per i propri interessi, ossessionati da un solo proposito anche mentre fingevano di mostrare gentilezza. A loro non importava nulla di me. Per loro ero solo una pedina.

E non l’unica.

Alla Torre di Astronomia arrivammo per la strada più lunga. I finti Auror non si accorsero di nulla, forse anche perché Silente procedette con tale sicurezza da impedirglielo. Il cielo, oltre la balconata, era cupo e presagiva pioggia. Da lassù si dominava il panorama attorno al castello, ma anche i cortili interni, attraversati da studenti e insegnanti ignari.

Ignavus, arrivato in cima con fatica, appoggiato al suo bastone, ordinò a Silente di far radunare tutti nei cortili. - Così che ti vedano, Albus. Tutti devono vedere. -

- Non ne otterrai nulla di positivo, tu lo sai bene - gli rispose il Preside. - Lascia questa via. Poni fine al tuo tormento per cose accadute tanti, troppi anni fa. -

- Tu sei tutto scemo, credi a me. - Ignavus si batté il dito storto sulla tempia. - Come puoi credere che una cosa così grande possa terminare solo con un buffetto? - La manica delle ampie vesti, nel gesto, gli era calata fino al gomito. Sull’avambraccio, Ignavus portava un tatuaggio che non avevo mai visto: un teschio con un serpente. - Ora richiama tutti. -

- Ignavus… - Silente non fece in tempo a finire la frase che il mago che mi teneva ancora per il braccio decise di torcermelo con tutta la forza. Non ero piccolo, non ero gracile, ma non avevo ancora neanche quindici anni. Per il dolore inarcai la schiena, cercando di seguire il movimento innaturale.

- Non lo ripeterò - proseguì Ignavus, mentre l’altro suo complice teneva la bacchetta puntata dritta verso il vecchio professore.

Prima che il vento passasse fra la sua barba ingrigita, la donna adombrata che aveva accompagnato Ignavus ci raggiunse. Sbucò dalle scale tenendo avanti a sé, spinta dalla bacchetta, Driade Despins.

Lei, nel momento in cui mi vide, gridò.

La donna la silenziò di getto, lasciando la bocca spalancata orfana di ogni minimo suono.

Io ringhiai dal profondo, mentre il dolore diventava solo qualcosa di lontano e annebbiato.

- La mezza e mezza! - esclamò Ignavus. - E dov’è mio nipote? Dov’è Magnus? -

La donna aggrottò la fronte. - Avevo capito che… -

- Vai a prenderlo! Ora! - Le puntò contro il bastone, come se potesse dal quel vetusto legno scagliare una qualche maledizione terrificante. Poi si calmò. - Anzi, no. Ormai stai qui. Tieni ferma la ragazzina. Che forse ci servirà… la mummia cuor di pietra non si lascia commuovere per un piccolo licantropo orfano, vero? - E così dicendo, diede ordine al proprio uomo di usare le maniere forti.

Fu la prima volta che sperimentai la maledizione Cruciatus.

Silente, nel vedermi contorcere, strinse le labbra e incrociò le mani. Gli occhi erano lucidi, ma attenti, pazienti. - Torturare il ragazzo non ti porterà a nulla. Concludi questa follia, Ignavus! -

I due uomini che a turno mi avevano protetto e torturato, in un modo o nell’altro, si scontrarono con frasi acuminate, con un tono sempre più altro, sul piede di guerra. Io capivo solo il dolore, ne ero accecato. Ma non il mio. La sofferenza che mi riempì gli occhi fu quella di Driade. Nell’essere costretta ad assistere a quella scena orrenda, le si rompeva qualcosa nello sguardo. Si agitava, cercava di reagire. Si infiammava.

Poi Ignavus si ricordò di lei.

- Le bestie sono abituate alle bastonate. E forse non fanno così pena - disse, rivolgendosi a Silente. - Vediamo cosa succede con la ragazza. -

Nello stesso, preciso istante in cui la bacchetta del mago si allontanò dal mio collo, reagii totalmente travolto dall’istinto. Non pensai a nulla, tranne a difendere ciò che era mio. Nessuno avrebbe mai potuto fare del male a Driade. Nessuno poteva arrogarsi questo diritto, tranne me. Io ne avrei sopportato il peso.

Sfoderata la bacchetta, la puntai contro Driade. Non avrei lasciato, per nessuna ragione, che Ignavus la torturasse. Non sarebbe servita ai suoi piani, né lei, né io.

Il lampo scoccò e stordii Driade con un solo colpo. Cadde sul pavimento, fra lo stupore generale. Colsi l’attimo. In quel momento, non mi affidai a nessuno, nemmeno a Silente, che era pronto a sfruttare l’occasione. Nel gesto che feci, c’era solo la volontà di proteggere ciò che era mio. La mia gente, i miei affetti, il mio destino.

Presi la rincorsa e saltai dalla balconata.

Un gesto irripetibile, impensato, naturale come respirare. A Driade non potevano fare del male, ora. Come grimaldello per costringere Silente era diventata inutile. E io non avrei offerto altri inutili tentativi al vecchio pazzo.

Mentre precipitavo, vidi lampi di magia esplodere in cima alla torre. Qualche urlo e poi, in pochi secondi, quando chiusi gli occhi aspettando la fine, sentii un morso lacerante graffiarmi le spalle e la schiena. Solo che non erano denti, ma gli affilati artigli di una piumata fenice rossa.

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Capitolo 49
*** Quarantanovesima Parte ***


49/50

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08 Giugno 2010

Maniero Hiraeth - Cardiff

Tenendosi la testa con entrambe le mani, Hati stava piangendo. Continuava a rivedere all'infinito suo padre bambino commettere una follia per cercare di salvare sé stesso e sua madre. Contro ogni logica, contro ogni speranza… ci era riuscito. Il ricordo che la veela – una nonna appena conosciuta, ricomparsa dalla nebbia dell’est – gli aveva portato, terminava in infermeria, con qualche bendatura per Fenrir, l’abbraccio umido di pianto di Driade e l’invito di Albus Silente alla discrezione. Fanny lo aveva salvato dallo schianto, mentre qualcun altro si era occupato di eliminare per sempre Ignavus e la sua ossessione. Anche alla fine, il vecchio professore era preoccupato delle conseguenze dei propri gesti e di ciò che il mondo avrebbe potuto pensare.

L’esatto contrario di Fenrir Greyback. Ora, e solo ora, Hati capiva cosa avesse significato per suo padre essere il capo, la guida, l’oscuro paladino di una crociata per la liberazione violenta. Non era presente quando aveva appoggiato Lord Voldemort, non aveva mai visto quanto gli era costato ogni singolo sacrificio, poco più che storie di momenti lontani narrati attraverso una pelle affollata di cicatrici.

Alla fine lo vide sparire tra i flutti del pensatoio come una nave risucchiata dalle acque.

«Lo perdóno.» La voce al suo orecchio era quella calda e forte di Nora. Gli si era avvicinata alle spalle, abbastanza da schiacciarsi contro la schiena e cingerlo con le braccia.

Hati si pietrificò. Il mondo era sottosopra: cosa stava accadendo? Perché tutto ciò che aveva significato si sgretolava e diventava polvere? Un esercito di nuove prospettive ed emozioni nascoste in tane sotto la rabbia stavano sbucando irrefrenabili, geyser in eruzione feroce. Il maniero Hiraeth li proteggeva, ma non sarebbe bastato l’intero Galles per contenere lo sgomento di Hati.

Si svincolò dall'abbraccio, barcollando verso la porta. Voleva uscire: i polmoni chiedevano aria fresca.

«Ti amava» disse Nora, teneramente. «Amava tutti noi. Nel suo modo perverso, violento e duro, certo. Ha fatto cose terribili, ma ha anche imparato da esse. Tua sorella ha ragione.»

Per Hati non c’era risposta: alzò la bacchetta e con essa cominciarono ad esplodere le pareti stesse del sotterraneo. Schegge di legno e carta vorticarono tutt’attorno, il fuoco morse gli arazzi e i quadri. Nora si dovette riparare dietro al robusto Pensatoio, nel tentativo di convincere Hati a calmarsi.

Ma non c’era calma. Dentro di lui, spalancava le ali il tormento.

Gli spazi verdi del maniero comparvero di fronte agli occhi dopo la scalinata e l’atrio, veloci come un pensiero, ampi e sicuri. Hati respirò a fondo, senza trovare pace. Con la bacchetta ancora salda in pugno, scagliò tutta la propria furia contro gli alberi.

Mandor, che raccoglieva le foglie di geranio zannuto dai vasi dell’orto, vide il proprio Capobranco spezzare in due le betulle del giardino di famiglia. «Hati! Fermo!» Lasciò cadere il cesto delle erbe e accorse a prestare aiuto, ai giardini o ad Hati che fosse. «Qualsiasi cosa tu abbia visto, non cambia niente! Niente!»

Hati non sembrava sentirlo. Ululava al cielo anche in forma umana e scagliava incantesimi ad occhi chiusi, fino a che Mandor fu costretto ad estrarre la bacchetta per proteggersi.

«Smettila!» gli urlò, deviando i colpi alla cieca. «Non ti addossare colpe. Hai sempre avuto ragione su tutto. Ora ci sei! Ci siamo! Sei solo tu che puoi prendere il comando dei lupi mannari. I deboli sono stati spazzati via.»

Hati ruggì. Poi aprì gli occhi e vide Mandor, in posizione di battaglia, proprio di fronte a sé. «Non era debole. Non era un traditore. Ha mangiato tutto dolore al posto degli altri, da sempre.»

«Non aveva la forza di fare ciò che andava fatto» ribatté Mandor.

«Sono io che non ho avuto la forza! Sono stato incapace di sopportare le scelte difficili…»

«I fatti sono fatti. Non si processano le intenzioni, Hati. Conta solo quello che ha fatto, a te, a Nora, ai lupi mannari. Le scuse sono per i falliti.»

Più Mandor parlava, più nella mente del giovane Greyback si chiariva l’orrore della propria crociata. I contorni si delineavano e cominciava a vedere con occhi liberi quanto era stato fatto. Quanto lui aveva messo in moto. «Se è come dici,» rispose «allora sono solo un assassino. Un matricida. Se non conta perché io abbia fatto certe scelte… perché tanti fratelli e sorelle sono morti, con me o contro di me, senza ottenere nulla di concreto… in cosa sarei meglio di lui?»

Guardò Mandor con occhi che il cinico licantropo vedeva per la prima volta. Come se stesse cercando attorno a sé le parole, disperato e in difficoltà, quello rimase in silenzio di fronte all’uomo sconvolto che era stato Hati.

Entrambi, scossi dal vento sull’erba viva e dal sole sulla pelle, si chiesero come fossero arrivati a quel giorno. La giusta lotta si era trasformata nel massacro di coloro che andavano protetti. Il Grande Alpha aveva combattuto fino all’ultimo, arrivando a compiere un gesto che mai Hati avrebbe potuto prevedere. Nel mezzo dello scontro, aveva preso le sue difese. Si era battuto con gli Auror, con la solita ferocia, per tenere al sicuro i suoi.

Donando la vita per amore di un figlio era andato lì per ucciderlo.

Qualcosa, all’interno, in un luogo non facilmente identificabile, ma ben percepibile, si ruppe. Hati ebbe un sussulto e il desiderio di lasciarsi cadere in ginocchio. Solo per uno sforzo di volontà resistette.

Mandor, dopo una lunga pausa, trovò la forza di continuare a parlare.

«Ha fatto ammazzare tuo figlio, Hati. Nora era chiusa ad Azkaban per colpa sua.»

Ma Hati, ormai, cominciava a capire. «Non è mai stato buono. Né gentile. Mio padre era una creatura piena di oscurità e rabbia. Come me, in fondo. Ma non ha mai provato piacere a prendersi il peso del male che gli cadeva addosso.»

«No,» disse Nora, comparsa in giardino, ancora impaurita dallo stato di confusione di Hati «ha fatto quello che doveva. Mi ha fatto del male e avrei voluto spiegargli il mio dolore con le zanne e con gli artigli. Ma era una questione fra noi e lui… di come ha scelto un enorme male per pochi nel tentativo di salvare il branco. Per provare a salvare tutti.»

«Vi state facendo venire inutili paranoie» rispose Mandor, con una smorfia disgustata sul viso. «La lotta è finita. Ora possiamo avere il comando.»

«Non io.» Le parole di Hati pesarono quanto una montagna. Come sempre, aveva parlato credendo in quel che diceva. Cercò il tronco più vicino, abbattuto dalla furia di pochi istanti prima, e vi ci sedette stancamente sopra.

Nora gli si avvicinò cauta, mettendosi al fianco. La dolcezza era un aspetto del loro rapporto che mancava. Qualcosa che non avevano mai desiderato. Si sentivano spiriti fieri e selvaggi, duri e giusti e liberi in ogni momento. Per questo motivo Nora temeva di scatenare un’altra terribile reazione con un atteggiamento goffo che non le apparteneva.

Si limitò a fissare l’erba, come Hati.

Tra i fili verdi, tanto più in basso da sembrare che non si fossero accorti della tempesta passata sopra le loro teste, continuava come se nulla fosse la vita dei piccoli. Un bruco azzurro si stava arrampicando sullo stelo di un soffione, piegandolo per con il proprio grasso corpo.

«Devo andare da lei?» chiese Hati.

«Dovremmo andarci tutti.» Nora rispose senza avere il minimo dubbio. «Potrai parlarci. Lei non ti odia. E se ci sarà bisogno obbligheremo gli altri ad ascoltare.»

«E cosa avrei mai da dire, ora?»

Senza alcun tremore nella voce, e senza abbassare il tono, rispose: «Scusa. L’unica cosa da riferire è il nostro rammarico. Sarebbe potuto andare diversamente, ma non è stato così. Il resto della storia non è in nostro potere.»

Hati abbassò la testa. Doveva riflettere o voleva farlo, nonostante dentro sentisse di avere già fatto la propria scelta. Ciò che era giusto si riproponeva al suo animo come un fiume in piena, impossibile da ignorare.

«Sono stato un cattivo capo» confessò a Nora e a sé stesso, tentando di resistere al terremoto interiore. «Ho portato morte e sofferenza alla mia famiglia.»

Lei gli prese la mano e la strinse fino a fargli male. «Siamo ancora in tempo a rimetterci sulla giusta strada. Che non sia di sottomissione e accettazione, ma nemmeno di cieca distruzione di tutto ciò che è diverso da noi.»

Dopo anni in guerra, per la prima volta Hati si concesse un lungo, profondo respiro.

Il rantolo cavernoso, ma sereno, che uscì dai polmoni, lo fece vibrare allo stesso modo di come faceva quello di Fenrir.

«Pensavo fossi più forte» disse Mandor, guardando la coppia dall’alto in basso. Teneva ancora in pugno la bacchetta. Per un attimo sfuggente sembrò volerla alzare: poi, come se nulla fosse, la infoderò.

Hati lo fissò con gli occhi gialli del lupo. «Ho appena scoperto di esserlo molto di più di quanto avevo osato immaginare prima.»

 

***

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Capitolo 50
*** Cinquantesima Parte - Requiem per un mostro ***


50/50

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Estratto da:
IL CANTO DEL DIRICAWL: COMPENDIO DEL SIMBOLISMO NON-UMANO
di MICHAEL BOLVER
1888
A lungo si è discusso se ci fosse un luogo, reale o spirituale, preposto all’accoglienza delle anime delle creature non umane. Che di un’anima siano dotati è cosa certa: alcuni dei più terribili incantesimi lo richiedono, per canalizzarne il potere o per pagarne lo scotto, ed è assodato come vampiri, lupi mannari, maridi e altri Esseri siano in grado di utilizzare tali mezzi, al modo dei maghi o a modo proprio.
Le usanze funebri differiscono grandemente da specie a specie, da regione a regione, da comunità a comunità. Nonostante ciò, è possibile estrapolare un filo conduttore che accomuna alcuni degli Esseri e delle Bestie Magiche dotate di intelligenza. Dopo lunghe ricerche bibliografiche e sul campo, è stato accertato quanto segue:
Centauri, di foresta come di steppa, alla morte di un membro della tribù si considerano tutti ugualmente consanguinei. I riti vengono […]
Maridi di lago, prima di consumare i cadaveri secondo le diffuse usanze cannibali, radunano i discendenti del defunto per […] Quelli di acque salate si distinguono fortemente se di zone calde o zone fredde. L’esperienza nel Baltico fu particolarmente significativa, nonostante la perdita di metà dell’equipaggio […]
Dei Vampiri molto si è detto e molto è stato travisato. Il loro rapporto con la morte è del tutto singolare: ogni volta che […]
Per quanto riguarda i Lupi Mannari, mi si impone una precisazione. Mancando, per quanto è dato sapere, l’esistenza di una qualsiasi comunità più larga dei confini del branco, il comportamento di questi Esseri è strettamente legato alla personalità di ognuno di loro e, in particolare, alle abitudini e modus vivendi del Capobranco. Due elementi sono, in ogni caso, comuni. L’evidenza impone che si tratti di caratteristiche che affondano le radici nella natura stessa della licantropia.
Il primo elemento è la coralità della partecipazione. L’assenza di un individuo all’estremo saluto di un suo legato è impensabile, al punto che gli stessi compagni di vita (il branco, ndr) considerano un simile comportamento come la volontà di allontanarsi dal vissuto comune. Le conseguenze di un simile gesto spaziano dall’ostracismo, per i casi più lievi, a una vera e propria Caccia di Sangue per l’affronto subito. (Nota: per la voce Caccia di Sangue, fare riferimento al capitolo 14 del presente compendio).
Il secondo elemento, forse il più difficile da comprendere per il lettore, si esplica nella totale assenza di volontà di preservare il corpo del defunto. Nella maggior parte dei casi un lupo mannaro che raggiunga la propria fine tra i suoi simili viene sepolto nella nuda terra, senza nemmeno un sudario. Sono documentati casi in cui il cadavere sia stato affidato alle acque di un lago (meno alla corrente del fiume) o anche offerto come sostentamento ai branchi di lupi o orsi selvatici. Questo atteggiamento, che a noi può apparire irrispettoso, ha un enorme significato spirituale tra tutti i licantropi con cui è stato possibile svolgere ricerca. Essi sentono come innato il bisogno di ricongiungersi al mondo, una volta terminato il proprio percorso, e non di preservare (isolandolo) il corpo dalla natura circostante. Sebbene nessuno abbia saputo spiegarne il motivo, ritengo che questo bisogno si basi sia sul mutamento costante delle cose naturali, che così intimamente caratterizza la vita di questi Esseri, sia sulla volontà di assimilare i valori che essi ritengono positivi e che il defunto lascia. Attraverso uno sforzo attivo di ricordo, i lupi mannari si sentono degni di aver vissuto al fianco di un compagno, di un amico o di un capo, i cui insegnamenti vengono condivisi con la comunità che non li limita ad un luogo di culto e memoria, ma li porta con sé in ogni istante della propria vita futura.
Un detto mi è stato riferito, durante i miei studi a Minsk. Lì la comunità magica ha una più stretta convivenza con i lupi mannari e usano dire “Lanciare pietre di lupo” per riferirsi a un gesto di estrema gratitudine per una lezione appresa a caro prezzo. Secondo la loro testimonianza, alcuni licantropi segnano luoghi di grande impatto emotivo con alcune pietre, lasciate come metafora del peso dell’esperienza e a imperitura (poiché naturale) memoria di ciò che ha influito con forza imprescindibile sul tipo di individuo che sentono di essere diventati.
 
***
 
 
Data ignota
La radura e la casetta di lamiera

Il branco era ammutolito. Alcuni avevano perso la voce, rinchiusi in un disperato dolore, artigliati dalla sensazione di abbandono. Il violino, appoggiato con l’archetto al muro ondulato della baracca, taceva in attesa del proprio momento. Bisognava prendere commiato, ma nessuno osava dare il via a quello che sarebbe stato l’ultimo incontro con Fenrir Greyback.
Entro lo scoccare di mezzogiorno, Calcifer, che aveva cercato di spingere Skoll a non perdere tempo, per la loro stessa incolumità, i lupi mannari giunti alla radura erano più di venti. Alcuni si erano trovati dalle parti opposte sul campo di battaglia, altri era la prima volta che incontravano la figlia del lupo che li aveva maledetti da bambini.
Erano giunti da ogni parte dell’Inghilterra, della Scozia e del Galles. Che avessero udito la chiamata di Lord Voldemort molti anni prima, che avessero preso parte alla rivolta di Hati o semplicemente avessero rifiutato ogni tipo di coinvolgimento nell’esistenza dei maghi, conservavano un innaturale silenzio di fronte alle fosse già piene. Xatu e Corvinus, con la pala in mano, schiacciavano la terra sopra l’ultimo riposo del Grande Alpha. A destra e a sinistra, la bacchetta di Megan faceva crescere erba e fiori selvatici per Charlie Burke e Najata.
Skoll li lasciò terminare anche con la tomba centrale. Terra e erba, nient’altro a ricoprire lo stanco corpo di suo padre. Nessun canto, nessuna parola venne spesa prima che la radura tornasse al suo aspetto di campo abbandonato.
Poi, con un gesto muto, fece nascere due campanule, che sbocciarono in altrettanti fiori blu e bianchi. Si attorcigliarono, si appoggiarono l’una all’altra, e rimasero ad osservare il sole sopra le loro teste, affondando le radici nel buio che cullava il vecchio Burke. Per un istante sorrise, pensando a come sarebbero dovuti sembrare dei fiori ubriachi. In realtà, era sicura che un simile destino, per loro, riuniti, non si sarebbe più ripetuto.
I lupi, in forma di uomini, donne e giovani ancora alla soglia della maturità, cominciarono a intonare un canto a bocca chiusa. Il suono vibrante nelle gole si sparse lentamente, come un fuoco pervicace, fino a inondare il bosco. La baracca di lamiera (a Megan sembrò così) si unì al canto funebre come tutti gli altri. Anche lei, in qualche modo, ricordava.
Fu in quel momento che tre maghi giunsero a volo di scopa.
A volto scoperto, Hati, Mandor e Nora attraversarono la folla. Non un solo sguardo gli fu risparmiato, ma il canto non cessò. Tagliarono dritti verso Skoll, con occhi determinati.
Una volta di fronte a sua sorella (e al resto del branco, che le si affiancò senza esitazione), Hati le gettò lo sguardo oltre la spalla. Le tombe erano ormai nascoste e tornate alla natura.
Voleva parlare. Voleva dire qualcosa, qualsiasi cosa che potesse mostrare come si sentiva dentro, ma nella testa ogni pensiero suonava stupido o ipocrita. Skoll lo fissava con durezza, anche se non con rabbia, come facevano i suoi compagni. L’ultima volta che si erano incontrati aveva fatto ammazzare loro amici, partner, membri del branco… e lo stesso Fenrir. Impattò improvvisamente con la consapevolezza che il corpo che giaceva nella nuda terra era quello dell’uomo che gli aveva dato la vita e che aveva sacrificato la propria, con un gesto d’amore, per salvarlo.
Hati scoprì, alla fine, che non conosceva parole adatte a un’occasione simile. Respirava a fondo, riempiendo e svuotando l’imponente cassa toracica. Il fiato era sempre più pesante. Fino a quando Nora, a labbra strette, si unì ai canti.
L’istinto si impossessò di Hati. Smise di pensare, di disperarsi, di alimentare l’insicurezza e la colpa dentro di sé. Percepì il vento fra i fili d’erba e il frusciare delle foglie, così come l’ondeggiare dei capelli e i moscerini che ronzavano nel campo. Vide un piccolo mondo antico dispiegarsi sotto i propri scarponi, lì dove suo padre aveva trascorso l’infanzia, dove suo nonno si era tolto la vita, dove sua nonna era caduta sotto gli artigli della Furia.
E dove ora i lupi mannari seppellivano l’unico Grande Alpha di cui la loro memoria avesse notizia.
Si piegò a terra, di fronte a Skoll, che per un attimo credette che il fratello si stesse inginocchiando per chiedere scusa. Invece Hati si rialzò quasi subito. Aveva raccolto una pietra, scheggiata e irregolare ma grande come il palmo della mano.
Coprì la distanza che lo separava dalle tombe. Da vicino, poteva ancora riconoscerne la forma. Erano tre: su quella di sinistra, due fiori di colori diversi si intrecciavano in un abbraccio nuovo. Su quella di destra, qualcuno aveva richiamato un piccolo pettirosso. O forse si era posato da solo, felice di zampettare a caccia di cibo per il nido.
Hati posò la pietra su quella centrale. Lasciò cadere il sasso, in realtà, un lancio impossibile da sbagliare, che picchiò forte contro il terreno senza rimbalzi. Poi tornò fra le fila dei licantropi.
Uno dopo l’altro, continuando a intonare il requiem, raccolsero delle pietre e le ammonticchiarono, disordinatamente, attorno a quella posata da Hati. Quando, per ultima, anche Skoll lanciò la sua pietra, un monumento rozzo e sincero era cresciuto fino all’altezza degli stivali.
I lupi, che nessuno aveva organizzato o istruito, sentivano con precisione il senso di ciò che facevano.
Più di tutti lo sentiva Hati, quando trovò il coraggio di parlare a sua sorella. – Lui era… –
– Era uno stronzo – lo interruppe Skoll immediatamente. – Era crudele. Era duro ed era cattivo. Ha fatto del male a tanta gente. – Fece una pausa, come se avesse bisogno di radunare le forze per ciò che sarebbe venuto dopo. – Era nostro padre. Era il padre di tutti noi. Era l’istinto di sopravvivenza e la volontà di giustizia. Quello che ha passato lui, noi non riusciamo neanche a immaginarlo. –
Le parole, per Hati, non si erano mai mostrate così perfette. – Possiamo sentirlo. Ora lo sento. Quello che ha fatto e quello che io ho fatto. Ho ucciso nostra madre in nome di un’idea. –
Skoll non sembrò affatto disturbata. – Hai fatto quello che sentivi giusto, come lui. Fai sempre quello che ritieni giusto, Hati. Nessun rimpianto. Nessun compromesso con te stesso. Questa è la strada per essere padroni del nostro destino. –
– Ma alla fine, questa strada ha portato solo dolore. –
– Può darsi di sì – rispose lei. Poi guardò Megan far crescere un rampicante spinoso sulla casetta di lamiera. Rapidamente dalla pianta spuntarono una pioggia di piccoli fiori bianchi. – Può darsi di no. –
Hati scorse il gesto di Skoll e comprese. Istintivamente, quasi vergognandosene poco dopo, cercò Nora con gli stessi occhi. Sì, avrebbe avuto dei figli da quella donna. Lo desiderava ardentemente. Per lei aveva ucciso. Per lei aveva morso la mano che lo aveva nutrito. Per la sua famiglia e per nessun'altro.
Avrebbe ripopolato il branco, così come la vita cresceva sulle spoglie dei loro predecessori. Fiori nati dal dolore, ma pur sempre fiori.
– Fenrir Greyback è morto – ringhiò a bassa voce. – Il mostro non c’è più. Forse i maghi impareranno a lasciarci perdere nei nostri stessi errori. Nei nostri istinti sanguinari. Forse dovremmo allontanarci per sempre dalla civiltà. –
Skoll, senza remore, lo schiaffeggiò. Il colpo risuonò in tutta la radura, facendo girare ogni lupo mannaro presente.
Infine gli sorrise, snudando i denti nel più inquietante ghigno ereditato da Fenrir.
– Sei libero, Hati. Siamo tutti liberi. Nella mia libertà scelgo la lotta. So che a Rolf Scamander abbiamo fatto venire gli incubi, ma Luna Lovegood vorrebbe parlarci. Uno dei suoi figli è stato morso. –
– Dovremmo occuparcene noi? – alzò la voce Mandor, affiancandosi al suo Capobranco. Era scettico e confuso. Come gli altri, però, aveva lanciato la sua pietra di lupo.
– Siamo una famiglia – rispose Hati, mentre la guancia si arrossava. – Seguiremo il nuovo Grande Alpha e la sua compagna. – Chinò il capo e stiracchiò le labbra. Si sentì leggero come se si fosse tolto la gobba dalle spalle, trovando per la prima volta la propria dimensione.
Il cielo coperto di nubi lasciava filtrare raggi di sole ribelli. Fuggivano in ogni direzione, cercando di raggiungere la terra.
Quella sera, sulla radura ci sarebbe stata una splendida luna piena.

 
--- FINE ---

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