Livin' On A Prayer

di MackenziePhoenix94
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: I'm Sorry (Nicole) ***
Capitolo 2: *** Start Over; Parte Uno (Nicole) ***
Capitolo 3: *** Start Over; Parte Due (Nicole) ***
Capitolo 4: *** Bright Coin (T-Bag) ***
Capitolo 5: *** New Mexico (T-Bag) ***
Capitolo 6: *** Panama City; Parte Uno (T-Bag) ***
Capitolo 7: *** Panama City; Parte Due (T-Bag) ***
Capitolo 8: *** Room 207 (Nicole) ***
Capitolo 9: *** 312 Olivera Ave; Parte Uno (T-Bag) ***
Capitolo 10: *** 312 Olivera Ave; Parte Due (T-Bag) ***
Capitolo 11: *** Buena Suerte (T-Bag) ***
Capitolo 12: *** What The Hell Is Sona? (Nicole) ***
Capitolo 13: *** An Ally?; Parte Uno (Nicole) ***
Capitolo 14: *** An Ally?; Parte Due (Nicole) ***
Capitolo 15: *** Hell Is A Place On Earth; Parte Uno (T-Bag) ***
Capitolo 16: *** Hell Is A Place On Earth; Parte Due (T-Bag) ***
Capitolo 17: *** Hell Is A Place On Earth; Parte Tre (T-Bag) ***
Capitolo 18: *** Hell Is A Place On Earth; Parte Quattro (T-Bag) ***
Capitolo 19: *** Another Ally (Nicole) ***
Capitolo 20: *** Face To Face (T-Bag) ***
Capitolo 21: *** Start Again (Nicole) ***
Capitolo 22: *** The Call (T-Bag) ***
Capitolo 23: *** The Message (Nicole) ***
Capitolo 24: *** The Deal (T-Bag) ***
Capitolo 25: *** The Plan; Parte Uno (T-Bag) ***
Capitolo 26: *** The Plan; Parte Due (T-Bag) ***
Capitolo 27: *** The Plan; Parte Tre (T-Bag) ***
Capitolo 28: *** The Plan; Parte Quattro (T-Bag) ***
Capitolo 29: *** Todos Somos Iguales! (T-Bag) ***
Capitolo 30: *** Leaving Panama (T-Bag) ***
Capitolo 31: *** They're Alive; Parte Uno (T-Bag) ***
Capitolo 32: *** They're Alive; Parte Due (T-Bag) ***
Capitolo 33: *** They're Alive; Parte Tre (T-Bag) ***
Capitolo 34: *** New Life? (Nicole) ***
Capitolo 35: *** Scylla; Parte Uno (Nicole) ***
Capitolo 36: *** Scylla; Parte Due (T-Bag) ***
Capitolo 37: *** Scylla; Parte Tre (Nicole) ***
Capitolo 38: *** Scylla; Parte Quattro (Nicole) ***
Capitolo 39: *** 'Little' Snag; Parte Uno (Nicole) ***
Capitolo 40: *** 'Little' Snag; Parte Due (T-Bag) ***
Capitolo 41: *** Adios, Angelita (T-Bag) ***
Capitolo 42: *** Victim And Perpetrator (Nicole) ***
Capitolo 43: *** Two Strangers (Nicole) ***
Capitolo 44: *** The Best Choice (Nicole) ***
Capitolo 45: *** Amen (T-Bag) ***
Capitolo 46: *** Epilogo: I Feel So Alone... (Nicole) ***



Capitolo 1
*** Prologo: I'm Sorry (Nicole) ***


Un dolore sordo alle ginocchia.

Il rumore di una porta sbattuta con forza.

Il buio assoluto.

Mi alzo dal pavimento lentamente, stringendo i denti, mentre un odore di muffa ed acqua stagnante mi aggredisce le narici; sbatto più volte le palpebre, guardandomi attorno, e grazie alla luce che filtra da una piccola finestrella riesco a dare una forma concreta al luogo in cui sono stata relegata: si tratta di una vecchia e stretta stanza, scavata nella pietra, traboccante di oggetti, scaffali e mensole arrugginiti e ricoperti di ragnatele.

Alcune gocce di umidità cadono da un tubo che attraversa l’intero soffitto, e formano una piccola pozzanghera sul pavimento, a poca distanza dai miei piedi, che emana lo sgradevole odore di cui l’aria è impregnata.

Sono in uno scantinato, senza alcuna ombra di dubbio.

Mi avvicino alla porta, zoppicando a causa di un taglio al ginocchio sinistro che mi sono procurata nella caduta, provo a spingerla, tirarla e perfino a tempestarla di pugni, ma ogni mio tentativo è vano: il legno non si sposta di un solo millimetro perché qualcuno lo ha sbarrato dall’esterno; l’unico risultato che ottengo è di ritrovarmi i palmi delle mani sanguinanti, a causa di alcune schegge che si sono conficcate in profondità.

Con un singhiozzo, ignorando i rivoli di liquido scarlatto, raggiungo la piccola finestrella, appoggio le mani sul davanzale di pietra e vago con lo sguardo sul giardino, finché non trovo ciò che sto cercando: a qualche metro di distanza da me, poco lontano dal ciglio della strada, c’è un uomo seduto sul ceppo di un albero.

Non posso vedere il suo volto perché mi dà le spalle, tuttavia è a lui che rivolgo le mie suppliche.

“Teddy, ti prego” urlo, emettendo un singhiozzo più forte, e sento delle lacrime rigarmi le guance prima di congiungersi sotto il mento “mi dispiace, ho sbagliato, ho fatto un’enorme cazzata e me ne rendo conto solo adesso! Ti prego, non è ancora tardi per rimediare! Possiamo parlarne, come due persone adulte e mature, e trovare una soluzione! Ti prego, Teddy, ti prego, fammi uscire di qui! Ti prego! Mi dispiace, mi dispiace terribilmente, Teddy, sono stata una stupida!”.

Niente.

Ogni mia parola cade nel vuoto, inascoltata.

Teddy non si muove, non si volta e non una sola parola esce dalla sua bocca; non so neppure che cosa stia passando per la sua testa in questo momento, e per la prima volta da quando la nostra storia è iniziata, mi ritrovo ad avere profondamente paura dell’uomo che ho sposato.

E la paura che sento si trasforma in una morsa che mi aggredisce la gola e lo stomaco, stringendoli con forza, quando lo vedo girare il viso di scatto, in direzione di un’accetta abbandonata, conficcata nel ceppo di un altro albero.

Trattengo il respiro, mi allontano di scatto dalla finestra e retrocedo finché non sbatto con la schiena contro una parete; la vibrazione provoca la caduta di un oggetto da una mensola, ma io non ci faccio caso, e mi lascio scivolare a terra, improvvisamente svuotata da ogni energia.

Un altro singhiozzo, misto ad un gemito, esce dalle mie labbra; mi passo le braccia attorno alle ginocchia, stringendole contro il petto, e rivolgo lo sguardo in direzione della porta, in attesa di vederla spalancarsi.

In attesa di vedere il mio carnefice che si prepara ad uccidermi con un’accetta affilata, per poi farmi a pezzi in modo da disfarsi del mio cadavere il più velocemente e facilmente possibile.

Il tempo inizia a scorrere lentamente, distorcendosi, fermandosi addirittura, portando quasi allo spasmo la tortura fisica e psicologica che sto subendo; per un attimo mi illudo perfino che la porta non si aprirà, ma le mie preghiere non vengono ascoltate, e quando accade, quando vengo investita da un fascio di luce pomeridiana, non riesco a trattenere un urlo, e mi porto le braccia al volto, assumendo una posizione di difesa, per quanto essa possa essermi utile contro un uomo armato, furioso, che desidera solo massacrarmi.

“Calma! Calma, stai calma!”.

Una voce maschile e completamente sconosciuta giunge alle mie orecchie.

Apro gli occhi, sbattendo le palpebre più volte, ma non abbasso del tutto le braccia, ancora posizionate davanti al mio viso: vicino alla porta spalancata dello scantinato non c’è mio marito, ma bensì un poliziotto con una torcia in mano, come testimonia la divisa nera che indossa; alle sue spalle, qualche metro più indietro, c’è un altro poliziotto armato, e riesco perfino a vedere la loro volante parcheggiata in giardino, con i lampeggianti ancora accesi.
“Cosa… Io non…” balbetto, confusa, incapace di formulare un discorso coerente e sensato.

“Stai tranquilla, adesso è tutto finito. Abbiamo ricevuto una chiamata anonima che ci comunicava la presenza di un ostaggio qui dentro” mi spiega l’uomo con la torcia in mano, facendo un passo verso la mia direzione, aggiungendo altre parole per tranquillizzarmi; sbatto di nuovo le palpebre e socchiudo le labbra in un’espressione sicuramente instupidita, scuoto la testa con forza.

“Non è possibile” mormoro, ritrovando la voce “questo non è assolutamente possibile. Nessuno sapeva che ero rinchiusa qui dentro”.

Nello stesso momento in cui pronuncio queste parole, un sospetto si fa strada nella mia mente.

Mi alzo di scatto dal pavimento ed esco dallo scantinato correndo, scansando bruscamente il poliziotto che tenta inutilmente di fermarmi.

Spalanco la porta d’ingresso di quella che è stata la mia casa nelle ultime due settimane e mi precipito al piano superiore, rischiando d’inciampare sui scalini; con il fiato ormai ridotto ad un rantolo, apro la porta della mia, della nostra, camera da letto, ma la trovo vuota.

Vuota, esattamente come il resto dell’abitazione.

Sto per uscire, quando un piccolo oggetto abbandonato sopra al materasso attira la mia attenzione; mi avvicino ad esso con gambe tremanti, ed allungo la mano destra per raccoglierlo ed avvicinarlo al mio viso per osservarlo meglio.

Si tratta di una collanina dorata.

Il ciondolo, costituito da una fede nuziale, dondola leggermente nell’aria.

La stessa collana che ho regalato a Teddy il giorno delle nostre nozze, a Las Vegas, perché la protesi gl’impediva d’indossare la fede all’anulare sinistro.

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Capitolo 2
*** Start Over; Parte Uno (Nicole) ***


Un sogno non può durare per sempre.

Arriva per tutti il momento di svegliarsi e di fare i conti con la realtà.

E quel momento, purtroppo, è arrivato anche per me.


 
Mi guardo attorno con accuratezza, stringo tra le mani la stoffa del cappuccio che mi copre la testa, e percorro rapidamente il vialetto che conduce ad una graziosa villetta a due piani, pitturata di bianco; salgo i scalini posizionati sotto al portico e mi avvicino alla porta d’ingresso.

Leggo un’ultima volta il nome scritto sulla targhetta di ottone e suono il campanello due volte, retrocedendo poi di un passo; mi tormento il labbro inferiore coi denti, in attesa di una risposta, sperando che lei venga ad aprirmi la porta, e mi guardo ancora una volta alle spalle, spaventata dalla sola prospettiva che qualcuno possa riconoscermi e chiamare immediatamente la polizia.

Perché in quel caso, per me, non ci sarebbe alcuna via di scampo.

Fortunatamente questa volta le mie preghiere vengono ascoltate, e la porta viene aperta da una mia coetanea, dalla vaporosa chioma rossa e dagli occhi chiari; sono proprio i suoi occhi chiari che, spalancandosi, mi fanno capire di essere stata riconosciuta nonostante gli occhiali da sole, il cappello a visiera, ed il cappuccio che sono costretta ad indossare.

“Nicole?” mi domanda Karla in un sussurro, inarcando le sopracciglia in un’espressione sorpresa ed incredula “ma sei proprio tu?”

“Sì” rispondo a mia volta in un soffio appena udibile “sì, sono io”.

La mia ex collega mi afferra per un braccio, facendomi entrare in casa, e poi si affretta a chiudere a chiave la porta d’ingresso, ed a tirare le tende di tutte le finestre del salotto, in modo da ripararmi da possibili sguardi indiscreti; indossa ancora la maglietta ed i pantaloni rosa di un pigiama coordinato, ma sembra non esserne affatto preoccupata perché tutta la sua attenzione è catalizzata su di me.

“Mio dio!” esclama ancora incredula, guardandomi “credevo che non ti avrei mai più rivista! Qualcuno ti ha riconosciuta mentre venivi qui?”

“Credo di no. Ho cercato di non dare nell’occhio e di camminare il più velocemente possibile”

“Ma dove sei stata nelle ultime due settimane? Che cosa ti è successo?”.

Alla sua ultima domanda mi stringo nelle spalle; esito, ma poi abbasso il cappuccio della felpa eccessivamente larga per me, tolgo il cappello a visiera e faccio lo stesso con gli occhiali da sole, rivelando il brutto livido violaceo che deturpa il lato sinistro del mio viso.

Sento Karla trattenere rumorosamente il respiro e la vedo portarsi entrambe le mani alla bocca; resta paralizzata per qualche secondo, prima di trovare il coraggio di avvicinarsi a me e di sfiorarmi il livido con i polpastrelli della mano destra, come per accertarsi che quello che i suoi occhi stanno vedendo non sia solo un brutto incubo.

E, purtroppo, non lo è.

“Io…” dico, cercando di dare una spiegazione alle condizioni orribili in cui mi trovo, ma mi blocco subito perché non so come continuare, ed abbasso la testa in un atteggiamento vergognoso e colpevole.

Perché è proprio così che mi sento.

Colpevole.

“Ohh, mio dio… Mio dio…” ripete ancora la mia ex collega, scuotendo la testa “che cosa ti hanno fatto? Che cosa ti ha fatto?”.

È sufficiente il piccolo ed indiretto riferimento a lui per farmi crollare definitivamente: mi lascio cadere sul divano alle mie spalle, mi copro il viso con le mani e scoppio in un pianto disperato.

Un paio di braccia mi cingono le spalle in un abbraccio di cui ho profondamente bisogno, ed in cui mi rifugio; Karla mi lascia sfogare in silenzio, limitandosi a stringermi più forte, mi parla solo quando riesco a calmarmi almeno in parte: con un sorriso dolce e comprensivo sulle labbra, facendomi capire che è totalmente dalla mia parte e che non è intenzionata a tradirmi ed a fare una soffiata alle autorità, mi dice che non devo preoccuparmi di darle delle spiegazioni, che quel momento arriverà, e che adesso ho bisogno solo di riposarmi e di calmarmi, o potrei avere un esaurimento nervoso.

Mi accompagna al primo piano della villetta, mostrandomi una camera da letto per gli ospiti, mi porta dei vestiti puliti e, prima di andarsene, mi dà il permesso di usare il bagno che c’è infondo al corridoio per una bella doccia rigenerante; in questo momento, però, farmi una doccia è il mio ultimo pensiero, e non appena la porta della camera si chiude, mi lascio cadere sul materasso, rivolgendo lo sguardo al soffitto immacolato, dove troneggiano le pale di un ventilatore, senza vederlo veramente.

Infilo la mano destra in una tasca della felpa e tiro fuori la collanina dorata; osservo il monile prezioso, la fede maschile, e con prepotenza si fa strada nella mia mente il ricordo del mio matrimonio a Las Vegas.

Sembrano trascorsi secoli, invece sono passati appena quattordici giorni.

Quattordici, fottutissimi, giorni sono bastati a stravolgere di nuovo la mia vita.

Rigiro l’anello tra le mani, lo stringo nel pugno sinistro, serro le palpebre e non riesco più a trattenere un altro pianto disperato.



 
Alla fine la stanchezza ha la meglio sul mio cuore spezzato.

Apro gli occhi la mattina seguente, quando il sole è già alto in cielo, e rivolgo un’occhiata allo schermo del mio cellulare: le undici e mezza.

Ho dormito quasi per ventiquattro ore consecutive, eppure mi sento tutt’altro che riposata.

Come un automa, scosto le coperte e mi alzo dal letto; prendo in mano i vestiti che Karla ha lasciato sopra ad uno sgabello e, strascinando i piedi, raggiungo il bagno infondo al corridoio perché adesso sento l’urgenza di farmi una doccia.

Apro il getto d’acqua, mi spoglio, ed entro nel piccolo abitacolo; chiudo gli occhi e lascio che l’acqua calda mi colpisca il viso ed i capelli, appiccicandomeli alla testa ed alla nuca, scivolando poi lungo il mio corpo tempestato da lividi scuri, simili a quello che ho in viso, che non ho il coraggio di guardare ed esaminare: sembro una mappa dell’orrore, i cui rilievi geografici altro non sono che ecchimosi semipermanenti, che spariranno lentamente, nell’arco di diverse settimane.

Ed anche se spariranno dalla mia pelle, resteranno comunque impressi nella mia mente.

Mi sento una bestia da macello, marchiata a fuoco dal suo padrone.

La doccia calda si rivela essere tutt’altro che ristoratrice, e quando poso i piedi sul morbido tappetino verde posizionato appena fuori dall’abitacolo, mi sento esattamente come prima: vuota, stanca e sporca.

Neppure tutti i bagni del mondo riuscirebbero a scrollarmi dalla pelle questa maledetta sensazione di sporcizia, marciume e colpevolezza.

Dopo essermi asciugata e vestita, raccolgo i capelli in un nodo sulla nuca e scendo al pianoterra, chiamando per nome la mia ex collega e cercandola con lo sguardo: non c’è, ma si è preoccupata di lasciarmi un biglietto, attaccato al frigo in cucina, in cui ha scritto che è a lavoro e che non tornerà prima di sera; si è anche preoccupata di lasciarmi una generosa colazione a base di caffè, pane tostato, marmellate e biscotti.

Sorrido, commossa da questa sua premura, perché Karla non ha nessun debito nei miei confronti, eppure sta facendo tutto questo ugualmente.

Anche se sento lo stomaco ancora stretto in una morsa, mi sforzo di mangiare qualcosa: prendo una fetta di pane tostato, ci spalmo sopra della marmellata di fragole, e le do qualche morso prima di riempire una tazza di caffè ancora caldo, sorseggiandolo appena; quando sento di non riuscire ad ingurgitare altro, abbandono la tazza di ceramica sul tavolo e mi sposto in salotto.

Il divano ha un aspetto così comodo ed invitante che mi sdraio subito, rifugiandomi sotto una pesante coperta imbottita; appoggio la testa su un cuscino e resto così, a fissare il vuoto, con la mente completamente sgombra da tutto.

Non voglio pensare.

Non voglio ricordare.

Non voglio farlo, altrimenti mi ritroverei a versare nuove lacrime nell’arco di pochi secondi.

Lo stato di apatia in cui mi trovo mi fa lentamente scivolare nel sonno, e trascorro l’intera giornata in uno stato di dormiveglia, alzandomi solo per andare in bagno; mi sveglio solo quando sento qualcuno trafficare con la serratura della porta d’ingresso.

Il cuore mi balza subito in gola, perché il mio primo pensiero va subito ad una possibile soffiata alla polizia; rilasso le spalle non appena vedo Karla entrare con in mano due buste della spesa, e mi lascio andare in un sospiro di sollievo.

Purtroppo, quando sei una ricercata, devi costantemente avere a che fare con i nervi a fior di pelle.

“Ehi, scusa il ritardo!” esclama la mia amica, appoggiando le buste a terra e chiudendo con cura la porta a chiave “mi sono fermata a prendere un po’ di provviste visto che adesso siamo in due qua dentro”

“Non avresti dovuto disturbarti” commento, alzandomi dal divano, stringendomi nelle spalle.

“Non dirlo neppure per scherzo. Dai, forza, aiutami a portare queste buste in cucina e poi prepariamo qualcosa da mangiare. Mia nonna mi ha sempre detto che a stomaco pieno ogni cosa assume una piega più piacevole”.

La nonna di Karla ha perfettamente ragione, peccato che il suo personalissimo detto può essere applicato se una persona riesce a mangiare di gusto tutto ciò che ha sul proprio piatto; io, invece, dopo aver aiutato la mia ex collega a preparare degli hamburger con patatine fritte e ketchup, riesco a malapena a sbocconcellare un po’ di pane e carne, proprio come è accaduto con la colazione.

La TV è spenta, in cucina non vola neppure una mosca, così mi schiarisco la gola e senza alzare gli occhi dalla mia cena, interrompo il silenzio con una domanda.

“Come va a lavoro? Insomma… Qual è la situazione attuale a Fox River?”.

Non sono veramente ansiosa di sapere come vanno le cose a Fox River, ma il silenzio mi spinge a pensare, ed io voglio solo trovare un modo per distrarmi.

Karla beve un sorso di latte e piega le labbra in una smorfia.

A quanto pare sto per sentire notizie tutt’altro che buone.

“Non molto bene” mi conferma lei, difatti “nell’ultimo periodo sono cambiate moltissime cose e ci sono state parecchie ripercussioni. Sono volate diverse teste, tra cui quelle del direttore Pope e del Capitano Bellick: entrambi sono stati sollevati dal loro incarico, lo sapevi?”.

Scuoto la testa, incredula.

No, non lo sapevo e ciò non fa altro che accrescere il mio senso di colpevolezza: non nei confronti di Bellick, perché lui è sempre stato un bastardo ed uno stronzo, ma nei confronti di Pope, che ho sempre considerato come un uomo buono, giusto, e sinceramente legato al suo lavoro.

No, non meritava affatto un simile trattamento.

“Non sapevo nulla di tutto questo”

“E non è tutto. C’è una parte che riguarda anche Sara: a quanto pare, ha avuto un ruolo attivo nel corso dell’evasione perché la porta dell’infermeria era aperta e l’ultima persona dello staff che è stata vista uscire da lì, è stata proprio lei. Quando la polizia si è recata nel suo appartamento per arrestarla, l’hanno trovata in fin di vita sul divano in salotto, a causa di un’overdose di morfina”.

Mi porto la mano destra alle labbra e mormoro qualche parola, sempre più sconvolta; ripenso al giorno in cui ho conosciuto Sara, rivedo il suo volto sorridente, affabile, incorniciato dai lunghi e mossi capelli ramati, e faccio fatica ad immaginarmela priva di sensi sul divano del suo appartamento, con una siringa ancora conficcata nella pelle di un braccio e con una pozza di vomito che si allarga sul pavimento.

Queste due immagini stridano così tanto nella mia mente che mi domando, per un istante, se tutto questo non sia altro che un orribile incubo.

“Ma… Perché lo ha fatto?”

“Scofield” si limita a dire Karla, ed io capisco subito ciò che si nasconde dietro la sua risposta lapidaria, perché si tratta dello stesso sentimento che mi ha spinta a diventare una ricercata, infischiandomene delle conseguenze: amore.

Un amore cieco e bruciante, impossibile da domare, controllare, o reprimere.

E proprio come un incendio, le sue fiamme hanno inghiottito qualunque cosa, prima di consumarsi con la stessa rapidità con cui si sono scatenate, lasciando alle loro spalle solo macerie e cenere grigia.

“Lei dov’è ora?”

“Da quello che dice la TV, a breve dovrebbe esserci il suo processo. Ovviamente anche lei è stata sollevata dal suo incarico di dottoressa. Anzi. Non può più esercitare questa professione. E c’è ancora un’ultima cosa che devi sapere” la mia ex collega abbassa lo sguardo, ed un velo di tristezza scende sui suoi occhi azzurri “Bellick è stato arrestato e rinchiuso a Fox River con l’accusa di avere ucciso Adam”

“Non è stato Bellick” dico a bassa voce, dopo un lungo silenzio, ripetendo subito dopo le mie stesse parole con più convinzione “non è stato Bellick ad uccidere Adam. Lo so per certo, perché il vero colpevole me lo ha fatto capire molto chiaramente”.

Karla solleva di nuovo il viso, mi guarda negli occhi e si tormenta il labbro inferiore; so che vuole farmi una domanda, ma c’è qualcosa che la blocca, e capisco di che cosa si tratta quando trova la forza di parlare.

“È stato lui ad ucciderlo, vero?”

“Sì, è stato lui” mormoro, giocherellando con una patatina ormai fredda “qualche giorno dopo l’evasione, ce ne siamo andati da Chicago e dall’Illinois. Abbiamo raggiunto Tooele, nello Utah, perché Westmoreland aveva nascosto cinque milioni di dollari sotto il silo di un vecchio ranch abbandonato. Abbiamo trovato quei soldi e ci siamo dati alla pazza gioia, ma poi Adam e Bellick sono riusciti a trovarci. Volevano i soldi e… Lui è stato costretto a rivelare il posto in cui li aveva nascosti perché credeva che Adam avesse abusato di me. Quando siamo riusciti a scappare, lui ha agito di conseguenza: lo ha trovato, lo ha ucciso e si è assicurato di far ricadere la colpa su Brad… Ed a quanto pare ci è riuscito benissimo”.

Sì, mi sento terribilmente colpevole anche per lui.

Perché se non fossi stata così stupida, così cieca e così ingenua, Adam sarebbe ancora vivo; invece, a neppure trent’anni, il suo corpo si trova dentro una bara di legno, sepolto da metri e metri di terra, in pasto ai vermi.

“Mio dio… Mio dio, avrei dovuto immaginarlo…” la mia unica amica scuote la testa e poi mi prende per mano, facendomi capire che il fatidico momento è già arrivato, solo che io non sono ancora pronta per affrontarlo “Nicole, so che è ancora presto, ma vorrei che mi raccontassi cosa ti è accaduto. Hai le braccia piene di lividi”

“E non solo quelle” confesso, perché a questo punto è inutile mentire: sollevo appena la maglietta e le mostro il ventre maculato che mi ritrovo, facendole capire che anche il resto del mio corpo si trova nelle medesime condizioni; abbasso la stoffa e contemporaneamente il viso, stringendomi nelle spalle e portandomi le ginocchia al petto, prendo un profondo respiro tremante e riprendo a parlare “è stata tutta colpa mia”

“No, Nicole! Non dirlo mai più!”

“Perché? Sto solo dicendo la verità. Nessuno mi ha costretta con la forza, nessuno mi ha puntato una pistola alla tempia, è stata una mia libera scelta, e se adesso mi ritrovo in queste condizioni, non posso dare la colpa a nessun altro tranne che a me”

“Ma non sei stata tu a ricoprirti di lividi! È stato lui!”

“Ma è successo per una cazzata che ho commesso” ribatto, raggomitolandomi di più in me stessa, perché sento che i ricordi stanno per tornare da un momento all’altro.

Karla mi appoggia una mano sul braccio sinistro, accarezzandomi la pelle con il pollice, e con voce dolce m’incoraggia a proseguire.

“Vuoi raccontarmi che cosa è successo tra voi due?”.

No, non voglio farlo perché non me la sento, ma che senso avrebbe aspettare? Raccontarlo oggi o tra due giorni non farebbe alcuna differenza, perché sentirei sempre lo stesso dolore lancinante al petto; tanto vale farlo subito.

“Abbiamo litigato” inizio, allora, rifiutandomi però di scendere nei particolari “abbiamo litigato in modo violento a causa di una cosa che lui ha detto. Io ho perso letteralmente la testa e ho agito per vendetta, senza pensare alle conseguenze. Sapevo che si sarebbe arrabbiato, volevo che si arrabbiasse in modo da fargli capire come io mi ero sentita… Ma non immaginavo una reazione simile… Avresti dovuto vedere i suoi occhi, mio dio…”

“Ed è stato a quel punto che ti ha picchiata?”.

Ecco, sento i ricordi che iniziano a venire prepotentemente a galla.

“Mi ha portata fuori casa, spingendomi dentro un vecchio scantinato. Ha sprangato la porta perché non uscissi e poi è rimasto in giardino, seduto. Ho gridato, ho pianto, l’ho supplicato di farmi uscire e di parlare di quello che era accaduto, perché non era ancora troppo tardi per trovare una soluzione, ma lui ha continuato ad ignorarmi. Non so per quante ore sono rimasta confinata là dentro, ma quando la porta è stata aperta non c’era lui dall’altra parte, bensì due poliziotti che erano venuti a salvarmi: qualcuno aveva detto loro che ero tenuta in ostaggio lì dentro” sospiro, sto così male che non riesco neppure a pronunciare il suo nome “non l’ho più visto”

“Hai la più pallida idea di dove potrebbe essere in questo momento?” mi chiede Karla, con le labbra ridotte ad una linea pallida e sottile a causa della rabbia che sta cercando di reprimere in qualunque modo: rabbia che non prova per me, ma per lui e per ciò che mi ha fatto.

Non vuole proprio capire che la responsabilità di ciò che è successo è d’addossare completamente a me.

Scuoto la testa, perché davvero non ho la più pallida idea di dove si trovi in questo momento e che cosa stia facendo; in realtà, credo che io e lui non ci vedremo mai più.
Mi basta questo semplice e terribile pensiero per crollare per l’ennesima volta: affondo il viso sul palmo delle mani ed inizio a singhiozzare, disperata; non provo neppure a trattenermi perché ormai sono un vero e proprio torrente in piena.

“È tutta colpa mia, è solamente colpa mia” ripeto, scuotendo con più forza la testa “avrei dovuto capire ogni cosa fin dall’inizio, avrei dovuto ascoltare le tue parole, avrei dovuto andarmene da Fox River quando ero ancora in tempo, o prendere le distanza da lui ricordandogli che io ero una dottoressa e lui un semplice detenuto… Invece mi sono comportata come una ragazzina ingenua alle prese con la sua prima cotta, ho lasciato che lui mi rovinasse la vita e che mi trasformasse in una sua complice. E per colpa mia un ragazzo innocente è stato barbaramente ucciso”

“Non ti permetto di dire neppure questo!” esclama la mia ex collega, costringendomi a scostare le mani dal volto “mettitelo bene in testa: quello che è successo ad Adam non è colpa tua. Non lo hai ucciso tu. È stato quel mostro. È solo ed esclusivamente colpa sua. Tu sei una vittima, non una carnefice”

“E chi l’ha stabilito qual è il confine che separa l’essere vittima dall’essere carnefice?” mormoro, con un sorriso tirato “guardiamo in faccia la realtà, Karla: ho anch’io sulle spalle una buona parte di responsabilità e, forse, la cosa migliore da fare sarebbe andare alla prima stazione di polizia e costituirmi”

“No, non lo farai. Adesso parli così perché sei ancora sconvolta da quello che hai vissuto. Non è giusto che paghi al posto suo. Te l’ho detto, Nicole, sei solo l’ennesima vittima di quel mostro. Quel bastardo non ha fatto altro che divertirsi con te, e quando si è stancato, ti ha gettata via come una bambola di pezza. Ti ha fatto un vero e proprio lavaggio del cervello perché è bravo con le parole, qualunque altra ragazza sarebbe caduta nella sua trappola, la tua unica sfortuna è stata essere proprio quella ragazza”.

Ha ragione.

Karla ha perfettamente ragione su tutto, eppure le sue parole siano di ben poco conforto.

Tuttavia annuisco, ma poi mi ritrovo a sgranare gli occhi ed a rivolgerle un’espressione spaventata.

“Che cosa farò adesso?” le domando, in un sussurro, fissando il vuoto “non mi è rimasto nulla. Solo un vecchio zaino logoro, qualche vestito ed un rotolo di banconote”

“Riguardo a questo non ti devi assolutamente preoccupare” risponde lei con un sorriso, provando a contagiarmi “resterai qui il tempo necessario per riprenderti e per rimetterti in forze. Ti aiuterò a dimenticare quel figlio di puttana che ti ha distrutto la vita, e quando tornerai ad essere la ragazza che ho conosciuto due mesi fa, allora ti aiuterò a cercare un nuovo posto, il più lontano possibile da qui, dove ricominciare una nuova vita”.

Karla appoggia la mano destra sulla mia sinistra, ed io gliela stringo con forza, aggrappandomi con ogni fibra del mio essere a ciò che ha appena detto, alla prospettiva di un futuro luminoso che mi aiuti ad uscire dal baratro oscuro in cui sono caduta.

Voglio crederci.

Voglio tanto credere che le sue non siano parole vuote, che vengono pronunciate in occasioni come questa solo per consolare.

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Capitolo 3
*** Start Over; Parte Due (Nicole) ***


Sono una ricercata, di conseguenza non posso uscire di casa perché potrei essere riconosciuta da qualcuno.

Tuttavia non trascorro le mie giornate sul divano o chiusa a chiave nella camera degli ospiti: il silenzio ed il buio portano a riflettere, e riflettere porta a ricordare, ed io non voglio assolutamente ricordare tutto quello che è accaduto nelle ultime due settimane; la notte è una tortura già abbastanza crudele, non c’è bisogno di rincarare la dose anche durante il giorno, rischierei solo di andare fuori di testa e costringerei Karla a farmi ricoverare in una clinica psichiatrica.

Riempio le mie giornate occupandomi delle pulizie domestiche: in questo modo, tengo la mente sempre occupata, ed è anche un gesto carino per ringraziare la mia ex collega dell’ospitalità, perché per tenere nascosta me sta rischiando davvero tanto.

A volte questa tecnica funziona, perché ci sono giorni in cui arrivo quasi a scordarmi il casino in cui sono immersa fino ai capelli; ma ci sono altri in cui il dolore torna a prendere il sopravvento, perché basta una piccolissima sciocchezza e lui ridiventa il padrone totale della mia mente.

Karla si è prefissata l’obiettivo di farmi dimenticare di lui, come se non fosse mai esistito; dubito seriamente che questo sia possibile, eppure lei ci crede veramente e lo dimostrano i gesti drastici che adotta: come prima cosa, infatti, mi costringe a tagliare in tante piccole strisce di stoffa la felpa nera che indossavo al mio arrivo, proprio perché è sua, e me le fa gettare in pasto alle fiamme del caminetto che c’è in salotto.

Al cappello a visiera non va molto meglio, perché finisce nel bidone della spazzatura dopo essere stato barbaramente calpestato dalle mie scarpe da ginnastica.

Forse non è la migliore delle tecniche da adottare in situazioni come questa, eppure riesco a trarvi qualche piccolo beneficio per il mio cuore spezzato; e dopo quindici giorni trascorsi a casa della mia unica amica, inizio già a sentirmi meglio.

“È strano” commento un pomeriggio, mentre entrambe siamo sedute sul divano, impegnate a gustarci una fetta di crostata ai mirtilli che abbiamo preparato qualche ora prima “forse perfino prematuro da dire, ma inizio davvero a sentirmi meglio, e ti confesso che ci sono giorni in cui faccio fatica a credere che non sia stato tutto uno spiacevole incubo”

“Sono davvero contenta di sentirti dire queste parole, Nicole, anche il tuo viso è diverso. Si vede che stai tornando a vivere” risponde Karla, mangiando un boccone di torta, rivolgendomi un sorriso che questa volta riesco a ricambiare senza alcun sforzo.

Ha proprio ragione: piano piano, passo dopo passo, il veleno che ha intossicato il mio corpo si sta dissolvendo, ed io sto tornando finalmente a vivere; sono solo sorpresa che stia accadendo così in fretta, così presto.

È proprio vero quando dicono che l’essere umano è la più bizzarra delle creature, soprattutto nell’ambito dei sentimenti.

Siamo così impegnate a parlare ed a gustarci la crostata ai mirtilli che non prestiamo attenzione alla TV accesa, tuttavia lo schermo focalizza subito la mia attenzione quando la soap-opera che stiamo distrattamente ascoltando, viene interrotta bruscamente da un’edizione straordinaria di un notiziario; davanti a me appare Alexander Mahone: l’agente dagli occhi di ghiaccio, identici a quelli di un predatore famelico, che mi ha personalmente interrogata alla centrale di polizia di Joliet, e che ha smosso delle insinuazioni sul mio passato.

L’uomo annuncia con fierezza di essere riuscito a catturare Michael Scofield e Lincoln Burrows, ed aggiunge che è solo questione di tempo prima che gli altri latitanti condividano il loro stesso destino.

Karla si affretta a prendere in mano il telecomando ed a cambiare canale, ma ormai il danno è fatto
.
Abbasso lo sguardo sulla fetta di torta e poi lo sposto nuovamente in direzione della TV: stanno trasmettendo un programma di gag esilaranti, nello specifico un video amatoriale che riprende una donna che tenta di salire su un traghetto ormeggiato, ma a causa della passerella traballante finisce miseramente in acqua.

È una scena stupida, vista mille e mille volte, eppure nella sua semplicità mi provoca un eccesso di risa che non riesco a contenere e che, dopo qualche secondo, contagia anche la mia ex collega.

Ci ritroviamo entrambe a ridere, con le lacrime a rigarci le guance, incapaci quasi di riprendere fiato per respirare; e proprio a causa delle nostre risate, in un primo momento ignoro il cellulare che ha iniziato a vibrare in una tasca dei miei pantaloni.

Mi asciugo le lacrime, lo tiro fuori e guardo lo schermo.

Decido di rispondere nonostante si tratti di un numero sconosciuto.

“Pronto?” dico, cercando di placare un altro attacco di risate che prova a farsi strada in me; dall’altra parte non arriva alcuna risposta, solo un brusìo di sottofondo che non riesco ad identificare “ascolta, se si tratta di uno scherzo di pessimo gusto…”

“Nicole…”.

Nello stesso momento in cui sento una voce maschile, strascicata, pronunciare il mio nome mi alzo di scatto dal divano, con gli occhi e la bocca spalancati; il piattino che ho in grembo scivola a terra, nella morbida moquette bianca si forma una macchia viola, ma me ne frego altamente.

“Teddy?” sussurro, ignorando la mia ex collega che mi fa cenno di chiudere immediatamente la chiamata “che cosa vuoi?”.

Silenzio.

Ancora un brusìo di sottofondo.

Un respiro ansante.

“Io…” dice con voce impastata, che m’impedisce quasi di capire quello che sta dicendo “io volevo… Solo… Parlare con… Te”.

La voce impastata, il modo in cui strascica le parole, il modo in cui ansima, mi fanno sorgere un dubbio che mi colpisce come un pugno allo stomaco.

“Teddy, hai bevuto? Sei ubriaco?”

“Non… Non lo so” mormora, confuso, ma per me è già una risposta sufficiente: sì, ha pesantemente bevuto, ed è completamente ubriaco, molto probabilmente non ha neppure coscienza delle parole che gli escono dalla bocca “so solo che in questo momento… Ho messo in vivavoce perché ho una… Ho una pistola carica in mano. E ho l’indice destro appoggiato al grilletto… Nickie… Credo di essere in procinto di fare qualcosa di molto… Come si dice… Stupido”.

Il pugno si trasforma in una coltellata che mi mozza il respiro in gola.

Merda.

Mi passo la mano destra tra i capelli ed inizio a camminare nervosamente per la stanza, cercando di mantenere un tono calmo e controllato, perché sarebbe inutile farsi prendere dal panico.

“Ascoltami, ti prego!” esclamo, scandendo in modo accurato ogni singola parola, per essere sicura che riesca a comprenderne il senso “dove ti trovi in questo momento?”
“Credo di essere sdraiato su un letto, ma non ne sono… Non ne sono sicuro”
“Sei nella stanza di un hotel?”
“Così sembrerebbe” mormora lui, sospirando e facendo schioccare la lingua; prendo a mia volta un profondo respiro e cerco di strappargli più informazioni possibili, sforzandomi di non pensare alla pistola carica che ha in mano ed al fatto che, come Teddy stesso mi ha detto molto chiaramente, sia in procinto di commettere qualcosa di molto stupido.

“Ascoltami attentamente” ripeto una seconda volta “come si chiama l’hotel in cui ti trovi in questo momento? Ho bisogno di sapere qual è il suo nome, altrimenti non posso aiutarti”

“Non lo so… Era qualcosa che aveva a che fare con… Con il cielo… O forse le stelle… Era spagnolo… Aspetta un momento” attendo in silenzio, ascoltando i rumori che provengono dall’altra parte del cellulare: qualche borbottio incomprensibile, il suono di un oggetto di vetro che cade sul pavimento, un fruscio di carta; molto probabilmente sta frugando alla ricerca di un qualunque foglio o documento su cui c’è scritto il nome dell’hotel “ho trovato qualcosa. È la carta del servizio in camera”

“E cosa c’è scritto sulla carta?”

“C’è scritto che… C’è scritto che fanno delle ottime quesadillas al chili piccante. Tu hai mai assaggiato le quesadillas? Forse potrei ordinarle…”

“Teddy!” strillo, perdendo quel poco di autocontrollo che ancora mi è rimasto in corpo “questo non è il momento di pensare alle quesadillas! Ti prego, devi dirmi se c’è scritto il nome dell’hotel!”

“Aspetta… Ahh, eccolo qui, avevo ragione io. C’è scritto ‘Cielo Lindo’”

“Cielo Lindo. Perfetto. E in quale città ti trovi?”

“Panama”.

Il pugno, trasformato in una coltellata allo stomaco, viene sostituito da uno schiaffo in pieno volto che mi toglie il respiro e che mi fa girare la testa: già sapevo che non poteva essere rimasto in Alabama per tutto questo tempo, soprattutto dopo il modo brusco con cui abbiamo chiuso il nostro matrimonio, ma mai avrei potuto immaginare che avesse fatto tutta questa strada in quindici giorni.

Raggiungerlo a Panama significa prendere un aereo.

E prendere un aereo significa andare incontro a rischi inutili; significa un’alta probabilità di essere fermata, identificata e sbattuta dentro la cella di un carcere femmine, ma non prima di essere interrogata, e travolta da una valanga di domande su Teddy e sugli altri evasi ancora in libertà.

Ripenso ad Alexander Mahone, alle accuse smosse sul mio passato, ai suoi occhi glaciali, ed un brivido di paura mi percorre la spina dorsale in tutta la sua lunghezza; ciononostante la mia voce non trema quando rispondo a Theodore.

“Qual è il numero della tua camera?”

“La… Aspetta… Due… Zero… Non capisco se l’ultimo numero è un sette od un uno… Aspetta, credo sia un sette. Si. Duecentosette”

“Non muoverti da quella camera e non fare nulla di stupido fino al mio arrivo. Cercherò di prendere il primo volto per Panama, d’accordo? Quando sarò arrivata a destinazione, ti chiamerò e dovrai rispondere subito, d’accordo? Pensi di avere capito tutto? Non fare nulla di stupido e non mettere piede fuori da quella stanza fino a quando io non sarò arrivata. Hai capito quello che ho detto, Theodore? Hai capito tutto?”

“Si, Nicole” sussurra il mio ex compagno con un filo di voce, e prima di riattaccare aggiunge poche parole che mi fanno balzare il cuore in gola “ma, ti prego, cerca di fare presto. Non so per quanto tempo riuscirò ancora a resistere”.

Infilo il cellulare in una tasca dei pantaloni e, senza dare una sola spiegazione a Karla, mi precipito al piano superiore correndo, per racimolare i miei pochi effetti personali nel vecchio e logoro zaino che ho portato con me dall’Alabama; la mia ex collega mi raggiunge velocemente, si appoggia con entrambe le mani allo stipite della porta e mi guarda con gli occhi spalancati, sconvolta.

“Che cosa stai facendo? Che cosa ti ha detto?”

“Sto partendo” rispondo; le mani mi tremano così tanto che quasi non riesco a contare le banconote che mi sono rimaste, per capire se mi bastano ad affrontare il lungo viaggio verso Panama “devo andare da lui perché si trova nella merda più totale”

“Che cosa ti ha detto?”

“Da quel poco che sono riuscita a capire, si trova in un hotel a Panama ed è completamente ubriaco. Ha una pistola carica in mano e si sente in procinto di fare qualcosa di molto stupido. Ed io non glielo posso permettere” spiego in modo concitato, mi mordo il labbro inferiore e mi sposto nel bagno infondo al corridoio; spalanco le ante di un piccolo armadietto e prendo del cotone, delle garze e del disinfettante “ho bisogno di portare con me queste cose per qualunque evenienza. Ti prometto che non appena mi sarà possibile, te le ripagherò”

“Tu non mi devi ripagare di niente, e soprattutto non devi andare da lui!” protesta Karla, scuotendo la chioma rossa e folta, che ondeggia da una spalla all’altra “tu non… Nicole! Non puoi correre da lui solo perché ti ha fatto una sceneggiata melodrammatica per telefono! Come puoi essere sicura che non si tratti di una messinscena e che stai andando incontro ad una trappola? Come puoi andare da lui, a Panama, dopo quello che ti ha fatto? Dopo le condizioni disumane in cui ti ha ridotta!”.

Sistemo entrambe le cinghie dello zaino sulla spalla destra, mi volto a fissarla e la raggiungo, appoggiandole entrambe le mani sulle spalle, guardandola dritta negli occhi.

“Mi dispiace deluderti” dico in un sussurro, e già sento un velo di lacrime pizzicarmi gli occhi “ma io devo andare, non posso lasciarlo là. Non si tratta di una messinscena, ho sentito la sua voce, e ti posso assicurare che non sta fingendo. È davvero disperato, ed ha bisogno di me. Non posso lasciarlo con una pistola carica in mano, in procinto di spararsi”

“Si che puoi, invece. È esattamente ciò che si merita per tutto il male che ha fatto a te ed alle famiglie di quelle povere vittime innocenti. Lascialo da solo in quell’albergo a Panama. Lascia che si spari un colpo in testa e che ponga fine alla sua vita: il mondo intero gliene sarà grato”

“Non posso farlo” ripeto ancora “mi dispiace, ma non posso farlo”

“Perché?” mi domanda Karla, con un’espressione disperata, perché continua a non capire; sciolgo la presa dalle sue spalle e le mostro l’anello dorato che tuttora indosso all’anulare sinistro.

“Perché io gli ho promesso di essere a suo fianco in qualunque occasione e di non abbandonarlo mai. Ed anche se adesso lui mi odia, io non sono intenzionata ad infrangere la promessa che gli ho fatto quando ci siamo sposati a Las Vegas, perché io e lui siamo ancora marito e moglie. E perché lo amo, ed ora ha bisogno di me più che mai. Non preoccuparti per il viaggio, in passato mi sono ritrovata più volte in situazioni difficili, riuscirò a badare a me stessa anche in questa occasione… E ti prometto che al mio ritorno ti ripagherò il cotone, le garze ed il disinfettante che ho preso dal bagno” sorriso, sperando di contagiare la mia unica amica con quella battuta, ma lei resta seria, impassibile, e le parole che pronuncia subito dopo suonano come una sinistra premonizione.

“Nicole… Sai che se adesso uscirai da questa casa, non tornerai più indietro, vero?”.

Non rispondo alla domanda di Karla, preferendo stringerla in un silenzioso abbraccio.

“Grazie per tutto quello che hai fatto per me nelle ultime due settimane. Sei stata l’amica migliore che potessi desiderare” mormoro, stringendola ancora un po’, prima di lasciarla andare; scendo al pianoterra velocemente ed esco dalla graziosa villetta bianca, a due piani, senza mai voltarmi indietro.
 

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Capitolo 4
*** Bright Coin (T-Bag) ***


Osservo con attenzione l’attestato incorniciato, ed appeso con cura ad una parete.

Sono costretto a strizzare più volte le palpebre perché le parole appaiono sfuocate, e continuano a danzare davanti ai miei occhi, provocandomi uno sgradevole senso di nausea che parte dallo stomaco, passa per l’esofago, e mi aggredisce la bocca, lasciandomi uno spiacevole gusto amaro di bile; vorrei vomitare, vorrei riversare l’intero contenuto del mio stomaco sulla splendida moquette costosa che ricopre le assi del pavimento, ma non posso farlo.

Deglutisco, sforzandomi di ricacciare indietro la nausea, mi concentro nuovamente sull’attestato di laurea, e, proprio quando finalmente riesco a capire le parole scritte in lettere gotiche, una voce maschile richiama la mia attenzione, facendomi voltare.

“Mi scusi se l’ho fatta attendere così tanto, signor Webster”

“Ohh, non si preoccupi, dottor Stammel” rispondo, sorridendo, ignorando un dolore sordo e pulsante alla testa “anzi, mi scusi lei per averla avvisata con così poco anticipo. Sono lieto di sapere che si è liberato un posto nella sua agenda e che può ricevermi, perché ho proprio bisogno di togliermi un… Peso dallo stomaco”

“Da questa parte”.

Il dottor Erik Stammel, laureato a pieni voti all’università di Birmingham in qualità di dottore in psichiatria, come riportato sull’attestato di laurea appeso alla parete, mi indica una porta chiusa che conduce ad una piccola stanza che identifico subito come il suo Studio personale, e mi fa cenno di accomodarmi su una poltrona di pelle scura, posizionata vicino ad un enorme vetrata, prima sedersi a sua volta su un’altra poltrona situata di fronte alla mia; mi guardo attorno, vagando con gli occhi per tutta la stanza, soffermandomi su un vassoio d’argento su cui sono posizionate diverse bottiglie di ottimi liquori ambrati e dei bicchierini di cristallo.

Mi passo la lingua sulle labbra e, dietro gentile esortazione dello stesso psichiatra, inizio a togliermi il peso che ho sullo stomaco.

Quello metaforico, ovviamente, perché se dovessi togliermi il vero e proprio peso che ho sullo stomaco, dovrei vomitargli addosso.

“Io non… Nei miei quarantasei anni di vita non sono mai stato fortunato in amore. Anzi. Tutte le storie importanti che ho avuto, si sono sempre concluse in modo disastroso, e tutte le donne che ho amato non hanno fatto altro che spezzarmi il cuore. Eppure, nonostante ciò, due mesi fa ho incontrato una ragazza che ha catalizzato la mia attenzione fin dal nostro primo incontro. Credevo che sarebbe stata diversa, perché lei per prima era completamente diversa dalle mie ex. Credevo fosse speciale. Volevo iniziare una nuova vita lasciandomi alle spalle la precedente, e dopo appena due mesi di frequentazione, ci siamo sposati a Las Vegas e siamo andati a vivere insieme. Lo so, adesso a mente lucida capisco di avere fatto un’enorme stronzata, ma in quel momento ci credevo veramente. Invece non si è limitata a spezzarmi il cuore, me lo ha calpestato senza alcuna pietà. Io…” sono costretto a fermarmi perché davanti ai miei occhi vedo il volto sorridente, incorniciato dai lunghi capelli biondi, di Nickie nel giorno in cui i nostri sguardi si sono incrociati per la prima volta nell’infermeria di Fox River; il dottore mi allunga prontamente, con un gesto gentile, un fazzolettino di carta, lo prendo in mano e mi asciugo le lacrime prima di proseguire, sentendomi un vero e proprio idiota “è da tutta la vita che mi sento come una monetina abbandonata sui binari ferroviari. E un treno dopo l’altro continua a passarmi sopra, avanti e indietro, per tutto il giorno… Ma io non voglio piegarmi. Non sono intenzionato a farlo!”

“Sa, signor Webster, qual è il bello delle monetine?” mi dice Stammel, dopo aver ascoltato in silenzio il mio sfogo personale, annuendo di tanto in tanto; scuoto la testa e lui procede, sorridendomi “ogni monetina ha una data impressa, lei è libero di scegliere quale data preferisce per ricominciare una nuova vita, magari quel giorno potrebbe essere proprio oggi… E lei avrebbe finalmente l’opportunità di diventare una monetina splendente”

“Cavolo…” commento, lasciandomi andare ad una breve risata “devo essere sincero con lei, dottore, questa mattina non avevo la minima intenzione di venire qui ed aprire bocca, ma adesso sono costretto ad ammettere che questa terapia è davvero… Terapeutica”

“La ringrazio, ma non riesco a comprendere un passaggio di quello che ha detto: se era venuto qui con l’intenzione di non aprire bocca, che cosa voleva fare?”.

Alla lecita domanda di Stammel rispondo con il silenzio, mordendomi la punta della lingua, e concentro lo sguardo su una statuetta di marmo nero, screziata di blu.
“Sa… Questa mattina, ad una fermata dell’autobus, ho visto la pubblicità del suo Studio e… Forse non sarà esattamente come guardare ad uno specchio, ma non può negare che c’è una certa somiglianza fisica tra noi due”

“Si, in effetti, da un certo punto di vista, si potrebbe dire che c’è una vaga somiglianza fisica tra me e lei” conferma il dottore, continuando a sorridere “ma, mi perdoni, continuo a non capire ciò che sta cercando di dirmi, signor Webster”

“Non si preoccupi, dottore” mormoro, alzandomi dalla poltrona “le darò subito una dimostrazione pratica, affinché tutto le sarà subito più chiaro”.

Prima che l’uomo possa rendersi conto di quali siano le mie intenzioni, con la mano destra afferro la statuetta di marmo e lo colpisco alla testa, spaccandogli il cranio: il colpo che gli ho inferto è così violento che uno schizzo di sangue colpisce il tavolino posizionato affianco alla poltrona in pelle, e ricopre il bicchiere di cartone abbandonato là sopra; sollevo il braccio, pronto a continuare il massacro per sfogarmi, ma mi blocco con la mano a mezz’aria.

Stammel ha già esalato il suo ultimo respiro, lo dimostrano i suoi occhi fissi nel vuoto e la profonda ferita al capo da cui posso intravedere il cranio spaccato e la massa cerebrale: accanirmi sul suo corpo non servirebbe a nulla, otterrei solo di ricoprire i vestiti che ancora indossa di sangue, ed a quel punto sarebbero inutilizzabili; poso la statuetta sul tavolino, rimettendola esattamente al suo posto, e prendo in mano il bicchiere di cartone.

Tolgo il tappo di plastica e piego le labbra in una smorfia contrariata perché il contenuto consiste in un semplice caffè nero, mentre io ho bisogno di qualcosa di più forte.
Qualcosa di molto più forte.

Ignorando la nausea ed il mal di testa, lascio cadere a terra il bicchiere di cartone e mi avvicino alle bottiglie di liquore; le guardo una ad una, con il volto piegato verso sinistra, e la scelta, alla fine, ricade su una di Jack Daniel’s, ancora sigillata.

Tolgo il sigillo, svito il tappo e ne scolo metà in un paio di lunghi sorsi.

Chiudo gli occhi a causa del bruciore che mi scende in gola, e poi mi lascio andare ad un profondo sospiro, sorridendo.

Finalmente, grazie al Jack Daniel’s, non sento più né la nausea né il cerchio alla testa.

Peccato che non possa portare con me l’intera scorta di alcol, visto che mi aspetta un lungo viaggio in aereo.

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Capitolo 5
*** New Mexico (T-Bag) ***


Se un evaso vuole avere qualche speranza di non essere nuovamente arrestato e spedito a marcire in una cella per il resto della sua vita, deve fare solo una cosa: scappare il più velocemente e lontano possibile, senza perdere neppure un minuto, scegliendo come nuova casa una destinazione esotica.

Nel mio caso, la scelta è ricaduta sulla città di Bangkok.

Non perché sia affascinato dall’India o perché ci abbia già messo piede in passato, le motivazioni che si nascondo dietro la mia scelta sono ben altre, ed hanno a che fare con la protesi che sono costretto ad indossare: a Bangkok regna un enorme traffico nero, e non riguarda solo l’ambito della prostituzione, della pornografia o del contrabbando di armi, droga e alcolici.

Là si pratica anche il commercio di organi e di esseri umani.

Per il giusto prezzo puoi avere tutto ciò che desideri, compresa una mano nuova di zecca.

E dal momento che ho con me quattro, abbondanti, milioni di dollari nascosti in un voluminoso zaino da campeggio, i soldi non mi mancano di certo.

“Un biglietto per Bangkok, per favore” mormoro, quando arriva il mio turno all’angolo check-in dell’aeroporto di Birmingham; dall’altra parte del bancone una donna bionda ossigenata, in una striminzita divisa da hostess, digita qualcosa sulla tastiera di un computer e poi mi rivolge uno sguardo costernato.

“Mi dispiace, signore, ma il primo volo diretto a Bangkok parte domani pomeriggio. A meno che per lei non vada bene prenderne un altro con scalo a Chicago, ed un secondo scalo internazionale. In questo caso, il volo parte tra poche ore”

“Non potrei chiedere di meglio”

“Avrei bisogno di un documento”

“Naturalmente” rispondo, con un sorriso, allungandole la carta d’identità che ho preso in prestito dal cadavere del dottor Erik Stammel; mi schiarisco la gola e mi sistemo gli occhiali da vista.

Mai indossare occhiali da vista, se non ne hai davvero bisogno.

È un’esperienza pressoché orribile, e l’alcol che ho in corpo non aiuta affatto.

La hostess guarda per qualche istante il documento, prima di restituirmelo con un sorriso cortese, che sicuramente è costretta a rivolgere a tutte le migliaia di persone che vede ogni singolo giorno.

“La ringrazio, signor… Stammel?”

“Dottore. Dottor Stammel” la correggo sorridendo a mia volta, di nuovo; la bionda ossigenata mi allunga il biglietto, ma quando lo sto per prendere, un fattorino afferra il mio bagaglio per posizionarlo sul nastro trasportatore, e sono costretto a prendere una cinghia ed a strattonarla per impedirglielo: così facendo lo zaino cade a terra, si apre ed alcune consistenti mazzette di banconote si riversano sul pavimento, sotto gli occhi delle altre persone in fila.

M’inginocchio a terra e mi affretto subito a riporre le banconote dentro lo zaino, ma ormai il danno è fatto.

“Signore, non può viaggiare con quello nel vano portabagagli. Supera il peso massimo consentito” mi ammonisce l’uomo, rivolgendomi uno sguardo che non mi piace affatto “deve stare nella stiva”.

Sono sufficienti le ultime quattro parole che pronuncia per farmi ribollire il sangue nelle vene e farmi uscire di testa: non voglio separarmi dai miei quattro milioni di dollari, chiunque al mio posto farebbe di tutto per tenersi un simile bottino sempre stretto a sé.

Soprattutto dopo tutto quello che ho passato per impossessarmene.

“Ma si può sapere che differenza possono fare un paio di kili in più all’interno di un aereo di tre tonnellate? È ridicolo!” ringhio, a denti stretti, ma il fattorino non retrocede di un solo passo, mi ripete che lo zaino non può viaggiare con me e che deve essere chiuso nella stiva; mi passo la lingua sulle labbra, mordendone la punta con i denti, guardandomi poi attorno: sto attirando troppo l’attenzione generale, ed un ricercato non deve mai attirare l’attenzione generale.

Prendo un profondo respiro, mi passo la mano destra tra i capelli e poi annuisco, arrendevole, lasciando che l’uomo prenda il mio bagaglio e lo metta sul nastro trasportatore.

Ed io non posso fare altro che osservarlo sparire, augurandomi che vada tutto bene e che non ci siano spiacevoli incidenti di percorso.



 
Nonostante il piccolo inconveniente dello zaino, sono intenzionato a godermi appieno il viaggio in aereo in prima classe.

E come prima cosa, per inaugurare al meglio quella che sarà la mia nuova vita a Bangkok, svuoto in un unico sorso un calice di champagne, e fermo una hostess giovane e carina per chiederle di portarmene immediatamente un altro, accompagnato da qualcosa di molto più forte, come un buon doppio whisky liscio, senza ghiaccio.

“Subito, dottor Stammel” si affretta a rispondere lei, con un sorriso mozzafiato, e mentre si allontana ne approfitto per osservarle con cura il fondoschiena.

Niente male.

Niente male davvero.

Una botta in bagno gliela darei volentieri, ma in questo momento desidero solo riposare, così abbasso le palpebre e la mascherina per gli occhi; appoggio la testa allo schienale e rilasso le spalle, cercando di svuotare la mente e di non ripensare a quello che è successo negli ultimi quindici giorni.

Ma la seduta psichiatrica ha risvegliato in me ricordi spiacevoli, e nello stesso momento in cui vengo avvolto dal buio, nel mio campo visivo appare ancora una volta il volto sorridente di Nicole; vedo con estrema chiarezza, fin nei più piccoli particolari, i suoi occhi azzurri, grandi ed infantili, e mi sembra quasi di poter toccare e sentire il profumo dei suoi capelli dorati, lucenti come seta pura.

Peccato che tutte le cose belle siano destinate a finire in modo violento.

È una legge della natura.

Il volto di Nicole cambia, trasformandosi; resta sempre il suo, ovviamente, ma non appartiene più alla fresca ragazza che ricopriva il ruolo di dottoressa a Fox River: i suoi occhi sono spenti, non brillano più di luce propria, ha delle profonde occhiaie e la pelle è pallida e tirata.

Come può una persona dimagrire così vistosamente in appena quindici giorni?

Vedo le sue labbra muoversi, tremare, mentre mi confessa ciò che ha fatto, dandomi conferma a ciò che ho appena trovato al piano superiore della nostra casa, nella nostra camera da letto: sto rivivendo il momento esatto in cui tutto il mio mondo è crollato, stracciato in mille pezzi.

 So che non mi fa bene, so che non dovrei, ma non riesco ad evitarlo.

Sono costretto ad alzarmi di scatto ed a raggiungere il piccolo bagno infondo al corridoio per non combinare un vero e proprio disastro; chiudo a chiave la porta alle mie spalle e mi accascio sulla tazza del cesso, vomitando tutto il contenuto del mio stomaco, tossendo, con spasmi che mi scuotono violentemente il corpo.

Non so per quanto tempo resto chiuso dentro il piccolo abitacolo, in preda ai conati ed alla nausea, ma non appena riesco a reggermi nuovamente sulle mie gambe, mi risciacquo il viso, e controllo di avere un aspetto presentabile prima di tornare al mio posto; adesso che mi sono letteralmente tolto un peso dallo stomaco, mi sento molto meglio, ad eccezione dello sgradevole gusto acido che mi sale dall’esofago.

Ho proprio bisogno di qualcosa di buono e forte con cui risciacquarmi la bocca.

Come se mi avesse letto nel pensiero, la hostess con il sorriso mozzafiato e con il fondoschiena niente male arriva in mio soccorso con il calice di champagne ed il doppio whisky, senza ghiaccio; mi rivolge uno sguardo preoccupato, a causa del colorito grigiastro diffuso su tutto il mio viso, e mi domanda se va tutto bene.

“Ma certo, tesoro, ho solo qualche piccolo problema con l’altezza. Io e gli aerei non andiamo molto d’accordo” rispondo, con un sorriso, facendole l’occhiolino “sono contento di sapere che ti preoccupi per me”

“Per qualunque cosa non esiti a chiamarmi, dottor Stammel” mormora lei, rivolgendomi un altro sorriso a trentadue denti, perfettamente bianchi, facendomi intuire il doppio senso racchiuso nella frase; si allontana ancheggiando, forse fin troppo vistosamente, ed io ne approfitto ancora per guardarle il fondoschiena, mentre svuoto in un sorso il calice di champagne.

Sì, decisamente da una botta in bagno.

Anche due.




 
Quando scendo dall’aereo per lo scalo in Messico, il piacevole scambio di opinioni che ho avuto la giovane e carina hostess nel bagno passa in secondo piano, sostituito da un unico pensiero fisso: recuperare il prima possibile il mio zaino.

Finché non tornerà nelle mie mani, nella mia mano, non mi sentirò completamente tranquillo.

Mi avvicino al nastro trasportatore ed allungo il collo nella speranza di vedere sbucare il mio bagaglio da un momento all’altro; solo quando ciò accade, riesco a tirare un sospiro di sollievo ed a lasciarmi scappare una breve risata divertita, dandomi mentalmente dello stupido per essermi preoccupato così tanto per una cazzata.

Muovo qualche passo in direzione del nastro, ma mi blocco all’improvviso vedendo un uomo fin troppo famigliare, che non dovrebbe essere assolutamente qui; sbatto più volte le palpebre, osservandolo con più attenzione, dando inizialmente la colpa a tutto l’alcol che ho ingerito, da quando ho abbandonato per sempre l’Alabama.

Ormai non ricordo neppure da quanto tempo non ingurgito del cibo solido.

Quando realizzo che non si tratta di un allucinazione derivata dal whisky, e che l’uomo che vedo è davvero in carne ed ossa a pochissimi metri di distanza da me, gli do le spalle e mi nascondo dietro un pilastro, soffocando appena delle imprecazioni.

Si può sapere che cazzo ci fa Bellick in Messico?

Per quale motivo non è rinchiuso in un carcere con l’accusa di avere ucciso la guardia che faceva il filo a Nicole, di cui non ricordo neppure il nome?

Non riesco a trovare una risposta alla seconda domanda, ma per quanto riguarda la prima, è molto più semplice: sta cercando me per vendicarsi e per rubarmi di nuovo i quattro milioni di dollari; ma questa volta non sono assolutamente intenzionato a farmi fregare e picchiare a sangue da quel bestione ottuso di un ex secondino.

Non voglio che Bellick mi veda, ma allo stesso tempo non voglio abbandonare il mio zaino all’aeroporto.

Qualche malintenzionato potrebbe rubarmelo, ed io non posso permettere che ciò accada.

Perciò, tento una mossa disperata: cercando di passare inosservato, abbasso la maniglia di una porta ed entro in una zona riservata al personale, dove c’è l’altra metà del nastro trasportatore, invisibile agli occhi dei passeggeri che attendono le loro valigie nel Terminal; cerco con lo sguardo, quasi disperatamente, il mio zaino.

Peccato che quando riesco a trovarlo, vengo scoperto da un membro dello staff che si avvicina a me, blaterando qualcosa d’incomprensibile in spagnolo; mi volto di scatto verso di lui, colpendolo in pieno volto con la prima valigia che mi capita tra le mani, facendolo cadere tra i bagagli, finendolo poi con un pugno in pieno volto.

Allungo il braccio destro, sforzandomi di afferrare una cinghia dello zaino, ma non ci riesco e sono costretto a rotolare giù dal nastro prima di essere inghiottito a mia volta dal meccanismo; il suono di una sirena riempie improvvisamente l’aria, un allarme scattato a causa del corpo privo di sensi dell’uomo, mi alzo di scatto, ignorando una nuova e sempre più aggressiva ondata di nausea, e faccio ciò che nell’ultimo periodo riesco a fare meglio.

Scappare.



 
Anche se il tentativo di recuperare il mio zaino è fallito miseramente, non sono intenzionato ad arrendermi e passo subito al piano B: chiedo ad un uomo di prenderlo al posto mio, dietro la lauta ricompensa di una frusciante banconota da cinquanta dollari.

“Questo zaino è davvero pesantissimo, che cosa ci tiene dentro, signore?” mi domanda lui, posando il bagaglio ai miei piedi.

“Trentaquattro kili di affari che non ti riguardano, Pedro” rispondo io, con un sorriso, liquidandolo in fretta con il denaro promesso; afferro una cinghia dello zaino, la sistemo sulla spalla destra, e nell’esatto istante in cui sollevo gli occhi, incrocio lo sguardo di un giovane uomo portoricano, affiancato da uno più robusto, simile ad un grosso cinghiale inferocito.

Merda.

Non bastava Bellick, adesso si è aggiunto anche Sucre.

Inizio a pensare che questa sia una vera e propria congiura nei miei confronti.

Fernando punta verso di me l’indice destro perché mi ha riconosciuto, nonostante il cappello che indosso e la tinta bionda, ed io non perdo un solo istante a voltare le spalle ai due, ed a precipitarmi fuori dal Terminal dell’aeroporto, infilandomi dentro al primo taxi parcheggiato che riesco a trovare; incito l’autista a partire immediatamente, ma a causa del traffico Sucre riesce a raggiungermi ed infila un braccio dentro la vettura, cercando di afferrare lo zaino con il suo prezioso contenuto a sei zeri.

“Ti prego, T-Bag! Ho bisogno di quei soldi! Ti prego!” urla, supplicandomi, ma in tutta risposta gli strappo lo zaino dalle mani e gli do una spinta.

Visto il trattamento che lui ed il resto della squadra mi hanno riservato durante l’evasione, non ho alcun debito nei suoi confronti e non me ne frega un cazzo di sentire i motivi per cui ha bisogno dei miei soldi.

“E levati dalle palle!” gli ringhio contro, prima di alzare il finestrino; l’autista riesce a seminare i miei due inseguitori, e finalmente posso rilassarmi e tirare un sospiro di sollievo.

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Capitolo 6
*** Panama City; Parte Uno (T-Bag) ***


Dicono che il cane sia il migliore amico dell’uomo.

Balle.

Il vero ed unico migliore amico dell’uomo è l’alcol: è sempre a tuo fianco nei momenti più difficili, non sporca, non ha bisogno di cure, non deve essere portato a passeggio al guinzaglio e non deve neppure essere alimentato; anzi, è l’esatto opposto: è l’alcol ad alimentare l’uomo, ed anche se lentamente avvelena i suoi organi interi fino ad ucciderlo, lo fa nel modo più piacevole al mondo.

Con quattro milioni di dollari in tasca posso comprare tutte le bottiglie di alcolici presenti sulla faccia della Terra.

Se volessi, potrei perfino comprare una fabbrica di liquori.

Ma che senso avrebbe sperperare così tanti soldi, se al proprio fianco non si avesse una piacevole compagnia femminile?

“Ahh!” esclamo compiaciuto, prendendo in mano il bicchiere che mi è stato appena gentilmente offerto, gustandone il contenuto che consiste in un Margarita ghiacciato, semplicemente perfetto anche se un po’ troppo leggero per i miei gusti “squisito. Sei troppo buona per uno come me, Nickie Q., non merito di averti a mio fianco”

“Ohh, no, sono io ad essere la fortunata, Teddy-Bear”.

Mi volto a guardare la ragazza bionda, che si sta occupando di preparare un secondo Margarita per sé, mi alzo dalla poltrona e la raggiungo, rivolgendole un sorriso dolce.

“Il giorno in cui ti ho incontrata, è come se fossi rinato a nuova vita, bambola” sussurro, avventandomi letteralmente sulle sue labbra morbide e piene; lei, però, mi allontana, premendo una mano contro il mio petto, e pronuncia una frase di cui non riesco subito a cogliere il significato.

“Tempo scaduto”

“No, Nicole, abbiamo tutta la vita davanti a noi…”

“No, non hai capito. È appena scaduta l’ora per cui mi hai pagata” ripete la ragazza, picchiettando l’unghia dell’indice destro sul quadrante di un orologio da polso, spezzando così l’atmosfera da sogno che si era creata.

Riapro gli occhi con un sospiro: non mi trovo nella mia vecchia casa in Alabama, ma nella suite di un hotel in Messico, e davanti ai miei occhi non c’è Nicole, ma bensì una giovane prostituta a cui ho fatto indossare una volgare parrucca bionda, di qualità scadente, che non si avvicina neppure lontanamente ai capelli della ragazza che mi ha spezzato il cuore.

“Ci stiamo solo scaldando… Perché non continuiamo con un ‘che cosa cucinerai per questa sera, bambola’?”

“Prima che ti scaldi troppo, voglio avere in anticipo i miei soldi”

“Ed io ti ho detto in anticipo che se ti fossi comportata bene, ti avrei ripagata di conseguenza”

“Mi hai richiesta per un’ora. E l’ora è finita” insiste lei, cambiando completamente sia il tono di voce che l’espressione, diventando tutt’altro che disponibile.

“Perfetto… Perfetto…” mormoro, passandomi la mano destra tra i capelli, e sfogo la frustrazione dando un pugno alla parete alle mie spalle “sai, per un attimo ho pensato che fossi una ragazza intelligente, ma mi sono sbagliato… Non sei altro che una stupida puttana di strada”.

E la ‘stupida puttana di strada’, dopo aver raccolto la sua borsetta ed aver indossato un paio di scarpe di vernice rossa, col tacco, mi rivolge uno sguardo fulminante, carico di disprezzo e disgusto.

“Sai che cosa ti dico?” ringhia avvicinandosi a me; afferra la parrucca bionda con una mano e la getta a terra, rivelando la sua vera chioma, dalle sfumature castane “non so chi cazzo sia questa puttana di Nickie Q., ma non mi sorprende affatto che non voglia più saperne di te”.

Ecco.

Esattamente come accaduto in aeroporto, sento nuovamente il sangue ribollirmi nelle vene, ed un velo rosso scende nel mio campo visivo: abbasso il braccio destro, appoggiando la mano sulla parete, impedendo così alla prostituta di raggiungere la porta della suite; mi passo la lingua sulle labbra e socchiudo gli occhi, rivolgendole un sorriso freddo.

“Non credo di avere capito bene, l’hai appena chiamata ‘puttana’?”

“Se entro il mio ‘tre’ non avrai tolto quella mano dal muro, giuro che inizierò a gridare a squarciagola” sibila lei, lanciandomi uno sguardo di sfida, ed inizia a contare senza mai staccare gli occhi scuri dai miei “uno… Du…”.

Non le lascio neppure il tempo di terminare il conto alla rovescia.

Le stringo la mano destra attorno al collo, cogliendola di sorpresa e del tutto impreparata, trascinandola in direzione del letto; mollo la presa per qualche istante, il tempo di spingerla contro il materasso con forza, e poi l’aggredisco nuovamente, serrandole la gola con il mio arto ancora integro, utilizzando tutta la forza che ho in corpo.

La rabbia che provo in questo momento, per l’insulto che ha rivolto nei confronti di Nicole, è così cieca e furiosa che non mi fa sentire i disperati tentativi della ragazza per liberarsi dalla mia presa, non sento nemmeno i graffi che, con le unghie, mi lascia sulle guance e sul collo; non contento, senza riuscire a fermarmi, afferro un oggetto, probabilmente un soprammobile, ed inizio a massacrarla con quello, sfogandomi con un urlo liberatorio.

Riesco a fermarmi solo qualche minuto più tardi.

Ansimando, mi alzo dal letto e mi volto a fissare uno specchio: la superficie riflettente mi restituisce l’immagine di un uomo con il volto pallido, i capelli scompigliati e sudati, e con addosso un accappatoio quasi completamente ricoperto di sangue.

Per la giovane prostituta non c’è nulla da fare: anche lei, come il dottor Stammel, ha il cranio fracassato e la materia cerebrale ben visibile.

Merda, penso cercando di lisciarmi i capelli, ho fatto un’enorme cazzata nel momento peggiore; adesso che sono un ricercato che vuole abbandonare gli Stati Uniti senza dare nell’occhio, ho avuto la brillante idea di assecondare il mio lato più animalesco e di commettere un omicidio che non era affatto necessario.

Ma la colpa non è totalmente mia.

Anzi, è solo ed esclusivamente della stupida vacca che adesso giace in un bagno di sangue sopra al letto.

Non avrebbe dovuto offendere Nickie chiamandola ‘puttana’.

Ha firmato la sua condanna da sola.

A fatica, a causa della protesi, trascino il corpo il bagno, sistemandolo nella vasca, in modo da farlo passare inosservato il più a lungo possibile; getto al suo interno anche la borsetta e la parrucca bionda, e copro il lenzuolo impregnato di sangue con una coperta.

 Appallottolo e nascondo nell’armadio anche l’accappatoio, che costituisce l’unico indumento che ho addosso in questo momento.

Mi rivesto velocemente, ingurgito quello che resta del Margarita, prendo lo zaino ed esco dalla suite, entrando nel primo ascensore libero che riesco a trovare.

Quando scendo nella reception, lancio un’occhiata in direzione del bancone e ciò che vedo mi strappa un’imprecazione sottovoce: l’uomo là dietro, di sicuro il direttore dell’hotel a giudicare dal costoso completo che indossa, sta parlando in modo concitato al telefono.

Non appena chiude la chiamata, fa cenno a qualcuno di entrare nell’edificio.

 Quel ‘qualcuno’ si rivelano essere due poliziotti.

E questo significa solo una cosa: nonostante gli sforzi per coprire il mio crimine, il cadavere che giace nella vasca da bagno è stato trovato molto prima di quello che avevo calcolato.

Merda.

So che anche ai migliori capita di sbagliare, e di sicuro nel mio caso l’alcol che ho in corpo non gioca un punto a mio favore, ma perché a me deve capitare proprio ora, cazzo?



 
Panama è una bellissima città con altrettante piacevoli distrazioni.

Una fra tutte è costituita dall’enorme traffico di prostituzione che regna nei suoi bassifondi.

E dopo il disastroso epilogo che ha avuto il mio ultimo ‘incontro galante’, e soprattutto dopo essere riuscito ad uscire indenne dall’hotel illudendo le autorità, sento la necessità di concedermi una piacevole distrazione coi fiocchi.

Mentre passeggio  sul marciapiede di un quartiere a luci rosse, un uomo mi si avvicina, e mentre mi supera, con apparente noncuranza, solleva un lembo della camicia che indossa, facendomi intravedere l’impugnatura di una pistola, senza alcun dubbio carica; l’uomo deve essere sicuramente il protettore delle ragazze, quello che in gergo viene chiamato ‘pappone’ o ‘mercante di schiave del sesso’, ed il messaggio silenzioso che si è preoccupato di mandarmi, è arrivato forte e chiaro a destinazione: niente scherzi, o le cose per me possono mettersi molto male.

Mi avvicino ad una ragazza appoggiata al cofano di una sgargiante Camaro gialla: indossa una magliettina chiara, una minigonna jeans, e continua a giocherellare con una ciocca di capelli; una frangetta castana le ricade sulla fronte, fermandosi appena sopra un paio di grandi occhi chiari, di una sfumatura simile, ma allo stesso completamente diversa, a quelli di Nicole.

“Parli la mia lingua?” domando, attirando la sua attenzione, e lei annuisce sorridendomi “prova a dire ‘buongiorno, Teddy’”

“Buenogiorno, Teddy”

“Ahh, ma chi vuoi prendere in giro, non si capisce nulla. Qualcuno parla la mia lingua?” mi allontano di scatto dalla giovane, infastidito, formulando la domanda ad alta voce, e la mia attenzione viene subito richiamata da un fischio che proviene dalle mie spalle; mi volto ed incrocio lo sguardo ammiccante di una giovane ispanica, appoggiata ad una porta “parli la mia lingua?”

“Sì”

“Prova a dire ‘buongiorno, Teddy’”

“Buongiorno, Teddy”

“Di ‘buongiorno, Teddy-Bear”

“Buongiorno, Teddy-Bear” ripete lei, esprimendosi in un inglese quasi perfetto; mi passo la lingua sulle labbra e le accarezzo una ciocca dei lunghi capelli scuri: non c’è nulla in lei che ricordi, anche solo vagamente, Nickie ma so per certo che in questo momento non riuscirei a trovare altro di meglio.

“Ti piacciono le parrucche?” le domando, allora, con un ghigno.

“Per il giusto prezzo, mi piace qualunque cosa” mormora la giovane donna, restituendomi il ghigno, prima di prendermi per mano e trascinarmi in un luogo più appartato, lontano da occhi indiscreti.

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Capitolo 7
*** Panama City; Parte Due (T-Bag) ***


Non hanno torto solo coloro che affermano che il cane sia il migliore amico dell’uomo, ma anche chi sostiene che l’alcol tolga la lucidità: forse ciò è vero in alcuni casi, ma nel mio ha un effetto completamente diverso, perché mi aiuta a vedere la situazione generale con estrema chiarezza, senza filtri o attenuanti.

E ciò che vedo, osservando a lungo uno specchio ovale, mi fa piegare le labbra in una smorfia di disgusto perché, per la prima volta, realizzo di avere gettato nel cesso quarantasei anni di vita senza aver combinato nulla di buono, lasciando alle mie spalle una scia quasi infinita di sangue, mista a cadaveri maciullati e smembrati.

Quarantasei anni abbondanti, visto che sono sempre più vicino ai quarantasette.

Distolgo lo sguardo dallo specchio quando vedo il mio riflesso sdoppiarsi, perfino triplicarsi, e mando giù quello che rimane di una bottiglia di whisky, l’ennesima, che va ben presto a fare compagnia alle sue gemelle vuote, posizionate sopra un comodino di legno; chiudo gli occhi, serrando con forza le palpebre, e mi passo la mano destra sulla fronte, completamente imperlata di sudore, nonostante le pale del ventilatore attaccato al soffitto girino al massimo.

Per quindici giorni ho continuato a viaggiare senza mai fermarmi un solo secondo, senza mai riposarmi per più di mezz’ora, ed ora che finalmente sono circondato dalla quiete, chiuso nella camera di un hotel a Panama, realizzo una spiacevole realtà.

Sto male.

Sto terribilmente male e non riesco a muovere un solo passo.

La testa mi fa male, sembra essere sempre sul punto di scoppiare, la nausea non mi dà neppure un attimo di tregua, ed a volte ho dei brividi di freddo così violenti che mi ritrovo a battere i denti.

Credo di essere vicino all’autodistruzione, credo di essere ad un passo di distanza da un enorme precipizio senza fondo; e come ogni persona che si ritrova aggrappata al ciglio di un burrone, tutto ciò che desidero è vedere una mano amica allungata verso di me, per trarmi in salvo prima che sia troppo tardi.

Anche se quella mano appartiene alla persona che ha prima spezzato e poi calpestato il mio cuore senza alcuna pietà.

Prendo in mano il mio cellulare e, dopo un paio di tentativi andati a vuoto a causa della vista appannata, riesco a digitare il numero della persona di cui ho disperatamente bisogno in questo momento, l’unico appiglio a cui mi posso aggrappare per non cadere nel baratro nero e senza fondo spalancato dinanzi a me; chiudo gli occhi e prego mentalmente di ricevere una sua risposta.

Altrimenti sarei perduto.

“Pronto?” domanda una voce femminile, dopo il quinto squillo, ed io mi ritrovo a trattenere il fiato ed a perdere l’uso della parola, peggio di un adolescente alle prese con la sua prima cotta “ascolta, se si tratta di uno scherzo di pessimo gusto…”

“Nicole…” mormoro, interrompendola, chiudendo di nuovo gli occhi.

Questa volta è davvero lei.

Non si tratta di una prostituta, a cui ho ordinato di indossare una parrucca bionda e di calarsi nei panni della ragazza di cui mi sono innamorato.

La voce dall’altra parte del cellulare appartiene davvero a Nickie.

“Teddy? Che cosa vuoi?”

“Io… Io volevo… Solo… Parlare con… Te”

“Teddy, sei ubriaco? Hai bevuto?”.

Sento chiaramente dell’agitazione nella sua voce, e questo mi fa piegare le labbra in un sorriso.

Giro la testa in direzione delle bottiglie vuote, senza riuscire a capire se sono davvero così tante o se sono vittima di un altro brutto scherzo giocato dalla mia vista, e poi abbasso gli occhi sulla pistola stretta nella mia mano destra, lucida e letale come un cobra nero.

“Non… Non lo so” rispondo con sincerità, scuotendo la testa, il mal di testa è così forte che m’impedisce di pensare e quasi di parlare, e sento la lingua improvvisamente impastata, come se avessi assunto qualche farmaco “so solo che in questo momento… Ho messo in vivavoce perché ho una… Ho una pistola carica in mano. E ho l’indice destro appoggiato al grilletto… Nickie… Credo di essere in procinto di fare qualcosa di molto… Come si dice… Stupido”.

Non sto mentendo, non si tratta di una finta.

Mai prima d’ora ho trovato così invitante il pensiero di appoggiare la canna della pistola contro una tempia e premere il grilletto, sentendomi finalmente libero.

“Ascoltami, ti prego!” la voce di Nickie mi strappa dalle mie fantasie suicide “dove ti trovi in questo momento?”

“Credo di essere sdraiato su un letto” mormoro con un sospiro, appoggiando la testa contro qualcosa di morbido, probabilmente un cuscino “ma non ne sono… Non ne sono sicuro”

“Sei nella stanza di un hotel?” domanda, ancora, la mia ex compagna.

Mi guardo attorno, per quanto il collo me lo conceda, perché il più piccolo movimento mi costa uno sforzo sovrumano.

“Così sembrerebbe”

“Ascoltami attentamente. Come si chiama l’hotel in cui ti trovi in questo momento? Ho bisogno di sapere qual è il suo nome, altrimenti non posso aiutarti”

“Non lo so” rispondo di nuovo, serrando le palpebre nel vano tentativo di ricordare “era qualcosa che aveva a che fare con… Con il cielo… O forse le stelle… Era spagnolo… Aspetta un momento” allungo la mano destra in direzione del comodino, apro il cassetto e frugo al suo interno; impiego qualche minuto prima di trovare il foglio che stavo cercando “ho trovato  qualcosa. È la carta del servizio in camera”

“E cosa c’è scritto sulla carta?”.

Osservo il foglio con attenzione, sbattendo più volte le palpebre per riuscire a mettere a fuoco il listino.

“C’è scritto che… C’è scritto che fanno delle ottime quesadillas al chili piccante. Tu hai mai assaggiato le quesadillas? Forse potrei ordinarle…”

“Teddy!” lo strillo di Nickie mi riporta per qualche istante alla realtà “questo non è il momento di pensare alle quesadillas! Ti prego, devi dirmi se c’è scritto il nome dell’hotel!”

“Aspetta… Ahh, eccolo qui, avevo ragione io. C’è scritto ‘Cielo Lindo’”

“Cielo Lindo. Perfetto. E in quale città ti trovi?”

“Panama”

“Qual è il numero della tua camera?”

“La… Aspetta…” prendo in mano la chiave della stanza e cerco di leggere il numero inciso sul portachiavi in legno, a forma di noce di cocco “Due… Zero… Non capisco se l’ultimo numero è un sette od un uno… Aspetta, credo sia un sette. Si. Duecentosette”

“Non muoverti da quella stanza e non fare nulla di stupido fino al mio arrivo. Cercherò di prendere il primo volo per Panama, d’accordo? Quando sarò arrivata a destinazione, ti chiamerò e dovrai rispondere subito, d’accordo? Pensi di aver capito tutto? Non fare nulla di stupido e non mettere piede fuori da quella stanza fino a quando io non sarò arrivata. Hai capito quello che ho detto, Theodore? Hai capito tutto?”

“Si, Nicole” sussurro con un filo di voce, facendo fatica a deglutire “ma, ti prego, cerca di fare presto. Non so per quanto tempo riuscirò ancora a resistere”.

Spengo la chiamata, prendo un altro profondo respiro, e lentamente mi alzo dal materasso cigolante; vengo colto da un attacco di vertigini e sono costretto ad appoggiarmi alla parete alla mia sinistra per non crollare a terra, piegato su me stesso.

 Respiro ancora un paio di volte, prima di riuscire a staccarmi dal muro ed a rimanere in perfetto equilibrio sulle mie gambe.

Prendo la pistola, controllo che sia carica, e mi chiudo in bagno.

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Capitolo 8
*** Room 207 (Nicole) ***


Per tutto il viaggio in aereo non riesco a chiudere occhio, e ciò non ha nulla a che fare con la paura di essere riconosciuta da qualcuno come la complice di uno degli otto evasi di Fox River.

Non riesco a chiudere occhio, neppure per pochi minuti, perché ho sempre in mente l’immagine di Theodore, da solo nella camera di un hotel, completamente sbronzo e con in mano una pistola carica, in procinto di commettere un’enorme cazzata da un momento all’altro; non tocco né una goccia d’acqua né un solo boccone del cibo, che mi viene offerto da una simpatica e sorridente hostess, perché ho la gola e lo stomaco chiusi in una morsa d’acciaio.

Non sarò in grado di mangiare, bere o dormire finché non avrò visto il mio uomo sano e salvo; e fino a quel momento, non posso fare altro che sperare silenziosamente e non riflettere sull’orribile sensazione che le sue ultime parole, poco più forti di una supplica sussurrata, hanno risvegliato in me.

Perché quando ha riattaccato, ho avuto il terribile sospetto che si trattasse di un addio, e che al mio arrivo a Panama avrei trovato un cadavere freddo con una pallottola piantata in testa; se solo abbasso le palpebre, quasi mi sembra di vederlo: Teddy seduto in modo scomposto sul materasso di un letto, gli occhi fissi nel vuoto, e la parete alle sue spalle macchiata di sangue e materia cerebrale che, lentamente, scivola verso il pavimento.

Sono costretta a prendere un respiro pronto ed a fermarmi per qualche secondo, sul marciapiede di una strada trafficata di Panama, per non cedere ad un violento attacco di panico: questo non è assolutamente il momento migliore per lasciarmi andare alle emozioni contrastanti che si agitano nel mio petto.

Proseguo, a passo veloce, la mia ricerca dell’hotel Cielo Lindo e non è affatto difficile trovarlo, perché si tratta di un edificio alto e lussuoso, con un giardino all’inglese ben curato ed un’enorme piscina, dalla forma ovale, circondata da palme rigogliose; quando imbocco il vialetto che conduce all’entrata, mi blocco di nuovo e chiudo gli occhi, cercando di calmarmi, e riprendo a camminare non appena sono sicura di avere abbastanza autocontrollo per non iniziare a correre e strillare istericamente il nome del mio uomo.

È stato proprio lui ad insegnarmi che un ricercato non deve mai dare nell’occhio, perché commetterebbe un enorme e fatale errore.

Entro nella reception con il volto rivolto verso il pavimento di marmo, sistemandomi gli occhiali da sole, e salgo due rampe di scale che conducono al piano dove sono presenti le camere dalla duecento alla duecentocinquanta; mi sfilo le lenti scure dagli occhi, e sposto velocemente lo sguardo da una stanza all’altra, leggendo a bassa voce il numero, avanzando piano, con il battito del mio cuore che rimbomba più forte dei miei passi.

Duecento.

Duecentouno.

Duecentodue.

Duecentotre.

Duecentoquattro.

Mi sforzo di non pensare al perché Teddy non abbia risposto alle mie chiamate, nonostante gli avessi chiaramente detto di farlo.

Duecentocinque.

Le parole che ha sussurrato prima di chiudere la chiamata, la supplica disperata che mi ha rivolto.

Duecentosei.

La parete macchiata di sangue, con la materia cerebrale che scivola verso il pavimento.

Duecentosette.

Mi fermo davanti alla porta di legno chiaro, trattenendo quasi il respiro; allungo il braccio destro e stringo con forza la maniglia, la mano mi trema così tanto che mi ritrovo a battere i denti a causa della paura di ciò che potrei vedere.

Spingo la maniglia verso il basso, ma non accade nulla.

Tento più volte, prendendo perfino a spallate il legno, ma il risultato non cambia: è chiusa dall’interno.

Riprovo a chiamare Theodore e, mentre mi tormento il labbro inferiore fino a farlo sanguinare, sento con estrema chiarezza lo squillo del suo cellulare, ma nessuno risponde; ripongo il mio in una tasca dei pantaloni e lascio che il panico abbia la meglio su di me: inizio a prendere a pugni la porta e ripeto più volte il suo nome, urlandolo, dicendogli di venire subito ad aprirmi la porta, ma l’unica risposta che ottengo è costituita dal silenzio assoluto.

Ed il silenzio assoluto, soprattutto in situazioni simili a questa, non promette mai nulla di buono.

La porta della camera duecentosei si apre, ed esce una donna delle pulizie che mi rivolge un’occhiata incredula e perplessa, sicuramente perché attirata dalla mia sceneggiata, e io ne approfitto prima che possa aprire bocca: con uno scatto rapido, m’infilo dentro la stanza, ed esco sulla terrazza panoramica, colta da un’intuizione improvvisa che potrebbe aiutarmi a trovare una soluzione al mio problema, senza coinvolgere la reception e le autorità per scardinare la porta della camera di Theodore.
Per mia enorme fortuna l’intuizione che ho avuto si rivela esatta, perché anche la suite duecentosette, esattamente come tutte le altre, è fornita di una piccola terrazza, e ciascuna è separata dall’altra da pochi centimetri.

Salgo sul parapetto, sforzandomi di non guardare verso il basso, e salto sulla terrazza della duecentosette, atterrando sulle piastrelle colorate del pavimento; deglutisco e guardo in direzione della porta scorrevole a vetri: non riesco a vedere l’interno a causa delle tende tirate.

Prego con tutta me stessa che anche questa non sia chiusa a chiave, e con mio enorme sollievo vedo la porta scorrevole aprirsi; scosto le tende ed entro nella stanza chiamando di nuovo il mio uomo per nome, ma la trovo completamente vuota: niente cadavere con gli occhi spalancati, niente pistola abbandonata sulla moquette e niente parete sporca di sangue e cervello.

Sento il peso che ho sulle spalle alleggerirsi, ma ciò che vedo non mi fa sentire più tranquilla.

Dov’è?

Dov’è Teddy?

La porta è chiusa dall’interno e lo dimostra la chiave ancora infilata nella serratura, di conseguenza lui non può avere abbandonato né la camera né l’hotel; e non può neppure aver commesso un gesto estremo gettandosi dalla terrazza panoramica, altrimenti la stanza sarebbe bloccata dai nastri della polizia scientifica perché scena di un crimine.

Appoggio lo zaino sopra il materasso e giro il viso in direzione di una porta di cui finora ho ignorato l’esistenza, che probabilmente appartiene ad un bagno.

Questa volta non esito, e non cerco di fare nuovamente appello al mio autocontrollo: la raggiungo, la spalanco, e ciò che vedo mi toglie il fiato e mi fa spalancare gli occhi.

Teddy è sdraiato nella vasca da bagno: ha gli occhi chiusi, la testa reclinata sul bordo, ed il respiro ridotto ad un rantolo che gli esce dalle labbra socchiuse; il braccio destro è anch’esso appoggiato sul bordo e la pistola è abbandonata sul pavimento di piastrelle bianche.

La camicia ed il paio di pantaloni che indossa sono sporchi di sangue e vomito raffermi, anche il mento ed il fondo della vasca ne sono in parte ricoperti.

“Oh, mio… Dio…” mormoro, sconvolta, perché non pensavo di trovarlo in condizioni così disastrose; entro a mia volta nella vasca, senza preoccuparmi del sangue e del vomito, gli appoggio le mani sulle guance pallide ed inizio a schiaffeggiarlo, chiamandolo ripetutamente per nome “Teddy! Teddy, riesci a sentirmi? Theodore, apri gli occhi! Adesso!”.

Il mio uomo emette un gemito, borbotta qualcosa d’incomprensibile, e poi socchiude le palpebre rivelando due iridi scure appannate ed assenti, circondate di rosso a causa di alcuni capillari esplosi; le pupille sono così sottili che possono essere paragonate alla cruna di un ago.

Eppure, nonostante sia ad un solo passo dal coma etilico, riesce a riconoscermi ed a pronunciare qualche parola di senso compiuto.

“Nicole…” mormora con voce impastata “hai mantenuto… La promessa. Sei venuta”

“Si, te lo avevo detto che avrei mantenuto la promessa, ma tu non hai fatto altrettanto con la tua. Ti avevo detto di non muoverti, di non commettere cazzate e di rispondere alle mie chiamate” rispondo, con un sospiro, perché è inutile prendersela con una persona completamente ubriaca e mezza svenuta sul proprio sangue e vomito; piego il viso di lato, e concentro lo sguardo su un lungo striscio che ha sul lato destro della testa: gli tocco il cuoio capelluto e mi rendo conto di avere le dita sporche di sangue “Teddy, che cosa hai fatto? Perché sei ferito?”

“Ho provato a giocare alla roulette russa, ma sono così ubriaco che… Non sono riuscito a prendere bene… La mira” spiega, strascicando le parole: almeno ha la consapevolezza di quali siano le sue attuali condizioni fisiche e mentali “mi viene da vomitare”

“Cerca di resistere per qualche minuto, ti aiuto ad uscire da qui e poi potrai vomitare anche il pranzo della prima comunione”

“Come posso vomitare il pranzo della prima comunione se… Se non l’ho mai fatta?”.

Non rispondo alla sua domanda perché non sono intenzionata a discutere con un ubriaco, e perché in questo momento ci sono cose ben più importanti del pranzo della prima comunione; esco dalla vasca, passo il braccio destro di Theodore attorno alle mie spalle, e lo esorto ad alzarsi per uscire a sua volta e per raggiungere la tazza del water, prima che riversi il contenuto del suo stomaco sul pavimento del bagno, ma si rivela essere un’impresa tutt’altro che semplice.

Il mio peso si aggira attorno ai cinquanta kili, mentre Teddy deve essere al di sopra dei settanta; è più alto e più robusto di me, e non è neppure in grado di reggersi sulle proprie gambe.

 Quando sento tutto il suo peso gravare sulle mie povere spalle, perdo l’equilibrio e sono costretta ad appoggiarmi ad una parete per non crollare a terra insieme al mio uomo; lentamente, senza fare movimenti bruschi, riesco a fargli appoggiare i piedi sulle piastrelle bianche che ricoprono il pavimento, e lo faccio appena in tempo: nello stesso momento in cui esce dalla vasca, Teddy si lascia cadere sulle ginocchia, afferra il bordo in ceramica del water e si piega in avanti per vomitare e tossire, con il corpo scosso da violenti spasmi.

M’inginocchio a mia volta, a suo fianco, e gli accarezzo la schiena con gesti lenti.

Improvvisamente il dolore, la sofferenza, la colpevolezza e la sensazione di sporcizia che mi hanno perseguitate negli ultimi quindici giorni spariscono come una nuvola di fumo, seguite dal ricordo del violento litigio che ha preceduto la fine della nostra storia, sostituite da una profonda preoccupazione, perché nell’uomo che ho davanti ai miei occhi faccio fatica a riconoscere lo stesso criminale affascinante, furbo e carismatico che ho conosciuto a Fox River.

Adesso vedo solo una persona vuota e sconfitta, che si è rifugiata completamente nell’alcol, votata all’autodistruzione.

Lo aiuto ad appoggiarsi con la schiena ad una parete, per riprendere fiato; prendo un asciugamano, lo passo sotto il getto d’acqua fredda del lavandino, e mi occupo di ripulire con cura il mento di Theodore.

Prendo in mano un secondo panno e ripeto la stessa operazione sul suo viso e sulla sua fronte, togliendogli un velo di sudore appiccicoso.

“Va meglio?” gli domando, a bassa voce, stringendo l’asciugamano tra le mani.

Lui annuisce ad occhi chiusi.

“Sì”

“Forza, alzati, non puoi rimanere seduto sul pavimento del bagno. Ti chiedo di fare un piccolo sforzo per raggiungere il letto. Ti aiuterò, ti sosterrò io, ma devi collaborare. Andiamo” sussurro, passandomi nuovamente il suo braccio destro attorno alle spalle; a fatica riesco a portarlo in camera ed a farlo sdraiare sul letto matrimoniale, il mio sguardo ricade sul comodino occupato interamente da bottiglie vuote e mi avvicino ad esso, contandole mentalmente “ti prego, dimmi che non hai davvero scolato otto bottiglie di whisky”

“Non lo so… Ormai ho perso il conto… Quindici giorni sono lunghi…”

“Sono due settimane che bevi ininterrottamente?” mi volto di scatto a fissarlo, con gli occhi sgranati, e Theodore si limita ad annuire, guardandomi con gli occhi socchiusi, faticando visibilmente a tenerli aperti; mi siedo sul materasso, gli afferro il volto e lo schiaffeggio per la seconda volta “resta sveglio, non addormentarti! Se chiudi gli occhi, potresti finire in coma, lo sai questo? E se finisci in coma, sarò costretta a chiamare un’ambulanza, entrambi saremo riconosciuti e verremo rinchiusi in due carceri separati. È questo che vuoi?”

“No…”

“Allora per le prossime ore non devi chiudere gli occhi, almeno finché non sarai fuori pericolo e non avrai bevuto qualche litro d’acqua per smaltire la sbronza… Almeno in piccola parte” frugo all’interno dello zaino, prendo del cotone, ci verso sopra del disinfettante e mi occupo del lungo striscio che ha sul lato destro della testa; mentre tampono il sangue ancora fresco, gli rivolgo alcune domande in modo che non si addormenti “perché lo hai fatto?”

“Mh… Cosa?”

“Questo” dico, sfiorandogli la ferita “perché hai provato a spararti? Volevi farla finita?”

“Volevo giocare alla roulette russa… Vuoi giocarci anche tu?”

“No, in questo momento nessuno giocherà a niente. Soprattutto tu. Hai bisogno di bere acqua e di riposare. E quando avrai riacquistato un po’ di lucidità, dovrai raccontarmi molte cose, per esempio tutto quello che hai fatto negli ultimi giorni e perché hai bevuto fino a finire quasi in coma etilico” rispondo, gettando il batuffolo di cotone, ormai rosso, dentro un cestino; mi alzo dal letto, afferro due delle bottiglie vuote e vado in bagno: le risciacquo con cura nel lavandino, le riempio con acqua fresca, e ne porgo una a Theodore “forza, inizia con questa. Se la cosa può aiutarti, fingi che sia vodka o gin”

“Ma la vodka ed il gin hanno il gusto di vodka e gin. Non hanno il gusto di acqua” protesta lui, rifiutandosi di bere.



 
Sono costretta a fare appello a tutta la mia pazienza e persuasione per convincere il mio uomo ad ingurgitare litri d’acqua, e solo dopo diverse ore la situazione inizia leggermente a mutare in meglio: quando la sera prende il posto della mattina e del pomeriggio, la sua voce è meno impastata, è in grado di scandire le parole in modo più comprensibile e gli attacchi di vomito sono scomparsi quasi del tutto.

Ha riacquistato un pizzico di lucidità, ma continua a vaneggiare e non è in grado di muoversi autonomamente sulle proprie gambe: difatti se ne sta sdraiato sul letto, con la testa appoggiata sul mio grembo, mentre io gli accarezzo i capelli con gesti lenti, per rilassarlo.

Affrontare le motivazioni che ci hanno portati a prendere due strade diverse è assolutamente fuori discussione in questo momento, proprio perché ha ancora la mente annebbiata dall’alcol.

E temo che dovrà trascorrere qualche giorno prima che possa riprendersi del tutto.

Solo a quel punto potremo fare ciò che avremmo dovuto fare fin dal principio: discuterne come due persone adulte e mature, perché entrambi non siamo più ragazzini.
Io ho ventuno anni, lui quasi quarantasette.

“Hai detto qualcosa?” chiedo a Teddy, in risposta al mormorio confuso che esce dalle sue labbra, e lui sposta lo sguardo da un punto indefinito della stanza al mio viso, guardandomi negli occhi: le sue iridi, adesso, non sono più assenti come prima, ma sono ancora circondate di rosso e sembrano appannate, come se non fosse in grado di mettere bene a fuoco ciò che lo circonda.

“Sì, ho detto che non posso né riposare né rimanere qui dentro” sussurra, riferendosi all’ordine che gli ho dato, prima di costringerlo a mandare giù il primo litro di acqua fresca.

“Perché dici questo?”

“Perché ho ucciso una puttana quando ero in Messico”.

Sbatto le palpebre più volte, confusa, ma non nutro il minimo dubbio riguardo a ciò che ha appena detto.

“Per quale motivo hai ucciso una prostituta?”

“Ti ha offesa” spiega, allungando la mano destra e giocherellando con una ciocca dei miei capelli “le ho chiesto d’indossare una parrucca bionda e di fingere di essere te, come se una stupida parrucca potesse davvero assomigliare ai tuoi capelli. Quando è scaduto il tempo, che avevamo stabilito in precedenza, abbiamo avuto una discussione piuttosto accesa… Io le ho detto che era solo una stupida puttana, lei ha rivolto l’offesa a te, ed a quel punto ho perso la testa”.

So che è terribilmente sbagliato perché stiamo parlando dell’omicidio cruento di una ragazza, ma sarei una bugiarda se provassi a negare che le parole di Theodore mi fanno piacere; perché qualunque donna vorrebbe avere al proprio fianco un uomo pronto a difendere a spada tratta il loro onore.

Anche se si sono separate in modo violento dall’uomo in questione.

“Non avresti dovuto farlo, hai corso un rischio inutile, la polizia avrebbe potuto arrestarti”

“Ma non è accaduto” ribatte lui, scostando la testa dalle mie gambe e sedendosi, appoggiando la schiena alla testiera del letto matrimoniale “la polizia non mi ha arrestato, però sono stato bloccato da un uomo che mi ha affidato un compito ben preciso. E se riuscirò a portarlo al termine senza alcun intoppo, non dovrò più preoccuparmi di nulla. Sul comodino c’è il foglio con le istruzioni e due pistole cariche che mi ha dato personalmente, in caso dovessi incontrare qualche difficoltà”.

Mi volto in direzione del mobile, ma non vedo nulla di ciò che ha appena descritto: non ci sono né fogli né pistole, solo alcune delle bottiglie di liquore vuote.

È chiaro che sta ancora vaneggiando, e la storia dell’uomo non è altro che un’allucinazione di cui è rimasto vittima.

“Teddy…” mormoro, con un sospiro, cercando di spiegargli come stanno realmente le cose, ma vengo interrotta da una sua reazione che mi spiazza totalmente: solleva le palpebre, si copre il viso con la mano destra e scoppia in lacrime.

Sì, è ancora sotto effetto del whisky che si è scolato negli ultimi quindici giorni.

“Io non… Non avrei dovuto andare in Messico… Avevo promesso a David che ci saremo andati insieme”

“David? Chi è David?”

“Era il mio unico amico… Lui e mio cugino James erano i miei unici amici” mi confida Theodore singhiozzando; solleva il viso e mi rivolge uno sguardo così disperato che quasi mi spaventa “sai… A volte, durante la notte, quando chiudo gli occhi li rivedo ancora. Tutti loro. A volte sogno episodi che risalgono alla mia infanzia, e quelli sono gl’incubi più spaventosi… Sai perché, Nickie? Quando sogni il mostro che si nasconde sotto il letto o dentro l’armadio, poi lo dimentichi nell’arco della giornata… Ma quando sogni dei ricordi, questi non se ne andranno mai via del tutto. Anzi. Ti pugnaleranno di nuovo alle spalle, quando meno te lo aspetti”.

Ascolto le parole del mio uomo in silenzio, trattenendo il fiato, e quando finisce non riesco più a trattenermi: gli passo le braccia attorno le spalle, lo attiro a me e lo bacio.

Lui non si sottrae al tocco delle mie labbra e ricambia, emettendo un basso gemito; mi allontano io per prima, lo guardo negli occhi e gli accarezzo la guancia destra, tracciandone il profilo.

Averlo quasi perso mi ha fatto capire quanto mi sia profondamente mancato nel corso delle due settimane che abbiamo trascorso divisi, senza avere una sola notizia l’uno dell’altra, nonostante quello che è accaduto in Alabama.

“Teddy, io…”

“Negli ultimi quindici giorni non ho fatto altro che bere e scopare con prostitute” m’interrompe di nuovo il mio uomo, e le parole che pronuncia subito dopo mi lasciano senza fiato “sono stanco di fare sesso. Voglio fare l’amore con te, Nickie, e voglio farlo adesso”.

So che non dovrei cedere alla sua richiesta, ma la paura di averlo quasi perso per sempre è stata così tanta, che adesso desidero solo sentirlo di nuovo mio, sopra e dentro di me.

Voglio fare l’amore con lui? Sì, assolutamente sì, ne ho un bisogno quasi disperato; come una persona che si perde nel deserto del Sahara e non desidera altro che trovare un’oasi per abbeverarsi, io voglio fare l’amore con l’uomo che è il solo ed unico padrone del mio cuore.

E chissà, forse riusciremo perfino a lasciarci alle spalle gli errori commessi, ricominciando tutto da capo.

Lo attiro di nuovo a me, passandogli le braccia attorno alle spalle, fregandomene della camicia e dei pantaloni sporchi di sangue e vomito, e lo bacio con dolcezza, senza alcuna fretta, facendomi strada con la lingua nella sua bocca; il tocco della sua mano destra sul mio fianco sinistro mi provoca una serie di brividi di piacere, e quando sento le sue dita insinuarsi sotto la stoffa della mia maglietta, mi lascio sfuggire un gemito e decido di velocizzare i tempi: mi sfilo la maglia ed i pantaloni, e riservo lo stesso trattamento anche ai suoi indumenti.

“Scusa” gli mormoro a poca distanza dall’orecchio sinistro, soffiandogli dentro “so che i preliminari giocano sempre un ruolo importante durante un rapporto completo, ma non sono intenzionata ad aspettare un solo secondo in più: ti voglio sentire dentro di me. Adesso. In questo preciso istante, Teddy”.

Lo ammetto, durante il nostro primo rapporto completo ero letteralmente terrorizzata: avevo paura che i ricordi tornassero a galla, distruggendo l’intero momento, ma Theodore in quell’occasione è riuscito a rassicurarmi con poche parole, promettendomi che sì, sarebbe riuscito a cancellare tutte le cicatrici impresse nel mio corpo grazie al suo.

E così è stato.

Un altro gemito di piacere esce dalle mie labbra nello stesso momento in cui Theodore entra dentro di me; mi aggrappo a lui, facendo aderire i nostri corpi, e mi avvento sulle sue labbra, baciandolo con trasporto.

E quando entrambi raggiungiamo l’orgasmo, lo stringo con più forza, per nulla intenzionata a lasciarlo andare, ed è il mio turno di scoppiare in lacrime.

“Perché stai piangendo?” domanda lui, ansimando, rivolgendomi uno sguardo confuso: ha un ciuffo di capelli che gli ricade sulla fronte sudata, ed ai miei occhi appare bello come non mai.

“Ho paura che sia tutto un sogno. Non voglio svegliarmi in un letto vuoto e scoprire che è stato tutto un parto della mia testa”

“Ma questo è tutto reale, Nickie. È reale come lo sono io e come lo sei tu, d’accordo? Non hai nulla di cui preoccuparti”.

Annuisco con la testa e mi asciugo le lacrime.

“Non appena ti sarai ripreso del tutto, ce ne andremo da Panama” mormoro, appoggiando la testa sul petto di Teddy, rifugiandomi nel suo abbraccio “ce ne andremo da Panama e dagli Stati Uniti per sempre. E questa volta inizieremo davvero una nuova vita insieme, giusto?”

“Giusto” sussurra a sua volta il mio uomo, annuendo, prima di chiudere gli occhi e di addormentarsi nell’arco di pochi minuti.

Abbasso anch’io le palpebre, con un sorriso, e sogno la vita perfetta e felice che ci aspetta nella meta lontana e sconosciuta che dobbiamo ancora decidere insieme.

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Capitolo 9
*** 312 Olivera Ave; Parte Uno (T-Bag) ***


Apro gli occhi, e la prima cosa che vedo è il soffitto in legno della camera di un hotel; mi siedo sul materasso, strofinandomi gli occhi, e mi rendo conto di essere completamente nudo ed in dolce compagnia: a mio fianco, infatti, c’è una ragazza bionda che mi dà le spalle, il suo respiro lento e regolare mi fa capire che è ancora profondamente addormentata.

Non sono sorpreso di trovarmi nella camera di un hotel.

Non sono neppure sorpreso di essere completamente nudo, ed in compagnia dell’ennesima puttana di strada.

Ciò che mi lascia veramente perplesso è il vuoto totale che avvolge la mia mente: non riesco a ricordare nulla di quello che è accaduto nelle ultime ore, ed il dolore pulsante che stringe la mia testa in una morsa non è affatto d’aiuto.

Mi volto in direzione della sconosciuta, soffermandomi a guardare la parrucca bionda che indossa: il materiale con cui è fatta deve essere di prima qualità, perché i capelli sembrano veri; sono così impressionato dal risultato finale che allungo la mano destra per accarezzarne una ciocca, e quando sfioro la testa della ragazza, quest’ultima emette un basso mugugno e si volta verso di me, continuando a dormire.

Sento il sangue gelarsi nelle vene mentre osservo, in silenzio, il viso della giovane con cui devo aver trascorso una notte movimentata: non è una prostituta a cui ho fatto indossare una parrucca per assomigliare a Nicole.

Si tratta proprio di lei.

Sbatto nuovamente le palpebre, stropicciandole, sicuro di essere in preda ad un’allucinazione visiva, ma quando riapro gli occhi, la scena non cambia: a pochi centimetri di distanza da me, con il volto appoggiato al cuscino e la mano destra nascosta sotto di esso, c’è proprio la ragazza che mi ha spezzato il cuore, calpestandolo senza alcuna pietà.

E proprio come nel caso di Bellick e Sucre, la mia mente viene attraversata dalla stessa domanda: che cazzo ci fa Nicole qui? Per quale motivo dorme nuda a mio fianco? E perché più mi sforzo di ricordare, più mi scontro con un abisso nero come la pece?

Prendo un profondo e silenzioso respiro, nel vano tentativo di calmare il battito del mio cuore, scivolo fuori dal letto, mi rivesto il più in fretta possibile, ed esco in terrazza; mi appoggio alla balaustra, chiudo gli occhi e prendo un altro profondo respiro, lasciando che una piacevole brezza trasportata dall’oceano mi accarezzi il viso, dandomi un attimo di sollievo e benessere.

Quando riapro gli occhi, il mio sguardo cade in automatico sulla strada affollata di persone, che si recano al mercato o che fanno ritorno dalle bancarelle, di autobus, biciclette e macchina; in un angolo, vicino ad un vicolo cieco, c’è un gruppetto di bambini radunati attorno a qualcosa, inginocchiati sul marciapiede.

Probabilmente stanno giocando a biglie, ma da questa distanza è impossibile dirlo con certezza.

Eppure, nonostante i metri che separano l’hotel dalla strada, riconosco senza la minima esitazione non uno, ma bensì tre uomini: due sono seduti all’ombra del tavolino di un locale, apparentemente impegnati a sorseggiare una bevanda ghiacciata, ed a discorrere di argomenti futili; il terzo, il più giovane, è semi nascosto dalle fronde di una palma e dal cappuccio, della felpa, che gli copre la testa, ma il suo viso è rivolto senza alcun dubbio nella mia direzione.

Per quanto riguarda i primi due, non so chi sia l’uomo dalla corporatura robusta, ma quello alto e magro lo riconosco immediatamente, perché si tratta del ‘datore di lavoro’ della giovane e disponibile signorina che, dopo avermi detto che per il giusto prezzo gradisce qualunque cosa, mi ha preso per mano e mi ha portato in un luogo appartato.

So per quale motivo è qui.

Mi sta cercando perché, dopo essersi appartata con me, la ragazza dalla pelle ambrata non ha più fatto ritorno, ed ora pretende delle spiegazioni approfondite, e per sicurezza deve avere portato con sé i rinforzi.

E per quanto riguarda il ragazzo incappucciato, è un altro problema non affatto indifferente, perché si tratta del piccolo Michelangelo.

E se lui è qui, può significare solo una cosa: quel gorilla di Burrows, Sucre e Bellick non devono essere troppo lontani.

Anzi.

Potrei sbagliarmi, ma ho quasi la certezza assoluta che abbiano stipulato una tregua momentanea per assicurarmi alla giustizia e spartirsi i quattro milioni di dollari che mi sono rimasti.

Rientro in camera, soffocando a stento un’imprecazione per non svegliare Nicole: non voglio vederla, non voglio parlarle, non voglio sentire la sua voce, e soprattutto non voglio un altro problema.

Sono già abbastanza nella merda fino al collo, senza che si aggiunga anche lei alla lista.

Jimmy aveva perfettamente ragione a dire che non riesco a stare lontano dai guai per un arco superiore ai cinque minuti, ma sono ancora profondamente convinto che sia una cosa reciproca, che anche i guai non siano in grado di stare per troppo tempo lontani da me.

Apro il secondo cassetto del comodino, studiando con attenzione il suo contenuto: un foglio di carta stropicciata, su cui sono scarabocchiate delle parole in penna nera, e due pistole cariche, pronte all’uso.

Prendo in mano il foglio e leggo a bassa voce le istruzioni che ho ricevuto con estrema cura, e che mi sono state ripetute più volte, affinché si imprimessero nella mia mente.

‘312 Olivera Ave. Secondo Piano- Porta Rossa’.

Devo raggiungere l’edificio corrispondente a questo indirizzo, entrare nella porta rossa e salire al secondo piano: un compito semplice, lineare, pulito.

Peccato che sia semplice solo da esporre a parole.

Vengo colto alla sprovvista dal rumore di una sirena che riempie l’aria, seguita da una voce femminile che recita un messaggio in spagnolo; ed anche se non parlo fluidamente questa lingua, capisco che si tratta dell’allarme antincendio e che bisogna abbandonare subito la propria camera per sgomberare l’edificio il più in fretta possibile.

Non sono uno stupido.

So perfettamente che questa non può essere una coincidenza, e sono pronto a scommettere di nuovo qualunque cosa che dietro l’allarme antincendio si nascondono Scofield ed uno dei suoi piani da genietto precoce: ormai è chiaro come la luce del sole che lui e gli altri vogliono incastrarmi e spedirmi a Fox River, ma non sanno che ho un asso nella manica pronto a ribaltare le carte in tavola.

Lancio un’occhiata in direzione di Nicole, che non si è mossa neppure di un millimetro, e decido di non svegliarla.

Non voglio altri problemi.

Prendo le due pistole, nascondendole nelle tasche dei pantaloni, raccolgo in fretta il mio zaino ed esco dalla camera, chiudendola a chiave; scendo nell’atrio, esco dalla reception e mi guardo attorno prima d’imboccare una strada piuttosto trafficata, procedendo a passo sicuro, ripercorrendo mentalmente le istruzioni che il misterioso uomo mi ha dettato a voce, prima di scriverle sul pezzo di carta.

312 Olivera Ave.

Secondo piano.

Porta rossa.

Continuo a ripetermi che non mi devo preoccupare, che si tratta solo di un piccolissimo compito da portare a termine per essere finalmente un uomo libero; un piccolissimo lavoro sporco con una ricompensa enorme, incalcolabile, nulla di così difficile per un uomo come me, se non fosse per il mal di testa, la nausea e la sgradevole sensazione di essere pedinato.

Sì, anche se preferisco non voltarmi, neppure per lanciare un’occhiata di sfuggita, so per certo di essere seguito, e proprio per questo motivo aumento il passo per raggiungere il prima possibile l’edificio che corrisponde al 312 di Olivera Ave. ; e quando lo raggiungo, ed i miei occhi si posano sulla famigerata porta rossa, mi lascio scappare un sospiro di sollievo.

Entro senza esitare, salgo le scale fino a raggiungere il secondo piano ed entro in una stanza dove sono presenti altre due porte: una a destra ed una a sinistra; apro quella alla mia destra, mi sbarazzo dello zaino e poi la richiudo, concentrando lo sguardo su quella da cui sono entrato, perché dall’altra parte sento il rumore inconfondibile di passi che si avvicinano.

Delle gocce di sudore mi pizzicano gli occhi, e sono costretto ad asciugarmene con la mano destra.

La prima parte del piano è andata in porto alla meraviglia, senza intoppi, forse fin troppo bene.

Ma adesso è il turno della più difficile.

Adesso è arrivato il momento della parte decisiva, e dall’esito di essa dipende tutto, in primo luogo il mio stesso destino.

“Sappiamo che sei qui dentro, Bagwell!”

“Arrenditi, siamo in tre”

“Va bene, va bene, d’accordo!” grido, estraendo una delle due pistole che ho con me, trascorre appena qualche secondo prima che la porta si apra, rivelando le figure di tre uomini che conosco fin troppo bene: Scofield, Sucre e Bellick; deglutisco a vuoto e tento un approccio amichevole, perché nessuna persona al mondo è incorruttibile, è sufficiente trovare la giusta chiave per persuaderla “possiamo trovare un accordo senza spargere sangue”

“Non fare cazzate e dammi subito quella pistola” mi ordina Bellick, con una revolver puntata contro il mio petto.

Ecco.

Questa è una delle rare occasioni in cui tentare un approccio amichevole non serve ad un cazzo.

Appoggio la pistola sulle assi del pavimento e la lancio verso di lui, mostrandomi totalmente disarmato ed alla loro completa mercé, sposto lo sguardo da Brad a Michael, che continua a fissarmi con gli occhi socchiusi: due lame di ghiaccio che cercano di sondare la mia anima, alla ricerca di una fregatura; il silenzio viene interrotto di nuovo dalla voce del grosso scimmione ed ex Capo delle guardie a Fox River.

Vuole che gli consegni immediatamente lo zaino con dentro i quattro milioni di dollari.

“Non ce l’ho con me”

“Bugiardo, ti abbiamo seguito dall’hotel ed avevi con te lo zaino. Dove lo hai nascosto?” mi domanda Bellick, ma io mi limito ad osservarlo in silenzio, facendo aumentare il suo nervosismo già alle stelle “hai tre secondi di tempo per rispondere alla mia domanda, altrimenti t’impianterò una pallottola nel cranio. Uno… Due…”

“Là!” esclamo, indicando la porta alla mia destra “i soldi sono lì dentro”

“Prendili”

“Prendili tu visto che li vuoi”

“Non fare stronzate. Vai subito ad aprire quella porta e prendi quei maledetti soldi”.

Il suono della sirena di alcune volanti della polizia m’impedisce di rispondere e deglutisco di nuovo; Sucre si guarda attorno, spaesato e spaventato, mentre Scofield resta impassibile e continua a fissarmi quasi senza sbattere le palpebre.

“Bellick non c’è tempo per questi giochetti, la polizia sarà qui a momenti!”

“Sucre, muovi il culo e vai a prendere quello stramaledetto zaino”.

A mia volta, non stacco mai gli occhi da quelli di Brad, perché so già perfettamente ciò che il portoricano troverà dietro la porta di legno, non appena la spalancherà, e non ha nulla a che fare con il sostanzioso bottino lasciatoci in eredità da Westmoreland; difatti, non appena vede il cadavere della prostituta che ho sgozzato, non riesce a trattenere un urlo, ed invoca il nome del suo migliore amico.

Gli altri due componenti del trio si voltano in automatico verso Fernando, ed io ne approfitto per fiondarmi in direzione dell’altra porta, chiuderla alle mie spalle, afferrare lo zaino ed usufruire della scala antincendio per scappare verso la libertà: la polizia ha ormai fatto irruzione nell’edificio, ed io non sono intenzionato a rimanere vittima dello stesso piano che deve fornirmi un lasciapassare a tempo illimitato.

Ma quando sono a metà scala, la voce di Bellick mi coglie del tutto impreparato, e sono costretto a voltarmi di scatto e sparargli contro per non ritrovarmi crivellato di colpi.

Fortuna che l’uomo misterioso mi ha fornito due armi anziché una sola, altrimenti sarei stato fottuto.

Riesco a centrare il mio bersaglio alla coscia sinistra e, grazie all’attimo di confusione generale che si crea, scendo la seconda metà della rampa di scale, correndo verso la strada.

Non presto la minima attenzione alle macchina che sfrecciano, penso solo a scappare il più lontano possibile dai miei inseguitori, e così facendo commetto un grave errore, perché vengo letteralmente travolto da un pirata della strada: sbatto contro il cofano di una vettura e cado a terra, picchiando la testa contro l’asfalto; sento qualcosa di caldo e viscoso scivolare lungo il lato destro del viso, ma non presto attenzione neppure a questo.

“Figlio di puttana” commento a denti stretti, strascicando le parole, provo a recuperare sia lo zaino che la pistola, ma Scofield mi precede “ohh, andiamo. Possiamo risolvere l’intera faccenda con un accordo”

“Forza, muoviti” risponde lui, puntandomi contro la canna della pistola, costringendomi a seguirlo insieme a Sucre; in contemporanea, in cima alla scala antincendio, dei poliziotti stanno prendendo in custodia Bellick che prova, inutilmente, a spiegare loro che non c’entra nulla con il cadavere sgozzato della prostituta.



 
Scofield e Sucre mi conducono ad una rimessa vecchia ed abbandonata.

Michael ordina al suo Papi di procurargli una macchina, mentre io sono costretto ad aggrapparmi ad una rete metallica ed a prendere un profondo respiro: il brutto incidente di cui sono rimasto vittima pochi minuti fa non ha fatto altro che peggiorare il malessere generale che non riesco a scrollarmi dal corpo dal mio risveglio in hotel.
 Vengo travolto da un’altra ondata di nausea e rigurgito della bile, visto che ho lo stomaco completamente vuoto.

“Che cazzo hai da guardare? Non hai mai visto un uomo vomitare?” chiedo a Scofield, fulminandolo con lo sguardo, e mi ripulisco il mento con la manica sinistra della camicia; lui non risponde subito, non abbassa neppure l’arma con cui continua a tenermi sotto tiro, e sulle sue labbra appare un sorrisetto compiaciuto.

“Hai l’aspetto di una persona che non se la sta spassando molto bene, pur avendo avuto con sé cinque milioni di dollari” lo vedo abbassare lo sguardo, indugiando su qualcosa, e così lo imito, scoprendo ben presto a che cosa si sta riferendo: la camicia che indosso è costellata di macchie, alcune di colore rosso scuro, altre tendenti al giallognolo; dall’odore che emanano, non lasciano alcun dubbio riguardo alla loro origine “sei ubriaco?”

“Diciamo che sono abbastanza lucido per ricordare che il tuo nome è Michael Scofield, e che per colpa tua ho perso la mia mano sinistra”

“Però noto con piacere che sei riuscito a trovare una soluzione al tuo problema. Dove l’hai lasciata?”

“La mia mano?”

“No, la ragazza che era con te nello Utah. La dottoressa. Dov’è? Che cosa le hai fatto?” insiste il piccolo Michelangelo, riferendosi a Nicole.

Lo guardo, in silenzio, e scoppio a ridergli in faccia, sprezzante, per nulla intenzionato a raccontargli che la nostra storia è finita per sempre e che l’ho abbandonata nella camera di un hotel molto più vicino di quello che lui pensa.

“Vuoi sapere che cosa le ho fatto?” lo provoco, in un sussurro “per un po’ me la sono spassata con lei, e quando è diventata un giocattolo vecchio e usato, che non mi divertiva più, me ne sono sbarazzato con estrema cura. Mi sono occupato di ogni più piccolo particolare, le autorità non troveranno mai il suo corpo e lo stesso vale per te. Anche perché si tratterebbe di una vera e propria caccia al tesoro, se capisci che cosa intendo. Come ti fa sentire, dolcezza, l’idea di avere sulla propria coscienza la vita di una povera ed innocente ragazza? Dovrai convivere con questo peso fino alla fine dei tuoi giorni”.

Michael ricambia il mio sguardo socchiudendo gli occhi, senza scomporsi minimamente, ed io faccio lo stesso perché non deve capire che si tratta di un’enorme bugia.
“Ti sei fatto degli amici molto potenti”

“Come? Non ti seguo, dolcezza” commento, sollevando il sopracciglio destro, appoggiandomi alla rete metallica.

“La trappola che ci hai teso dentro quell’edificio: quando sei scappato, Sucre ha provato ad aprire la porta e si è ritrovato la maniglia in mano, siamo stati costretti a sfondarla per inseguirti… Ed il cadavere di quella ragazza era posizionato quasi a regola d’arte in quella stanza, per far ricadere la colpa su noi tre. È roba troppo sofisticata per un individuo come te”

“E se anche così fosse, che cosa te ne frega?” sibilo, rivolgendogli un’occhiata carica di disprezzo “ma se fossi nei tuoi panni, farei un enorme passo indietro e cambierei tono di voce, perché si dal caso che sono venuto a conoscenza di informazioni molto importanti. Informazioni che potrebbero essere di vitale importanza sia per te che per il tuo adorato fratellone sprovvisto di cervello”

“Allora illuminami”

“Senza un tornaconto personale? Mai. Io non faccio né dico nulla se non ho qualcosa in cambio, ormai dovresti conoscermi molto bene. È così che s’impara a sopravvivere in prigione e nella vita di tutti i giorni: io faccio un favore a te, ma tu devi fare un favore a me. Peccato che tu non abbia mai voluto impararlo, pesciolino, la tua permanenza a Fox River avrebbe potuto essere molto più piacevole, se avessi dato retta alle parole di T-Bag”

“Dimmi tutto quello che sai e ti lascerò andare… Senza i soldi”

“Mi lasceresti davvero andare?” domando incredulo.

“Forse” risponde Scofield, imperturbabile “dipende da quanto sono effettivamente importanti le informazioni di cui sei a conoscenza. Voglio sapere chi sta muovendo i fili”.
Scoppio nuovamente a ridere, passandomi la mano destra tra i capelli, in un vano tentativo di sistemarli, e scuoto la testa.

“Sai, ho proprio l’impressione che tu mi stia prendendo per il culo, di conseguenza ecco come faremo: andremo in un posto pubblico, affollato, in pieno giorno, con una macchina pronta a scortarmi ovunque io voglia. Solo allora, prima di partire, ti dirò tutto quello che vuoi sapere”.

Sulle labbra del piccolo Michelangelo appare un sorriso di scherno, e la sua risposta secca e lapidaria tronca ogni mia speranza.

“No”.

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Capitolo 10
*** 312 Olivera Ave; Parte Due (T-Bag) ***


Sucre riesce a procurarsi una macchina e fa ritorno da noi qualche minuto dopo la conclusione dell’inutile patteggiamento tra me e Scofield: lui non vuole scendere a compromessi, ed io non voglio aprire bocca fino a quando non mi sarà garantita una via di fuga sicura.

Sono stato già abbastanza preso per il culo dal piccolo genietto, non voglio farmi fregare per l’ennesima volta.

“Allora? Che piano hai in mente?” domanda il portoricano, abbandonando il posto di guida, riferendosi a me.

“Lo porteremo all’Ambasciata americana e ci assicureremo che verrà estradato e riportato in prigione” risponde prontamente il suo migliore amico, guadagnandosi l’ennesima occhiataccia da parte mia.

“Sai una cosa, dolcezza? Sarai intelligente per quanto riguarda le piccole cose, ma quando si tratta di quelle grandi sei proprio uno stupido. Tutto questo non ha senso, state solo commettendo un errore madornale”

“Avanti, sali in macchina e chiudi la bocca. Sucre, voglio che ti siedi a suo fianco e che lo tieni sotto tiro per tutto il tempo del viaggio, per evitare sgradevoli sorprese” ordina Scofield, indicandomi la vettura che mi scorterà verso un’altra reclusione a Fox River.

A nulla servono le parole che sibilo a bassa voce, perché sono costretto a prendere posto sui sedili posteriori, sotto costante minaccia della canna di una pistola puntata contro il mio viso; ed è in questo modo che trascorriamo la maggior parte del viaggio verso l’Ambasciata americana: Michael che guida la vettura, Sucre che non accenna ad abbassare la revolver neppure per mezzo secondo, ed io che me ne sto appoggiato al sedile con gli occhi chiusi, in preda ad un attacco di nausea causato dalla strada disastrata, costellata di buche.

E, nonostante il malessere fisico, cerco di volgere la situazione a mio favore.

“Mi viene da vomitare, non mi sento affatto bene” mormoro, rivolgendo uno sguardo supplicante a Fernando: quest’ultimo si passa nervosamente la lingua sulle labbra e si volta di scatto a guardare il suo Papi.


“Michael, non credo che sia una finta, è davvero pallido come uno straccio. Forse è il caso di fermarsi in ospedale…”
“No, non se ne parla nemmeno. Primo: è un rischio inutile che non sono intenzionato a correre. Secondo: ricordati che l’uomo seduto a tuo fianco è T-Bag” Scofield mi lancia un’occhiata attraverso lo specchietto retrovisore “non sta male, è semplicemente sbronzo e adesso sta facendo i conti con i postumi. Sono sicuro che a Fox River riceverà le migliori cure”

“E come faremo a raggiungere l’Ambasciata senza farci scoprire?”

“Ci fermeremo qualche isolato prima, lo immobilizzeremo con delle corde e poi farò una chiamata anonima. Terremo d’occhio la situazione al riparo da occhi indiscreti”

“E per quanto riguarda Bellick?”

“A quel punto ci occuperemo anche di lui”

“Non riuscirete ad avvicinarvi neppure di un miglio a Bellick” commento con un ghigno, e vengo subito zittito dal piccolo Michelangelo.

“Nessuno ha chiesto il tuo parere, T-Bag”

“Però ha ragione, Michael, come faremo ad avvicinarci a lui se è stato arrestato? Devo ricordarti che c’è in ballo la vita di Maricruz? Che lui l’ha rapita e nascosta chissà dove, senza cibo né acqua, per costringermi a recuperare i cinque milioni di dollari?”.

Mentre i due continuano a blaterare, io sposto la mia attenzione sul pavimento della vettura: Fernando deve averla rubata nei pressi di un’ officina meccanica, perché i tappetini sono cosparsi di attrezzi.

Senza farmi vedere, appoggio il piede destro sopra ad un cacciavite appuntito e lo avvicino a me; mi piego in avanti, con un gemito, fingendo un malore e ne stringo l’impugnatura: prima che uno dei due ex compagni di cella possa rendersi conto di ciò che sto per fare, mi scaglio contro Sucre ed affondo l’estremità appuntita nel suo petto, a poca distanza dal cuore, strappandogli un urlo di dolore.

Estraggo il cacciavite in modo brusco, con un movimento rapido, e tento di riservare lo stesso trattamento al cranio di Michael, ma lui riesce a piegarsi appena in tempo, evitando il mio affondo, ma così facendo perde il controllo della macchina che finisce fuori strada, capovolgendosi.

Per qualche istante non capisco più nulla: il cielo e la terra si fondono in un turbine di colori che gira vorticosamente, fermandosi solo quando la vettura va a sbattere contro il tronco di un albero; mi lascio scappare un gemito a causa di un dolore all’altezza della nuca e poi striscio in direzione della portiera, facendo attenzione a non ferirmi ulteriormente con qualche oggetto appuntito.

Recupero lo zaino, incastrato sotto un sedile, esco dal piccolo abitacolo e, senza perdere altro tempo prezioso, m’inoltro nella giungla.

Non mi volto mai, neppure una volta, neppure per accertarmi delle condizioni fisiche di Scofield e Sucre: forse dovrei sentirmi in colpa per aver colpito Fernando, perché all’interno della vecchia rimessa è stato l’unico ad opporsi debolmente al volere del resto della squadra, dopo il trattamento che Abruzzi aveva riservato alla mia mano sinistra; tuttavia non sento assolutamente nulla, e non sono affatto pentito della mia azione meschina.

Ho dato loro la possibilità di stipulare un accordo vantaggioso, ma non hanno voluto saperne.

Raggiungo un’abitazione, abbandonata da tempo, al centro della giungla: non ho alcun dubbio riguardo al fatto che non rischio di ritrovarmi faccia a faccia con i suoi proprietari, perché i vetri delle finestre sono rotti, ed i mobili al suo interno sono ricoperti da uno spesso strato di polvere e ragnatele; abbandono lo zaino sopra un vecchio materasso ed afferro un coltello, voltandomi appena in tempo per assistere all’ingresso di Michael Scofield.

“Seriamente, dolcezza, che cosa vuoi da me?” gli domando, stringendo la presa attorno all’impugnatura bianca; lui chiude la porta d’ingresso e mi guarda negli occhi: il sopracciglio sinistro è diviso a metà a causa di un profondo taglio, ed un rivolo di sangue gli esce dal naso, congiungendosi alle labbra dello stesso colore acceso.

“Portarti all’Ambasciata americana”

“Sul serio?” chiedo, corrucciando le sopracciglia in un’espressione scettica “tu vuoi solo questo? Consegnarmi alle autorità. Andiamo, pesciolino, qui siamo soli. Siamo entrambi ex galeotti. Possiamo gettare a terra la maschera: se sono i soldi il tuo obiettivo, possiamo trovare un accordo senza spargere una sola goccia di sangue”

“Posa quel coltello prima che la situazioni peggiori ulteriormente”

“No, no, no… No, non funziona affatto così, dolcezza” sussurro, scuotendo la testa “sai, prima ti ho portato rispetto perché eri tu ad avere il coltello dalla parte del manico, ma adesso la situazione si è completamente capovolta. Ascoltami molto attentamente, perché adesso ti dirò quali sono le uniche due opzioni per uscire da questa situazione di stallo: o ci dividiamo a metà il bottino e tu potrai tatuarti… Le gambe, o qualunque altra parte del corpo vorrai, oppure la polizia troverà il tuo cadavere appoggiato a quella sedia, con i pantaloni abbassati fino alle caviglie, perché non sarà stato affatto semplice sodomizzarti. Allora? La tua risposta?”.

Seguo con lo sguardo Michael, senza perdermi un solo movimento: si avvicina ad un lavandino, prende una bottiglia di vetro, la rompe contro il bordo di ceramica, e mi punta contro il collo appuntito, mettendosi in posizione di difesa.

“Quando hai finito di dire stronzate” mi provoca, con un sorrisetto strafottente.

Non me lo faccio ripetere una seconda volta.

Mi scaglio contro di lui con un urlo, pronto a ripagarlo per tutte le offese e le umiliazioni che ho subìto, ma riesce a sfuggirmi ancora, nemmeno avesse l’agilità di un’anguilla; e quando provo ad affondare per la seconda volta la lama del pugnale nel suo petto, proprio come ho fatto con il suo migliore amico, riesce ad evitare il colpo posizionando davanti al suo viso lo zaino.

Approfitta del mio attimo di confusione e sorpresa per assestarmi un calcio, che mi fa cadere a terra e perdere la presa sull’arma bianca, ribaltando così le posizioni, perché mi ritrovo inchiodato alle assi del pavimento, con il piccolo Michelangelo seduto a cavalcioni su di me e con la fredda lama del pugnale premuta contro la mia gola.

In un’altra situazione, in condizioni differenti, non mi sarebbe affatto dispiaciuto essere sottomesso così; ma non è questo il caso.

Tuttavia, anziché imprecare contro il mio avversario, scoppio a ridere divertito.

“Non lo farai mai” dico, con le lacrime che mi solcano le guance “tu non hai le palle di affondare quel…”.

Non riesco a terminare la frase.

La mia risata si trasforma in un urlo straziante quando sento la lama del pugnale affondare in profondità nel mio polso destro, conficcandosi nelle tavole di legno marcio del pavimento.
 

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Capitolo 11
*** Buena Suerte (T-Bag) ***


Fare i conti con i postumi di una sbronza è un’esperienza tutt’altro che piacevole, se poi a questo si aggiunge il fatto di essere arrestati e condotti alla centrale di polizia per essere rinchiusi in una cella comune insieme ad altri criminali, che attendono solo di essere scortati in prigione o che pregano mentalmente perché qualcuno paghi la loro cauzione, allora è una schifezza.

E se a tutto questo si aggiunge l’originale benvenuto che mi dà Bellick, allora diventa una vera e propria merda.

“Bravi! Ottimo lavoro, agenti! Avete preso l’uomo giusto! Bueno!” urla, mostrando i pollici, non appena mi vede arrivare; ma la sua espressione cambia rapidamente quando l’agente che mi ha scortato chiude la cella senza farlo uscire “no! Aspettate! Perché non mi fate uscire? State facendo un terribile errore, io non c’entro nulla con l’omicidio di quella prostituta! È stato lui ad ucciderla! È stato lui a sgozzarla”

“Ti consiglio di risparmiare il fiato. Tanto non parlano la nostra lingua, ed anche se capissero le tue parole, non sono intenzionati a farti uscire” commento, appoggiandomi ad un muro; Brad si volta di scatto verso di me e mi raggiunge zoppicando, a causa del proiettile che è partito dalla mia pistola.

“Che cosa ne hai fatto dei soldi?”

“Non ce li ho con me, razza di idiota, se li è presi Scofield dopo avermi lasciato questo ricordino” rispondo, mostrandogli il polso destro: la manica della camicia è completamente ricoperta di sangue raffermo “mi ha conficcato la lama di un pugnale proprio qui, e poi mi ha lasciato agonizzante, in attesa dell’arrivo della polizia. E quando gli agenti sono arrivati, mi hanno portato in ospedale per darmi una piccola sistemata prima di scortarmi qui dentro. Guarda in faccia la realtà: Scofield è fuori con una scala reale e tu sei al fresco con una misera coppia… Deve essere dura per te da accettare”

“Se è per questo, tu non sei in condizioni migliori delle mie”

“Ti sbagli” ribatto con prontezza “perché io ho ancora un asso nella manica da giocare”

“Sai qualcosa di cui noi non siamo a conoscenza?”

“Perché non pensi a riposare la gamba, cowboy?” dico, con disprezzo, allontanandomi dall’ex Capo delle guardie di Fox River, avvicinandomi ad una finestra munita di sbarre per godermi un po’ la luce del sole, anche se in questo momento ciò di cui avrei davvero bisogno è un bel bagno caldo ed un paio di vestiti puliti; lui, però, non si arrende, e dopo qualche minuto ritorna all’attacco.

“Quanti ne hai spesi?”

“Ohh, centomila… Duecento… Qui è come se fosse un milione, sai… Con tutti quei soldi in mano ti senti il Re Sole di Panama”

“Ve la siete proprio spassata alla grande tu e la dottoressa… A proposito, che fine ha fatto la biondina dagli occhi blu?”

“Ormai non era più divertente” commento, scrollando le spalle, e questa volta è il turno di Brad di provocarmi.

“Balle, stai raccontando solo palle. Se per te fosse stato solo un divertimento, non mi avresti mai consegnato la chiave della cassetta di sicurezza, non avresti mai rinunciato ai cinque milioni. Non mi dire che ti ha dato il benservito” sollevo gli occhi di scatto, colto alla sprovvista dalla sua intuizione “a giudicare dal tuo sguardo direi proprio che è andata così: la bella dottoressa dai lunghi capelli dorati e dagli occhi blu, come il mare, se ne è andata dopo aver spezzato il cuoricino al povero e piccolo Teddy. A quanto pare la puttanella si è rivelata meno stupida di quello che pensavo”.

Non sono intenzionato a cedere, non sono così stupido da lasciarmi coinvolgere in una rissa proprio adesso, e così mi limito a distendere le labbra in un ampio sorriso.

“Quel sorriso da gatto siamese mi fa venire voglia di cancellartelo con un pugno”

“È lo stregatto. È il sorriso dello stregatto”.

La nostra conversazione viene interrotta da una guardia, la stessa di qualche minuto prima, che apre la porta della cella e richiama Bellick, facendogli capire che può uscire; nel volto del grasso maiale appare un’espressione trionfante che rivolge a me, prima di zoppicare in direzione dell’uomo in divisa, assaporando già la ritrovata libertà: la speranza, però, svanisce bruscamente nello stesso momento in cui i polsi gli vengono bloccati da un paio di manette.

“Ehi! Che cosa state facendo? Si può sapere che cosa state facendo? Avete preso l’uomo sbagliato!” protesta lui, invano, mentre viene scortato quasi con forza lungo il corridoio; tutto ciò che ottiene in risposta sono due parole in spagnolo: buena suerte “buena suerte? Si può sapere che cosa significa ‘buena suerte’?”

“Buona fortuna” sussurro, avvicinandomi alle sbarre “significa ‘buona fortuna’, amico mio”.



 
Le ore trascorrono con una lentezza estenuante, soprattutto a causa del caldo soffocante che regna all’interno della stazione di polizia, ma alla fine ricevo l’agognata visita del misterioso uomo che mi ha assoldato; e dopo essermi avvicinato alle sbarre, ed avergli fatto notare che è arrivato con fin troppa calma, gli chiedo con impazienza quando potrò finalmente essere un uomo libero.

“Diciamo che… C’è stato un piccolo imprevisto” risponde lui, vago, continuando a guardarsi attorno: vuole liquidarmi il più in fretta possibile, ma io non sono intenzionato a cedere prima di aver ottenuto ciò che mi è stato promesso.

“Un piccolo imprevisto? Ho fatto esattamente ciò che mi è stato ordinato. Ho seguito tutte le fasi del piano alla lettera”

“Ma il piano non prevedeva di farti beccare, Bagwell”

“Ma è successo durante la messinscena, mentre recitavo la parte dell’esca! Sono stato di parola, bello, perché grazie a me Scofield è venuto a Panama” ringhio, stringendo con più forza una sbarra di metallo, ma l’uomo scuote la testa, rifiutandosi di muovere un solo dito per farmi uscire da questo maledetto buco, simile ad una caldaia.

“Sei stato arrestato, Bagwell” ripete, scuotendo la testa: mi volta le spalle e si allontana in direzione dell’uscita, lasciandomi senza parole.

“No, no, no, no…” mormoro, sbattendo più volte le palpebre, prima di esplodere “non puoi lasciarmi qui! Non erano questi i patti! Ho fatto tutto quello che mi è stato chiesto! Ho mantenuto la parola data! Ho mantenuto la parola data!”.

L’uomo misterioso, di cui tutt’ora ignoro l’identità, si volta a guardarmi un’ultima volta, e poi varca la soglia di una porta, scomparendo definitivamente dal mio campo visivo; guardo in direzione della stanza, con il petto che si alza ed abbassa velocemente, con la speranza di vederlo ritornare sui suoi passi, ma non accade nulla di tutto ciò.

Ed a me non resta altro che allontanarmi dalle sbarre e lasciarmi cadere su una panca di legno, passandomi la mano destra tra i capelli.

E adesso, penso, che cosa ne sarà di me?

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Capitolo 12
*** What The Hell Is Sona? (Nicole) ***


Il mio peggior incubo assume una forma concreta al momento del mio risveglio: quando apro gli occhi, infatti, anziché vedere il mio uomo, trovo un posto vuoto affianco a me.

“Teddy? Teddy, dove sei?” domando, alzandomi dal letto, mi rivesto velocemente e lo cerco prima in terrazza e poi in bagno, ottenendo lo stesso risultato: non c’è da nessuna parte, sembra essere sparito senza aver lasciato alcuna traccia, ed il panico si fa subito strada in me.

Dove è andato?

Perché non è qui?

Si è cacciato in qualche guaio?

Trovo in parte risposta a queste domande nel momento in cui esco dal bagno, e noto un foglietto abbandonato sopra al materasso, che prima ho completamente ignorato; lo prendo in mano e leggo a bassa voce le poche righe scritte con l’inchiostro nero: 312 Olivera Ave., Secondo Piano- Porta Rossa.

Ripenso subito al giorno prima, allo strano discorso di Teddy su un misterioso uomo che gli avrebbe affidato una missione da svolgere, alle due pistole ed al foglietto che avrebbe ricevuto: adesso che ho tra le mani proprio il pezzo di carta, la sua storia non mi sembra più così assurda.

Sta andando incontro all’ennesimo guaio, ed io devo impedirlo in qualunque modo, prima che i nostri piani per un futuro insieme svaniscano definitivamente.

Mi precipito alla porta, abbasso la maniglia e mi trovo costretta a fare i conti con una spiacevole sorpresa: non posso uscire dalla stanza perché è chiusa a chiave.

Non perdo neppure tempo a cercare la chiave nella camera da letto perché è chiaro che la porta è stata chiusa dall’esterno da qualcuno, e quel qualcuno non può che essere Theodore; per un momento mi chiedo per quale motivo lo abbia fatto, e riesco a trovare una sola risposta alla mia stessa domanda: probabilmente non mi ha svegliata e mi ha chiusa qui dentro per proteggermi, per non mettere in pericolo la mia vita.

Ma così facendo, sta rischiando la sua ancora una volta.

Potrei battere i pugni contro il legno e gridare, nella speranza di essere sentita da una donna delle pulizie, ma rischierei di perdere altro tempo prezioso, e così opto per una soluzione più rapida, ma terribilmente stupida, pericolosa ed immatura: sistemo lo zaino, che ho portato con me, sulle spalle, esco in terrazza, scavalco la balaustra di metallo e mi aggrappo alla tubatura dell’acqua, che scende fino al terreno.

Lentamente mi lascio scivolare, rafforzando la presa attorno al tubo, con le suole delle scarpe ben piantate sulla facciata dell’hotel; non guardo mai verso il basso, per paura di avere un attacco di vertici e perdere la presa sul mio unico sostegno, e quando i miei piedi toccano l’erba del giardino, sono costretta a prendere un paio di profondi respiri perché le gambe mi tremano come gelatina, ma non appena ritorno padrona del mio corpo, corro in strada alla ricerca del 312 di Olivera Ave.



 
Trovare l’indirizzo si rivela un’impresa molto più semplice di quello che pensavo, non devo neppure chiedere informazioni sforzandomi di parlare uno stentato spagnolo, perché vengo subito attirata da una consistente folla radunata attorno ad un imponente edificio, che corrisponde proprio a ciò che è scritto nel foglio che ancora stringo nella mano destra.

Mi faccio strada tra la marea di curiosi per avvicinarmi il più possibile al nastro, giallo fosforescente, della polizia, appena in tempo per vedere due uomini della scientifica uscire da una porta rossa (la stessa porta rossa citata nel messaggio) e reggere una barella su cui è adagiato un cadavere coperto da un lenzuolo bianco; sento il sangue ghiacciarsi nelle vene perché i miei pensieri vanno immediatamente a Theodore ed immagino il peggiore degli scenari: non è riuscito a portare a termine la missione che gli è stata affidata e lo hanno freddato con un colpo di pistola alla testa.

Prima che qualcuno abbia la prontezza di fermarmi, scavalco il nastro giallo e mi avvicino alla barella, sotto lo sguardo incredulo di tutti i presenti, sollevo il lenzuolo bianco e ciò che si presenta davanti ai miei occhi mi strappa un piccolo grido d’orrore: il corpo non appartiene a Teddy, ma ad una donna portoricana con la gola squarciata da orecchio ad orecchio.

Retrocedo di qualche passo e porto entrambe le mani alla bocca, cercando di calmarmi e di riprendere fiato.

Il mio uomo è ancora vivo, e questo pensiero mi fa sentire più sollevata, ma quella povera ragazza è stata uccisa da lui senza un apparente motivo.

Ormai, mi basta un semplice sguardo per riconoscere il suo personale tocco.

Scappo dalla scena del crimine evitando, così, di essere fermata da qualche agente e di essere tempestata di domande riguardo al mio bizzarro comportamento, e questa volta sono costretta a chiedere informazioni, supplicando a mani congiunte diversi passanti di dirmi come posso raggiungere la stazione di polizia di Panama City, perché ho il terribile e quasi certo sospetto che troverò Theodore lì dentro.

Ma la mia sensazione, purtroppo, si rivela completamente errata.

Quando arrivo alla stazione, infatti, non c’è traccia di lui tra gli uomini rinchiusi nella cella in comune, ma non sono intenzionata ad arrendermi senza aver ottenuto informazioni su dove si trovi il mio uomo in questo preciso istante; parlo con alcuni uomini in divisa, fornendo una descrizione fisica accurata di Teddy, gesticolando perfino, ma mi scontro di nuovo con una barriera insormontabile: la lingua.

Non capiscono o fanno finta di non capire ciò che dico.

Mi afferro delle ciocche di capelli, stringendoli con forza, e scoppio in lacrime, sentendomi vicina ad un esaurimento nervoso.

Una ragazza, impietosita dal mio pianto, si fa avanti e si offre di farmi da interprete, a patto che mi calmi e che ritorni in me; annuisco, cercando di fermare il flusso di lacrime, ripeto ciò che ho cercato di spiegare alla guardia, dicendole che si tratta di una questione della massima urgenza, e lei traduce parola per parola in spagnolo, ricevendo finalmente una risposta.

“Dice che l’uomo che stai cercando è stato qui fino ad un paio di ore fa. Adesso è stato trasferito a Sona”

“Sona?” domando, senza capire “e si può sapere che diavolo è Sona?”.
 
 

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Capitolo 13
*** An Ally?; Parte Uno (Nicole) ***


Quando arrivo a Sona, vengo accolta da una spiacevole sorpresa: un secondino mi spiega che l’orario di visita sta per finire; ciò significa che non può farmi passare e che devo attendere fino al primo pomeriggio del giorno seguente.

“La prego!” provo ad insistere, supplicandolo con lo sguardo “si tratta di una questione della massima importanza! Ho bisogno di vedere il mio uomo in questo stesso momento, ho bisogno di sapere che stia bene, le prometto che non le ruberò molto tempo! Sarà questione di qualche minuto, il tempo di vederlo e di scambiare qualche parola con lui, e me ne andrò subito. Sono sicura che potrà fare un’eccezione, almeno per una volta!”

“Mi dispiace, ma questo è impossibile, deve tornare domani. Le consiglio di uscire e di non insistere per non aggravare la situazione” risponde l’uomo, completamente sordo ed impassibile alla mia richiesta, e non mi resta altro che seguire il suo consiglio per non beccarmi una denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale, perché sento di essere vicina a perdere la pazienza e ad alzare le mani: esco dall’ufficio, torno in strada, e mi lascio scivolare lungo il muro alle mie spalle, ritrovandomi seduta sul marciapiede deserto e polveroso.

Avvolgo le braccia attorno alle gambe ed appoggio la fronte sulle ginocchia, chiudendo gli occhi, e resto immobile, ripiegata su me stessa, finché una voce maschile non attira la mia attenzione; sollevo lo sguardo e mi rendo conto che proprio di fronte a me c’è un uomo alto e robusto, dalle spalle larghe e dal fisico prestante: indossa un paio di jeans, una camicia nera quasi completamente sbottonata, con le maniche appallottolate all’altezza dei gomiti, ed un paio di lenti scure.

Si toglie gli occhiali da sole e mi rivolge uno sguardo perplesso, che io ricambio con uno ostile, visto che l’ultima ed unica volta in cui ci siamo visti mi ha detto, senza mezzi termini, che mi considera una pazza.

“Allora sei davvero tu. Si può sapere che cosa ci fai, qui, seduta sul marciapiede?”

“Potrei rivolgerti la stessa domanda, Lincoln Burrows” rispondo, socchiudendo gli occhi “in ogni caso sto aspettando, non è abbastanza evidente?”

“E si può sapere che diavolo stai aspettando?” mi domanda ancora; questa volta resto in silenzio, e mi stringo nelle spalle: non mi va di dargli spiegazioni sul perché sono a Panama, perché Teddy odia sia lui che Michael, ed io sono fedele al mio uomo “d’accordo, se non vuoi dirmelo, non sono intenzionato ad insistere… Almeno hai un posto dove trascorrere la notte?”

“No”

“Allora, forse, faresti meglio a seguirmi”.

Mi giro di scatto verso Burrows e gli rivolgo uno sguardo sprezzante, socchiudendo le labbra in un sorriso.

“Sul serio mi stai chiedendo di seguirti? E per quale motivo dovrei farlo, dal momento che mi consideri una pazza instabile?”

“Guarda che io lo dico per te. Panama non è il luogo migliore per una ragazza giovane e completamente sola, soprattutto quando cala la notte. Se resterai qui, su questo marciapiede, potresti rischiare di fare degli incontri molto spiacevoli… A questo non hai pensato? Quindi, se vuoi accettare la mia proposta, questa è la tua ultima possibilità”.

Lincoln inforca nuovamente gli occhiali da sole ed attraversa la strada per raggiungere il marciapiede dall’altra parte; osservo la schiena dell’uomo, in silenzio, riflettendo velocemente sulle due opzioni che ho a mia disposizione: o resto qui a fare la bella statuina per tutto il resto del giorno e della notte, a mio rischio e pericolo, o accetto il suo aiuto non richiesto.

La scelta, mio malgrado, si rivela molto semplice a causa di una domanda, che una vocina mi sussurra nelle orecchie, e che mi fa piegare le labbra in una smorfia contrariata: senza Teddy a mio fianco, come posso sperare di cavarmela nelle strade di Panama in piena notte?

“Aspettami!” urlo, in modo che il fratello di Scofield possa sentirmi.

Mi alzo dal marciapiedi, ripulendomi i pantaloni dalla polvere, raccolgo il mio zaino e lo raggiungo a passo veloce.



 
“Prego” dice Burrows: apre la porta di una camera e si fa da parte, in modo che io entri per prima “non so se qualcuno te lo ha già detto, ma ti sconsiglio di bere l’acqua del rubinetto perché potresti beccarti qualcosa di poco piacevole. Se hai sete, prendi una lattina dal minibar”.

Ascolto distrattamente le sue parole mentre lascio cadere a terra lo zaino, mi avvicino ad una finestra per osservare il panorama, incrociando le braccia,  e gli rivolgo una domanda senza guardarlo negli occhi.

“Perché sei a Panama?”

“Sto ancora aspettando la tua risposta a questa domanda”

“Devo fare visita ad una persona che è stata rinchiusa a Sona” mormoro, mi volto finalmente verso Lincoln e gli mostro la fede che ho ripreso ad indossare all’anulare sinistro: l’altra, quella di Teddy, la custodisco sempre appesa al collo, in attesa dell’occasione giusta per restituirgliela; gli occhi chiari di Burrows si spalancano alla vista del piccolo cerchio dorato, e mi guarda come se fossi davvero una pazza furiosa ed instabile di mente.

“Lo hai sposato? Vi siete sposati?”

“Sì, un paio di settimane fa, a Las Vegas”

“Non ci posso credere” commenta, passandosi una mano sulla testa completamente rasata e scuotendola “sei ancora più pazza di quello che credevo”

“Smettila! Tu non sei nessuno per poter giudicare me e lui!” esclamo, seccata e per nulla intenzionata a rimanere zitta come ho fatto nello Utah, perché in quel caso dovevamo recuperare i cinque milioni di Westmoreland il più in fretta possibile, in una vera e propria lotta contro il tempo “io e Teddy abbiamo deciso di ricominciare una nuova vita insieme, nel migliore dei modi, ed il matrimonio ci è sembrato il perfetto punto di partenza. Che senso aveva aspettare, dopotutto?”

“Già, non aveva alcun senso, soprattutto perché ogni ragazza sogna di sposare un maniaco sessuale che soffre di manie di grandezza e che non si fa problemi ad uccidere chiunque gli capiti tra le mani. In verità, sono sorpreso di vederti ancora viva, non credevo che saresti resistita così tanto nelle mani di T-Bag, visti i suoi precedenti, e se fossi una persona intelligente, approfitteresti di questa occasione per scappare il più lontano possibile e dimenticarti di lui”

“Parli così solo perché sei un grosso bestione ignorante. Tu non sai nulla di Theodore, a te non ha mai mostrato il suo vero volto”

“Riguardo a questo credo che ti stia sbagliando, tesoro, perché il suo vero volto lo ha mostrato a me ed al resto della squadra. A te ha mostrato la stessa maschera che devono aver visto le sue vittime prima di essere state uccise e fatte a pezzi” ribatte Lincoln, in tono duro, prendendo le distanze dalla mia posizione; il modo in cui continua a fissarmi, come se davanti ai suoi occhi avesse una bestia rara, mi irrita a tal punto da spingermi a chiedergli spiegazioni “ti guardo in questo modo perché non riesco davvero a capire che cosa passa per la tua testa, non riesco a capire se T-Bag ti ha fatto un lavaggio del cervello o se ha avuto la ‘fortuna’ di trovare un mostro come lui”

“Con quale coraggio dici questo? Tu non immagini neppure quello che ho passato”

“Dico questo perché sei indifendibile. Capirei se ti avesse sposata con l’inganno, presentandosi come un’altra persona, ma tu sei salita sull’altare pienamente cosciente dell’uomo che avevi davanti ai tuoi occhi e dei crimini di cui si è macchiato le mani. Come potrei difenderti od essere comprensibile nei tuoi confronti?”.

Rivolgo uno sguardo rancoroso al giovane uomo, senza degnarlo di una risposta, e poi torno a concentrarmi sul panorama che si gode dal quinto piano dell’hotel.

Sono stanca, agitata, e per nulla intenzionata a proseguire la discussione con Burrows: lui considera Teddy un mostro orribile per ciò che ha fatto, su questo è inamovibile, insistere equivarrebbe solo ad urlare contro un muro, ed io non ho voglia di consumarmi inutilmente le corde vocali a causa di uno stupido gorilla dalla testa dura.

Tutto ciò che desidero, adesso, è vedere il mio uomo il prima possibile, chiarire quello che è successo e, magari, studiare un modo per farlo uscire di prigione.
 

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Capitolo 14
*** An Ally?; Parte Due (Nicole) ***


Io e Burrows non ci rivolgiamo più la parola.

Neppure il giorno seguente, quando mi preparo ad uscire dalla camera, mi pone qualche domanda o qualche commento sprezzante sulla mia presunta instabilità mentale; in verità, non mi degna neppure di una semplice occhiata, quasi fossi invisibile, ma io non me ne faccio un cruccio personale: non ho tempo da perdere con lui, non ho voglia di litigare, voglio solo vedere Theodore e sapere che non mi devo preoccupare delle sue condizioni fisiche.

Voglio solo abbracciarlo, stringerlo a me, sentire la consistenza del suo corpo e respirare il profumo della sua pelle; ma non appena arrivo a Sona, riuscendo finalmente ad ottenere il permesso di far visita al mio uomo, mi scontro con un altro ostacolo di cui ignoravo completamente l’esistenza: a Sona non esiste una stanza per le visite, come in qualunque altra prigione.

Gl’incontri avvengono all’aperto, in un cortile, sotto lo sguardo vigile delle sentinelle appostate nelle quattro torrette di sorveglianza: l’alta recinzione, che percorre il perimetro dell’edificio, impedisce un contatto diretto, e come se ciò non fosse già abbastanza doloroso, dalla mia parte c’è una balaustra di ferro che non mi permette di avvicinarmi agli anelli metallici.

In poche e semplici parole, ogni contatto fisico e diretto tra i detenuti ed i loro visitatori è vietato; ed ogni trasgressione è sicuramente punita severamente: so per certo che se provassi ad allungare una mano, rischierei di beccarmi una pallottola in corpo, proprio come è quasi accaduto a Fox River durante uno dei miei primi incontri con Teddy.

Mi stringo nelle spalle, in attesa di vederlo arrivare, e quando lo vedo uscire da una porta metallica che si richiude immediatamente alle sue spalle, il mio cuore perde un paio di battiti per diversi motivi.

Non si tratta solo dell’emozione di rivederlo.

Non sta bene.

Mi basta una sola occhiata per capire che non sta affatto bene; anche se è passato pochissimo tempo dall’ultima volta in cui ci siamo visti, il suo viso sembra essere molto più magro e sciupato, e si trova nelle stesse condizioni della camicia e del paio di pantaloni che indossa: sporco di terra e di sudore.

Attraversa il cortine a capo chino, si ferma davanti alla rete metallica e solo allora solleva il viso e mi guarda negli occhi, restando in silenzio.

Anche il suo sguardo è completamente cambiato, non è più vacuo e lontano, ma attento e presente, segno che la sbronza si sta trasformando in un lontano e spiacevole ricordo, tuttavia preferisco rivolgergli una domanda generica, proprio per testare la sua lucidità.

“Ehi…” mormoro, schiarendomi la gola, spostando il peso del corpo da un piede all’altro “come stai?”

“Si può sapere che cazzo sei venuta a fare qua?” mi domanda, a sua volta, rivolgendo lo sguardo altrove, appoggiandosi alla recinzione con la spalla sinistra; le sue parole, fredde ed inaspettate, mi gelano il sangue nelle vene e sono costretta a deglutire, prima di fare un secondo tentativo.

“Perché dici così?”

“Dovresti saperlo molto bene. Allora, si può sapere che cazzo sei venuta a fare qua?”

“Sei stato tu a chiamarmi” dico, ripercorrendo a voce quello che è accaduto negli ultimi giorni “hai detto che avevi bisogno di me, che dovevo venire subito a Panama o avresti potuto fare qualcosa di stupido, e quando sono arrivata all’hotel in cui alloggiavi, ti ho trovato completamente sbronzo nella vasca del bagno. Mi sono presa cura di te e poi… Poi sei sparito senza dire una sola parola, ho trovato un biglietto con un indirizzo, sono andata alla centrale di polizia e mi hanno detto che eri stato trasferito qui… Non ricordi davvero nulla di tutto questo?”.

Lui resta in silenzio e scuote la testa, passandosi la mano destra tra i capelli, che ormai sono tornati ad essere del loro colore naturale: non sono affatto sorpresa di vedere che non conserva un solo ricordo degli ultimi quindici giorni, visto che non ha fatto altro che svuotare bottiglie di whisky, ciò che mi spiazza davvero è la freddezza con cui mi sta trattando.

“E chi mi assicura che non siano solo balle?”.

Spalanco gli occhi e la bocca, incredula, perché proprio lui, un bugiardo patologico, ha il coraggio di rivolgere tale accusa a me.

“Per quale motivo dovrei raccontarti una bugia?” chiedo, sconcertata “vuoi una prova concreta di quello che ti sto dicendo? Hai un taglio lì, sul lato destro della testa, che ti sei procurato da solo con una pistola: quando ti ho chiesto spiegazioni, hai biascicato qualcosa sul fatto che hai provato a giocare alla roulette russa. E a giudicare dalle tue condizioni, credo che avrai ancora un fastidioso mal di testa”

“D’accordo, ammettiamo che tutto quello che hai appena detto sia vero” mormora lui, dopo essersi sfiorato la ferita con le dita della mano destra, accertandosi della sua esistenza “hai avuto comunque un enorme fegato a presentarti qui ed a pretendere una visita. E sai benissimo il perché”

“A tal proposito” dico, facendomi avanti, dal momento che Theodore ha introdotto per primo l’argomento “volevo parlare con te riguardo a quello… Riguardo al modo in cui ci siamo lasciati, perché dopo gli avvenimenti degli ultimi giorni ho avuto molto tempo per riflettere e mi sono resa conto che…”.

Non riesco a terminare la frase perché Teddy scoppia a ridere.

“Riflettere? Riflettere su che cosa, esattamente? Sappiamo benissimo che cosa è successo e perché è successo, non c’è altro da aggiungere. Hai trovato il mio messaggio?”

“Sì” rispondo, senza la minima esitazione, perché capisco che si sta riferendo alla fede abbandonata sopra al nostro letto.

“E non è stato già abbastanza chiaro?” mi chiede con un sorriso, evitando sempre il mio sguardo “adesso ti saluto, Nicole, e se sei una persona intelligente, non proverai mai più a tornare in questo posto”

“No!” esclamo, mentre lui si allontana, con la speranza di farlo tornare sui suoi passi “non puoi dirmi questo! Quando ho ricevuto la tua telefonata, mi sono precipitata subito a Panama, mi sono presa cura di te e quando ho saputo che ti avevano portato in questa prigione, sono venuta il prima possibile per riuscire a vederti ed a parlarti. Non puoi… Io… Mi dispiace, voglio provare a rimediare, lasciami una possibilità, per favore!”.

Theodore fa ritorno da me: percorre velocemente i pochi metri che ci separano, ed afferra gli anelli di metallo con la mano sana.

Adesso non ha più lo sguardo rivolto altrove, le sue pupille scure sono fisse nei miei occhi e mi sento trafitta da esse.

“Potevi pensarci prima di spezzare il mio cuore e di ridurlo in così tanti piccoli pezzi che non riuscirò mai a ritrovare del tutto” ringhia a denti stretti, con uno sguardo carico di odio che mi lascia completamente raggelata e disorientata “adesso è troppo tardi, ed io non voglio avere più nulla a che fare con te. Dovresti ritenerti fortunata, visto che sei ancora viva e sei in grado di camminare con le tue gambe. Vattene via, la tua sola presenza mi disgusta”.

E con queste ultime, categoriche, parole il mio ex compagno mi volta le spalle; provo a chiamarlo più volte, urlando il suo nome, ma lui mi ignora completamente e sparisce dietro la porta metallica da cui è uscito qualche minuto prima.

Continuo a fissare la porta con la speranza di vederla riaprirsi, ma quando capisco che questo non accadrà, ritorno anch’io sui miei passi, allontanandomi da Sona il più in fretta possibile.



 
Al mio rientro in albergo trovo la stanza completamente vuota, e ciò non mi dispiace affatto: dopo il disastroso esito che ha avuto l’incontro tra me e Theodore, l’ultima cosa che desidero è dover affrontare gli sguardi critici di Burrows e le sue domande inopportune.

Tutto ciò che voglio, ora, è sentire la stanchezza, la delusione, ed il dolore scivolare via sotto il getto d’acqua della doccia, ed è proprio dentro al piccolo abitacolo in bagno che trovo un rifugio momentaneo, completamente distaccato dal resto del mondo; un nascondiglio in cui ripiegarmi su me stessa e piangermi addosso, senza il timore di essere vista o sentita da qualcuno: già sapevo che non sarebbe stato semplice, che Teddy non mi avrebbe perdonata in un battito di ciglia, ma non credevo di disgustarlo a tal punto.

L’acqua riesce a darmi un sollievo fisico, ma non può fare nulla contro la tempesta che si agita dentro di me; quando torno in camera, avvolta in un morbido accappatoio di spugna, mi sento esattamente come prima: stanca, delusa e spaccata a metà dal dolore.

Non ho neppure la forza di vestirmi, semplicemente mi lascio cadere su un divanetto, mi stringo nelle spalle e fisso il vuoto, finché l’arrivo di Lincoln non mi riporta alla realtà.

“Non dovresti indossare qualcosa di più consono?” domanda, togliendosi gli occhiali da sole e soffermandosi a guardare l’accappatoio; le sue iridi chiare, di un colore indefinito tra l’azzurro ed il verde, vagano per qualche istante sul mio corpo prima di concentrarsi sul mio viso “che diavolo ti è successo?”

“Vuoi saperlo davvero?” lo stuzzico, stringendo le labbra, ma le mie difese crollano subito perché ho bisogno di parlare con qualcuno, di sfogarmi; ed anche se non riesco a sopportare la sua presenza, purtroppo in questo momento Lincoln è l’unica valvola di sfogo che ho a mia disposizione “sono stata a Sona”

“Ohh, giusto, la visita coniugale. Sei riuscita a vedere il tuo uomo?”

“Sì, e non è andata molto bene” mormoro, passandomi le braccia attorno ai fianchi; so che a Burrows non importa minimamente di ascoltare i miei problemi, ma a causa dell’occhiata disperata che gli lancio, fa un cenno con la testa, facendomi capire di proseguire con il mio resoconto “pensavo che saremmo stati faccia a faccia, in una stanza, invece abbiamo parlato attraverso la recinzione. Sona non è una prigione come tutte le altre, vero?”

“No, non lo è affatto. Fox River è un paradiso in confronto. E, credimi, te lo sto dicendo io”.

Ed io gli credo ciecamente, perché me lo sta dicendo un uomo che era condannato alla sedia elettrica.

“E perché è così diversa?”

“Dopo, forse, te lo spiegherò. Raccontami dell’incontro adesso” dice Burrows, accomodandosi su una poltroncina di fronte a me.

“Non c’è molto da raccontare, in verità, perché abbiamo parlato per pochi minuti e poi lui se ne è andato. Era così furioso con me, che non voleva neppure guardarmi in faccia e credeva che gli avessi raccontato un mare di cazzate e… E mi ha anche detto che lo disgusto”

“Cavolo” commenta il mio interlocutore, sollevando entrambe le sopracciglia, in un tono palesemente ironico “anche se sono affari che non mi riguardano e non m’interessano, a questo punto non posso non chiedertelo: cosa è successo di così grave tra voi due che in poco tempo siete passati da una coppia di novelli sposini felici a… Questo?”.

Eccolo.

Finalmente è arrivato il momento di confessare ciò che non ho avuto il coraggio di dire a Karla, e questa volta non posso più tirarmi indietro.

“Il passato” rispondo, con un profondo sospiro.

“Il passato?”

“Teddy amava un’altra donna prima d’incontrare me. Aveva giurato che si trattava di una storia finita, che non provava più nulla per lei, ed io gli ho creduto… Ma poco tempo dopo il nostro matrimonio, durante un momento di… Intimità… Dalle sue labbra non è uscito il mio nome, ma quello della sua ex compagna, e lì ho capito che non era vero tutto quello che mi aveva detto: non l’aveva affatto dimenticata e desiderava ancora stare con lei” mormoro, abbassando lo sguardo sul divanetto color panna, strofinando i piedi sulla stoffa “mi sono sentita un ripiego. Teddy ha provato in qualunque modo a convincermi che si era trattato solo di uno spiacevole errore, ma ormai il danno era stato fatto, e così ho agito di conseguenza: ho finto di perdonarlo e l’ho ripagato con la sua stessa moneta”

“Cioè?”

“L’ho tradito” dico tutto d’un fiato, togliendomi un peso dal petto “e poi gli ho fatto trovare delle prove che non lasciavano alcun dubbio. Volevo che capisse come io mi ero sentita, non immaginavo che avrebbe reagito in modo così violento”.

Guardo Lincoln negli occhi e lui ricambia, ma questa volta si sofferma sulla piccola macchia che ho ancora attorno all’occhio sinistro e sulle altre che spiccano sulle mie gambe: non sono più rosse e violacee, tuttavia sono ancora ben visibili, ma almeno adesso è più semplice camuffarle con del fondotinta.

Il giovane uomo serra la mascella e stringe i denti, rivolgendomi uno sguardo duro.

“È stato lui a farti quei lividi?”

“Sì”

“E tu vorresti riconciliarti con un uomo che non ha esitato ad alzare le mani su di te? Dovresti ritenerti fortunata ad essere ancora viva e dovresti andartene da Panama”
“Ma non posso e non voglio farlo, non senza Teddy almeno. Io lo amo e voglio tornare insieme a lui”

“Ma lui non prova lo stesso per te, e sono sicuro che non ha mai provato nulla neppure per la sua ex compagna” ribatte Burrows, irritandosi perché non riesco a capire ed a condividere il suo personale pensiero sul mio uomo “T-Bag non è in grado di amare nessuno al di fuori di se stesso”

“Ti sbagli, lui non è affatto così. Durante le settimane che abbiamo trascorso insieme, ha avuto tantissime occasioni per sbarazzarsi di me, eppure non lo ha mai fatto” rispondo, prontamente, preferendo cambiare argomento “prima hai detto che Fox River era un paradiso in confronto a Sona, perché? Che cos’ha di diverso?”

“Due giorni fa ho parlato con l’ambasciata americana. Un funzionario mi ha spiegato che Sona era una prigione come tutte le altre fino ad un paio di anni fa: i detenuti si sono ribellati, dando inizio ad una rivolta così violenta che i secondini sono stati costretti ad abbandonare l’edificio per non rischiare di perdere letteralmente la testa. Credevano che fosse una questione di giorni, che i detenuti si sarebbero ammazzati tra loro e che i sopravvissuti avrebbero alzato bandiera bianca, quando le provviste e l’acqua avrebbero iniziato a scarseggiare, ma questo non è accaduto. A quanto pare sono riusciti a creare un vero e proprio regno a parte, con regole a parte, e le guardie sono costrette a sorvegliare l’intero edificio dall’esterno, dalle torrette di sorveglianza” spiega Lincoln, rigirandosi gli occhiali da sole tra le mani “ecco perché le visite avvengono in questo modo”

“E perché sei andato all’ambasciata americana?” chiedo, corrucciando le sopracciglia, e d’un tratto la soluzione si palesa davanti ai miei occhi “tuo fratello è stato rinchiuso lì dentro?”

“Questi non sono affari che ti riguardano, e adesso faresti meglio ad indossare qualcosa”.

Serro di nuovo le labbra, offesa dalla brusca risposta del giovane uomo: non vuole dirmi una sola parola perché sto dalla parte di Teddy, e di conseguenza non si fida di me.

“Sei davvero sicuro che non esista un modo per entrare a Sona?” domando, mentre Lincoln si alza dalla poltroncina.

“Scordatelo” mi ammonisce subito lui, puntandomi contro gli occhiali “ho già abbastanza problemi di cui devo occuparmi, non ho bisogno di altri. Levati qualunque strana idea dalla testa”.

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Capitolo 15
*** Hell Is A Place On Earth; Parte Uno (T-Bag) ***


Raggiungo il giovane uomo seduto all’ombra di un porticato, che continua a rigirarsi un origami di carta a forma di gru tra le mani; appoggio la schiena ad un pilastro di cemento e gli rivolgo un ampio sorriso.

“È da un po’ che ti sto osservando” commento, continuando a sorridere “ti ostini sempre a giocare da solo, dolcezza?”.

Michael distoglie gli occhi dal foglietto ripiegato e mi rivolge un ghigno appena abbozzato, seguito da una battutina.

“Come va con i postumi della sbronza?”

“Ormai è acqua passata, ci vuole ben altro per mettermi al tappeto” rispondo, evitando accuratamente di fare cenno al mal di testa che ancora non vuole saperne di darmi tregua, né di giorno né di notte; di notte, se possibile, è ancora peggio perché nel silenzio rimbomba con la stessa forza molesta di un trapano pneumatico “allora?”

“Allora cosa?”

“Io ho risposto alla tua domanda, dolcezza, dovresti fare lo stesso anche tu. Mammina non ti ha mai insegnato che è maleducazione non rispondere alle persone?”

“Se il punto delle questione sono i cinque milioni di dollari, faresti meglio a dimenticarteli perché sono diventati cibo per pesci insieme allo zaino che li conteneva. Non per mia scelta, ovviamente” commenta Michael, spiazzandomi totalmente: chi può essere così pazzo da gettare a puttane uno zaino pieno di dollari verdi e fruscianti? “però dovresti ritenerti fortunato, visto che sei l’unico che è riuscito a spendere una parte del bottino di Westmoreland, anche se per un breve lasso di tempo”

“Tutto ciò mi addolora profondamente, ma stai continuando ad evitare la mia domanda. Perché ti ostini a giocare da solo? Non hai ancora capito che quando si finisce al fresco, è sempre saggio avere qualcuno che ti copre le spalle?”

“E si può sapere per quale motivo stai facendo questo discorso a me? Mi sembra che tu sia già riuscito ad integrarti in un gruppo” dice il piccolo Michelangelo, continuando a stuzzicarmi, a quanto pare non ha ancora compreso che non bisogna mai tirare troppo la corda, perché questa prima o poi è destinata a spezzarsi “a proposito, non dovresti essere in compagnia del tuo Patròn? O questa è la tua ora libera?”

“Ricordi quando ti ho detto di essere in possesso d’informazioni estremamente importanti?”

“Intendi poco prima che ti lasciassi agonizzante in quella catapecchia nella giungla?”

“Stai attento, Michael” ringhio a denti stretti, perché questo giochetto sta iniziando seriamente a stancarmi “la mia pazienza ha un limite e sta per essere raggiunto. A Panama sono stato contattato da un uomo che mi ha offerto un lavoro molto vantaggioso: se riuscivo a portarti dentro quell’edificio, avrei avuto in cambio la libertà. Ha voluto che ti portassi proprio in quella parte di Panama City, in modo che finissi proprio in questa prigione. Perché? Per quale motivo? Che cosa stai combinando? In che cosa sei rimasto coinvolto questa volta?”

“Non sono affari che ti riguardano, T-Bag, ho già abbastanza problemi di cui occuparmi” taglia corto Michael, stroncando la mia lunga serie di domande; per un istante, i suoi occhi guardando qualcosa alle mie spalle, ed io riesco a girarmi in tempo per capire a chi si sta riferendo il piccolo genietto: la fonte della sua preoccupazione, a quanto pare, è un americano arrivato in contemporanea a noi, di cui ignoro completamente l’identità.

L’unica cosa che so per certo è che non se la sta passando molto bene, come testimoniano i capelli arruffati, lo sguardo stralunato e le guance ricoperte da una barba incolta.

“Ma guarda, guarda…” mormoro con un sorriso compiaciuto, perché questa volta è il mio turno di scoccare una frecciatina “a quanto pare non sei in grado di farti degli amici, ma non hai alcun problema a circondarti di nemici. Chi è quell’uomo?”

“Il suo nome è Alexander Mahone, il resto non ti riguarda”.

Alexander Mahone.

Questo nome non mi suona affatto nuovo e, dopo aver fatto mente locale, riesco a ricordare dove l’ho già sentito: è lo stesso poliziotto che ha interrogato Nicole nelle ore successive all’evasione, perché sospettava che ci fosse qualcosa tra noi due che andava ben oltre il semplice rapporto tra detenuto e dottoressa.

“Ohh, ti sbagli di grosso, dolcezza, perché si dal caso che io abbia già avuto a che fare con quell’uomo, anche se in modo indiretto, e so per certo che si occupava del nostro caso prima di finire qui. E trovo molto curioso il fatto che anche lui si trovi proprio a Sona. Come trovo curioso il fatto che sei riuscito a fare quel trucchetto di magia per assicurare nuovamente l’acqua corrente qui dentro, ed in cambio hai chiesto che venisse tolta la taglia su quell’uomo… Quell’australiano … Whistler, giusto? Sono pronto a scommettere la mia mano destra che lui c’entra qualcosa in tutta questa faccenda. Devi farlo evadere, ho indovinato?”

“Pensa agli affari tuoi, T-Bag, e sta lontano dai miei. Qui non siamo a Fox River, e non esiste più alcuna squadra. Ognuno gioca per sé”.

Scofield si alza dal pavimento impolverato e si allontana velocemente da me, dandomi una violenta spallata, ed io lo lascio fare senza provare a bloccarlo o ad urlargli contro; la sua reazione secca è stata una risposta chiara e lampante: sono sulla strada giusta e ben presto sarà proprio lui a venire strisciando da me, per chiedere il mio aiuto.

Ne ha già avuto bisogno in più occasioni a Fox River, sono sicuro che a Sona non sarà diverso.

La mia attenzione viene catturata da una voce maschile che risuona negli autoparlanti presenti nel cortile.

Qui dentro funziona così: quando un detenuto riceve una visita, le guardie lo avvisano attraverso gli autoparlanti, e deve recarsi in un secondo cortile, all’esterno dell’edificio, e parlare con i propri famigliari o amici attraverso la recinzione metallica, perché non esiste una stanza destinata alle visite.

E questa volta, per la prima volta, c’è qualcuno che vuole parlare proprio con me.

Mentre mi dirigo verso il cortile esterno, mi domando chi possa essere il mio misterioso visitatore e riesco a pensare ad una sola opzione possibile: forse l’uomo che mi ha assoldato, e poi abbandonato qui dentro, ha deciso di tornare sui propri passi, di farmi uscire e di darmi la libertà che mi è stata promessa.

Per un momento, per un solo momento, m’illudo di vedere davvero lui dall’altra parte della recinzione; ma quando spingo la porta metallica che conduce alla ‘stanza per le visite’, ed esco di nuovo all’aria aperta, tutte le mie speranze svaniscono in un istante, perché dall’altra parte non c’è l’uomo misterioso che mi ha assoldato, ma una ragazza bionda che stringe con entrambe le mani una balaustra di metallo, che le impedisce di avvicinarsi agli anelli metallici della recinzione.

Nicole, la mia ex compagna.

Resto perfettamente immobile per una manciata di secondi, indeciso se avvicinarmi a lei o se tornare indietro; non voglio guardarla negli occhi, né tantomeno ascoltare le sue parole, non dopo quello che mi ha fatto, ma alla fine la curiosità vince sulla mia ritrosia, e mi avvicino alla recinzione, appoggiandomi ad essa.

Non pronuncio una sola parola, perché voglio che sia lei a farlo per prima: Nicole è venuta qua per vedermi e parlarmi, io non ho assolutamente nulla da dirle.

“Ehi, come stai?” mi domanda, schiarendosi la gola, in tutta risposta mi ostino a rimanere in silenzio, in attesa che aggiunga altro, ma ciò non accade e faccio fatica a trattenermi dallo scoppiare a riderle in faccia.

Incredibile: dopo tutto quello che è successo, queste sono le uniche parole che sente di dovermi dire.

Quando capisco che davvero non è intenzionata ad aggiungere altro, decido di passare all’attacco.

“Si può sapere che cazzo sei venuta a fare qua?”

“Perché dici così?” chiede lei, incredula, sgranando gli occhi come una bambina confusa: fino a qualche settimana prima quest’espressione sarebbe stata sufficiente per farmi perdere il controllo e per avventarmi sulle sue labbra, adesso mi fa solo venire voglia di stringerle la mano destra attorno al collo e di strangolarla, esattamente come ho fatto con la ragazza bionda che lavorava nell’ufficio postale di Tribune.

Con una piccola eccezione, però: in quel caso mi è dispiaciuto dover adottare un metodo così drastico.

In questo caso no.

“Dovresti saperlo molto bene. Allora, si può sapere che cazzo sei venuta a fare qua?”

“Sei stato tu a chiamarmi. Hai detto che avevi bisogno di me, che dovevo venire subito a Panama o avresti potuto fare qualcosa di stupido e, quando sono arrivata all’hotel in cui alloggiavi, ti ho trovato completamente sbronzo nella vasca del bagno. Mi sono presa cura di te e poi… Poi sei sparito senza dire una sola parola, ho trovato un biglietto con un indirizzo, sono andata alla centrale di polizia e mi hanno detto che eri stato trasferito qui… Non ricordi davvero nulla di tutto questo?”.

No, non ricordo nulla di quello che ha appena raccontato.

Gli ultimi ricordi che ho sono legati al volo che da Birmingham mi ha portato in Messico; poi c’è un enorme buco vuoto, segnato qua e là da qualche breve spiraglio di lucidità.

Qualche piccolo frammento legato all’uomo misterioso od a Scofield.

Ma riguardo a Nicole, vedo solo il vuoto più totale.

Scuoto la testa.

“E chi mi assicura che non siano solo balle?”.

La mia ex compagna spalanca ancora gli occhi, e di nuovo vengo assalito dalla voglia di strangolarla.

“Per quale motivo dovrei raccontarti una bugia?” chiede poi, con uno sguardo risentito che contribuisce solo a farmi ribollire il sangue nelle vene “vuoi una prova concreta di quello che ti sto dicendo? Hai un taglio lì, sul lato destro della testa, che ti sei procurato da solo con una pistola: quando ti ho chiesto spiegazioni, hai biascicato qualcosa sul fatto che hai provato a giocare alla roulette russa. E a giudicare dalle tue condizioni, credo che avrai ancora un fastidioso mal di testa”.

In automatico mi sfioro la testa con la mano destra e quando sento sotto i polpastrelli un lungo taglio, di cui ignoravo l’esistenza, piego le labbra in una smorfia di dolore; tuttavia non sono intenzionato a credere alle parole di Nicole, soprattutto perché non ho aspirazioni suicide.

E perché non ricordo nulla neppure di questo fantomatico episodio.

“D’accordo, ammettiamo che tutto quello che hai appena detto sia vero. Hai avuto comunque un enorme fegato a presentarti qui ed a pretendere una visita. E sai benissimo il perché” mormoro, rivolgendo lo sguardo altrove, perché non riesco più a fissare i suoi occhi azzurri.

Non voglio ripensare a quello che è successo poche settimane prima, vorrei che Nicole lo comprendesse e che se ne andasse per non tornare mai più, ma lei è di tutt’altra opinione e affonda il dito nella piaga senza il minimo ritegno, aggiungendo la beffa al danno.

“A tal proposito, volevo parlare con te riguardo a quello… Riguardo al modo in cui ci siamo lasciati, perché dopo gli avvenimenti degli ultimi giorni ho avuto molto tempo per riflettere e mi sono resa conto che…”.

Questa volta non riesco più a trattenermi e scoppio a ridere, impedendole di terminare il suo inutile discorso senza capo né fine.

“Riflettere?” domando, incredulo “riflettere su che cosa, esattamente? Sappiamo benissimo che cosa è successo e perché è successo, non c’è altro da aggiungere. Hai trovato il mio messaggio?”

“Sì”

“E non è stato già abbastanza chiaro?” sorrido e mi stacco dalla recinzione, perché per me non c’è altro da dire: la conversazione termina qui “adesso ti saluto, Nicole, e se sei una persona intelligente, non proverai mai più a tornare in questo posto”.

E con queste ultime parole mi congedo dalla mia ex compagna, voltandole le spalle e dirigendomi verso la porta metallica, ma mi blocco a metà percorso, richiamato dalle sue proteste, che hanno lo stesso effetto della goccia che fa traboccare il vaso.

“No! Non puoi dirmi questo! Quando ho ricevuto la tua telefonata, mi sono precipitata subito a Panama, mi sono presa cura di te e quando ho saputo che ti avevano portato in questa prigione, sono venuta il prima possibile per riuscire a vederti ed a parlarti. Non puoi… Io… Mi dispiace, voglio provare a rimediare, lasciami una possibilità, per favore!”.

Dovrei lasciar perdere ed andarmene, sbattendo con forza la porta, ma non ci riesco proprio a causa delle ultime parole che Nicole ha pronunciato, sottoforma di supplica disperata: ritorno velocemente sui miei passi, afferro gli anelli della recinzione e le sputo contro tutto l’odio che finora ho provato a reprimere.

“Potevi pensarci prima di spezzarmi il cuore e di ridurlo in così tanti piccoli pezzi che non riuscirò mai a ritrovare del tutto. Adesso è troppo tardi, ed io non voglio avere più nulla a che fare con te. Dovresti ritenerti fortunata, visto che sei ancora viva e sei in grado di camminare con le tue gambe. Vattene via, la tua sola presenza mi disgusta” dico a denti stretti, prima di raggiungere la porta senza più voltarmi, chiudendola con forza alle mie spalle.

Sono costretto ad appoggiarmi ad essa, ad occhi chiusi, ed a prendere un paio di profondi respiri per calmarmi, perché non posso tornare dal mio Capo in queste condizioni: non ho voglia di dare a lui ed agli altri delle spiegazioni su di me e Nicole.

E se lei è davvero intelligente, non si presenterà una seconda volta a Sona.

In caso contrario, in un modo o nell’altro, dovrà vedersela con me.

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Capitolo 16
*** Hell Is A Place On Earth; Parte Due (T-Bag) ***


Sona è completamente diversa dalle altre prigioni in cui sono stato rinchiuso: non ha assolutamente nulla a che vedere con Donaldson e con Fox River.

In realtà, Sona non assomiglia a nessun altro carcere sulla faccia della Terra.

Da quando i detenuti sono insorti, costringendo i secondini ad abbandonare l’edificio per non essere trucidati, si è trasformata in un vero e proprio regno a parte, in cui vigono regole non scritte e ferree; un posto in cui ogni giorno è una lotta per la sopravvivenza, in cui solo i più forti sopravvivono mentre i più deboli sono destinati a soccombere e ad abbandonare questo posto sottoforma di cadaveri, destinati ad occupare una fossa comune.

E come ogni regno che si rispetti, anche questo ha il suo padrone incontrastato.

Ed il padrone incontrastato di Sona è un muso nero che si fa chiamare Lechero, e da quello che sono riuscito a scoprire è stato rinchiuso qui dentro per crimini legati al contrabbando di droga; in ogni caso, basta un’occhiata per capire che appartiene a quella categoria di uomini con cui non bisogna fare strani giochetti o prendere in giro: è così grosso che potrebbe spezzare l’osso del collo ad una persona a mani nude, con la stessa semplicità con cui si può spezzare un ramoscello secco.

Sicuramente nel mio caso non avrebbe nessuna difficoltà, visto che sono un quarto di lui.

Quando si entra in un regno come Sona, dove l’eccezione è costituita da un giorno senza cadaveri, bisogna lasciare da parte le idee personali, l’orgoglio e la propria dignità; bisogna lasciarsi guidare dallo spirito di sopravvivenza ed adattamento, soprattutto se sei sprovvisto di un arto e ti trovi in condizioni fisiche che suscitano più pietà che timore, e così ho fatto.

Non appena mi si è presentata l’occasione adatta, mi sono letteralmente inginocchiato davanti a Lechero, offrendogli i miei servigi, rimettendomi completamente nelle sue mani; e con mia grande sorpresa, il mio teatrino gli è piaciuto così tanto che mi ha accolto sotto la sua ala protettiva, e così mi sono trasformato nel suo tuttofare, pronto a soddisfare ogni sua richiesta in qualunque momento del giorno e della notte: un piccolo prezzo da pagare per avere una vita ‘agiata’ tra queste quattro maledette mura.

Anche perché le alternative a mia disposizione non erano molte: o indossare i panni di un mite e sottomesso leccapiedi, o fare la fine di Bellick.

Pure l’ex Capo delle guardie di Fox River è stato rinchiuso a Sona, ma qui non gode di nessun privilegio, anzi: a malapena è riuscito a rimediarsi degli stracci come vestiti, ed è costretto a pulire le latrine dal piscio, dal vomito, dal sangue e dalla merda di tutti gli abitanti di questo allegro, piccolo, quartiere di Panama City.

Di conseguenza, facendo rapidamente un calcolo mentale, è meglio leccare i piedi ad un muso nero piuttosto che spalare merda dalla mattina fino alla sera.

Purtroppo, però, il ruolo che sono riuscito a ritagliarmi nella gerarchia di questa prigione non ha solo aspetti positivi, perché nasconde delle insidie: se Lechero vede di buon occhio il mio arrivo, lo stesso non si può dire della maggior parte del suo gruppo di fedelissimi.

Uno di loro in particolare, Sammy, non mi può sopportare, non fa nulla per nasconderlo ed approfitta di ogni occasione per sbeffeggiarmi e prendersi gioco di me, esattamente come accade al mio rientro dalla visita indesiderata di Nicole: mentre salgo le scale che conducono agli appartamenti personali del mio Patròn, lo vedo intento a conversare con altri due del gruppo; provo ad ignorarli ed a passare inosservato, ma inevitabilmente i loro occhi si posano su di me.

“Guardate chi c’è qui!” esclama proprio lui, indicandomi “il nostro pagliaccio. Hai voglia di farci un balletto?”

“Scusate, ragazzi, ma oggi non sono dell’umore adatto” mormoro, superandoli, e proprio quando penso di avercela fatta, ricevo un calcio che mi fa schiantare contro i scalini, ed il dolore alle ginocchia è così forte, acuto, che a malapena riesco a trattenere le lacrime; tuttavia, mi rialzo senza emettere un solo lamento, ed ignoro completamente la velata minaccia che lo stesso Sammy mi rivolge.

“Potrai anche fare fesso lui” dice, riferendosi al suo Capo “ma io sono fatto di tutt’altra pasta”.

Pezzo di merda.

Deve ritenersi fortunato di essere a Sona, perché se fossimo entrambi rinchiusi a Donaldson, gli avrei srotolato le sue stesse budella davanti agli occhi già da un pezzo.



 
Quando entro nell’appartamento del mio Patròn, riesco a rintracciarlo senza la minima difficoltà: è seduto sul divano, con i gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani intrecciate; qualcosa lo turba, è immerso in chissà quali pensieri, ed impiega qualche secondo prima di rendersi conto che non è più solo e che ho urgente bisogno di parlare con lui.

“Che cosa vuoi? Avevo chiesto di essere lasciato solo”

“Perdonami, Patròn” mormoro, abbassando lo sguardo sulle scarpe che indosso “non era mia intenzione disturbarti. Volevo solo cogliere l’occasione per ringraziarti di tutto quello che hai fatto per me dal mio arrivo a Sona, ma purtroppo… Purtroppo sono costretto a dover chiedere di essere sollevato da tutti i miei compiti”

“Ma si può sapere che diavolo stai blaterando?” domanda Lechero, corrucciando le sopracciglia, ed io scuoto la testa.

“Io non voglio essere diviso tra la lealtà che sento per te ed il dover stare zitto. Ho abbastanza esperienza per sapere come funzionano queste cose: quando le tessere del domino iniziano a cadere, è sempre colpa dell’uomo che urta il tavolo”

“Smettila di girarci attorno!” urla il mio Capo, si alza dal divano e si avvicina a me, tanto che sono costretto a sollevare il viso per guardarlo negli occhi; è in momenti come questo che odio profondamente il mio metro e settantasette di altezza “dimmi quello che devi dirmi!”

“No! Io non sono una spia!” grido a mia volta, provo a retrocedere di un passo, ma vengo strattonato con forza e sento un paio di mani appoggiarsi sulle mie guance, facendo leggermente pressione, e ripenso al rametto secco spezzato a metà “per favore, Patròn, non rendere la mia posizione ancora più difficile di quello che è già”

“Non ti sto chiedendo di fare la spia, voglio semplicemente che mi racconti ciò che hai sentito. Avanti”

“D’accordo” annuisco, sospiro e finalmente riesco a  svuotare il sacco “prima, mentre venivo qui, ho sentito qualcuno dire ‘al diavolo Lechero, io voglio la mia parte!’… All’inizio non ho riconosciuto la voce, ma quando ho girato l’angolo, ho visto le stesse facce che vedo qui dentro ogni singolo giorno”

“Questo non è possibile” commenta lui, scettico, e così sono costretto ad insistere, per instillare il dubbio nella sua mente.

“Io non ci guadagno a dirti questo, Patròn, io sono un nulla che non diventerà mai nulla di più. Ma quei bellimbusti di cui ti circondi hanno tutto da guadagnare da una tua caduta. Ecco… Spero che con questo siamo pari…” gli stringo per qualche secondo la spalla sinistra, prima di voltarmi per uscire dall’appartamento; riesco ad allontanarmi di pochi passi, però, perché vengo richiamato.

Lechero  mi raggiunge e mi appoggia una mano sulla spalla destra.

“Quello che ti ho dato non si ripaga con un solo favore, perciò rifiuto la tua offerta. Tu rimarrai, e sarai le mie orecchie quando io non sarò presente. È tutto chiaro?”

“Si, Patròn, chiarissimo” dico in un sussurro, a testa bassa, per nascondere un sorriso compiaciuto che non riesco più a trattenere.

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Capitolo 17
*** Hell Is A Place On Earth; Parte Tre (T-Bag) ***


Conquistare la fiducia del proprio Capo costituisce un buon punto di partenza per sopravvivere all’interno di un posto come Sona, ma non è sufficiente: essere utili non porta mai a risultati a lungo termine, per essere sicuri che ciò accada, e di avere il culo parato, bisogna diventare indispensabili.

Per mia enorme fortuna, non tutto il gruppo dei fedelissimi di Lechero mi odia: c’è una piccola eccezione costituita da un giovane, poco più grande di un ragazzo, che si chiama Juan Nieves.

Nieves è l’unico che mi rivolge la parola con gentilezza, senza sbeffeggiarmi o prendersi gioco di me, e che mi dà continui consigli su come comportarmi con il mio Patròn: Lechero è un uomo dal carattere piuttosto volubile, ed è molto sensibile alle entrate di denaro; il mio nuovo amico messicano lo sa molto bene, perché in qualità di spacciatore ufficiale di Sona è costretto a subire molto spesso le sfuriate del suo Capo quando fa ritorno con una busta molto più sottile di quello che lui si aspetta.

Un giorno, addirittura, assisto in prima persona ad una di queste fantomatiche sfuriate da brividi in seguito all’ennesima busta sottilissima di denaro frusciante: il mio Patròn lo aggredisce quasi fisicamente, accusandolo di essersi sparato tutta la droga in vena anziché averla venduta ai detenuti, e Juan è costretto a difendersi mostrandogli le braccia immacolate, su cui non c’è neppure l’ombra della puntura di un ago, ribadendo che lui non c’entra nulla e che i guadagni sono scarsi a causa del poco tempo che viene lasciato ai clienti per procurarsi i soldi.

Un’altra volta, invece, assisto ad un’altra scena altrettanto interessante: vedo Nieves parlare con Mahone, l’agente americano, in preda ad una vera e propria crisi di astinenza, e così per puro caso, senza lasciarmi sfuggire una sola parola del loro dialogo, apprendo che l’uomo è solito ad assumere un farmaco che il mio amico messicano non può procurargli, visto che Sona non è una farmacia; e quando gli viene offerta una bustina di eroina, Alexander la rifiuta in modo violento, sia perché non ne vuole sapere di iniettarsela in vena e sia perché, in assenza di denaro contante, non è assolutamente intenzionato a fare marchette.

Per un’intera giornata, nei momenti in cui non sono impegnato a soddisfare le richieste del mio Capo, rifletto a lungo su questi due eventi completamente distaccati, che ad una prima occhiata non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro, finché non trovo il giusto modo per incastrare le due cose insieme, come i pezzi di un puzzle.

E l’occasione perfetta per mettere in atto il mio piano si presenta una mattina, mentre aiuto il mio amico a preparare le nuove dosi di eroina per i suoi clienti abituali.

“Non ti ho ancora ringraziato per quello che hai fatto qualche giorno fa, sai… Quando mi hai aiutato a raccogliere tutta la roba che Lechero aveva sparpagliato sul pavimento” commenta lui, facendo riferimento all’ultima sfuriata “a volte lavorare per lui non è affatto semplice, comprendi?”

“Ohh, si, comprendo benissimo” mormoro, sedendomi sul bordo di una brandina “ma io e te siamo amici, Nieves, giusto?”.

Allungo la mano destra e lui me la stringe, tornando poi ad occuparsi delle ultime bustine; non c’è nessun altro del gruppo all’interno dell’appartamento di Lechero, ad eccezione di noi due, neppure il padrone di Sona in persona perché questo è il momento della giornata in cui è solito recarsi dal barbiere per darsi una sistemata.

Cosa che ha vivamente consigliato di fare anche a me, dato che con i capelli scompigliati e la camicia sempre chiazzata di sudore gli ricordo un barbone.

“Appena Lechero cambierà umore, metterò una buona parola su di te, Blancho, così potrai fare carriera”

“Apprezzo molto il tuo gesto, Nieves, dico davvero” commento a mia volta, svuotando il contenuto di una busta di plastica sul materasso, alzandomi poi in piedi “ma se c’è una cosa che ho imparato dalla vita, è che le occasioni vanno create, non si possono aspettare”.

Senza indugiare, con un gesto fulmineo, gl’infilo la busta di plastica sulla testa, stringendogli il braccio sinistro attorno alla gola, per impedirgli di respirare; lui prova a divincolarsi, annaspando con le braccia alla ricerca di aria, ed entrambi cadiamo a terra, ma ha ben poche possibilità di farcela contro una persona come me, abituata ormai ad uccidere in diversi modi.

E poco dopo, infatti, sento il suo corpo rilassarsi e vedo le sue braccia ricadere lungo i fianchi; stringo la busta ancora per qualche istante, per essere sicuro che nei polmoni non ci sia più aria, e poi la tolgo, preparandomi per la seconda parte del piano: frugo all’interno della borsa a tracolla del defunto spacciatore, riempio una siringa di morfina e gl’inietto l’intera dose nell’incavo del braccio sinistro, preoccupandomi di non estrarre l’ago, in modo da simulare un’overdose.

Un po’ mi dispiace essere stato costretto a compiere un’azione così drastica, come nel caso di Denise.

Non ho più avuto un amico, un vero amico, da quando ho perso David davanti ai miei occhi; forse Juan avrebbe potuto ricoprire un ruolo simile, avrebbe potuto rivelarsi molto utile in diverse occasioni, ma la verità è che non avrebbe mai potuto sostituire David.

A volte ripenso ancora a lui.

A volte penso a come sarebbe andata, se non si fosse beccato il proiettile al posto mio, se fossimo riusciti a scappare ed a raggiungere il Messico; o come sarebbe andata, se entrambi fossimo stati rinchiusi a Fox River e poi fossimo riusciti ad evadere insieme a Michael ed agli altri.

A volte ci penso, e quando me ne rendo conto sposto l’attenzione altrove, scuotendo la testa con forza per scacciare le immagini dalla mente.

Perché ricordare è terribilmente doloroso.



 
Trascorre appena un’ora prima che venga intercettato da Sammy e dal resto del gruppo di fedelissimi: mentre sto percorrendo uno dei tanti corridoi di Sona, si posizionano davanti a me, impedendomi di proseguire.

“Lechero ti vuole vedere. Ha detto che vuole parlare con te immediatamente” mi avvisa Sammy e, contemporaneamente, due dei suoi uomini mi afferrano per le braccia.
“No, non posso venire adesso!” protesto, tentando di divincolarmi “Lechero dice che con questi capelli gli sembro un barbone, devo andare dal barbiere a tagliarli subito!”.

Le mie suppliche non servono a nulla.

Vengo letteralmente trascinato di peso fino all’appartamento di Lechero: quest’ultimo è appoggiato allo stipite di una porta ed osserva in silenzio il cadavere di Nieves, ancora abbandonato sul pavimento, nell’esatto punto in cui l’ho lasciato un’ora prima; sbatto le palpebre più volte, boccheggiando senza parole, mostrandomi sconvolto, calandomi perfettamente nel ruolo dell’amico incredulo e distrutto.

“Tu lo sapevi?” domanda in tono secco il mio Capo, senza neppure voltarsi “sapevi qualcosa riguardo a questa storia?”

“No… Io… Io non sapevo assolutamente nulla…” balbetto, distogliendo lo sguardo dal corpo “io e Nieves eravamo amici e…”.

Non riesco a completare la frase perché mi ritrovo letteralmente inchiodato contro una parete, con la mano destra del mio Patròn attorno alla mia gola: una reazione che non avevo neppure lontanamente calcolato.

“Appunto. Tu e lui eravate amici, di conseguenza se sapevi qualcosa riguardo al fatto che aveva ripreso a bucarsi, e me lo hai taciuto, lo avrai sulla tua coscienza”

“Ma… Ma… Patròn, io non ci capisco nulla di droghe” inizio a piagnucolare, versando qualche lacrima, in modo d’apparire ancora più convincente “ho solo fumato un po’ d’erba quando avevo dodici anni, e da quanto ho tossito ho quasi rischiato di sputare un polmone. Te lo giuro!”.

Lechero non risponde, continua a fissarmi negli occhi ed io, di rimando, gli lancio un’occhiata carica di disperazione.

“D’accordo… D’accordo… Così va bene… Così va bene…” mormora, poi, lasciandomi andare e dandomi una sonora pacca sulla spalla sinistra “nella mia squadra si è appena liberato un posto”.



 
“Buone notizie, Agente Mahone!” esclamo, quando finalmente riesco a scovare Alex all’interno di una delle numerose celle di Sona: la porta a sbarre di ogni piccola abitazione è sprovvista di chiave, di conseguenza sono sempre spalancate, ed ogni detenuto può entrare ed uscire a proprio piacimento; sorrido compiaciuto ed indico al mio connazionale, rannicchiato in un angolo, la borsa a tracolla che è passata in eredità a me “in seguito alla prematura ed improvvisa scomparsa del signor Juan Nieves, sono stato promosso responsabile delle vendite e mi devo anche occupare dei rapporti con la clientela”

“Vattene via” sibila lui, battendo i denti a causa dell’astinenza “non voglio nulla da te”

“Ascoltami bene, Alex, io non sono tua madre e di certo non vado in giro a dire alla gente quello che deve o non deve fare, ma ti ho visto in condizioni migliori”

“Non ho bisogno di niente”

“Sicuro? Eppure a me sembra che tu abbia proprio bisogno di qualcosa” commento; frugo all’interno della borsa in pelle e tiro fuori una siringa con una dose già pronta di eroina, sistemandola sopra un davanzale di pietra, a pochi centimetri di distanza dal suo viso “a proposito… Il laccio non è incluso”.

E con quest’ultima stoccata, esco dalla cella e mi allontano per andare a soddisfare altri clienti impazienti di farsi la loro pera quotidiana.

Forse dovrei sentirmi uno stronzo, visto che non c’è nulla di peggio che alimentare la dipendenza di una persona, soprattutto se la persona in questione è un tossico, ma qui si tratta di sopravvivenza, ed io non ho fatto altro che mettere in atto un vecchio detto: il nemico del tuo nemico è tuo amico.

E se riesci a legare a te, a doppio filo, il nemico del tuo nemico, ancora meglio, perché avrà un debito nei tuoi confronti  che prima o poi sarà costretto a ripagare.

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Capitolo 18
*** Hell Is A Place On Earth; Parte Quattro (T-Bag) ***


Essere lo spacciatore ufficiale di Sona non è affatto male e porta con sé numerosi vantaggi: una paga lauta e sicura, vitto e alloggio gratuiti ed un tenore di vita molto più alto rispetto a quello della maggior parte dei detenuti.

Lechero mi ha gentilmente donato un paio di pantaloni ed una camicia, perché gli abiti con cui sono entrato in prigione erano ormai diventati degli stracci indecenti che puzzavano di vomito secco e di sudore, e dopo qualche visita dal barbiere per sistemarmi i capelli ed il pizzetto, che nel frattempo è ricresciuto, il mio aspetto fisico è decisamente migliorato; anche se non sono ancora tornato in perfetta forma come ai tempi in cui spadroneggiavo a Fox River, non mi posso affatto lamentare perché ci sono persone che versano in condizioni molto più disastrose delle mie: Bellick e Mahone, ad esempio, sembrano degli zombie, il primo a causa della fame e delle angherie che è costretto a subire, il secondo a causa della droga che gli fornisco settimanalmente, con estrema puntualità.

Anche Scofield non se la sta spassando molto bene, e non credo che ciò abbia a che fare solo con il caldo soffocante che regna qui dentro anche durante la notte, ma non sono ancora riuscito a scoprire che cosa frulli dentro il suo cervello: essere lo spacciatore ufficiale di Sona non è affatto male, ma porta con sé molte responsabilità e non mi permette di avere un solo istante di tempo, perché quando non devo soddisfare i clienti, mi devo occupare di contare i guadagni, affinché i conti tornino a fine giornata, e di preparare le nuove dosi.

E quando non sono impegnato con questo, devo soddisfare i capricci del mio Patròn come, ad esempio, quello di preparare un caffè.

Un buon caffè.

Non la brodaglia scura che siamo abituati a bere noi americani.

Solo una volta ho provato a bere d’un fiato una tazzina, e come risultato ho ottenuto di non riuscire a chiudere occhio per tutta la notte.

“Teodoro, tanto lavoro e niente divertimento?” l’arrivo di Lechero mi distrae dalle mie profonde riflessioni sul caffè panamense e sulla brodaglia che definiscono tale in tutti gli Stati Uniti.

Non so per quale motivo, forse a causa dell’influenza spagnola, ma quando ho detto al mio Capo che il mio nome è Theodore, lui lo ha subito cambiato in Teodoro.

Non ho mai sopportato il nome Theodore, ecco perché ho sempre preferito essere chiamato con un soprannome; Teodoro, poi, è un pugno sui denti ogni volta che arriva alle mie orecchie.

Dio, quanto mi fa schifo.

“No, Patròn, non posso permettermi un po’ di riposo. La clientela mi tiene sempre molto occupato, ed io devo soddisfare al meglio tutte le loro esigenze” spiego, sistemando i guadagni dell’ennesima giornata di lavoro all’interno di una cassettina di metallo, che ripongo nel cassetto di un comodino, nella sua camera da letto.

“Mi sembrava di averti affidato un compito molto più importante di questo” prosegue lui, abbassando la voce, riferendosi al fatto che devo essere le sue orecchie durante le sue assenze.

“Mi dispiace, Patròn, ma non ho sentito nulla”

“Ascolta meglio allora” mi ammonisce in un sussurro, come se fosse la cosa più facile del mondo spiare degli individui che mi odiano, senza dare nell’occhio; Lechero esce dalla stanza ed io lo seguo prontamente per continuare la discussione e per stemperare il suo pessimo umore, ma il rumore di alcuni passi, seguiti da una voce femminile, mi zittisce all’istante.

A Sona, come in qualunque altro carcere maschile del mondo, non è permesso far entrare donne per soddisfare i propri piaceri personali (a meno che non si tratti della corrispettiva ragazza o moglie venuta durante gli orari di visita), ma anche in questo caso il mio Capo costituisce un’eccezione, perché ha a propria disposizione una ragazza panamense che s’intrattiene con lui ogni lunedì.

Si chiama Carmelita, ed è un vero spettacolo della natura.

Occhi grandi color nocciola, ciglia lunghe, labbra carnose, capelli folti e lunghissimi, pelle ambrata ed un corpo da modella, in grado di farti girare così forte da testa da rimanere vittima di un attacco di vertigini.

Non ho la più pallida idea di come faccia ad entrare a Sona, o di come riesca a passare inosservata agli occhi degli altri detenuti, ma credo che abbia a che fare con gli abiti ed il velo da suora che indossa sempre quando viene qui, e che contribuiscono solo ad accendere maggiormente la mia fantasia.

Ma non è questa la parte più difficile.

No.

La parte più difficile arriva quando quei due hanno finito di divertirsi a letto, perché solitamente Carmelita raggiunge tutti noi in salotto e si mette a guardare la TV.

Con addosso solo gli slip ed il reggiseno, e con la pelle ancora impregnata di un lieve strato di sudore.

E lì le cose diventano dure.

Tutto diventa terribilmente duro, ed ogni volta sono costretto ad accavallare le gambe o ad aspettare qualche minuto prima di alzarmi, proprio perché gli altri non si accorgano di quanto la situazione sia dura per me.

Solitamente quando una relazione termina in modo orribile, come nel mio caso, l’ultima cosa che una persona vuole è gettarsi a capofitto in un’altra avventura, ma mentirei spudoratamente se dicessi che quella ragazza panamense mi è indifferente, perché non è affatto così, e non so che cosa darei per mordere la sua pelle ambrata, per baciarle le labbra o per infilare le dita della mano destra nella sua chioma corvina.

La desidero, ma non posso neppure permettermi d’indugiare troppo a lungo con lo sguardo, perché è la donna del mio Capo.

“Mi amor” mormora la diretta interessata, scortata da Sammy, rifugiandosi tra le braccia di Lechero.

“Mi vida” dice lui, in tutta risposta, baciandola sulle labbra; quando si allontana mi rivolge un mezzo sorriso, e le parole che pronuncia subito dopo suonano come una presa per il culo nei miei confronti “perché non ti diverti un po’ anche tu, Teodoro? Siediti sul divano e guarda la TV con gli altri”

“Certo, Patròn” rispondo annuendo, e non mi resta altro che obbedire e sedermi sul divano in pelle, mentre lui si chiude nella sua camera da letto in compagnia di Carmelita.

Osservo lo schermo della TV distrattamente, senza prestare attenzione alle immagini ed alle parole (anche perché parlano in spagnolo ed io non ci capisco nulla, visto che non sono Sucre), e quando sento le voci concitate dei due amanti, al di là della tenda nera che separa la camera dal salotto, piego leggermente il viso verso sinistra, ma purtroppo da questa distanza è pressoché impossibile sentire quello che si stanno dicendo, ed il televisore acceso a tutto volume non aiuta affatto.

So benissimo che dovrei far finta di nulla perché i loro affari non mi riguardano, ma proprio perché nutro un interesse nei confronti di Carmelita non ci riesco; con una scusa mi alzo dal divano ed entro in cucina, apparentemente per cercare qualcosa da bere, controllo con cura di non essere stato seguito e poi prendo un bicchiere, appoggiandolo alla parete, per origliare meglio: da quello che riesco a capire, i due piccioncini stanno litigando perché l’uomo di Lechero che si occupa del pagamento della giovane ed affascinante prostituta non vuole più sborsare un solo dollaro, lui non è intenzionato a farlo e lei è disperata perché non ha nulla in tasca e perché non ha altri clienti da cui guadagnare qualcosa.

La loro discussione viene interrotta dal suono di una sirena che, ad intervalli regolari, riempie l’aria; mi allontano di scatto dalla parete, poso il bicchiere sopra un tavolo e torno in salotto, guardandomi attorno confuso, perché non l’ho mai sentita prima d’ora e non ho la più pallida idea di che cosa significhi.

Fortunatamente ci pensa il mio Patròn a fare chiarezza.

“Il Colonnello! Forza, scendete tutti in cortile… No, non tu” ordina, bloccandomi prima che possa raggiungere gli altri, e mi indica Carmelita “occupati di lei, nascondila in un posto sicuro, non devono assolutamente trovarla qui dentro”.

Annuisco, facendogli capire che ho recepito chiaramente il messaggio, e non appena abbandona l’appartamento a sua volta, prendo la giovane per mano e la conduco nell’unico posto che rappresenta un nascondiglio sicuro per entrambi: l’interno di un grande e spazioso armadio di legno chiaro.

Carmelita è comprensibilmente agitata, di conseguenza cerco di tranquillizzarla per evitare che scoppi in lacrime e che un suo singhiozzo tradisca la nostra presenza qui dentro.

“Stai tranquilla, andrà tutto bene, Lechero non permetterà che ti accada qualcosa”

“No!” ribatte lei, scuotendo la lunga chioma ondulata, singhiozzando “Lechero mi odia”

“Lechero non ti odia” la correggo subito, sbirciando attraverso le fessure dell’armadio “occupi un posto molto speciale nel suo cuore”

“Tante ragazze possono prendere il mio posto”

“No, perché tu non sei come tutte le altre e Lechero lo sa. Sa che sei una donna con il proprio carattere e le proprie volontà”

“Tu sai benissimo che cosa sono”

“A questo mondo, sorella, siamo tutti prostitute. Tu, in confronto, sei una regina. Zitta!” l’ammonisco, intimandole di tacere, perché ho sentito il rumore inconfondibile di passi che si avvicinano e, difatti, poco dopo fanno il loro ingresso due soldati che perlustrano l’intero appartamento del mio Patròn, e si avvicinano pericolosamente alle ante chiuse dell’armadio; in tutta risposta Carmelita si aggrappa a me, stringendomi con forza, per nulla intenzionata a lasciarmi andare, e si copre la bocca con una mano per paura di lasciarsi scappare un gemito.

Sento il suo corpo tremante premuto contro il mio e mi ritrovo costretto a chiudere gli occhi, prendere un profondo respiro, e fare appello a tutto il mio autocontrollo per non saltarle letteralmente addosso e possederla qui dentro.



 
Osservo in modo distratto le pale di un’enorme ventola che serve a rendere più fresca e respirabile l’aria nell’appartamento del mio Patròn, e lancio un’occhiata in direzione del cortile centrale di Sona: le guardie ed il Colonnello sono appena usciti dall’ingresso principale, ed i detenuti si stanno lentamente disperdendo in piccoli gruppetti, sicuramente impegnati a discutere riguardo a ciò che è appena successo.

Io stesso, quando mi sarà possibile, svolgerò le mie indagini personali.

“Andrà tutto bene” ripeto per l’ennesima volta, facendo ritorno dalla giovane prostituta, immobile al centro della stanza “le guardie se ne sono andate e Lechero sarà qui a momenti. Aspetta… Hai un po’ di mascara qui, sulla guancia sinistra”.

Le pulisco con cura il piccolo puntino nero, e non resisto alla tentazione di accarezzarle la guancia, per scoprire la consistenza della sua pelle: è davvero morbida come immaginavo.

“Grazie” sussurra Carmelita, guardandomi negli occhi per la prima volta, ed io rischio di perdermi nei suoi.

“Devi essere bella per lui” dico a mia volta in un soffio, allontanandomi a passo veloce per raggiungere il mio Capo; lo incontro appena fuori l’appartamento, sulla terrazza, e lo informo subito riguardo a quello che è accaduto durante la perquisizione “le guardie si sono limitate a mettere sottosopra l’intero appartamento, hanno controllato un po’ qua e là e poi se ne sono andate… Ma mentirei se non ti dicessi che c’è mancato davvero poco”

“Lei dov’è adesso?”

“Qui dentro” gli dico, indicando il salotto “al sicuro”.

Lechero mi supera in fretta per raggiungere la sua amante, che nel frattempo ha indossato nuovamente il velo nero e bianco, entro a mia volta nel salotto e li osservo in silenzio, ed in disparte, battibeccare: Carmelita vuole andarsene perché è ancora scossa dall’enorme spavento che ha preso, ma il mio Capo la pensa diversamente, vuole che resti ancora un po’ per trascorrere qualche ora di divertimento.

Almeno per lui.

Carmelita cerca di sottrarsi ancora una volta alla presa di Lechero e, dopo l’ennesimo strattone, qualcosa scivola dalla manica destra dell’abito e cade sulle assi di legno del pavimento; ancora prima di abbassare lo sguardo, so esattamente di che cosa si tratta: prima di uscire dall’appartamento per cercare il mio Patròn, ho lasciato appositamente il cassetto del suo comodino aperto, con la cassetta di metallo in bella vista, preparando così una succulenta esca alla quale lei non è riuscita a resistere.
È vero che questa ragazza non mi è affatto indifferente, e che mi suscita delle sensazioni forti, ma non mi ha tolto la capacità di ragionare a mente fredda e di sfruttare la situazione a mio vantaggio.

Prima che Lechero possa interrogarla sulla mazzetta di soldi che è caduta sul pavimento, mi faccio avanti per prendere le sue difese: dico che sono stato io a darle quei soldi, aggiungendo che gli avrei restituiti subito non appena ricevuta la mia paga giornaliera.

“È vera questa storia?” domanda lui, rivolgendosi alla sua giovanissima amante.

“Sì” risponde lei, senza vacillare, reggendo il mio gioco, permettendomi così di proseguire con la farsa, in modo da renderla più convincente.

“Con tutto il rispetto, Patròn, non vorrei mai che la tua donna fosse costretta a prendere un taxi e non potesse permettersi di pagare la corsa”

“Teodoro: l’uomo che fa sempre la cosa giusta per me” commenta Lechero, con un sorriso che non promette nulla di buono “cos’è? Adesso pensi anche per me?”.

Merda.

“No, no, no, Patròn, io non intendevo…” balbetto, in mia difesa, ma ottengo solo di irritarlo maggiormente e ricevo un calcio al basso inguine che mi toglie il fiato e che mi lascia in ginocchio, dolorante e con gli occhi spalancati.

“Prendi un secchio e lavami i piedi” ordina il mio Capo, come ulteriore sprezzo nei miei confronti, e sono costretto ad alzarmi, cercando di reprimere un gemito ed ignorando il dolore pulsante in mezzo alle gambe che quasi non mi permette di camminare.

Pezzo di merda.

Schifoso muso nero mangiabanane.

L’unica cosa che mi consola, e che mi trattiene dal tagliargli la gola nel sonno, è che arriverà il giorno in cui gliela farò pagare per tutte le umiliazioni subìte; ed avere la sua amante dalla mia parte è solo il primo tassello del puzzle.

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Capitolo 19
*** Another Ally (Nicole) ***


Dopo il nostro disastroso incontro, ho provato più volte a recarmi a Sona per vedere Teddy, per parlare, per spiegargli quanto io sia profondamente pentita di ciò che ho fatto, ma lui non si è mai più presentato: ad ogni visita sono rimasta in piedi vicino alla recinzione, con le mani strette attorno alla balaustra, e ad ogni visita me ne sono andata senza aver visto il viso del mio uomo, senza aver sentito la sua voce.

Burrows, poi, non è affatto d’aiuto.

“Perché ti ostini ad andare lì?” ripete ancora, ormai per la millesima volta “perché ti ostini ad andare a Sona per volerlo incontrare? Non riesco davvero a capirti”

“Abbiamo già affrontato questa discussione in diverse occasioni e non sono intenzionata a farlo di nuovo. Sappiamo entrambi come andrebbe a finire, ed oggi non sono dell’umore adatto per litigare”

“Tu non sei mai dell’umore adatto per qualunque cosa”

“Lo saresti anche tu, se fossi costretto a passare il tuo tempo con una persona che ti ritiene fuori di testa” gli scocco una piccola frecciatina insieme ad un’occhiata tutt’altro che amichevole, incrociando le braccia “quasi dimenticavo… Non mi ritieni solo fuori di testa, ma anche inaffidabile e doppiogiochista, perché ti ostini a non volermi raccontare per quale motivo ti trovi a Panama e perché tuo fratello si trova a Sona insieme a Teddy. Ormai l’ho capito che anche lui è rinchiuso lì dentro, quindi non mi trattare come una stupida”

“Prova a metterti nei miei panni: come posso dire che non sei fuori di testa, quando ti ostini a voler riallacciare i rapporti con quel… Mostro?” domanda Lincoln, evitando di rispondere all’ultima parte del mio discorso; afferro un cuscino del divano e glielo lancio contro, colpendolo in pieno petto, per ripagarlo dell’offesa gratuita che ha rivolto al mio uomo.

“Non ti permetto di chiamarlo in questo modo!”

“E come dovrei chiamare un uomo che si diverte a stuprare ed uccidere ragazzini e ragazzine innocenti? Come puoi stare insieme a lui pur sapendo i crimini che ha commesso? Lo sai, vero, che se tornasse ad essere un uomo libero per sempre ricomincerebbe ad uccidere? Saresti pronta ad avere le mani macchiate di sangue innocente?”

“Teddy per me è un’enorme contraddizione perché rappresenta ciò da cui sono scappata, ma allo stesso tempo è l’unica persona in grado di capirmi, perché abbiamo un’infanzia molto simile alle nostre spalle, pressoché identica. Lui è stato l’unico che ha capito tutto di me guardandomi negli occhi, ed io sono stata l’unica a capire tutto di lui facendo lo stesso. Io non so se esiste davvero la cosiddetta ‘anima gemella’, so solo che lo amo e che non lo voglio abbandonare. E se il prezzo da pagare è essere sua complice, ed avere a mia volta le mani macchiate di sangue innocente, allora sono pronta a questo. E se finirò all’inferno, almeno sarò insieme a lui” mormoro senza mai abbassare lo sguardo, sostenendo gli occhi verdi di Burrows; lego i capelli in un nodo sulla nuca ed indosso velocemente un paio di scarpe da ginnastica, perché non sono intenzionata a trascorrere un altro minuto in più qui dentro a causa dell’atmosfera pesante che si è creata.

“Dove stai andando?”

“Ho bisogno di prendere una boccata d’aria, o non condividi neppure questa mia scelta?”

“Non dovresti girare per Panama completamente da sola, potresti rischiare di fare brutti incontri, lo sai?” mi ammonisce lui, in tutta risposta, inarcando il sopracciglio destro “e se fossi in te, cercherei di togliermi dalla testa quell’uomo. Tu sei la classica ragazza che spera di poter redimere un criminale con il suo amore, ma non funziona sempre così. A volte ci sono persone che non vogliono essere salvate”

“Da quando ci siamo incontrati, da quando mi hai ospitata in questa camera d’albergo, ti sei sempre rifiutato di dire una sola parola su tuo fratello e non hai mai voluto spiegarmi perché ti trovi a Panama, dove vai quando sparisci e chi è la persona con cui parli spesso al telefono. Vuoi che io stia fuori dai tuoi affari, ti conseguenza ti consiglio vivamente di fare lo stesso con i miei: tutto ciò che riguarda me e Theodore non è una faccenda di tua competenza, Burrows” dico a denti stretti, rivolgendogli uno sguardo carico di odio e risentimento, ed esco dalla stanza sbattendo con forza la porta alle mie spalle, per sfogare la rabbia.

Esco in strada senza una meta precisa, incamminandomi per le strade di Panama City, con l’intenzione di non allontanarmi troppo dall’hotel: conosco solo la strada per raggiungere Sona e non sono dell’umore adatto per esplorare la città, perché è così grande ed affollata che perdersi è questione di un battito di ciglia; e, come mi ha gentilmente ricordato Lincoln, si possono fare facilmente incontri spiacevoli.

Voglio rimediare con Teddy, ma non ho la più pallida idea di come fare; finché lui si ostina a non volermi vedere, non so dove sbattere la testa.

Appoggio la schiena ad un palo della luce e guardo in direzione del marciapiede opposto, mordendomi il labbro inferiore, nel vano tentativo di pensare ad una soluzione al mio problema e quest’ultima si presenta proprio davanti al mio sguardo incredulo, sottoforma di una ragazza che cammina a passo spedito ed a testa china, con la folta chioma di capelli corvini che le rimbalza sulla schiena: la osservo in silenzio, mentre passa a pochi metri di distanza da me, per essere sicura che si tratti proprio di lei, e quando mi convinco che la vista non mi sta giocando un brutto scherzo, attraverso la strada correndo, afferrando la sconosciuta per un braccio.

Lei si blocca all’istante, voltandosi, e per la prima volta mi rendo conto di quanto sia giovane: deve avere al massimo qualche anno in più di me.

“Sì?” chiede, incerta, rivolgendomi uno sguardo interrogativo.

“Noi due non ci conosciamo, ma io ti ho già vista a Sona… Ti ho vista entrare ed uscire da Sona” inizio, lasciandola andare, senza sapere con esattezza che cosa dire “avevi addosso l’abito… La divisa… Non so come lo chiamate… Ma eri tu, ne sono sicurissima. È grazie all’abito che indossi che poi entrare lì dentro? Perché io ho bisogno di entrare a Sona”

“Prima che tu possa aggiungere qualunque altra cosa, è tutta una recita. L’abito che indosso è solo una copertura. Un travestimento” mormora lei, con un filo di voce, abbassando lo sguardo sulla busta di carta che ha tra le mani “non vado a Sona a portare la parola di Dio”.

Abbasso lo sguardo a mia volta, soffermandomi sulla minigonna e sul top arancione che indossa.

“Ascolta, non mi interessa chi sei e quello che fai, ho bisogno di entrare lì dentro”

“Mi dispiace, ma se è questo ciò che vuoi, hai sbagliato persona. Io non posso aiutarti, rischierei di finire in guai molto seri. Scusami, non posso fare nulla per il tuo caso”

“Ti prego!” la supplico di nuovo, afferrandola per un braccio, prima che possa scomparire tra la folla “ho bisogno di entrare a Sona, non immagini neppure quanto sia importante per me! Devo parlare con una persona, con il mio uomo. Si chiama Theodore…”

“Stai parlando dell’americano con la mano strana?” mi domanda la ragazza panamense, spalancando gli occhi scuri, ed io annuisco con vigore.

“Sì, sì, ha una protesi al posto della mano sinistra. Lo conosci?”

“Sì, lo conosco, ho un debito nei suoi confronti” mormora, guardandosi attorno “forse un modo per entrare a Sona c’è, ma è molto rischioso, ed è importante che ascolti e segui tutto quello che ti dico”.

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Capitolo 20
*** Face To Face (T-Bag) ***


Anche se le mie giornate sono piene e movimentate, ci sono dei rari momenti in cui riesco a respirare un po’ di pace e tranquillità: a giorni alterni, Lechero si reca dal barbiere di Sona in compagnia di Sammy e del suo gruppo di fedelissimi.

 Per mezz’ora me ne sto completamente da solo nel suo appartamento e solitamente ne approfitto per riposarmi sul divano, per fumare una sigaretta, ripassando mentalmente i pezzi del puzzle che ancora mi mancano per poter ammirare l’opera finale.

Ed è quello che sto facendo quando vengo bruscamente interrotto dal rumore di un asse del pavimento che scricchiola.

Aspiro l’ultima boccata di fumo dalla sigaretta, spengo il mozzicone dentro un posacenere e mi alzo dal divano per avvicinarmi al corridoio e vedere chi è l’intruso, ma quest’ultimo mi precede, palesandosi ai miei occhi, lasciandomi perplesso e sorpreso: si tratta di Carmelita, avvolta nel suo finto abito da suora, con il velo nero a coprirle i capelli.

“Carmelita?” domando, confuso, raggiungendola “che cosa ci fai qui? Oggi non è il tuo giorno di visita e Lechero è dal barbiere”

“Lo so, sono venuta qua apposta perché volevo vedere te”.

Percepisco un brivido di piacere scendere lungo la spina dorsale.

“Davvero? Sei venuta qui per vedere me?” chiedo, perché ho bisogno di avere la conferma che tutto questo non sia solo un meraviglioso sogno; lei sorride, mostrandomi due file di denti bianchi, ed annuisce con la testa, stringendomi la mano destra.

“Sì, davvero” conferma poi, con un sorriso che finisce per contagiarmi “non ti ho ancora ringraziato per avermi salvato la vita ieri, ma adesso penso di avere trovato il modo giusto per ripagare il mio debito”.

Un altro brivido di piacere mi corre lungo la schiena: sono pienamente consapevole del rischio inutile che sto per correre, che sto giocando con un fuoco che potrebbe ridurmi in cenere all’istante; Lechero ed i suoi uomini potrebbero arrivare in qualunque momento, e se dovessero trovarmi in atteggiamenti inequivocabili in compagnia di Carmelita, per me sarebbe la fine: potrei dire addio al mio piano.

 Ma sono pronto a questa evenienza, dal momento che lei stessa mi ha appena confidato, in un sussurro, di desiderarmi ardentemente almeno quanto io desidero lei ed il suo corpo.

“Non credevo che questo momento sarebbe arrivato” sussurro, accarezzandole il viso con la mano destra “ma dobbiamo fare presto, abbiamo poco tempo a nostra disposizione e l’ultima cosa che voglio è essere scoperto dal tuo amante. Ho visto quello che è capace di fare, e preferirei che la mia testa rimanesse ancora attaccata al resto del corpo”

“Aspettami qui, torno subito” mormora lei, scomparendo nel corridoio da cui è apparsa, ed io sorrido compiaciuto, pregustandomi la sorpresa che ha in serbo per me: già me l’immagino riapparire con addosso solo un paio di slip ed un reggiseno, con i capelli sciolti, le mani appoggiate sullo stipite della porta ed un sorriso furbetto sulle labbra, che m’invita a fare tutto ciò che voglio, che ho sognato e represso per giorni; ma la persona che fa timidamente capolino dal corridoio non è la prostituta personale di Lechero, anche se indossa a sua volta un abito ed un velo neri da suora, ma una ragazza che purtroppo conosco fin troppo bene.

Ci guardiamo entrambi negli occhi, in silenzio, perché aspettiamo entrambi che sia l’altro il primo a parlare.

“Nicole?” domando, ed io stesso non riesco a capire se sono più sorpreso o furioso “sei proprio tu?”.

La mia ex compagna annuisce, si avvicina, e si toglie il velo, rivelando i capelli biondi: sì, non si tratta di un sogno che si è trasformato in un incubo, è proprio lei.

“Sono io, Teddy”

“Si può sapere che cazzo ci fai qui?” chiedo, allontanandomi di qualche passo da lei, e ci pensa Carmelita a darmi una risposta.

“Ci siamo incontrate per caso. Voleva vederti e così l’ho fatta entrare insieme a me. Lo so che è rischioso, ma…”

“Zitta” l’ammonisco, scaricando la mia rabbia anche sulla ragazza panamense “esci subito dalla stanza, perché questa è una faccenda tra noi due. E per quanto riguarda te… Non immagini nemmeno in quali guai stai rischiando di mettermi”

“Lo so, ma dovevo vederti e questo era l’unico modo. Negli ultimi giorni ho continuato a venire a Sona per incontrarti ancora, ma ti sei sempre rifiutato”

“Perché non c’è altro che dobbiamo dirci. Mi sembrava di essere stato molto chiaro qualche giorno fa, ma a quanto pare non è stato così, quindi approfitto dell’occasione per dirtelo un’ultima volta con le buone maniere: vattene da questo posto e non venire mai più, perché io non voglio avere più nulla a che fare con te. La tua sola presenza mi disgusta” dico, cercando di controllare il tono di voce, rivolgendo lo sguardo altrove: ogni volta che guardo i suoi occhi ed il suo viso, sento sempre l’impulso di strangolarla a mani nude.

“Davvero, Theodore? Pensi davvero di essere completamente dalla parte della ragione?” ribatte Nicole, con uno strano sorriso che non riesco a decifrare e che mi irrita ulteriormente.

“Non provare a sfidarmi. Non ti conviene”

“Io sarò anche stata una stronza senza cuore a fare ciò che ho fatto, ma ti ricordo che tutto è partito perché, mentre eravamo a letto insieme, anziché dire il mio nome hai pronunciato quello della tua ex compagna”

“E quindi ti sei sentita autorizzata ad agire di conseguenza” commento con una risata amara, scompigliandomi i capelli “sai che cosa mi lascia senza parole? Il fatto che non ti rendi neppure conto della gravità di quello che hai fatto, Nicole. Non ti sei soffermata neppure per un secondo a pensare a come io mi sarei sentito, altrimenti non lo avresti mai fatto”

“Teddy…”

“Ti avevo chiesto di non tradirmi, di non voltarmi le spalle” urlo, non riuscendo più a trattenermi, infischiandomene della possibilità che qualcuno, oltre a Carmelita, possa sentirmi “ti avevo detto che eri l’unica persona che mi era rimasta dopo aver perso mio cugino e mio nipote, ricordi quel giorno? E tu che cosa hai fatto? Non solo mi hai tradito con il primo idiota che hai trovato in un pub mentre io non ero in casa, ma ti sei preoccupata di farmi trovare il nostro letto in disordine e con… E con il preservativo che quel figlio di puttana ha usato per montarti posizionato sul materasso, in modo che io lo vedessi subito. Ci hai goduto, non è vero? Anche se non ti sei mossa di un solo millimetro quando ho iniziato a salire le scale, scommetto che avresti dato qualunque cosa per vedere la mia faccia in quel momento. Dillo”

“Teddy, io…”

“Dillo” ripeto, gridando più forte, facendola trasalire.

“Sì, in quel momento sì, ma…”

“Lo sapevo… Lo sapevo…” mormoro, scuotendo la testa, impedendole di terminare la frase perché non ho alcuna intenzione di sentire un mare di cazzate uscire dalla sua bocca; prendo un profondo respiro e poi la guardo negli occhi, con disprezzo “sei proprio una lurida cagna. Sì. Una lurida cagna in grado di ingannare e sfruttare gli uomini grazie ai suoi grandi ed innocenti occhi azzurri. Scommetto che ti è piaciuto terribilmente farti sbattere in quel modo da uno sconosciuto, vero? Hai provato un brivido di eccitazione che non avevi mai sentito in tutta la tua vita. Oppure, l’hai fatto perché speravi di risvegliare il ‘Mostro dell’Alabama’? L’hai fatto perché volevi provare l’ebbrezza di essere montata da lui? Perché quello che io ti davo non era abbastanza?”.

Nickie mi ripaga con uno schiaffo che non esito a rispedire al mittente: la colpisco così forte che cade a terra, ed un rivolo di sangue le scende dal naso; quando prova a rialzarsi, l’afferro per le braccia e la spingo sul divano, posizionandomi sopra di lei.

“Ti prego, non fare così” mi supplica, singhiozzando, e le lacrime si mischiano al sangue che le cola lungo il mento “sono venuta per rimediare, perché voglio ricominciare una nuova vita insieme a te, non è ancora troppo tardi. Ti prego, Teddy, per favore! Ti prego!”

“Potevi pensarci meglio prima di gettare nel cesso quella che già avevamo. Vattene prima che possa cambiare idea” mormoro, sentendomi improvvisamente esausto; sto per alzarmi dal divano, ma Nickie m’impedisce di farlo passandomi le braccia attorno alle spalle, e premendo le sue labbra sulle mie, baciandomi.

Come se un bacio potesse davvero risolvere tutto.

Per qualche istante, mio malgrado, mi ritrovo a ricambiare perché la carne è debole, ma poi riesco a tornare in me e l’allontano bruscamente, pulendomi la bocca con il dorso della mano destra, per cancellare il gusto della sua; Nicole non ha ancora capito che sta lottando per una causa persa, non è intenzionata ad arrendersi, ed appoggia le mani sulle mie guance, accarezzandomele, costringendomi a guardarla negli occhi, che sono colmi di lacrime.

“Ti prego” ripete per l’ennesima volta, esasperandomi “hai tutte le buoni ragioni del mondo per essere furioso nei miei confronti e per odiarmi, ma come io sono pronta a mettere da parte e dimenticare quello che tu hai fatto a me, vorrei che tu facessi lo stesso, Theodore, perché davvero non vale la pena chiudere la nostra storia per un incidente di percorso. Abbiamo sbagliato entrambi, entrambi abbiamo le nostre colpe, ma se ci impegniamo, possiamo superare questo brutto momento. Io indosso ancora la mia fede, e porto sempre con me la tua, in attesa del momento giusto per restituirtela, guarda”.

Mi mostra l’anello dorato che ha attorno all’anulare sinistro e fa lo stesso con quello appeso ad una catenina che le adorna il collo, poi prende coraggio e prova a baciarmi per la seconda volta; quando sento le sue labbra sfiorare le mie, qualcosa scatta dentro di me e le stringo la mano destra attorno alla gola.

“Quello che tu chiami incidente di percorso mi ha completamente spezzato il cuore. Il vero incidente di percorso è stato credere di potermi rifare una vita insieme a te… Qualche giorno fa ho ucciso un ragazzo soffocandolo con una busta di plastica, non costringermi a rifarlo con te. Vattene e non tornare mai più, non sto scherzando, perché la prossima volta non sarò così clemente” dopo aver sussurrato questa minaccia, lascio la presa e Nickie si alza di scatto dal divano, tossendo; mi lancia un’ultima occhiata prima di sparire nel corridoio, ed io resto immobile, impassibile, ad ascoltare i passi di lei e Carmelita che si allontanano velocemente.

Strofino ancora il dorso della mano destra contro la mia bocca, per cancellare i segni del secondo bacio, e quando Lechero ritorna dal barbiere, sono ancora seduto sul divano, con lo sguardo fisso nel vuoto; vengo riportato alla realtà da una domanda del mio Capo.

“Che cos’è quella?” mi domanda, indicando una piccola macchia scura che spicca sul pavimento, facendo lo stesso con un’altra sulla pelle del divano: in entrambi i casi si tratta del sangue che Nicole ha perso, in seguito allo schiaffo che le ho assestato.

“Colpa mia, Patròn, a volte perdo sangue dal naso e finisce sempre che faccio un disastro. Ho cercato di ripulire tutto prima del tuo ritorno, ma quelle due macchie mi sono sfuggite” spiego, parandomi prontamente il culo “vado a prendere uno strofinaccio in cucina e rimedio subito, Patròn”.

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Capitolo 21
*** Start Again (Nicole) ***


Al mio rientro in camera, non bado minimamente a Lincoln che sta parlando al telefono: mi lascio cadere su una poltroncina bianca, nascondo il viso tra le mani e scoppio nel pianto disperato che ho trattenuto per tutta la strada del ritorno.

Distrattamente, sento Burrows chiudere la chiamata, avvicinarsi a me e costringermi a scostare le mani.

“Ma si può sapere che cazzo ti è successo? Perché perdi sangue dal naso?” domanda, sconcertato, squadrandomi da capo a piedi “ma quello che indossi è un abito da suora?”

“Sì” rispondo, togliendomi il velo e gettandolo a terra con rabbia “indosso un maledetto abito da suora perché sono una maledetta cretina. Una maledetta cretina convinta di poter rimediare agli errori che ha commesso”

“Potresti essere più chiara? Perché non ho capito una sola parola di quello che hai detto”

“Te la farò molto più semplice, Burrows, in modo che perfino un gorilla come te riesca a capirlo: sono riuscita ad entrare a Sona, è da lì che vengo infatti”

“Stai scherzando?”

“No, idiota, per quale motivo dovrebbe essere uno scherzo?”

“E si può sapere come sei riuscita ad entrare lì dentro?”

“Grazie ad una ragazza che si chiama Carmelita” dico, spiegandogli chi è la ragazza panamense, come si è svolto il nostro incontro casuale, ed il piccolo trucco che lei usa per intrufolarsi indisturbata nella prigione; Lincoln ascolta ogni mia parola in silenzio, ma la sua espressione, solo apparentemente impassibile, mi fa capire che sono nei guai.

“Tu non sei neppure lontanamente consapevole dell’enorme rischio che hai corso facendo questo, vero?” tuona, alzando la voce “non hai pensato che qualche detenuto avrebbe potuto scoprirti? A quel punto che cosa avresti fatto? Come pensi che saresti riuscita ad uscire indenne da una situazione simile?”

“E invece ti sbagli, perché ho pensato a questo. Ho pensato a qualunque eventualità, ma ho deciso di affrontare ugualmente i possibili rischi perché avevo bisogno di parlare faccia a faccia con Teddy, senza reti a dividerci”

“E cosa hai ottenuto?”

“Niente… A parte uno schiaffo e qualche livido sul collo che apparirà nei prossimi giorni”

“Ha provato a strangolarti?”

“Mi ha solo minacciata. Lo ha fatto per intimidirmi. Ha detto che non devo più presentarmi a Sona, perché la prossima volta non sarà così clemente, e credo che non stesse bluffando”

“E doveva aggredirti e picchiarti di nuovo per farti capire che devi stare lontana da lui il più possibile? Mi auguro che dopo questa brutta esperienza, tu abbia finalmente imparato la lezione” commenta lui, dando il colpo di grazia al mio sistema nervoso.

“Sei proprio uno stronzo” sibilo, inviperita “parli in questo modo perché odi Teddy, e perché non vuoi neppure sforzarti di capire e comprendere la situazione in cui mi trovo. Tu non hai la più pallida idea di come ci si sente a perdere una persona che si ama”

“Attenta a quello che dici, perché tu non sai assolutamente nulla di me”

“Vorresti dirmi che anche tu sai che cosa significa soffrire per amore?” domando, in tono derisorio, per ripagarlo delle offese e delle frecciatine gratuite che non perde occasione per lanciarmi, e la sua risposta mi coglie del tutto impreparata: mi si avvicina, fronteggiandomi con uno sguardo duro e con voce altrettanto glaciale.

“Sì, perché poche settimane fa ho assistito all’esecuzione della donna che amavo, e non ho potuto fare nulla per salvarla perché stavamo parlando al telefono ed eravamo a chilometri di distanza l’uno dall’altra: l’ho sentita supplicare per essere risparmiata, ed ho sentito i colpi di pistola che l’hanno uccisa. E adesso sto per rivivere quest’incubo una seconda volta, perché gli uomini che hanno freddato Veronica, senza battere ciglio, sono gli stessi che mi hanno incastrato e che volevano farmi finire sulla sedia elettrica. E adesso…” s’interrompe per prendere da una tasca della giacca due fotografie e le scaglia sul tavolino che costituisce l’unico ostacolo tra noi due “adesso hanno preso mio figlio e Sara. E se entro una settimana Michael non riesce ad evadere da Sona insieme ad un loro uomo che è stato rinchiuso lì dentro a sua volta, uccideranno anche loro due. Quindi non provare mai più a dirmi che non so che cosa significa perdere qualcuno che amo, perché sto rischiando di perdere tutto ciò che ho di più importante nella mia vita nell’arco di pochissime settimane”.

Quando Burrows termina il suo sfogo personale, prendo in mano le due fotografie per guardare con attenzione: nella prima è raffigurato un adolescente con i capelli castani e gli occhi verdi, indubbiamente ereditati dal padre, nella seconda, invece, è impressa una giovane donna dalla chioma rossa; entrambi reggono tra le mani un giornale e si trovano in un ambiente anonimo, probabilmente un vecchio edificio o un magazzino, impossibile da identificare.

“Scusami” mormoro, sinceramente dispiaciuta “io non immaginavo che…”

“Adesso che lo sai, cerca di non parlare più a sproposito”

“Quindi tu e Michael siete sotto ricatto da parte di queste persone? Ma perché lo stanno facendo? Che c’entrate con loro? Dove stai andando?” gli chiedo, corrucciando le sopracciglia, vedendolo indossare una giacca elegante ed inforcare i suoi immancabili occhiali da sole; e Burrows, sicuramente ancora offeso per ciò che gli ho detto, si limita a darmi una risposta laconica, senza scendere nei particolari.

“Devo incontrare una persona”

“Vengo anch’io con te”

“No!” ordina, categorico, puntandomi contro l’indice destro “tu resti qui e non provare a muoverti. Hai già fatto abbastanza per oggi. Al mio ritorno voglio trovarti esattamente dove sei ora”

“Non puoi trattarmi in questo modo!” esclamo, scandalizzata “io non sono la tua schiava!”.

Non ricevo altra risposta da parte sua: Lincoln esce dalla camera chiudendo la porta alle sue spalle, abbandonandomi qui dentro.

Lascio ricadere le braccia lungo ai fianchi e mi abbandono sulla poltroncina, appoggiando la testa sullo schienale imbottito, completamente da sola, ad eccezione del silenzio e dei pensieri che affollano la mia testa, perché nello stesso momento in cui poso gli occhi sulla mia fede nuziale, mi concentro in automatico su Theodore: rivedo il suo sguardo freddo, carico di odio e disprezzo, e mi sembra quasi di sentire la sua mano stretta attorno alla mia gola, che m’impedisce di respirare.

Sfioro appena la pelle del collo e deglutisco a vuoto, con le lacrime che prepotentemente tornano a pizzicarmi gli occhi, offuscandomi la vista; adesso, a mente lucida, dopo aver quasi rischiato la vita intrufolandomi in un carcere maschile, mi sento una completa idiota per quello che ho fatto, per aver sperato davvero, con tutta me stessa, che il mio uomo potesse perdonarmi.

Lui è stato chiarissimo durante il nostro primo incontro, ed ha rimarcato molto bene il concetto nel corso del secondo: mi odia, la mia sola presenza lo disgusta profondamente e non vuole avere nulla a che fare con me.

Quello che è successo a Panama, è stata solo una piccola parentesi dettata dall’alcol.

Devo arrendermi alla realtà dei fatti: ho perso Teddy per sempre; posso provare ad insistere tutte le volte che voglio, supplicarlo in ginocchio, ma niente e nessuno lo riporterà indietro da me.

Ho perso l’uomo della mia vita per una leggerezza e non posso incolpare nessun altro se non me stessa.

Eppure, nonostante la nostra storia sia arrivata ad un capolinea definitivo, non riesco a liberarmi né della mia fede né della sua appesa alla catenina dorata.



 
Lincoln fa ritorno dall’appuntamento due ore più tardi e non nasconde la sorpresa di trovarmi esattamente nello stesso punto in cui mi aveva lasciata, proprio come espresso da lui stesso.

“Non credevo che mi avresti ascoltato. Anzi, se devo essere sincero, ero convinto che non ti avrei più trovata” commenta, togliendosi la giacca e lanciandola sopra al letto “posso chiederti per quale motivo non te ne sei andata?”

“Perché avrei dovuto farlo? Non ho un posto dove andare. Potrei tornare in America, dall’amica che mi ha ospitata dopo che io e T-Bag ci siamo separati, ma sarebbe troppo pericoloso e non farei altro che metterla in una posizione delicata: ha già fatto abbastanza per me, non voglio farle perdere il lavoro e renderla complice della complice di un evaso. La mia vita è già abbastanza incasinata, non ci tengo ad incasinare anche quelle degli altri” mormoro, con un mezzo sorriso, stringendomi nelle spalle “e poi non sono stata sempre qui, immobile. Come puoi vedere mi sono cambiata, ho buttato nel cestino della spazzatura quell’orribile tunica ed il velo”

“Sì, lo avevo notato” commenta di nuovo Burrows, con un’occhiata che non riesco a decifrare: lui ed il fratello minore si assomigliano molto in questo, è pressoché impossibile capire che cosa passa per il loro cervello, perché i loro occhi non lasciano trasparire la benché minima traccia di emozione “ho bisogno di una doccia”

“Lincoln!” esclamo, bloccandolo prima che possa chiudersi in bagno “prima che tu possa andare, volevo parlarti”

“Riguardo a cosa?” mi domanda lui, accigliato, allontanando la mano dalla maniglia della porta ed incrociando le braccia muscolose, che la camicia bianca e aderente ricopre a fatica.

“Durante la tua assenza, ho pensato a quale potrebbe essere la cosa più giusta da fare per me e credo che a te ed a Michael non dispiacerà affatto avere un’alleata, vista la situazione in cui entrambi vi trovate”

“Scordatelo”.

La parola secca, imperativa e categorica del giovane uomo, mi fa spalancare gli occhi; e quando prova ad entrare in bagno glielo impedisco, interponendomi tra lui e la porta.

“Perché?” chiedo, con uno sguardo risentito “perché non vuoi accettare il mio aiuto? È a causa di T-Bag? Sei ancora convinto che potrei prendermi gioco di voi e voltarvi le spalle alla prima occasione?”

“Non si tratta di questo” risponde Lincoln, provando a scostarmi, ma io faccio resistenza, appoggiando i palmi delle mani sul legno chiaro, perché la discussione non è ancora finita.

“E di che cosa, allora?”

“Non voglio avere altre vite sulla mia coscienza” urla, esasperato, facendomi trasalire “anche se sei una pazza completamente fuori di testa, e nessuno riuscirà mai a farmi pensare il contrario, non ci tengo ad avere un altro peso da portare sulle spalle. Tu non immagini neppure la pericolosità della situazione in cui ci troviamo io e Michael, di conseguenza stanne fuori. Puoi restare qui, se non hai un altro posto dove andare o se vuoi prendere del tempo per chiarirti le idee, ma sono intenzionato a coinvolgerti ancora di più in questa storia. Che tu ci creda o no lo faccio per il tuo bene, un giorno mi ringrazierai per questo.  E adesso, se non ti dispiace, ho davvero bisogno di fare quel bagno perché anch’io devo schiarirmi le idee”.

Provo a fare ancora resistenza, ma questa volta il fratello maggiore di Scofield riesce a spostarmi bruscamente, spingendomi di lato, rifugiandosi nel bagno e sottraendosi così al confronto; picchio più volte i pugni sul legno, per attirare l’attenzione del giovane uomo, ma lui si rifiuta di aprire la porta, anzi: dopo qualche minuto, sento il getto d’acqua della doccia colpire le mattonelle del pavimento e le pareti di vetro.

“La discussione non è finita qui” grido, in modo che possa sentirmi, nonostante il rumore dell’acqua “e se pensi di liberarti così facilmente di me, ti sbagli di grosso”.

Colpisco un’ultima volta la porta, in un eccesso di rabbia ed impotenza, mi allontano e mi lascio cadere sul divano, completamente esausta: la paura di essere scoperta all’interno di Sona, il litigio violento con Teddy e la discussione animata con Burrows mi hanno svuotata di ogni energia, riducendomi ad un guscio vuoto, e solo ora me ne rendo conto.

Solo ora sento il peso dell’intera giornata gravare sulle mie spalle.

Chiudo gli occhi, con la speranza di riuscire a riposare per qualche minuto senza essere perseguitata dagli incubi, ed incredibilmente ci riesco, perché la stanchezza ha il sopravvento su tutto quello che mi è accaduto; mi risveglio diverse ore dopo, a sera inoltrata, sentendo qualcosa di soffice posarsi sul mio corpo: sollevo le palpebre e mi rendo conto che si tratta di una coperta che Lincoln ha sistemato su di me, ed il diretto interessato ha occupato il lato opposto del divano, laddove i miei piedi non arrivano.

“Tu ed io abbiamo iniziato con il piede sbagliato” commenta, mentre mi siedo e mi stropiccio gli occhi con entrambe le mani.

“Che cos’è questa? Un’offerta di pace?”

“Voglio solo farti capire che non ce l’ho con te, ma non posso raccontarti nei dettagli quello che sta succedendo e coinvolgerti in prima persona, perché la tua vita sarebbe in grave pericolo, Nicole” mormora Burrows, chiamandomi per nome per la prima volta “quegli uomini sono davvero molto pericolosi. Tutte le persone che credono alla mia innocenza, e che provano ad aiutare me e Michael finiscono per fare una brutta fine. Se ti permetto di aiutarmi, ti uccideranno come hanno fatto con Veronica e faranno a pezzi il tuo corpo perché non venga mai ritrovato”

“Ed io voglio farti capire che non sono una sprovveduta, non immagini neppure tutto quello che ho passato prima di arrivare a Chicago” sussurro a mia volta, con un mezzo sorriso, ripensando alla vita che ho condotto prima di essere assunta a Fox River “capisco la tua preoccupazione, ma non puoi continuare da solo, si vede che hai disperatamente bisogno di aiuto… E dal momento che, mio malgrado, mi trovo a Panama senza una casa ed una meta precisa, e non posso tornare a Chicago perché verrei arrestata e rinchiusa in prigione, sarò io il tuo braccio destro. Allora… Vuoi raccontarmi la storia dall’inizio?”.

Guardo Lincoln con il sopracciglio destro sollevato, e lui si passa le mani sul viso, sospirando.

“So già che me ne pentirò molto amaramente” commenta, prima di mettermi al corrente di ogni singola cosa.

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Capitolo 22
*** The Call (T-Bag) ***


Anche se non lo confesserò mai ad alta voce, la visita di Nicole mi ha profondamente destabilizzato e ci sono momenti, in particolar modo durante la notte, in cui non riesco a non ripensare alle sue parole supplicanti, ai suoi occhi azzurri sgranati e soprattutto alle sue labbra, alla loro consistenza morbida ed al loro gusto.

A volte, poi, mi sembra quasi di sentirle ancora sulle mie.

E per evitare che ciò accada ancora e ancora, rischiando di rimanere coinvolto in un circolo vizioso, faccio ciò che qualunque altra persona farebbe al mio posto: mi butto anima e corpo sul lavoro, pensando esclusivamente ad accontentare ogni singola richiesta dei miei clienti, ed ogni singolo capriccio del mio Capo; con lui, poi, cerco di essere particolarmente zelante ed impeccabile perché devo rimediare all’errore che ho commesso quando ho preso le difese di Carmelita perché, per ripetere le parole usate da Lechero, mi sono permesso di pensare al posto suo.

Ricoprire il ruolo di leccapiedi può essere davvero snervante.

“Teodoro, vai a prendere il mio bucato”

“Sì, Patròn, vado immediatamente” rispondo, senza la minima esitazione, terminando di versare il caffè per lui e per i suoi uomini; appoggio la moca sopra al vassoio, mi allontano di qualche passo in direzione della terrazza e mi blocco “quasi dimenticavo… Mi sono già occupato di avvisare il barbiere e ha detto che ti può fare il servizio completo per le due di oggi pomeriggio… Sempre se per te va bene, Patròn”

“Patròn!” si limita a ripetere lui, ridendo di me e dell’appellativo che gli rivolgo quasi sempre quando rispondo ai suoi ordini ed alle sue richieste; scendo le scale della terrazza senza aggiungere altro, mordendomi la lingua per non borbottare qualche offesa che potrebbe non sfuggire ad orecchie tutt’altro che indiscrete, e non mi accorgo del giovane uomo appoggiato al sottoscala, nascosto in una zona all’ombra, ma la sua voce arriva forte e chiara alle mie orecchie.

“È arrivato il momento di riscattarti da tutto il male che hai fatto, Teodoro, ho bisogno di un favore e tu sei l’unica persona a cui posso rivolgermi!” esclama Michael, tormentandosi i palmi delle mani “Lechero ha un cellulare. Devi procurarmelo oggi stesso”.

Mi volto a fissare il giovane uomo e lo raggiungo, appoggiandomi alla balaustra delle scale.

“E che problema c’è?” domando, con un sorriso divertito “già che ci sono cos’altro dovrei fare? Trasformare l’acqua in vino? O palpare il culo alla graziosa suora?”

“Non è troppo grande per i tuoi standard?”

“Stai attento, Michael, non è mai una buona idea mordere la mano a cui stai chiedendo del cibo” mormoro, continuando a sorridere “è stato un piacere parlare con te, come sempre, ma adesso devo andarmene: il mio Patròn sta aspettando il suo bucato e credo che non sarebbe affatto contento di vedermi in tua compagnia. Sai… A quanto pare, non sei affatto nelle sue grazie”

“Ma io non ti sto chiedendo del cibo” insiste il piccolo Michelangelo, interponendosi tra me e la strada per la lavanderia “ti sto chiedendo quel cellulare, si tratta di una faccenda estremamente delicata ed importante”

“Dopo che mi hai lasciato agonizzante dentro quel capanno, dopo che mi hai quasi privato anche della mano destra, dopo che te ne sei andato con i miei soldi, hai la faccia tosta di venire da me chiedendomi un simile favore? Non sono intenzionato a farlo neppure se in questo momento t’inginocchi a terra e mi fai il miglior pompino di tutta la mia vita, Scofield. È meglio se inizi ad azionare gl’ingranaggi del tuo brillante cervello per pensare ad un’altra soluzione, perché con me sei completamente fuori strada. Ti saluto, dolcezza”.

Mi allontano velocemente, dopo quest’ultima stoccata, ma sono costretto a bloccarmi a causa delle parole che Michael pronuncia ad alta voce.

“Scommetto che i tuoi nuovi amici ed il tuo Patròn non sanno nulla del tuo passato, vero?”

“E con questo che cosa staresti cercando di dirmi?” domando, socchiudendo gli occhi, anche se ho già capito dove vuole andare a parare con questo discorso; ed infatti le parole che pronuncia subito dopo, avvicinandosi a me per fronteggiarmi, consolidano i miei sospetti.

“Sto dicendo che ci troviamo in un Paese molto religioso e sono sicuro che i bravi ragazzi di Panama non apprezzano affatto gli stupratori ed i pedofili come te, Theodore. Di conseguenza, farai di tutto per procurarmi quel fottuto cellulare” dice a denti stretti, con la voce ridotta ad un sussurro.

Mi passo la lingua sulle labbra, ridendo nervosamente e scompigliandomi i capelli: è sempre così, quando il piccolo pesciolino non riesce ad ottenere ciò che vuole nel modo che ha progettato, allora passa alle minacce; con me lo ha fatto numerose volte, riducendomi con le spalle al muro e con l’impossibilità di passare al contrattacco, proprio come ora.

Sono di nuovo intrappolato in un vicino cieco, senza alcuna possibilità di fuga: tutto quello che ha detto corrisponde alla verità, e se Lechero ed i suoi uomini, in particolar modo Sammy, venissero a conoscenza della natura sessuale dei miei crimini, allora sarei spacciato.

Verrei torturato, ed il mio corpo verrebbe appeso alla balaustra della terrazza, come monito per tutti gli altri.

Deglutisco a vuoto, prima di dare una risposta a Michael.

“Preferirei evitare di ritrovarmi appeso senza più i gioielli di famiglia, ma ciò che mi stai chiedendo è pressoché impossibile. Non posso allontanarmi da Lechero con il suo cellulare senza che lui se ne accorga, ce lo ha sempre con sé e nessun altro ha il permesso di prenderlo ed usarlo. Se mi scopre…”

“La vita di Sara e di mio nipote dipende da questa telefonata, sono sicuro che riuscirai a trovare un modo. Oggi pomeriggio” mi ammonisce, per poi andarsene a passo veloce.

Quando resto da solo, sfogo la mia rabbia prendendo a calci un muro, facendo attenzione di non essere visto né sentito, sussurrando qualche imprecazione rivolta a Scofield: non m’importa nulla se la vita della bella dottoressa Tancredi e del figlio di Burrows sono in pericolo, per quel che mi riguarda non sono affari miei e la loro sorte mi lascia totalmente indifferente, ma so che qual’ora non dovessi portare il cellulare di Lechero al pesciolino, lui andrebbe a spifferare tutto quello che sa su di me.

Perché? Perché non ha nulla da perdere.

D’altro canto, se il mio Patròn dovesse scoprirmi mentre tento di rubargli il cellulare, sarei ugualmente spacciato.

La verità è che sono in mezzo a due fuochi, ed ora sta a me decidere su quale buttarmi a braccia aperte, quale brucerà di meno.

Ed in situazioni come questa non è mai saggio perdere tempo ed indugiare troppo su quale opzione scegliere, per cui prendo in fretta la mia decisione e nel primo pomeriggio mi precipito da Scofield nella sua cella e, facendo attenzione a guardarmi alle spalle, gli passo il piccolo apparecchio tecnologico che adesso ha in pugno le nostre vite.

“Sei schifosamente fortunato: Lechero non lo ha portato con sé perché lo ha messo a ricaricare” dico a bassa voce, guardando ancora una volta in direzione del corridoio affollato “non farti vedere da nessuno, hai ventisei minuti a tua disposizione prima che faccia ritorno dal barbiere. Ti conviene farteli bastare, altrimenti siamo entrambi fottuti e sappi che il mio culo dell’Alabama non affonderà da solo”.

Lo ammonisco, puntandogli contro l’indice destro affinché la mia minaccia sia più efficace, e poi mi allontano dalla sua cella, appostandomi a pochi metri di distanza da quella del barbiere, in modo da osservare come si svolge l’intera seduta senza essere visto dal mio Patròn, da Sammy o dal resto del gruppo: il bello di Sona è proprio questo, ci sono tantissimi posti che fungono da perfetto nascondiglio, e se qualcuno deve pareggiare i conti, potrebbe benissimo tagliare la gola o strangolare il povero malcapitato nella più assoluta tranquillità, al riparo in uno dei tanti anfratti della struttura.

Peccato che a Sona non funziona così, proprio per evitare che il caos e l’anarchia di diffondano a macchia d’olio.

Se qualcuno ha un problema personale con un altro detenuto, e lo vuole risolvere nel sangue, deve chiedere il permesso di procedere a Lechero, e dopo aver ottenuto l’approvazione e l’autorizzazione a proseguire, viene allestito un vero e proprio ring nel cortile interno della prigione.

E la fine dell’incontro viene decretata dal passaggio a miglior vita di uno dei due avversari.

Non esiste un altro modo per evitare che ciò avvenga: una volta che hai lanciato la sfida, non puoi ritrattare.

Spalanco gli occhi quando vedo il barbiere terminare la sua seduta molto prima del previsto, almeno una decina di minuti prima dello scadere della consueta mezz’ora; abbandono il mio nascondiglio imprecando e ritorno da Scofield correndo, scontrandomi con un uomo che a fatica riconosco come Bellick.

Mi aggrappo alle sbarre della cella, per riprendere fiato, e gli ordino di restituirmi immediatamente il cellulare perché ho pochissimi minuti a mia disposizione per rimetterlo al suo posto, a caricare, prima che il mio Capo si accorga della sua scomparsa e risalga a noi due; il piccolo Michelangelo ignora le mie parole, continuando a gesticolare ed a parlare con il fratello, accennando ad una causa persa e ad un fantomatico orologio che segna mezzanotte, o le tre, e sono costretto ad urlare per essere degnato di uno sguardo.

“Non posso dartelo adesso. Mi serve ancora, è questione di qualche secondo”

“Io non voglio ritrovarmi senza testa per una questione di qualche secondo. Dammi immediatamente quel telefono, non costringermi a strappartelo dalle mani”

“Se non vuoi ritrovarti ad essere cibo per i corvi, allora cerca di renderti utile ed impedisci a Lechero di raggiungere il suo appartamento per i prossimi due minuti, Bagwell” ringhia Michael, urlando a sua volta; mi mordo la punta della lingua per trattenermi dall’istinto di saltargli addosso e strangolarlo con le mie stesse mani, e mi precipito per l’ennesima volta nel corridoio, correndo il più velocemente possibile, cercando di farmi venire in mente qualche cazzata convincente per impedire a Lechero di entrare nel suo appartamento fino a quando il piccolo pesciolino non avrà posizionato il cellulare sul supporto per ricaricarlo.

L’ho quasi raggiunto, quando nella mia strada appare per la seconda volta consecutiva un ostacolo improvviso: Bellick si posiziona dinanzi a me, impedendomi di salire le scale per arrivare alla terrazza prima che Lechero rientri nel suo appartamento e noti l’assenza del cellulare in carica.

“Ti ho visto parlare in modo concitato con Scofield, poco fa, scommetto che voi due state architettando qualcosa, ho indovinato? Si tratta di un altro piano di evasione? Voglio esserci dentro anch’io”

“Questo non è il momento opportuno” ringhio, scostandolo con violenza, rivolgendogli uno sguardo disgustato, come se davanti ai miei occhi non ci fosse un uomo, ma il più lurido dei vermi “e comunque sei completamente fuori strada. Non so che cosa tu abbia visto, ma quando si tratta di me e Scofield la parola ‘noi’ è completamente fuori luogo”.

Senza aggiungere altro, salgo velocemente gli scalini di ferro, rischiando d’inciampare più volte, ed arrivo appena in tempo per vedere il mio Patròn che scosta la tenda rossa che funge da separé tra la terrazza ed il salotto della sua abitazione; dallo spiraglio riesco ad intravedere Michael nascosto nel corridoio, con ancora in mano il cellulare: a quanto pare, sono arrivato appena in tempo per evitare un’enorme catastrofe.

Richiamo l’attenzione del mio Capo, urlando il suo nome, lui si blocca all’istante e mi rivolge uno sguardo perplesso.

“Che cosa c’è?”

“C’è una cosa che devi sapere subito, Patròn”

“Cioè?”.

Mi mordo la punta della lingua, esitando, e lancio una rapida occhiata in direzione di Michael che mi risponde con un’espressione disperata: so quello che sta passando per la sua testa, ha paura che gli giri le spalle all’ultimo secondo e che riveli la sua presenza a Lechero, perché mi sono comportato in modo simile numerosissime volte in sua presenza.

“Credo che il barbiere non abbia fatto un buon lavoro” mormoro, indicandogli la testa con una smorfia; lui si abbassa, affinché possa ispezionargli la rasatura con più attenzione, e ne approfitto per fare un cenno a Scofield, che esce dal suo nascondiglio, posiziona il cellulare sopra al caricatore e sparisce rapidamente nel corridoio, perché là c’è una scala interna che conduce al piano inferiore dell’intero edificio “no… Mi sono sbagliato, non c’è alcun taglio… Anzi, se devo essere sincero credo che questa sia la miglior rasatura che io abbia mai visto in tutta la mia vita. Credo che inizierò ad andare molto più spesso da lui, non voglio tornare ad essere il barbone che ero al mio arrivo a Sona”

“Un barbone!” esclama lui, ridendo divertito “a volte mi domando come fanno a venirti in mente certi paragoni, Teodoro!”.

Sorrido a mia volta e poi mi congedo, visto che per il momento la mia presenza non è richiesta; esco in terrazza, mi appoggio alla balaustra e prendo un profondo respiro, perché c’è mancato davvero poco: se quell’idiota di Bellick mi avesse trattenuto per qualche istante in più, a quest’ora sia io che Scofield saremo due spaventapasseri senza testa.

Ammetto che, per un solo istante, sono stato tentato di voltare le spalle al piccolo Michelangelo e di vendicarmi per tutto quello che mi ha fatto passare.

Ma in questo modo non avrei avuto la soddisfazione di vederlo in pesante debito nei miei confronti.
 

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Capitolo 23
*** The Message (Nicole) ***


Prendo un profondo respiro ad occhi chiusi, per rilassarmi, ma dopo una decina di secondi sono costretta a coprirmi di nuovo la bocca con una mano ed a correre in bagno per non sporcare il pavimento della camera da letto; mi lascio cadere in ginocchio sulle mattonelle e svuoto il contenuto del mio stomaco nella tazza del water, offrendo uno spettacolo orribile al mio alleato inaspettato.

Quando lo sento avvicinarsi a me, agito il braccio destro per fargli capire che non voglio che assista a questa scena pietosa, ma lui ignora il mio ordine e s’inginocchia a sua volta per scostarmi i capelli dal viso, sistemandoli dietro le spalle.

“Grazie” mormoro ansimando, non appena riesco a fermarmi ed a riprendere il controllo del mio corpo, anche se continuo a tremare “ma non era necessario. È già abbastanza umiliante, non c’è bisogno che tu faccia questo”

“Che ti serva da lezione” ribatte Burrows, passandomi un asciugamano affinché possa pulirmi la bocca ed il viso “ti avevo detto di fare attenzione, ma tu non hai ascoltato le mie parole”.

In effetti Lincoln non ha torto: al mio arrivo in albergo mi aveva detto molto chiaramente di non bere l’acqua corrente, e che per ogni esigenza personale c’era il minibar o la reception; ma io ho ignorato il suo consiglio e, sovrappensiero, ho riempito un bicchiere di plastica con l’acqua del rubinetto e l’ho mandata giù in pochi sorsi.

Ed ora ne sto pagando le conseguenze.

Chi lo avrebbe mai detto che un oggetto così piccolo ed insignificante come un bicchiere d’acqua è in grado di ridurti quasi ad uno straccio?

“Mi dispiace, non l’ho fatto apposta” mormoro, asciugando il sudore e deglutendo, osservo Lincoln alzarsi e tornare in camera, e lo seguo a mia volta nonostante il tremore alle gambe “in ogni caso questo non cambia assolutamente nulla perché voglio venire con te”

“In queste condizioni? Non se ne parla nemmeno, non sei neppure in grado di fare un passo. Non ti muoverai da questa stanza, ed al mio ritorno se starai ancora male, chiameremo un medico”

“Quello che stai per fare è assolutamente pericoloso” lo affronto, posizionandomi davanti a lui “se davvero riusciamo a trovare Sara e tuo figlio, ci sarà qualcuno a sorvegliarli. Credi sul serio di farcela senza qualcuno pronto a coprirti le spalle? E poi, guarda, sto già meglio. Si è trattato solo di un malessere passeggero, sono sicura di non essere la prima a cui capita. E sono altrettanto sicura di riuscire ad aiutarti senza essere un ostacolo. Dico davvero, Lincoln, non puoi farcela da solo”

“D’accordo… D’accordo… Ma se dovessi sentirti male, in qualunque momento, tu abbandoni subito. D’accordo?”

“D’accordo, ma ti posso assicurare che non accadrà” rispondo, annuendo, preferendo omettere il fatto che sto già lottando contro un’altra ondata di nausea che mi parte dalla bocca dello stomaco; seguo Burrows fuori dalla camera d’albergo e, mentre scendiamo le scale, gli rivolgo qualche domanda, per non pensare al malessere fisico che sento “allora? Qual è la nostra prima mossa?”

“Dobbiamo incontrare Susan”

“Susan? Chi è Susan?”

“Il nostro contatto con quegli uomini. È lei a coordinare l’intera operazione, se così si può chiamare. Non farti ingannare dalle apparenze: è una iena. Ed io non ho la più pallida idea di come convincerla ad accettare la chiamata”

“Non ha ancora accettato?” domando, con uno sguardo preoccupato.

Il piano di Michael e Lincoln non è ancora iniziato, e già c’è una falla che rischia di comprometterlo del tutto.

Non ricevo risposta perché il cellulare di Burrows inizia a squillare, lui risponde e dopo qualche concitato minuto trascorso a discutere e gesticolare, riattacca ed accelera il passo, costringendomi a fare altrettanto per non rischiare di perderlo tra la folla; noto il cambiamento di espressione che c’è sul suo viso, ora molto più teso, e gli chiedo chi era il suo interlocutore.

“Mike” dice, riferendosi al fratello minore “non so come abbia fatto, ma è riuscito a procurarsi un cellulare a Sona. Purtroppo ha solo mezz’ora a sua disposizione per poter parlare con Sara, e mi ha detto che devo riuscire ad ottenere quella chiamata in qualunque modo possibile. E subito. Siamo arrivati”.

Sollevo lo sguardo in direzione del lussuoso albergo davanti a noi e piego le labbra in una smorfia: il nostro contatto non bada affatto a spese.

Quando ci avviciniamo all’entrata della reception, sorge un altro problema: un uomo in giacca e cravatta, con un auricolare, m’impedisce fisicamente di entrare nell’albergo, facendomi capire che i jeans e la canottiera che indosso non sono consoni all’ambiente interno dell’edificio; apro la bocca per protestare, ma Lincoln mi zittisce con un’occhiata che vale più di qualunque parola.

Stiamo intraprendendo una vera e propria lotta contro il tempo, di conseguenza non è il caso di discutere con un buttafuori che mi tratta come una stracciona.

Mi allontano di qualche passo dall’entrata, tornando sul marciapiede, ma dalle enormi vetrate dell’albergo riesco comunque a vedere il mio alleato parlare con una donna dai capelli neri.

Prendo un fazzoletto da una tasca dei pantaloni e mi asciugo la fronte e le guance sudate; inspiro ed espiro un paio di volte per scacciare la nausea, e dopo qualche tentativo ci riesco.

Giuro che non berrò mai più acqua da un rubinetto in tutta la mia vita, se poi le conseguenze rischiano di essere così spiacevoli.

“Allora? Ci sei riuscito?” chiedo subito a Lincoln, non appena mi raggiunge sul marciapiede, e fortunatamente le notizie che mi porta sono buone.

“Sì, Susan ha accettato, sono riuscito a convincerla. Adesso dobbiamo aspettare di ricevere una chiamata da Michael. Mi auguro che Sara riesca a fargli capire dove si trovano lei ed LJ, altrimenti sarà stato solo tempo sprecato”

“Vedrai che non sarà solo tempo sprecato” mormoro, provando a rassicurare sia lui che me, ma non è semplice rimanere in attesa di una chiamata mentre i minuti continuano a scorrere inesorabilmente; per Lincoln è una vera o propria tortura, perché in ballo c’è la vita del suo unico figlio, ed io non posso neppure immaginare quello che sta provando in questo momento, ma posso andarci molto vicina: so che vuole andare da lui per liberarlo e per ricongiungersi, ma allo stesso tempo non può muovere un solo muscolo perché non ha la più pallida idea di dove LJ e Sara siano rinchiusi.

Il non sapere può essere la peggiore delle torture a volte; forse perfino più crudele di qualunque forma fisica.

L’impotenza, l’impossibilità di fare qualcosa per correre in soccorso delle persone amate.

Con nostro enorme sollievo, Michael richiama il fratello maggiore e mi ritrovo ad assistere ad un’altra conversazione animata, di cui riesco a capire solo qualche mezza frase che sembra essere priva di un senso logico; quando riattacca, mi afferra per il polso destro e mi trascina verso la strada, chiamando a gran voce un taxi.

Non appena una vettura rossa parcheggia davanti a noi, mi spinge subito al suo interno e rivolge qualche domanda veloce all’autista, chiedendogli se da queste parti esiste una statua che raffigura Santa Rita.

“Da quello che so io, signore, l’unica statua di Santa Rita che c’è da queste parti è situata nel quartiere a luci rosse. Volete andare a spassarvela un po’?”

“Ci porti lì” risponde lui, secco, ignorando il commento dell’uomo; quest’ultimo non aggiunge altro, limitandosi ad obbedire ed a mettere in moto la macchina.

“Vuoi spiegarmi che cosa sta succedendo? Che cosa ti ha detto tuo fratello? Perché stiamo andando nel quartiere a luci rosse?”

“Michael è riuscito a parlare con Sara. Ha continuato a ripetergli che la sua era una causa persa, che lei e mio figlio riuscivano a vederla con chiarezza. E gli ha anche detto che, forse, quello di cui aveva bisogno era un po’ più di tempo e che… E che si sentiva come se lui fosse posizionato a mezzanotte mentre lei era alle tre”

“Ma… Ma che cosa significa? Queste parole non hanno alcun senso”

“È un codice segreto. Immagino che Sara sia stata costretta a parlare così perché fosse sorvegliata a vista. Quando ho parlato con Michael, mi ha subito detto che Santa Rita è la patrona delle cause perse, e se Sara e mio figlio riescono a vederla, questo può solo significare che si trovano nei pressi di una statua che la raffigura. E se l’unica statua di Santa Rita si trova nel quartiere a luci rosse di Panama City, ciò significa che si trovano proprio là”

“E per quanto riguarda il discorso della mezzanotte e delle tre?”

“Forse lì vicino c’è un orologio. Magari il campanile di una chiesa. Non lo so, penseremo a questo al nostro arrivo” mormora il mio alleato, scuotendo la testa.

Ma al nostro arrivo siamo costretti a fare i conti con una spiacevole sorpresa: non c’è alcun orologio nei pressi dell’imponente statua di pietra della Santa; solo prostitute in cerca di clienti, ed alcuni uomini dalle facce tutt’altro che rassicuranti.

Quel genere di individui che non vorresti mai incontrare in piena notte, mentre rientri a casa da sola.

“Lincoln, e adesso che cosa facciamo? Potrebbero essere dentro uno qualunque di questi edifici, non possiamo ispezionarli uno ad uno, rischieremo solo di attirare l’attenzione e loro potrebbero capire ogni cosa” dico, spostando freneticamente lo sguardo da una costruzione all’altra, alla ricerca di un qualunque indizio sulla presenza di Sara e LJ, ma è tutto inutile perché non c’è nulla fuori posto: viste così, dall’esterno, nessuno sarebbe pronto a scommettere che all’interno di una di queste case ci siano due ostaggi legati, imbavagliati e costantemente sotto tiro.

“Un orologio… Un orologio… Un orologio…” ripete lui, in un sussurro, guardandosi attorno, concentrando poi gli occhi verdi sulla statua, spalancandoli “non si tratta di un orologio. Non c’è alcun orologio. È lei. È questa statua ad essere posizionata ad ore dodici rispetto al luogo in cui sono rinchiusi loro due. E se noi siamo ad ore dodici, le tre sono…”.

Il ragionamento di Burrows viene interrotto da un rumore che spezza il silenzio: qualcuno, dall’interno di un vecchio edificio dall’insegna traballante, lancia un masso che cade in strada, dopo aver spaccato il vetro di una finestra.

Sono loro.

Devono essere per forza loro, non può essere una coincidenza.

Ne sono convinta io come ne è convinto Lincoln: corre in direzione del vecchio edificio ed io faccio lo stesso, ignorando l’ennesimo attacco di nausea, ma vengo spinta di lato, bruscamente, quando appare un uomo che prova, senza alcun successo, ad aggredire il mio alleato; Burrows, oltre ad essere alto e ad avere le spalle larghe, ha un fisico prestante ed è molto muscoloso, difficilmente qualcuno che non è della sua stazza sarebbe in grado di metterlo al tappeto.

Ora più che mai è inarrestabile, perché in gioco c’è la vita di suo figlio.

“Grazie” sussurro mentre mi dà una mano a rialzarmi.

“Ringraziami quando saremo tutti salvi e lontani da qui, adesso non possiamo sprecare un solo secondo. No! Ferma! Da qui proseguo io, tu vai a cercare una macchina, avremo bisogno di un mezzo di trasporto per allontanarci il più in fretta possibile”

“Che cosa?”

“Pensi che non mi sia accorto degli sforzi che stai facendo per non farmi capire che stai male? Vai subito a cercare una macchina”.

Detto questo, senza dire altro, Lincoln si scaglia contro una porta chiusa dall’interno, riuscendo a sfondarla con una sola spallata, sparendo dalla mia vista.

Non obbedisco al suo ordine.

Resto immobile, appoggiata al muro che sorge alla mia destra, ad ascoltare i rumori che provengono dall’interno della stanza, facilmente riconducibili ad uno scontro fisico, ed anche se non riesco a vedere, riesco facilmente ad immaginare quello che sta accadendo: quell’ottuso gorilla di Burrows ha trovato più uomini di quello che pensava, ed ora è in difficoltà e rischia di beccarsi una pallottola in testa o di essere ucciso a calci e pugni.

So che nelle condizioni in cui mi trovo ora sono più d’intralcio che d’aiuto, ma non posso lasciare che venga ucciso per colpa della sua testardaggine e che ne paghino le conseguenze anche due persone innocenti.

E così, trasgredendo al suo ordine, entro a mia volta nella stanza.



 
Apro lentamente gli occhi e sbatto più volte le palpebre; provo a mettere a fuoco il posto in cui mi trovo, ma non ci riesco perché sono avvolta dall’oscurità più assoluta: tutto ciò che vedo è un buio quasi palpabile, e tutto ciò che sento è il terreno polveroso sotto il mio corpo, ed un caldo asfissiante.

Cerco di alzarmi, ma non riesco a fare neppure questo a causa delle robuste corde che ho attorno ai polsi ed alle caviglie, che m’impediscono la maggior parte dei movimenti, figurarsi scappare dalla prigione in cui sono stata rinchiusa.

Perché, per il momento, è l’unica cosa certa che so: qualcuno mi ha rinchiusa in una stanza, o in una cella, e non ha la minima intenzione di lasciarmi libera.

Come ci sono finita, però, è un mistero perché l’ultima cosa che ricordo è di aver trasgredito all’ordine di Lincoln: anziché scendere le scale ed andare alla ricerca di una macchina da ‘prendere in prestito’, l’ho seguito all’interno dell’edificio in cui Sara ed LJ erano tenuti in ostaggio.

Poi, il vuoto più assoluto.

Sento dei passi spezzare il silenzio che mi circonda e, quando vedo una porta spalancarsi, sono costretta a portarmi entrambe le mani davanti al viso per proteggere gli occhi dalla luce del sole; riesco a riaprire le palpebre solo quando i raggi solari vengono sostituiti da una luce più tenue, prodotta da una piccola lampadina a gas che ondeggia dal soffitto e che mi permette di vedere in faccia le persone che sono appena entrate nella stanza: si tratta di due uomini e di una giovane donna.

Gli uomini non li ho mai visti prima, ma riconosco subito la donna dai capelli neri, perché è la stessa che ho visto discutere animatamente con Lincoln nel bar dell’albergo; ed è proprio lei ad avvicinarsi e ad inginocchiarsi davanti a me, in modo che i nostri visi siano alla medesima altezza.

“Dove mi trovo?” chiedo subito, faticando a guardarla negli occhi perché le sue iridi sono chiarissime “chi siete? Che cosa è successo?”

“Non mi sorprende affatto sapere che non ricordi nulla di quello che è successo, visto il colpo che uno dei miei uomini ti ha assestato in testa” risponde Susan, con un sorriso che non arriva a contagiarle gli occhi, e che appare quasi beffardo “ma non preoccuparti, tesoro, perché ti aiuterò a ricordare ogni cosa. Prima, però, devi rispondere ad una domanda: chi sei? Sei un’amica di Lincoln?”

“Che cosa è successo?” ripeto, in un sibilo, rifiutandomi di darle spiegazioni.

“A quanto pare tu, Scofield e quell’idiota di Burrows eravate convinti di essere più furbi di noi, ed avete provato a liberare Sara ed LJ venendo a meno ai patti stipulati. Tu e lui avete fatto irruzione nell’edificio in cui i miei uomini si stavano occupando dei due ostaggi ed avete creato un bel casino, fortunatamente siamo riusciti a gestire l’intera situazione, ma siamo stati costretti a trasferirci da un’altra parte… E ti confesso che è stata una bella seccatura”

“State perdendo il vostro tempo con me. Se sperate di ottenere qualche informazione, state facendo un enorme buco nell’acqua: non so nulla, ed in ogni caso non sono intenzionata a dire una sola parola. Fareste meglio a lasciarmi andare”.

Mi sento una totale idiota già nel momento esatto in cui pronuncio questa minaccia con voce tremante: davvero spero di fare paura a questi uomini? Davvero spero d’intimidire delle persone che non si fanno scrupoli ad uccidere a sangue freddo chiunque costituisca un intralcio tra loro e l’obiettivo che si sono prefissati?

Sono finita in una trappola da cui non c’è uscita, a meno che Lincoln non appaia in questo stesso momento salvando me, suo figlio e Sara, nel caso loro fossero ancora vivi; ma non accadrà, so benissimo che non accadrà perché non è possibile, come so altrettanto bene che mi trovo faccia a faccia con le persone che da qui a breve mi uccideranno e mi faranno a pezzi, proprio come hanno fatto con la donna di Burrows.

Nessuno troverà mai il mio corpo.

Nessuno saprà mai che fine ho fatto.

Nessuno, neppure Teddy.

Susan scuote lentamente la testa, continuando a sorridere, ed è come ricevere una conferma ai miei terribili sospetti.

Sospetti che assumono una forma concreta quando vedo qualcosa scintillare tra le mani della mia aguzzina: abbasso lo sguardo e, con orrore, mi rendo conto che si tratta di un machete.

La lama affilata è intrisa di una sostanza rossa, viscosa; alcune gocce cadono sul terreno, dando forma ad una piccola pozzanghera dello stesso colore.

“No, tesoro” sussurra lei, scuotendo ancora la testa “non sono assolutamente intenzionata a lasciarti andare per un semplice motivo: Burrows e Scofield hanno trasgredito agli ordini ricevuti, hanno provato a fregarci e meritano una punizione per questo. Devono capire che non si scherza con la Compagnia, e ho bisogno anche di te affinché il messaggio arrivi forte e chiaro a destinazione”.

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Capitolo 24
*** The Deal (T-Bag) ***


Reagisco con sorpresa quando, attraverso un autoparlante, mi viene comunicato di avere una visita, perché credevo di essere stato molto chiaro con Nicole; e la mia sorpresa si trasforma in incredulità e curiosità non appena mi rendo conto che la ragazza che mi sta aspettando dall’altra parte della recinzione non è la mia ex compagna, ma bensì Carmelita: la prostituta panamense al servizio di Lechero.

Mentre mi avvicino a lei, mi soffermo ad osservare i vestiti che indossa: un paio di sandali, una minigonna jeans ed una canottiera bianca che lascia generosamente vedere il reggiseno di uno sgargiante arancione fluorescente.

“Sei sprecata con quegli abiti addosso, non rendono affatto giustizia né a te né al tuo corpo” commento, scrutandola ancora prima di concentrarmi sul suo viso “ed immagino che questo outfit non abbia nulla a che fare con il caldo di Panama City, ho indovinato? Non voglio dirti quello che devi o non devi fare, ma non credo che Lechero sarà molto contento di sapere che vedi altri uomini al di fuori di lui”

“Infatti non voglio più essere la sua donna, sono venuta qui proprio per dirti questo. Sono stanca di essere trattata come un oggetto e di avere costantemente paura di fare un passo falso che potrebbe costarmi la vita. Lo sai anche tu che quando è di pessimo umore, chiunque è in pericolo, perfino le persone che gli sono più vicine, ed io sono stanca di fare questa vita!” sentenzia lei, voltandomi le spalle, pronta ad andarsene per non tornare mai più a Sona; ma quando la richiamo, ad alta voce, Carmelita si blocca all’istante e si volta a fissarmi con un’espressione interdetta.

“Capisco benissimo la tua frustrazione, ma sai molto bene che non puoi abbandonare Lechero così”

“Dici di capire la mia frustrazione e subito dopo mi dici questo?” mi domanda la ragazza, risentita, avvicinandosi di nuovo alla recinzione; mi mordo la punta della lingua e penso rapidamente a qualcosa da dire per togliermi dalla situazione spinosa in cui mi sono incastrato, perché sto seriamente rischiando di perdere un enorme punto a mio favore, uno dei tanti tasselli per la riuscita del mio piano.

E tutti sanno molto bene che è impossibile arrivare alla soluzione di un problema se manca un passaggio, per quanto piccolo ed insignificante possa sembrare.

“Lo so, lo so, lo so… Ma io ho visto con i miei stessi occhi che cosa fa Lechero a coloro che gli voltano le spalle, come vuoi fare tu, ed il fatto che è rinchiuso a Sona non gl’impedirà di vendicarsi anche su di te. Manderebbe dei sicari ad ucciderti e tu non saresti al sicuro in qualunque posto. E poi…” aggiungo, abbassando lo sguardo “so che suona egoista, ma se te ne andassi da Sona, non potrei più vedere il tuo sorriso”.

La ragazza panamense abbassa a sua volta lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore, imbarazzata e lusingata allo stesso tempo per il complimento inaspettato che le ho rivolto; e mi basta questo per capire che il peggio è già passato, e che l’ho riavvicinata a me.

Non c’è nulla di più persuasivo del potere delle parole, basta intuire ciò che una persona vuole sentirsi dire, e con Carmelita si tratta di una faccenda tutt’altro che complicata: come ha detto lei stessa, è stanca di sentirsi un oggetto del sesso, una bambola da usare e gettare a proprio piacimento; è alla ricerca di qualcuno che la guardi con occhi diversi e che la tratti come un essere umano, di conseguenza nel suo caso è sufficiente qualche complimento e qualche gesto elegante.

“Credo di non averti mai ringraziato nel modo giusto per tutto quello che hai fatto per me” mormora poi, guardandomi di nuovo negli occhi, ed io mi limito a scrollare le spalle, liquidando l’intera faccenda come un gesto insignificante.

“Ohh, non è stato nulla… Non devi ringraziarmi”

“Sai benissimo che non è così. Quando ci siamo nascosti dalle guardie, non ne hai approfittato per allungare le mani, anche se avresti potuto farlo. E non hai esitato a difendermi davanti a Lechero, dicendo che quei soldi me li avevi prestati tu… Nessun altro dei suoi uomini avrebbe fatto lo stesso per me, se fosse stato al tuo posto. Invece tu lo hai fatto senza la minima esitazione. Mi dispiace per te e la tua ragazza” prosegue lei, riferendosi a Nicole, guardandomi con un’espressione costernata “credevo che ti avrebbe fatto piacere rivederla, per questo motivo l’ho aiutata ad entrare a Sona, volevo sdebitarmi con te… Non sapevo che voi due…”

“Lascia perdere” dico, liquidando la questione con qualche secca parola “è una storia complicata che non ho voglia di spiegare e che voglio lasciarmi alle spalle il più in fretta possibile, per sempre. Mi auguro solo che abbia afferrato bene il concetto e che non si presenti più. Se devo essere sincero, credevo che fosse lei a… Che cosa stai facendo?”.

M’interrompo perché Carmelita, dopo aver lanciato una rapida occhiata in direzione di una torretta di sorveglianza, scavalca la balaustra di metallo e si avvicina alla recinzione che ci separa; stringe in entrambe le mani gli anelli metallici e mi posa un bacio casto sulle labbra, perché purtroppo non abbiamo molto tempo a nostra disposizione per approfondirlo.

Quando le chiedo di spiegarmi ciò che ha appena fatto, nelle sue labbra appare un sorriso furbetto.

“Sto cercando di sdebitarmi. E se devo essere sincera, sono contenta che tra te e quella ragazza sia tutto finito, perché questo rende le cose molto più semplici. Il bacio è per avermi nascosta dalle guardie, mentre questo…” prosegue, infilando la mano destra in uno degli anelli “è per ripagarti della ginocchiata che hai incassato per difendermi”.

Prima che possa dire qualunque cosa, sento il palmo della sua mano posarsi sul mio membro; e, nonostante la stoffa dei jeans, le sue carezze mi provocano delle scosse di piacere che arrivano fino al cervello e che mi strappano dei gemiti di piacere.

“No, basta” sussurro dopo qualche secondo di quella piacevole tortura, allontanando la sua mano “stiamo rischiando troppo, questo non è né il momento né il luogo adatto per… conoscerci meglio. È meglio se adesso te ne vai, o entrambi passeremo guai molto seri. Ti prometto che rimedieremo molto presto, ma c’è una cosa che devo sapere: mi aspetterai? Qualunque cosa accada, tu mi aspetterai dall’altra parte della recinzione?”

“Sì, ma…” risponde lei, titubante “Teodoro, tu dovrai rimanere qui dentro per molto, molto tempo…”

“Lo so, ma sognare non costa nulla, giusto?” mormoro, portandomi l’indice destro alle labbra “tu aspettami, e vedrai che quel momento arriverà molto prima di quello che pensi”.

Le sorrido un’ultima volta, prima di incamminarmi in direzione della porta metallica; e non appena le volto le spalle, il mio sorriso si trasforma in un ghigno soddisfatto.

È più forte di me, non riesco a trattenermi.

È sempre terribilmente soddisfacente quando tutto va secondo i piani, proprio come tu lo hai calcolato nei minimi dettagli; e se continuerà in questo modo, senza intoppi od imprevisti, Carmelita potrà vedermi molto presto dall’altra parte della recinzione, come uomo libero.

“Theodore”.

Una voce maschile mi coglie del tutto impreparato, non appena metto piede nel cortile interno di Sona.

Non posso neppure pensare alla parola ‘intoppo’ od ‘imprevisto’ che entrambi si presentano sottoforma di una mia vecchia conoscenza: Michael Scofield.

Mi volto a fissarlo con un sorriso strafottente, parlandogli con tono altrettanto strafottente.

“Michael, a cosa devo l’onore di questa visita? Aspetta, aspetta, aspetta… Non dirmelo… Lasciami indovinare: ogni volta che vieni da me è per chiedermi un favore che potrebbe mettermi nella merda fino al collo e per minacciarmi, di conseguenza penso che lo stesso valga anche per ora. Mi hai scambiato per la Fata Turchina, pronta a esprimere ogni tuo desiderio agitando una bacchetta magica del cazzo? Apri bene le orecchie e ascoltami: non sono più intenzionato a fare nulla per te, soprattutto dopo l’ultimo favore che mi hai costretto a fare. Anzi. Sei tu ad avere un pesante debito nei miei confronti, e sappi che potrei chiederti di riscuoterlo in qualunque momento” dico, senza mai smettere di sorridere, con una mezza idea già in mente.

È palese che Scofield sia stato rinchiuso a Sona con uno scopo ben preciso, e sono altrettanto sicuro che questo scopo abbia a che fare con un prigioniero di nome Whistler e con un’evasione.

E il debito che lui ha nei miei confronti mi procurerà un lasciapassare assicurato, proprio come ai tempi di Fox River, e tornerò ad essere un uomo libero.

Questa volta per sempre.

Lui resta impassibile dinanzi alla mia minaccia, quasi non fosse un problema che lo riguarda, e prosegue con il suo discorso.

“Non si tratta di un favore, ti devo parlare con la massima urgenza”.

Corruccio le sopracciglia.

Il pesciolino mi deve parlare?

E di cosa?

“E si può sapere di che diavolo mi devi parlare, visto che non c’è nulla che ci lega?” chiedo, difatti, sollevando il sopracciglio destro.

“Anch’io credevo lo stesso prima che accadesse quello che è accaduto”

“Potresti essere più chiaro e conciso? Non sto capendo nulla del tuo discorso, mi stai facendo perdere tempo e non ci tengo ad andare incontro all’ira di Lechero, soprattutto oggi che è una giornata così… Allegra”

“Ho parlato con Lincoln poco fa”

“Ed io che c’entro con questo?”

“Ricordi la telefonata con Sara? Linc è riuscito a rintracciare il posto in cui lei ed LJ erano tenuti in ostaggio, ma non è riuscito a salvarli. I loro sequestratori non l’hanno presa molto bene, ed hanno recapitato a mio fratello un messaggio molto chiaro, per fargli capire che una cosa simile non deve accadere mai più”

“E cos’era questo messaggio?”

“Ha trovato una scatola, e quando l’ha aperta…”.

Scofield s’interrompe a metà frase, lasciandola in sospeso, e per la prima volta mi soffermo ad osservargli il viso pallido e gli occhi, rendendomi conto che sono lucidi, come se avesse pianto fino a poco prima d’incontrarmi, o come se cercasse di non versare altre lacrime; abbasso lo sguardo e vedo che continua a rigirarsi tra le mani una fotografia.

“Hanno ucciso Sara?” domando, mettendo insieme i diversi indizi.

“Dentro la scatola c’era anche la sua testa”

“Anche?” ripeto, irritato “che cosa vuol dire ‘anche’? Dove vuoi andare a parare?”

“C’erano due teste dentro quella scatola. Una apparteneva a Sara, l’altra era di Nicole”.

Alle parole di Michael segue un lungo silenzio.

 Minuti interi che trascorriamo a guardarci negli occhi senza dire una sola parola: lui sta aspettando una reazione da parte mia, mentre io sto cercando di capire se si tratta di uno scherzo di pessimo gusto; ma dentro di me so già che non è così per un semplice motivo.

Scofield è troppo innamorato di Sara per inventarsi una storia così cruda; ed anche se è chiaro che mi odia almeno quanto io odio lui, non sarebbe mai in grado di fare lo stesso neppure con Nicole.

Il significato di quelle parole, di quella frase che ha appena pronunciato, mi colpisce all’improvviso in tutta la sua violenza; volto le spalle al piccolo Michelangelo e mi allontano in fretta, senza preoccuparmi di coloro che spingo con violenza perché si trovano in mezzo al mio cammino, alla ricerca di un posto lontano dalla luce del sole e da tutti gli altri detenuti.

Per mia fortuna, Sona è un vero e proprio cunicolo di piccoli corridoi e stanze disabitate da chissà quanti anni, e non è affatto difficile imbattersi in quattro mura in cui nascondersi da occhi indiscreti ed in cui trascorrere qualche ora da soli, in compagnia solo di sé stessi e dei propri pensieri; riesco a trovare uno di questi piccoli, e bui, angoli di paradiso un secondo prima di esplodere: chiudo la porta alle mie spalle, mi appoggio con le mani e la fronte ad una parete e scoppio in lacrime, senza provare la minima traccia di vergogna, perché attorno a me ci sono solo l’oscurità e la solitudine più assoluta.

Sono così lontano dal resto dei detenuti, che non sento neppure le loro chiacchiere e le loro risate sguaiate in risposta a qualche battuta sconcia.

Il dolore che mi colpisce è così violento che m’impedisce quasi di respirare, ed è perfino più forte di quello che ho sentito quando Pope mi ha comunicato dell’omicidio di James e del piccolo James jr: perché in quel caso ero in buoni rapporti con mio cugino, anche se avrò per sempre il rimorso di non aver mai visto di persona il mio unico nipote, mentre con Nickie la faccenda è completamente diversa.

Il nostro ultimo incontro è stato semplicemente disastroso: l’ho insultata, minacciata e le ho stretto la mano destra attorno al collo, dicendole che se fosse venuta ancora a Sona, se ne sarebbe pentita molto amaramente.

E adesso non posso rimediare in nessun modo possibile, perché lei non c’è più.

Non si è trasferita in un'altra città, in un altro pese o in un altro Stato; e non si è neppure rifatta una vita insieme ad un altro uomo.

Nicole, Nickie, non c’è più: qualcuno l’ha uccisa e ha recapitato la sua testa, insieme a quella di Sara, a Burrows.

E chissà che cosa ne è stato del resto del corpo.

Chissà se lo hanno seppellito, o se hanno fatto a pezzi anche quello per poi sparpagliarli nella giungla, lasciando il resto del lavoro agli animali od agli insetti.

Al solo pensiero di quello che hanno fatto al corpo della mia ex compagna, sento un’ondata di nausea salirmi dallo stomaco; riesco a reprimerla a stento, coprendomi la bocca con la mano destra, ma non ce la faccio a fare lo stesso con una seconda ondata, molto più violenta delle precedente.

Ed ho appena il tempo di piegarmi in avanti, prima di rigettare l’intero contenuto del mio stomaco.



 
Per tutto il giorno non mi muovo dalla stanza in cui mi sono auto isolato, infischiandomene altamente delle conseguenze e della furia di Lechero.

Trascorro ore ed ore seduto sul pavimento in terra, con la braccia avvolte attorno alle ginocchia, la nuca appoggiata alla parete alle mie spalle e gli occhi chiusi, senza pensare a nulla in particolare, perché la notizia dell’omicidio di Nicole è stata così inaspettata, e mi ha sconvolto così nel profondo, che non riesco a fare nulla.

Perfino Carmelita, che aveva risvegliato in me sensazioni assopite, adesso mi appare lontana e sfuocata come un sogno di cui conservo pochissimi ricordi.

Apro gli occhi solo quando sento lo cigolio della porta aprirsi; giro in automatico il viso verso destra e distendo le labbra in un sorriso sorpreso, perché ero convinto di vedere Sammy ed i suoi uomini mandati da Lechero a cercarmi, ed invece si tratta di Scofield: lascia la porta socchiusa, affinché entri un po’ di luce nella stanza, e si siede affianco a me senza dire una sola parola, proseguendo con il silenzio con cui ci siamo separati.

“Ormai l’hai capito che quello che ti ho raccontato quel giorno era un’enorme cazzata, non serve che aggiunga altro in merito” mormoro, parlando per primo, riferendomi al giorno in cui Scofield e Sucre mi avevano preso in ostaggio per consegnarmi all’ambasciata americana; occasione in cui avevo mentito a Michael, dicendogli che avevo ucciso Nicole perché non mi divertiva più “io e lei ci siamo separati dopo due settimane, a causa di alcuni stupidi errori che abbiamo commesso entrambi. Io sono stato il primo a ferirla, lei ha agito di conseguenza e tutto è precipitato nel peggiore dei modi. Nicole ha provato più volte a dirmi che le dispiaceva per quello che aveva fatto e che voleva rimediare, ma mi sono sempre rifiutato di ascoltare le sue parole e di perdonarla. L’ho anche minacciata. Ed ora, dopo aver saputo che lei non c’è più, mi sembra tutto così terribilmente stupido, ed io mi sento un grandissimo coglione per non aver fatto un passo indietro, quando ero ancora in tempo. Adesso non posso più farlo, e tutto ciò che mi rimane è l’ultima immagine che ho di Nickie, durante il nostro ultimo incontro: lei che si volta a guardarmi e che poi sparisce nel corridoio. So che non crederai ad una sola delle parole che ho appena detto, quindi non è necessario che tu risponda. Anzi, non voglio proprio sentire una risposta”.

Abbasso di nuovo le palpebre e rivedo la scena che ho descritto a Scofield: Nickie che si gira a guardarmi ancora una volta, i suoi occhi azzurri sgranati in un’espressione affranta e sofferente, la stessa di chi si rende conto di aver perso tutto, qualunque cosa, per sempre; e poi che si allontana di fretta, con i capelli biondi che le ondeggiano sulle spalle, girando l’angolo, scomparendo dalla mia vista e dalla mia vita.

Per la seconda volta, vengo colpito dalla cruda realtà dei fatti: non solo non potrò mai dirle che sono stato un emerito coglione per non aver accettato prima i suoi tentativi di riconciliazione; ma non potrò più vedere i suoi occhi azzurri e limpidi da bambina, non potrò mai più accarezzarla, baciarla, sentire la consistenza delle sue labbra e giocherellare con i suoi capelli dorati.

E non potrò mai più confidarmi, condividendo con lei alcuni scorci del mio passato.

Non ho solo perso la donna della mia vita, ho perso anche la mia unica confidente, l’unica in grado di capirmi, perché entrambi avevamo una situazione famigliare molto simile, per alcuni versi perfino identica.

“Io ti credo”.

Sollevo le palpebre e guardo Michael, che con la sua affermazione ha interrotto il flusso dei miei pensieri.

“Ti ho detto che non voglio sentire una sola parola uscire dalla tua bocca” ringhio “e se vuoi un consiglio, faresti meglio ad andartene da questa stanza finché sei ancora in grado di farlo con le tue stesse gambe, dolcezza, perché non so per quanto ancora riuscirò a trattenermi”

“Noi due non abbiamo finito di parlare”

“Sapevo che tuo fratello non brillava in fatto d’intelligenza, ma non credevo che fosse così stupido da permettere ad una ragazza di seguirlo in una missione suicida. Ma si può sapere perché cazzo si è trascinato dietro Nicole? Non ha pensato che qualcosa avrebbe potuto andare storto? Lei non aveva nulla a che fare con questa storia, doveva starne fuori”

“Anche Sara non aveva nulla a che fare con questa storia, eppure non si sono fatti scrupoli a riservarle lo stesso trattamento perché sapevano che così facendo avrebbero colpito me. Nicole ha avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato: l’hanno presa perché credevano che fosse molto vicina a Linc, non sapevano che si erano incontrati da pochi giorni. E per quanto riguarda le accuse e gl’insulti che hai rivolto a mio fratello: sì, sapeva benissimo che c’era la possibilità che qualcosa andasse storto, ed infatti ha provato a farle cambiare idea più volte, ma quella ragazza non ha voluto ascoltarlo. Credi che io e lui non sentiamo un peso sulla coscienza per quello che le è accaduto? Ti ricordo che Lincoln ha visto le loro teste mozzate”

“Un peso sulla coscienza… Un peso sulla coscienza… Forse per voi due sarà un semplice peso sulla coscienza, ma per me è molto di più”

“Lo so, Theodore, dimentichi che io ho perso Sara e Lincoln rischia di perdere suo figlio? Siamo tutti e tre nella stessa situazione”

“Ascoltami bene, Michael…” dico, in tono stanco, perché non voglio più sostenere questa conversazione senza capo né coda; ma lui mi precede, prima che possa continuare, e mi afferra saldamente per entrambe la braccia, scuotendomi con violenza, facendomi sbattere la testa contro il muro.

“No, T-Bag, stai zitto ed ascoltami tu molto attentamente” sibila a denti stretti, senza essere intenzionato a mollare la presa “noi due non abbiamo finito di parlare, quindi adesso te ne starai zitto ad ascoltare tutto quello che ho da dirti, senza dar fiato alla bocca inutilmente. Per quel che mi riguarda, hai due opzioni davanti a te: o rimanere dentro questa stanza per i prossimi giorni a piangerti addosso, oppure accettare la proposta che sto per farti. Se non lo avessi ancora capito, ti sto offrendo la possibilità di vendicarti”

“Che cosa intendi dire?”

“So chi è la persona che ha fatto questo a Sara e Nicole. Sono intenzionato a trovarla ed a fargliela pagare molto amaramente, e so che lo stesso vale anche per te”

“Affascinante” commento in tono sarcastico, con un ghigno “ma stai dimenticando un piccolo particolare: siamo entrambi rinchiusi a Sona. Forse tu non ci resterai ancora per molto tempo, ma per me si tratta di una questione completamente diversa. Anche se non sono condannato all’ergastolo, perché a Panama ignorano i miei crimini precedenti, sono comunque destinato a trascorrere molti anni in questo posto infernale”

“Non ho dimenticato nessun piccolo particolare, come non ho dimenticato il debito che ho nei tuoi confronti per il cellulare che sei riuscito a procurarmi. Riguardo ad una cosa hai perfettamente ragione: io non resterò qui dentro ancora per molto. Sto per evadere, e tu verrai con me”.

Inarco il sopracciglio destro e rivolgo al mio interlocutore uno sguardo incredulo e interdetto: la mia sorpresa non nasce dall’evasione che Scofield sta nuovamente organizzando, perché ormai ne ero più che certo, ma dalla sua scelta d’includermi anche in questa squadra.

“Ti sembra che stia scherzando?” mi domanda a sua volta, rivolgendomi uno sguardo serio, che non lascia spazio ad altri possibili dubbi; non si tratta di una trappola o di uno dei suoi giochetti contorti, ma di un vero e proprio discorso da uomo ad uomo “voglio essere onesto con te: per quel che mi riguarda, per i crimini che hai commesso, dovresti rimanere qui dentro a marcire per il resto della tua vita. Sono il primo che desidera vederti dietro le sbarre, ma adesso la faccenda è completamente cambiata.

Quegli uomini hanno ucciso due persone a noi vicine, che non c’entravano nulla con tutto quello che è successo e che sta succedendo, e spetta a noi due vendicarle”

“Fammi capire” mormoro, mentre Michael lascia finalmente la presa sulle mie braccia “vuoi stipulare una tregua momentanea?”

“Esatto” risponde lui, annuendo “da questo preciso istante sei a tutti gli effetti un membro della squadra, e questo significa niente trucchetti, niente doppiogioco e niente voltafaccia dell’ultimo minuto. D’accordo?”

“Penso di potercela fare”

“Perfetto”

“Dov’è il rovescio della medaglia?” domando subito dopo “l’offerta che mi hai fatto è fin troppo vantaggiosa per non nascondere un lato meno piacevole”

“In effetti ci sono due condizioni di cui non ti ho ancora parlato. Se accetterai entrambe, allora il nostro accordo andrà definitivamente in porto. Se rifiuterai una sola delle due, considera il tutto annullato”.

Eccolo il famoso rovescio della medaglia.

“Spara” dico senza aggiungere altro, perché sono curioso di sentire che cosa ha architettato il piccolo Michelangelo per mettermi con le spalle contro il muro.

Perché è ovvio che il suo obiettivo sia questo, nonostante la situazione delicata in cui ci troviamo: sa che non può lasciarmi in un angolo, perché sono coinvolto a mia volta in prima persona, ma allo stesso tempo vuole approfittare dell’occasione per sbarazzarsi per sempre di me.

Due piccioni con una fava.

“Prima condizione: potrai torturare quella donna a tuo piacimento, potrai farle tutto ciò che vorrai, ma non dovrai ucciderla, perché voglio essere io a darle il colpo di grazia dopo averla guardata negli occhi”

“Accetto” rispondo con un mezzo sorriso; ammetto di essere in parte sorpreso perché non immaginavo che una persona come Michael, sempre disposta a metter gli altri davanti a sé e fortemente contraria ad ogni sorta di violenza, potesse nascondere un lato così animalesco, ma quando si tratta di amore, di vero amore, spesso sia uomini che donne scoprono lati del proprio carattere che prima non immaginavano neppure di possedere “poi? Hai detto che le condizioni erano due, manca la seconda”

“Quando l’intera faccenda sarà conclusa, devi consegnarti volontariamente alle autorità”.

Sorrido.

Chissà perché, non sono affatto sorpreso dalla seconda condizione.

Se devo essere sincero, qualcosa di simile lo avevo già sospettato.

Ed ora mi trovo davanti ad un bivio: se accetto, uscirò da questo inferno in Terra il tempo necessario per vendicare Nicole, prima di ritrovarmi confinato di nuovo in una cella, molto probabilmente a Fox River o in un altro carcere di massima sicurezza, attrezzato in modo adeguato per evitare un’altra mia possibile fuga; se rifiuto, sarò costretto a giocare ancora al bravo leccapiedi per chissà quanto tempo, con la speranza di riuscire a organizzare un piano di evasione valido, con un epilogo che non mi veda cadere al suolo sotto una raffica di colpi di fucile, come è accaduto a tutti coloro che hanno provato a fuggire da Sona finora.

Per quanto mi costi ammetterlo, il punto dell’intera faccenda è proprio questo: senza Michael e senza il suo mostruoso cervello, evadere da Sona è assolutamente fuori discussione; lui è l’unico in grado di portare un gruppo di detenuti fuori da un carcere sani e salvi, e lo ha già ampiamente dimostrato con Fox River.

E se a questo si aggiunge il fatto che Sona è tutto fuorché un carcere come gli altri, allora il suo contributo non diventa solo prezioso, ma bensì indispensabile.

Certo, c’è una terza opzione a cui posso aggrapparmi: fingere di accettare la seconda opzione e, una volta uccisa la donna che ha decapitato Sara e Nickie, sbarazzarmi di Scofield e scappare il più lontano possibile dagli Stati Uniti.

Peccato che non abbia più con me i quattro milioni di dollari.

 E poi, senza Nickie ne varrebbe davvero la pena?

“Accetto” rispondo alla fine, con un lungo sospiro, chiudendo gli occhi; ma il piccolo Michelangelo mi scuote per la spalla destra, costringendomi a riaprirli subito.

“Ho bisogno della tua parola da uomo”

“Hai la mia parola da uomo: quando quella stronza avrà pagato per ciò che ha fatto, andrò a costituirmi alla prima centrale di polizia. Te lo giuro su mia madre, Michael, e per una volta puoi fidarti di ciò che ti ho appena detto, perché queste stesse parole le ho pronunciate solo un’altra volta in quasi quarantasette anni di vita. Ma adesso ho bisogno che anche tu faccia qualcosa per me”

“Cioè?” chiede Scofield, rivolgendomi uno sguardo accigliato, che ricambio con uno freddo.

“Spiegami che cazzo ci fai a Sona e qual è il tuo piano per uscire da questo buco di merda. E questa volta voglio sapere ogni singola cosa dall’inizio, perché sono stanco di essere all’oscuro di tutto”.

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Capitolo 25
*** The Plan; Parte Uno (T-Bag) ***


Per la prima volta, da quando ci conosciamo, Michael Scofield diventa un libro aperto e mi racconta tutto ciò che si nasconde dietro la sua incarcerazione a Sona e dietro il rapimento di Sara, Nicole e del figlio di Lincoln; ed affinché ogni cosa appaia chiara e sensata ai miei occhi, inizia parlandomi del fratello maggiore, svelandomi i retroscena della sua condanna alla sedia elettrica.

Se devo essere onesto, fino a questo momento ero fermamente convinto che Burrows fosse colpevole, che si fosse veramente macchiato le mani con il sangue del fratello del vicepresidente degli Stati Uniti; il suo caso, proprio a causa della vittima illustre, ha avuto fin dall’inizio un enorme riscontro mediatico, e quando è stato annunciato il suo trasferimento a Fox River, la notizia si è sparsa nei corridoi rapidamente, a macchia d’olio, arrivando anche alle orecchie di noi detenuti.

Ricordo ancora molto bene gli articoli di giornali che ho letto in quei giorni, mentre tutti aspettavamo di vedere di persona il nuovo arrivato: pagine e pagine di parole stampate nero su bianco in cui erano elencate le numerose prove che incastravano Lincoln, indicandolo come l’unico e solo colpevole; addirittura, se la memoria non m’inganna, c’era un video di sorveglianza che aveva ripreso il momento esatto in cui lui aveva tirato fuori la pistola ed aveva sparato a sangue freddo a Terrence Steadman, uccidendolo all’istante.

Pensavo che Michael avesse organizzato la sua evasione per il legame di sangue che li unisce, perché non poteva accettare l’idea di vedere suo fratello friggere su una sedia elettrica, non perché fosse realmente convinto della sua innocenza, perché un opzione simile non era neppure lontanamente possibile vista l’enorme quantità di prove; non potevo credere che il piccolo Michelangelo, così geniale, ritenesse Lincoln davvero innocente, pensavo che lo facesse solo per amore fraterno.

In fin dei conti, casi simili non sono affatto rari ed io per primo posso testimoniarlo: anche se Margaret non ha più voluto avere nulla a che fare con me dopo la mia confessione, James è sempre stato al mio fianco fino alla sua tragica e prematura dipartita; non mi ha mai tradito, non mi ha mai voltato le spalle, si è sempre preso cura di me e mi ha sostenuto in quasi tutto quello che facevo.

In alcune occasioni, quando già ero a Fox River, ha anche provato ad essere la figura paterna che non ho mai avuto.

Eppure, sapeva benissimo che cos’ero e quello che avevo fatto, ma ciò non ha mai minato o formato crepe nel nostro rapporto.

Ora, però, Scofield mi racconta una storia completamente diversa, che mi fa spalancare gli occhi su una prospettiva completamente diversa, esattamente come accade quando ricevi una notizia sconcertante, che sconvolge del tutto il tuo mondo: sai benissimo che da quel momento in poi non potrai mai più vedere ciò che ti circonda con gli stessi occhi di prima.

Mi spiega che Lincoln non è un omicida, che quella fatidica sera è entrato nel parcheggio con l’intenzione di uccidere Steadman, ma che si è bloccato con la pistola a mezz’aria perché l’uomo era già riverso sul volante della sua auto, con il cranio spaccato da un proiettile; mi spiega di come Lincoln sia stato incastrato da un’organizzazione chiamata ‘La Compagnia’, a causa del loro padre: a quanto pare, lui faceva parte di questa fantomatica organizzazione, salvo poi decidere di chiamarsi fuori e di sparire dalla circolazione, prima di ricomparire nella vita dei suoi due figli, ormai diventati degli evasi e ricercati, per fornire loro le tessere mancanti del puzzle.

In poche e semplici parole, quegli uomini non hanno gradito il suo voltafaccia ed hanno architettato tutto questo per vendicarsi, con la speranza che la condanna alla sedia elettrica del figlio facesse uscire allo scoperto il signor Burrows e che gli facesse commettere un passo falso di cui se ne sarebbe pentito amaramente.

Ed in parte avevano ragione perché, come mi conferma lo stesso Michael, sono riusciti ad ucciderlo.

Per essere ben precisi, è stato l’agente Mahone ad ucciderlo.

Anche lui è uno di loro, proprio come l’uomo misterioso che mi ha assoldato a Panama.

La Compagnia è responsabile anche dell’incarcerazione del piccolo pesciolino a Sona: esattamente come sospettavo io, Scofield si trova qui dentro perché deve far evadere James Whistler e consegnarlo a quegli uomini sano e salvo, in cambio della vita di suo nipote.

Una ‘missione’ apparentemente chiara e lineare.

Peccato per una piccola nota stonata, costituita dallo stesso soggetto in questione.

Whistler sostiene di essere un semplice pescatore; ma se così fosse, che cosa potrebbero mai volere degli uomini così importanti da un semplice pescatore? Quali informazioni preziose potrebbe mai custodire?

Anche Scofield è molto scettico nei confronti dell’intera faccenda, tuttavia non è interessato ad indagare: l’unica cosa che gl’importa davvero, è di uscire da questo posto il prima possibile e senza altri imprevisti, effettuare lo scambio il più velocemente possibile e farla pagare molto amaramente alla donna che ha ucciso a sangue freddo sia Sara che Nicole; riguardo al resto, se ne frega altamente.

Per quanto riguarda il piano di evasione, questa volta ne ha organizzato uno molto più semplice, almeno teoricamente: nella parte bassa dell’appartamento di Lechero c’è una porta blindata, che può essere aperta tramite una combinazione numerica che solo lui conosce, che conduce ad un tunnel sotterraneo scavato nella terra; questo tunnel conduce ad un piccolo soppalco situato proprio sotto la Terra di Nessuno.

La Terra di Nessuno è il nome che i detenuti di Sona hanno dato al lembo di terreno che separa la prigione dalla recinzione che la circonda: è lì che hanno perso la vita tutti coloro che hanno provato a scappare e che hanno ignorato gli ordini delle sentinelle, perché si tratta di un enorme campo di terra battuta, sprovvisto di qualunque riparo, e di conseguenza solo un idiota non riuscirebbe a beccare un obiettivo con un fucile da cecchino.

E sfortunatamente per noi, le sentinelle di Sona non sono affatto degli idioti, ed hanno un’ottima mira.

Ma per nostra fortuna, Michael ha trovato una soluzione anche a questo problema.

Sempre teoricamente, almeno.

Quello che dobbiamo fare è scavare un buco nel soffitto del piccolo ed angusto soppalco in due giorni, ed aspettare che cali la notte per mettere in atto il piano: Lincoln, dall’esterno, si occuperà di far saltare la corrente in tutto l’edificio, comprese le quattro torrette di sorveglianza, permettendo a noi della squadra di uscire dal buco, correre in direzione della recinzione, passare dall’altra parte e sparire nella giungla; e dobbiamo riuscire a fare tutto questo col poco tempo che abbiamo a nostra disposizione, prima che entri in funzione la centralina di riserva.

Anche la recinzione non costituisce un enorme problema, perché i due fratelli hanno come alleato una persona che anch’io conosco benissimo: Sucre.

A quanto pare, Papi è riuscito a farsi assumere a Sona come becchino e, grazie al suo ruolo, ha sparso dell’acido (che doveva servire ad estirpare delle erbacce) sugli anelli metallici della recinzione, indebolendoli, ed a noi basterà solo esercitare una piccola pressione per staccarne un pezzo, abbastanza grande per far passare degli uomini adulti, e guadagnare nuovamente la libertà.

 Un piano semplice, chiaro, lineare.

Una passeggiata da poter fare ad occhi bendati, se messo a confronto con quello organizzato per evadere da Fox River.

Soprattutto perché Lechero è dalla nostra parte: anche lui è un membro della squadra, e questo ci permette di procedere con gli scavi abbastanza velocemente e senza intoppi.

Ma che piano sarebbe senza qualche problema dell’ultimo momento?

Sì, perché anche in questo caso, proprio come è successo a Fox River, è sorto un enorme ‘inconveniente’; e se nella precedente evasione l’enorme ‘inconveniente’ si è verificato quando Tweener ha fatto una soffiata a Bellick, rivelandogli l’esistenza del buco nella stanza delle guardie, questa volta si tratta di un’emergenza molto più difficile e complicata da gestire.

C’è un motivo ben preciso se il mio Patròn è diventato un membro effettivo della squadra, e ciò ha a che fare solo in parte con la voglia di tornare ad essere un uomo libero: Sammy ed i suoi uomini gli stanno lentamente voltando le spalle perché hanno notato il suo avvicinamento a Scofield, e non lo gradiscono affatto.

So che è questione di pochissimo tempo prima che il gruppo di ormai ex fedelissimi organizzi un vero e proprio golpe per rovesciare il padrone incontrastato di Sona, e così decido di mettere al corrente Michael del mio pensiero e dell’unica soluzione che ci può permettere di fare sogni tranquilli fino al momento dell’evasione.

“Quelli non vedono l’ora di prendere il controllo di Sona, chissà da quanto tempo stavano aspettando il momento giusto per agire e tu, dolcezza, in modo del tutto inconscio, hai servito loro l’occasione perfetta in un vassoio d’argento” gli sussurro ad un orecchio quando entrambi ci troviamo sotto il portico da soli, lontani da Whistler e Mahone, impegnati a scavare il buco nel soffitto; con un cenno della testa gl’indico la terrazza e lui concentra lo sguardo da quella parte, soffermandosi a guardare Sammy “tu non puoi saperlo perché non frequenti l’appartamento di Lechero, ma io sì, e ti posso assicurare che si tratta di una polveriera pronta a saltare in aria da un momento all’altro”

“E noi saremo fuori molto prima che quella polveriera esploda”

“Ammiro il tuo immenso ottimismo, ma lo trovo assolutamente fuori luogo in un momento così delicato come questo. Anzi, potrebbe essere scambiato perfino per stupidità. Non possiamo permetterci di sottovalutare un problema che rischierebbe di mandare all’aria l’intero piano”

“E cosa consigli di fare?”

“Semplice. Dobbiamo eliminare Sammy”.

Alla mia risposta secca, Scofield si volta a fissarmi con un mezzo sorrisetto che gli aleggia sulle labbra.

“Sei preoccupato più per il piano o per te stesso?”

“Sei sicuro che ti convenga fare ironia su questo argomento?” gli ringhio contro, fronteggiandolo “tu per primo hai voluto che stipulassimo una tregua momentanea, hai detto che non dovevamo remarci contro… Hai già cambiato idea?”

“No, ma prima di prendere una decisione simile voglio valutare i pro ed i contro”

“Non ci posso credere!” esclamo, ridendo, perché finalmente capisco da che cosa dipenda l’esitazione del piccolo pesciolino “tu non vuoi macchiarti le mani di sangue. Sai benissimo che Sammy e l’ex gruppo di fedelissimi di Lechero deve essere eliminato prima che passi all’attacco, eppure sei titubante perché la sola idea di togliere la vita ad un altro essere umano ti fa inorridire. Ecco perché nella giungla non hai avuto il coraggio di conficcarmi quel pugnale in pieno petto. A questo punto mi domando se, quando arriverà il momento, avrai le palle di sparare a quella donna, visto che ci tieni così tanto a darle il colpo di grazia”.

Non è mai saggio provocare un uomo con i nervi tesi come una corda di violino, ma Michael ha bisogno di una bella scossa che lo svegli dal mondo incantato in cui si ostina ancora a vivere e che inizi a guardare in faccia la realtà per quello che è: viviamo in un mondo estremo, che a volte esige soluzioni altrettanto estreme, in cui solo il più forte sopravvive mentre i soggetti più deboli sono destinati a perire.

Ora più che mai non possiamo permetterci di appartenere alla categoria dei soggetti più deboli per dei fottuti rimorsi di coscienza.

Allargo le braccia, in silenzio, facendogli capire che sono in attesa di una sua risposta, ed alla fine lui cede emettendo un profondo respiro.

“Sammy va eliminato”

“Bravo, ora si che si ragiona. Non ti preoccupare, dolcezza, penserò io a lui. Le tue bellissime mani continueranno a rimanere candide e pure come un agnellino, le mie possono sopportare altro sangue. Tu pensa ai lavori in corso, io mi occuperò personalmente di quel figlio di puttana. Ho già un piano in mente” rispondo con un sorriso, facendo l’occhiolino al giovane uomo prima di allontanarmi da lui, lieto di essere riuscito a farlo ragionare.

È vero, in gran parte lo faccio per pararmi il culo, perché so benissimo che se Sammy dovesse prendere il controllo del carcere, dopo quella di Lechero e Scofield, la terza testa a cadere sarebbe la mia; ma lo faccio anche per tenere la mente impegnata, almeno durante il giorno.

Perché quando non ho nulla di cui occuparmi, i miei pensieri vanno in automatico a Nicole.



 
Esattamente come ho detto a Michael, ho già pensato ad un modo per sbarazzarci di Sammy una volta per tutte: non sarò io ad occuparmene personalmente, ma una persona che ho aiutato molto in quest’ultimo periodo e che ha un pesante debito nei miei confronti.

Una persona che, senza di me, adesso si ritroverebbe nella merda fino al collo.

Una persona che, dopo averla cercata tra i corridoi di Sona, trovo all’interno di una delle numerose celle in preda ad una forte crisi di astinenza: il suo corpo è scosso da tremiti così forti e violenti che non riesce a controllarsi, pur stringendo con entrambe le mani il sostegno in ferro di una brandina, e non è quasi in grado di parlare; per qualche istante lo guardo in silenzio senza muovere un solo muscolo, godendomi lo spettacolo raccapricciante di un tossicodipendente alle prese con le conseguenze della sua dipendenza, perché dopotutto quest’uomo aveva ricevuto l’ordine di uccidere noi evasi e con Abruzzi, Tweener e Patoshik ci è riuscito, ma poi decido d’intervenire, ponendo fine alla sua sofferenza.

“Ora più che mai posso dire di averti visto in condizioni decisamente migliori di queste, è sempre terribilmente sconcertante vedere quello che la droga riesce a fare ad una persona, non credi? Tranquillo, Alex, oggi è il giovedì dei ripassi ed io non sono intenzionato a lasciarti a mani vuote” mi blocco a metà a discorso a causa di un balbettio confuso che esce dalle labbra dell’ex agente, o da quel poco che rimanere ancora di lui, lo ascolto distrattamente per qualche secondo prima d’interromperlo in modo brusco, con un ghigno “cerca di parlare in modo comprensibile, Alex, e di non balbettare. Non è un bello spettacolo vedere un drogato in preda ad una crisi di astinenza, lo sai? Ed è anche un modo piuttosto brutto e doloroso per lasciare questo mondo, può essere paragonato ad una vera e propria discesa verso gl’Inferi”
“Non sono io quello che deve preoccuparsi di finire all’Inferno”

“Ecco, vedi? Se ti sforzi un po’, riesci ad essere padrone di te stesso. Ma se fossi in te, farei attenzione a dare fiato alla bocca inutilmente, soprattutto se hai di fronte a te l’unica persona che ti ha davvero aiutato in quest’ultimo periodo. Sai benissimo che è così, sai che senza di me adesso non saremo qui a fare questa conversazione e molto probabilmente il tuo corpo si troverebbe in una delle tante fosse comuni sparpagliate nella Terra di Nessuno” dico, senza mai smettere di sorridere, infilo la mano destra nella borsa a tracolla ed estraggo una siringa già pronta per l’uso; la faccio ondeggiare lentamente davanti agli occhi di Alex e riprendo a parlare “e sai cos’altro sappiamo benissimo entrambi? Che in questo momento hai un disperato bisogno di farti una dose, ed io sono venuto qui per soddisfare il tuo bisogno… Tuttavia questa volta c’è un piccolo problema… Ohh, non ti preoccupare, è una faccenda da poco conto ma che, purtroppo, non posso ignorare: il rubinetto dei prestiti è stato chiuso a tempo indeterminato, non posso darti un’altra dose di eroina senza ricevere nulla in cambio”

“Io non faccio marchette” ringhia, e mi ritrovo il suo viso ad un solo palmo di distanza dal mio; tuttavia non mi faccio spaventare.

È in condizioni così pietose che non farebbe paura neppure ad un bambino.

“Non ti sto chiedendo quello, Alex, anche se devo ammettere che l’idea mi stuzzica. Si tratta di una faccenda completamente diversa e che non riguarda solo me, ma tutta la squadra, e questo significa che non puoi tirarti indietro perché ciascun membro deve fare la sua parte: Sammy sta diventando una minaccia per il piano, va eliminato e sarai tu a farlo. In cambio avrai tutta l’eroina di cui hai bisogno” mormoro, porgendogli la siringa, sicuro di vederlo accettare la proposta vantaggiosa che gli sto offrendo, invece Mahone ha una reazione completamente diversa: colpisce la mia mano destra, facendo rotolare la siringa di plastica sul pavimento della cella, e mi aggredisce verbalmente, ripetendo che non vuole avere nulla a che fare con me e con la schifezza che spaccio.

“Trovati qualcun altro pronto ad obbedire ad un tuo schiocco di dita” sibila, trovando perfino il coraggio e l’audacia di sputarmi addosso un grumo di saliva; mi pulisco il viso con la manica sinistra della maglietta, senza mai smettere di sorridere per un solo istante, e, solo quando ho finito, assesto all’ex agente un calcio al basso inguine talmente forte che lo trasforma in una larva raggomitolata a terra.

“Quando, in piena notte, ti ritroverai con la merda a scorrerti tra le gambe e con il vomito tra i capelli…” dico, a denti stretti, guardandolo con disgusto e colpendolo allo stomaco “allora verrai da me strisciando come un verme e supplicandomi in ginocchio, brutto figlio di puttana”.

Esco dalla cella a passo veloce, senza mai voltarmi, perché non posso permettermi di perdere il controllo delle mie azioni e di uccidere Alex a suon di calci e pugni fino a spappolargli il fegato e la milza; sono già abbastanza nella merda fino al collo, non ho bisogno di infilarmi in altri casini.

Decido di uscire nel cortile interno per schiarirmi le idee e per pensare ad un piano di riserva, anche se non ho la più pallida idea di dove sbattere la testa in questo momento, ed è proprio lì che ricevo un’altra mazzata sui denti; capisco subito che si tratta di qualcosa di veramente grosso perché la maggior parte dei detenuti è radunata proprio lì, con il viso rivolto all’insù, e quando faccio anch’io lo stesso, non riesco più a trattenere un’imprecazione.

Sammy è affacciato sulla terrazza insieme ai suoi nuovi fedelissimi; allunga la mano sinistra e mostra una piccola cordicella a cui è legata una zampa di pollo.

“Adesso sono io a comandare a Sona! E se qualcuno ha qualcosa in contrario, non deve fare altro che prendere questa zampa di pollo e sfidarmi” afferma ad alta voce, affinché tutti possano sentire con chiarezza le sue parole; nessuno si fa avanti, e la zampa di pollo viene sostituita da una cassa di ottimo rum “bene. Adesso passiamo al primo ordine della giornata: una cassa di rum al primo che mi consegnerà Michael Scofield”.

Lascio ricadere le braccia lungo i fianchi mentre, attorno a me, gli altri prigionieri si lasciano andare ad urla entusiaste alla sola prospettiva di guadagnare un’intera cassa di alcol.

È appena successo ciò che temevo di più con tutto me stesso: la polveriera è esplosa con noi ancora al suo interno.

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Capitolo 26
*** The Plan; Parte Due (T-Bag) ***


Gl’incontri autorizzati sono all’ordine del giorno a Sona, ed avvengono per i motivi più disparati: a volte si tratta di questione d’onore, a volte di faccende molto più futili che potrebbero essere risolte con una semplice chiacchierata, a volte si tratta perfino di una semplice antipatia personale; in ogni caso, agli altri prigionieri importa ben poco delle motivazioni che spingono una persona a sfidare un’altra.

Coloro che sono rinchiusi a Sona non solo altro che animali assetati di violenza: vogliono vedere scorrere fiumi di sangue, vogliono vedere due uomini uccidersi a vicenda a suon di calci e pugni, tutto il resto non ha importanza.

Personalmente ho assistito a pochissimi incontri perché hanno iniziato ben presto ad annoiarmi, ed in qualche occasione mi sono ritrovato perfino a sbadigliare; sembra impossibile da credere, eppure un essere umano è in grado di assuefarsi a tutto, anche ad un atto sconvolgente e brutale come un omicidio, perché quando la violenza fa parte della tua vita fin dall’infanzia, diventa anche parte integrante della tua routine di ogni giorno.

E se in un primo momento ti fa fare incubi ogni singola notte, in un secondo momento si fa solo scrollare la spalle, sbadigliare e voltare lo sguardo annoiato da un’altra parte.

Ma ora si tratta di una faccenda completamente diversa, la famosa eccezione che conferma la regola.

Bellick è stato sfidato da Papo, uno dei fedelissimi di Sammy: non conosco con esattezza i retroscena dell’intera vicenda, so che tutto è iniziato a causa di un battibecco tra i due ed è finito con Bellick che ha spinto Papo e quest’ultimo ha calpestato una pozza di vomito; ovviamente il giamaicano non aspettava altro che avere un valido motivo per fare ricorso alla famigerata zampa di pollo, e Brad è stato così stupido da cedere alle sue provocazioni e fornirgli l’occasione perfetta su un vassoio d’argento.
So benissimo che in questo momento le mie priorità dovrebbero essere altre, visto che l’intero piano rischia di andare a puttane, ma non posso perdere un incontro simile per nessuna ragione al mondo: quando io e Nicole eravamo a Tribune, Brad ed il suo giovanissimo sottoposto non si sono fatti scrupoli a torturarmi per un’intera notte.

Hanno preso a calci ed a pugni ogni centimetro di pelle del mio corpo, mi hanno sputato in faccia, mi hanno costretto ad ascoltare per ore ed ore la stessa canzone ad un volume altissimo, quasi assordante, ed hanno testato la mia soglia del dolore con un ferro appuntito e riscaldato con cura; addirittura, non ancora soddisfatti, mi hanno fatto credere di aver abusato di Nicole.

Per quanto riguarda Adam, il sottoposto, ho preso la mia vendetta già da tempo, ma non ho mai avuto occasione di fare lo stesso con l’ex Capo delle guardie di Fox River; ed anche se vederlo ridotto ad un verme strisciante a Sona mi procura un’enorme soddisfazione personale, non è ancora abbastanza per quello che ha fatto a me ed a Nickie, e proprio per questo motivo devo vederlo soccombere con i miei occhi per mano di quell’uomo.

Tuttavia, quando l’incontro inizia, accade qualcosa d’inaspettato sia per me che per il resto dei presenti.

Dopo qualche affondo sicuro, il comportamento di Papo cambia drasticamente: inizia a barcollare, guardandosi attorno confuso, come un ubriaco che non ha la più pallida idea di dove si trovi e di come abbia fatto ad arrivare in quel posto; Bellick ne approfitta e gli assesta diversi pugni in pieno volto, uno dietro l’altro, senza dargli la possibilità di riprendersi, e continua in questo modo finché il giamaicano non cade a terra, sbattendo la nuca contro il suolo.

Il colpo è così forte che lo uccide all’istante.

Nonostante la sorpresa dei presenti, che mai si sarebbero aspettati un esito simile, attorno a me si levano urla entusiaste che inneggiano il vincitore, perché il pubblico ha avuto proprio ciò che voleva: non importa chi esce vincente e chi cadavere da ogni incontro, l’unica cosa che conta è vedere il sangue; Brad si guarda attorno confuso e ansimante, e quando finalmente realizza ciò che è appena successo, solleva a sua volta le braccia e prorompe in un urlo vittorioso.

Aspetto con calma che la folla si dirami lentamente e poi decido di avvicinarmi al diretto interessato per indagare su questa strana faccenda.

“Ma guarda un po’… Sei diventato un campione e non me ne sono neppure reso conto. Che cosa ti sei inventato?” domando, riferendomi ai due pezzetti di stoffa che ha infilato nelle narici; ne prendo in mano uno e poi faccio lo stesso con una benda che aveva avvolto attorno alla mano sinistra, e che è caduta a terra.

Avvicino la stoffa al naso, inspiro profondamente e sono costretto ad allontanarmi bruscamente a causa del forte odore che mi aggredisce le narici e che mi fa girare la testa; mi limito a rivolgere un mezzo sorrisetto a Bradley, facendo sparire il suo compiaciuto, e mi allontano senza dire una sola parola, tenendo con me il pezzo di stoffa impregnato con chissà quale sostanza che gli ha permesso di uscire vittorioso dall’incontro all’ultimo sangue.



 
Da quando Sammy si è impadronito del controllo di Sona, Lechero è diventato l’ombra del Tiranno che era: se prima spadroneggiava facendo il bello ed il brutto tempo, adesso trascorre la maggior parte delle giornate nascosto, all’ombra dei corridoi più bui della prigione, perché è terrorizzato dal pensiero di essere pugnalato alle spalle da uno dei suoi ex fedelissimi, o da Sammy in persona; ed infatti gira sempre armato di pugnale.

È proprio in uno di questi corridoi che lo trovo, e decido di metterlo al corrente di quelle che sono le uniche due opzioni che abbiamo a nostra disposizione, dal momento che Alex si è categoricamente rifiutato di sfidare Sammy in persona: o coinvolgerlo nell’evasione, o trovare un modo per eliminarlo fisicamente dalla faccia della Terra.

“Che vada all’inferno” commenta Lechero, facendomi capire molto chiaramente che non ha la minima intenzione di integrare nella squadra anche il suo ex braccio destro.

“Questo, allora, ci porta direttamente alla seconda opzione”

“Non dureresti neppure mezzo secondo nel ring” commenta di nuovo il mio Patròn, riferendosi alla mia protesi, e per una volta decido di restituirgli la stoccata, senza timore di andare incontro a conseguenze poco piacevoli.

“Vuoi farti avanti tu?” gli domando, osservandolo con il sopracciglio destro sollevato; non ricevo alcuna risposta, proprio come avevo immaginato, e così gl’indico Bellick con un cenno del capo “questo ci porta alla nostra ultima spiaggia. Magari non è il meglio che si possa trovare sul mercato, ma dopo il sorprendente esito che ha avuto l’incontro tra lui e Papo, potrebbe davvero essere la soluzione al nostro problema”.

Lechero non condivide il mio pensiero, ma è costretto a darmi ragione perché sa che il tempo a nostra disposizione è ormai agli sgoccioli: Michael è ancora vivo perché si trova nel tunnel insieme a Whistler e Mahone, ma è questione di poche ore, o pochi minuti, prima che qualcuno li scopra.

Sona è grande, ma non così grande come può sembrare ad una prima occhiata.

Mi avvicino a Bradley e lo ascolto vantarsi di un passato da Delta Force che, in realtà, non esiste; non appena i nostri sguardi s’incontrano, liquida in fretta il detenuto con cui stava parlando, e quando mi raggiunge, non resisto alla tentazione di rivolgergli una battutina, facendogli notare che nonostante le difficoltà iniziali è riuscito finalmente a farsi qualche amico.

“Sai com’è…” commenta lui, tronfio come un pavone “questo posto non è così male quando inizi a farci l’abitudine”

“Quindi stai dicendo che non t’interessa più uscire di qui?” chiedo, passandomi la mano destra tra i capelli, ed esattamente come avevo previsto, l’espressione di Bellick cambia: strabuzza gli occhi e scuote energicamente la testa.

“No, no, no, no… Io voglio andarmene assolutamente da questo posto. Stai dicendo che c’è in ballo qualcosa?”

“Diciamo che i tuoi sospetti non erano privi di fondamenta: c’è un evasione in atto, ed io faccio parte della squadra, quarantotto ore al massimo e saremo fuori da questo inferno per sempre”

“Non dirmi che c’entra Scofield… Ormai la sua vita vale come una cassa di rum”

“Ecco il perché di questa conversazione confidenziale” dico, incurvando l’angolo sinistro della bocca; avvicino le labbra all’orecchio destro di Brad ed abbasso la voce ad un sussurro, per evitare che qualcuno di molto vicino al nuovo padrone di Sona possa sentirmi “ho capito come hai fatto a vincere l’incontro. Hai imbevuto quelle pezze di stoffa di acetone, le hai avvolte attorno alle mani, ed al momento opportuno le hai premute sul viso di Papo, in modo che lui respirasse più acetone possibile. Niente male come trucchetto, devo ammettere che mi hai sorpreso parecchio ed in positivo. Fa lo stesso con Sammy e sarai anche tu un membro della squadra”

“Devo sfidare Sammy?” chiede l’ex Capo delle guardie di Fox River, deglutendo a vuoto.

“Devi sfidare Sammy” ripeto a mia volta, dandogli una pacca sulla schiena prima di allontanarmi.



 
Bradley accetta.

Nonostante i dubbi ed i timori, la voglia di andarsene da questo posto è più forte di qualunque altro sentimento e fa ciò che io gli ho ordinato: si presenta davanti all’ex braccio destro di Lechero e non si limita a dirgli che lo vuole sfidare in un incontro, ma rincara la dose offendendolo pesantemente, perché sicuro che il suo piccolo segreto gli permetterà di uscire vincitore per la seconda volta consecutiva; io stesso mi occupo di accompagnarlo nella sua cella per preparare le bende impregnate di acetone e per assicurarmi che usi una dosa abbondante, onde evitare spiacevoli fuori programmi.

Mai e poi mai avrei detto che un giorno mi sarei ritrovato a camminare affianco a quel scimmione di Bellick, ed a parlare come se fossimo vecchi amici.

“Non credevo che lo avrei mai detto, ma non sai quanto t’invidio in questo momento!” esclamo, entusiasta “è dalla prima volta che ho visto quel figlio di puttana che desidero spaccargli la faccia con le mie stesse mani e… E tu stai per avere questo onore. Sai, Brad, per un solo istante ho pensato che non avresti trovato il coraggio di prendere in mano quella zampa di pollo e sbattergliela in viso, invece non solo lo hai fatto, ma ti sei tolto qualche sassolino dalla scarpa. Devo ammettere che sei riuscito a sorprendermi di nuovo, e non è semplice riuscire a sorprendere una persona come me”

“Sfido chiunque a non fare lo stesso dopo giorni trascorsi a pulire le latrine, con la merda fino alle ginocchia, per ordine di quello stronzo” risponde lui, ridendo di gusto, ma il suo buonumore svanisce nel momento in cui raggiungiamo la sua cella; si precipita nell’angolo in cui custodisce l’acetone, ed altre bende di stoffa, ed inizia a balbettare “no… No… No…”

“Che cosa succede?”

“L’incontro non si può fare”

“Cosa? Ma si può sapere che cazzo stai dicendo?”

“L’acetone!” esclama lo stupido e grasso maiale “ho dimenticato il flacone aperto ed è evaporato. Guarda!”.

Purtroppo non si tratta di uno scherzo di pessimo gusto perché quando capovolge la bottiglia, scuotendola con forza, non una sola goccia cade sul pavimento.

“Non è così grave” dico, cercando di mantenere la calma, perché non sono intenzionato a farmi aggredire dal panico “dovrà pur esserci un altro flacone di acetone, o di una sostanza simile. Torna nella stanza in cui hai trovato quella e procurati qualcos’altro”

“C’era solo questo! Dobbiamo annullare tutto, Sammy mi ucciderà!”

“Sammy ucciderà tutti noi, se adesso non esci e non lo sistemi con le tue stesse mani” ringhio, afferrando Bellick per il colletto della canottiera “ascoltami attentamente, razza di stupido e grasso maiale: tu adesso andrai fuori, affronterai quel figlio di puttana e lo ucciderai. Non m’interessa sapere come farai a procurarti dell’altro acetone, ma se vuoi davvero entrare nella squadra, devi ucciderlo. Altrimenti siamo tutti fottuti, nessuno escluso”.

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Capitolo 27
*** The Plan; Parte Tre (T-Bag) ***


Non si capisce mai quanto una persona sia importante finché non la si perde per sempre, ed io ho imparato questa dura lezione di vita con Nicole, la mia Nickie: non ho potuto dirle addio, non ho potuto rimediare al disastro che entrambi abbiamo contribuito a creare e non ho neppure la consolazione di avere qualcosa di suo, perché quando è venuta a Sona ho rifiutato sia lei che la mia fede nuziale; tutto ciò che mi è rimasto della mia ex compagna, la donna della mia vita, è una fotografia che ho portato con me dall’Alabama e che risale ai primi giorni della nostra convivenza, i migliori di tutta la nostra breve, ma intensa, storia.

Si tratta di un autoscatto che lei stessa ha fatto con una polaroid: ritrae noi due abbracciati, con lo sguardo rivolto verso l’obiettivo ed i volti sorridenti; Nickie è spettacolare in questa foto, ogni volta che la riguardo mi ritrovo a trattenere il fiato, perché la cellulosa è riuscita a catturare la sua bellezza semplice e genuina, resa quasi infantile dagli enormi occhi blu.

Ed ogni volta che la guardo, proprio come sto facendo in questo momento, mi ritrovo anche a pensare al tempo che abbiamo sprecato, ed a come io sia l’unico e solo responsabile della sua fine prematura, perché tutto è iniziato nel momento stesso in cui l’ho rinchiusa nello scantinato della mia vecchia casa in Alabama: se non avessi reagito in quel modo violento, se non me ne fossi mai andato, se non mi fossi mai ubriacato e se non l’avessi mai chiamata da quel maledetto albergo a Panama, lei non sarebbe mai venuta fin qui, nessuno l’avrebbe rapita e nessuno l’avrebbe uccisa e decapitata.

Se non mi fossi comportato da egoista, adesso non solo lei sarebbe ancora viva, ma molto probabilmente avremo ancora la nostra vita in Alabama.

Ma la Storia non è stata costruita con i ‘se’, non serve a nulla sbattere la testa contro un muro per qualcosa che non puoi cambiare e lo stesso vale per i rimorsi di coscienza: non si ottiene niente a lasciarsi divorare la mente ed il corpo da essi, si rischia solo di uscire fuori di testa e perdere completamente la propria sanità mentale; tutto quello che posso fare, per lei e per me, è prendere la mia vendetta e poi andare a costituirmi volontariamente alla prima centrale di polizia.

E poi, una volta in carcere, penserò a cosa fare.

Sospiro ad occhi chiusi e ripongo la fotografia in una tasca anteriore dei jeans, senza avere la forza di guardarla ancora una volta; giro il viso in direzione della folla di persone che sta assistendo all’incontro, anche se il termine migliore sarebbe esecuzione, e poi percorro uno dei tanti corridoi stretti e bui di Sona, trovando il mio Capo rintanato in un angolo, come una bestia che si nasconde dal macellaio: non appena sente il rumore dei passi, alza di scatto il pugnale che ha in mano per poi abbassarlo, rendendosi conto che non si tratta né di Sammy né di uno dei suoi uomini.

“Ma si può sapere che cosa ci fai qui?” sbotto, abbandonando l’atteggiamento servile che ho avuto fin dal mio ingresso in prigione, rivolgendogli uno sguardo disgustato “sembri proprio un animale rabbioso in gabbia”

“Perché è proprio questo ciò che sono: il Tiranno è stato rovesciato, ed adesso tutti vogliono la sua pelle”

“E pensi di risolvere il problema nascondendoti? Ascolta, c’è Sammy che sta facendo il culo a Bellick, hai idea di che cosa vuol dire questo? Non ti preoccupare, non sforzarti a pensare ad una possibile risposta, perché ti svelerò subito l’arcano mistero: se Michael viene a sapere che Bellick è stato ucciso durante un incontro, uscirà da quel cunicolo per chiedere spiegazioni a te e finirà dritto tra le braccia di Sammy… Quindi, per evitare che questo scenario apocalittico si avveri, non credi che sia arrivato il momento di uscire allo scoperto e di ricordare a tutti chi è il vero Patròn di questo buco di merda?” domando, senza preoccuparmi di alzare la voce, indicando il punto da cui provengono le urla d’incitamento degli altri detenuti.

In un’occasione diversa, Lechero non avrebbe esitato a pestarmi a sangue per la mia insolenza, ma adesso è costretto a darmi ragione, ed il mio discorso riesce a scuoterlo così tanto che decide di abbandonare il suo nascondiglio; mi supera in fretta, deciso a porre fine al regno di terrore del suo ex braccio destro, ed io mi affretto a seguirlo, ma quando usciamo alla luce del sole riceviamo una brutta sorpresa, la peggiore che potesse capitarci in questo momento: in contemporanea al nostro arrivo in cortile, uno degli uomini di Sammy esce dalla terrazza, urlando al suo Capo di aver finalmente trovato Scofield, Mahone e Whistler proprio nel cunicolo sotterraneo che si nasconde dietro la porta blindata di cui solo Lechero conosce la combinazione.

Il nuovo padrone di Sona si guarda attorno, lasciando andare Brad, ormai al limite delle sue forze.

 Quando vede il mio Patròn, gli si avvicina per poterlo fronteggiare.

“E così lo hai nascosto per tutto questo tempo… Vieni, Norman, dobbiamo fare due chiacchiere. E per quanto riguarda te” dice il giamaicano, puntandomi l’indice destro contro il petto “non muovere un solo passo”.

Mi mordo la lingua per non ribattere alla minaccia di Sammy e resto perfettamente immobile, in silenzio, ad osservare i due allontanarsi in direzione dell’appartamento; nessuno attorno a me osa fiatare e l’unico rumore che spezza il silenzio è provocato dai lamenti di Bellick, ridotto ad una larva informe e sanguinante, raggomitolata sul suolo sabbioso.

I minuti trascorrono lentamente, senza che accada nulla e senza che nessuno esca dalla terrazza, ed alla fine disobbedisco all’ordine che mi è stato imposto, ed entro a mia volta nell’appartamento, dirigendomi subito verso il tunnel; mentre scendo una rampa di scale a chiocciola, vengo attraversato da un brivido improvviso, a causa del silenzio innaturale che regna all’interno dell’intera struttura, e per esperienza personale posso dire che in situazioni come questa il silenzio non è mai un buon segnale.

Quando raggiungo l’ultimo scalino, sento qualcosa che mi provoca un secondo brivido lungo tutta la spina dorsale: un tonfo sordo, che non riesco bene ad identificare, seguito da rumori di una colluttazione e da tre spari.

Poi, di nuovo, il silenzio più assoluto.

Guardo la porta metallica socchiusa, pronto a scappare in qualunque momento, ma la curiosità ha il sopravvento sulla paura e, dopo qualche attimo di esitazione, entro nel tunnel; raccolgo una roccia, in modo da non essere completamente disarmato, ma non appena giro l’angolo, la lascio cadere a terra e sgrano gli occhi: gli uomini di Sammy sono riversi a terra, con un foro di proiettile all’altezza del petto o della schiena, mentre il corpo del giamaicano è parzialmente nascosto da un cumulo di terra e sabbia.

Michael, Whistler, Mahone e Lechero non hanno neppure un graffio.

“Che cazzo è successo?” chiedo, spostando lo sguardo dai presenti al buco, perché è chiaro che il cedimento proviene proprio da lì.

“Abbiamo risolto il nostro problema” risponde prontamente Scofield, mostrandomi un piccolo paletto di legno “Sammy era così ansioso di vedere la nostra via d’uscita che ho deciso di accontentarlo, ma prima mi sono assicurato di togliere questo sostegno a sua insaputa. Loro hanno pensato ai suoi uomini”

“Perfetto” mormoro, sollevato, rivolgendo di nuovo lo sguardo al buco “ma adesso non c’è il rischio che le guardie vedano un enorme buco nella Terra di Nessuno?”.

Alla mia domanda ci precipitiamo subito a controllare la situazione generale dalla cella del piccolo Michelangelo, perché dalla sua finestra a sbarre si ha un’ottima visuale del punto da cui sbucheremo tra quarant’otto ore: con nostro enorme sollievo scopriamo che non si è creato nessun enorme buco visibile, perché il crollo è stato solo parziale.

Finalmente la fortuna ricomincia a girare dalla nostra parte: non solo il piano d’evasione è ancora integro e verrà messo in atto tra due giorni, ma Sammy non costituisce più un problema e Lechero può tornare ad essere l’unico padrone di Sona.

Ed il diretto interessato non perde un solo secondo di tempo per riaffermare la propria sovranità, e lo fa lanciando un messaggio ben preciso: con un calcio, spinge giù dalla terrazza i corpi dei suoi ex fedelissimi, lasciando quello del suo vecchio braccio destro per ultimo; ordina di non avvicinarsi ai cadaveri per le prossime ventiquattro ore, affinché tutti capiscano che cosa succede a coloro che provano a fare il doppiogioco con lui, e poi rientra nel suo appartamento, reggendo la cassa di rum destinata a colui che sarebbe riuscito ad uccidere Michael.

Sorrido compiaciuto alla vista dei corpi senza vita, ma quando sto per avviarmi verso gli appartamenti del mio Patròn, vengo bloccato da Bellick, che porta ancora ben impressi i segni dell’incontro.

“Adesso sono anch’io dentro la squadra, giusto?”

“Non esattamente” ribatto, superandolo, cercando di liquidarlo in fretta perché sono ansioso di festeggiare i recenti sviluppi con un sorso di ottimo rum “avevamo detto che saresti stato nella squadra se fossi riuscito a battere Sammy, non facendo il sacco da box”

“No, no, no, un momento!” esclama lui, bloccandomi per il braccio sinistro “non puoi rimangiarti la parola! O mi fai entrare nella squadra, o vado a raccontare tutto alle guardie”

“Ci sei dentro anche tu, campione, non preoccuparti” sibilo a denti stretti, liberandomi dalla presa con un gesto seccato.

Merda.

Per un problema che si risolve, deve sempre essercene un altro che spunta fuori.



 
Non posso tenere nascosto a Michael il fatto che adesso nella squadra c’è un nuovo membro, ma posso cercare di addolcire la pillola; e per riuscire nel mio intento, decido di portare anche a lui un bicchierino di rum con una fetta di lime.

“Che cos’è?” mi chiede subito lui, diffidente, guardando prima il liquido trasparente e poi me.

“Non è veleno, se è questa la tua preoccupazione, non sono intenzionato ad ucciderti proprio adesso che siamo ad un passo dal lasciare questo posto per sempre… E poi, noi due abbiamo un patto, ricordi? Pensavo che fosse un modo appropriato per festeggiare la riuscita del piano”

“Festeggeremo quando saremo fuori di qui, adesso c’è ancora molto da fare. Ho una squadra da coordinare ed i lavori sono ancora a metà”

“Mh, a proposito della squadra…” commento, dopo aver svuotato il contenuto di entrambi i bicchierini; il piccolo Michelangelo si volta di scatto a guardarmi, fiutando già qualcosa.

“Cosa?”

“Potrebbe esserci qualche piccola novità”

“Cioè? Si può sapere di che cosa stai parlando?”

“Potrebbe essere che abbia promesso a Bellick un posto nella squadra, se fosse riuscito a sbarazzarsi di Sammy sfidandolo per un incontro”

“Ma non è andata così”

“Lo so, ma lui ora vuole ciò che gli ho promesso o andrà a spifferare tutto alle guardie. Ed io sono stato costretto a dirgli che anche lui è dei nostri”

“Maledizione!” esclama Michael, scagliando il supporto di legno che ha in mano contro una parete del tunnel; il suo gesto improvviso, ed il tono alto della voce, attirano l’attenzione di Whistler e Mahone, che ci lanciano una lunga occhiata, prima di ritornare ad occuparsi degli scavi “si può sapere per quale motivo l’hai fatto? Perché hai preso l’iniziativa senza prima consultarmi?”

“Perché Sammy aveva messo una taglia sulla tua testa. E se ti avesse scoperto, adesso non saremo qui a parlare di questo. Mi avevi detto di occuparmi di questa faccenda, ed è stato ciò che ho fatto. Avevo assistito ad un incontro tra Bellick ed un altro detenuto, per puro caso, ed ho visto che lui è riuscito a vincerlo utilizzando delle bende impregnate di acetone. Pensavo che fosse la soluzione perfetta al nostro problema, e così gli ho detto che ci sarebbe stato un posto anche per lui nella squadra, se avesse fatto lo stesso con Sammy. Sentiamo, dolcezza, che altro avrei dovuto fare? Volevi pensarci tu? Non saresti resistito neanche cinque minuti dentro il ring quindi, anziché puntarmi il dito contro, dovresti ringraziarmi”

“Dovrei ringraziarti per aver complicato il piano?” ribatte Scofield, senza preoccuparsi degli altri che stanno ascoltando ogni singola parola della nostra discussione “ma ti rendi conto di quello che hai fatto?”

“Sì, me ne rendo conto perfettamente!” esclamo, urlando a mia volta “ti ho parato il culo!”

“No, idiota di un pervertito! Hai messo in pericolo la riuscita dell’intero piano: quando le luci dell’intera struttura e delle torrette di sorveglianza si spegneranno, abbiamo solo trenta secondi a nostra disposizione per uscire dal buco, attraversare la Terra di Nessuno, passare per il buco nella recinzione e scappare nella giungla”

“E me lo dici solo ora? Che cosa stavi aspettando per comunicarci questo piccolo particolare tecnico, Scofield? Il momento stesso dell’evasione? Stai tentando ancora di giocare sporco? Credevo che noi due avessimo un accordo”

“Come posso avere un accordo con una persona che continua a remarmi contro?”

“Che cosa? Ti stai rimangiando la parola?”

“Ehi!” esclama James, interponendosi tra noi due e ponendo momentaneamente fine alla discussione, prima che possa degenerare in qualcosa di molto più fisico e violento “finitela, d’accordo? Questo non è il momento di discutere. C’è una cosa che dovete vedere entrambi, perché forse abbiamo un problema”.

Io e Michael ci guardiamo per qualche istante negli occhi e poi seguiamo Whistler, che ci conduce ai piedi della scaletta a pioli che conduce all’interno del buco; Scofield sale i scalini per primo, io lo seguo subito, e non appena metto la testa nel tunnel secondario, capisco immediatamente qual è il problema menzionato dall’australiano: dal soffitto umido continuano a cadere piccole gocce d’acqua che finiscono sui nostri capelli o sul nostro viso; ne tocco una che si è posata sulla mia guancia destra, e poi rivolgo uno sguardo perplesso all’ideatore del piano.

“Ma che cosa significa?”.

Lui non mi degna di una risposta, mormora qualcosa a bassa voce e scende velocemente la scala a pioli per poi dirigersi verso la porta metallica; lo raggiungo, chiedendogli altre spiegazioni che arrivano solo quando raggiungiamo la sua cella: dalla finestra a sbarre vediamo una pozzanghera che corrisponde al buco dal quale dobbiamo uscire tra quarant’otto ore.

“Quando c’è stato il cedimento” mormora Michael, riferendosi alla fine poco piacevole di Sammy “si è formata una leggera conca nel terreno, e la pioggia l’ha trasformata in una pozzanghera”

“Ed è un problema così grave?” domando, osservando l’acquazzone violento che si sta abbattendo su Panama.

“Non resisterà per quarant’otto ore, è troppo tempo”

“E quindi?”

“Quindi? Quindi evadiamo questa notte” sentenzia il piccolo pesciolino, allontanando il viso dalle sbarre; mi volto di scatto a guardarlo, con gli occhi spalancati, ripetendo le sue parole per essere sicuro di averle sentite con chiarezza.

“Evadiamo questa notte?”

“Proprio così”

“Ma… Ma i lavori sono ancora a metà! Non riusciremo mai ad essere pronti per questa notte”

“Finché continuiamo a perdere tempo a parlare è molto probabile” commenta lui, scoccando una frecciatina gratuita che poteva risparmiarsi; mi mordo la punta della lingua per resistere all’impulso di restituirgli il favore e lo seguo nuovamente all’interno del tunnel sotterraneo senza più fiatare.

Perché, mio malgrado, su una cosa ha perfettamente ragione: finché perdiamo tempo a parlare, le possibilità di riuscire ad evadere questa stessa notte diventano sempre più sottili.

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Capitolo 28
*** The Plan; Parte Quattro (T-Bag) ***


“Hai bisogno di più puntelli? Se ti servono, basta solo che me lo chiedi. Non voglio che l’intero soffitto crolli mentre noi siamo all’interno del tunnel” dice Bellik, rivolgendomi uno sguardo preoccupato dalla base della scala a pioli; butto le gambe al di fuori del buco e scendo lentamente i scalini per prendermi una piccola pausa, perché ormai sono ore che lavoriamo ininterrottamente, dandoci il cambio di tanto in tanto.

“Guarda che possiamo occuparci di questa ferrovia per tutto il sacrosanto giorno, ma è inutile se Scofield non ha la più pallida idea di quello che accadrà una volta che scenderemo dal treno” commento in tono sarcastico, scendendo con un salto dall’ultimo scalino.

Come se il problema del tempo limitato non fosse già abbastanza per noi, nell’arco della mattinata è sorto un altro piccolo imprevisto: il nostro piccolo Michelangelo ha studiato un piano per uscire da Sona, ma non ha la più pallida idea di quello che accadrà una volta che ci saremo inoltrati nella giungla; e dopo la breve ed accesa discussione che io e lui abbiamo avuto, non mi fido e non so quanto sia ancora valido il patto e la piccola tregua che abbiamo stipulato per vendicare Nicole e Sara.

“Scofield non è responsabile delle nostre vite” interviene Whistler, prendendo inaspettatamente le difese di Michael, ma viene subito interrotto da Lechero, che gli chiede se è davvero sicuro di ciò che ha appena detto, ed io rincaro la dose raccontandogli qualche piccolo retroscena della nostra precedente evasione.

“Quando siamo usciti da Fox River, Michael non ha fatto altro che fotterci tutti. La metà di noi è stata uccisa, catturata o peggio” dico, mostrandogli la protesi di plastica che ho al posto della mano sinistra; e prima che l’australiano possa ribattere, Mahone s’intromette nella conversazione, schierandosi dalla sua parte con mia enorme sorpresa.

“I primi che vengono catturati sono sempre coloro che perdono tempo piagnucolando o lamentandosi, anziché correre”

“Voglio darti solo un piccolo consiglio, Shakespeare: guardati le spalle dai tuoi nemici e fa attenzione ai tuoi amici” sussurro, rivolgendomi ancora una volta all’uomo che dobbiamo portare fuori da questo posto; la nostra discussione viene interrotta dall’arrivo di Scofield, che ci domanda come procedono i lavori, ed io ne approfitto per restituirgli la frecciatina che mi ha lanciato in mattinata, quella riferita al tempo perso in chiacchiere inutili “benvenuto nella miniera di carbone, non ti si vede spesso da queste parti. A cosa dobbiamo l’onore della tua presenza, dolcezza?”

“Devo parlare con Whistler. Perché tu e Lechero non date il cambio ad Alex e Bellick?” si limita a dire, prima di sparire ancora una volta con il diretto interessato, ed ancora una volta non dico nulla, ma non appena sono all’interno del tunnel secondario insieme al mio Patròn, lo metto subito al corrente della mia idea generale, facendogli notare che siamo sempre noi a dover fare il lavoro da schiavi.

“Io non sono uno schiavo” ribatte subito lui, punto sul vivo “faccio questo perché me ne voglio andare da Sona, esattamente come tutti gli altri”

“Sì, ma non trovi strano il fatto che Scofield scenda raramente qui sotto? È chiaro che stia tramando qualcosa”

“Tutti stanno tramando qualcosa”

“Stavo pensando…” mormoro, facendo schioccare la lingua contro il palato “stavo pensando che non dobbiamo per forza dividerci una volta fuori da Sona, Patròn, potremo darci una mano a vicenda”

“Se avrò bisogno di una mano, allora andrò da qualcuno che ne ha due”.

Distendo le labbra in un sorriso, ridendo della sua battuta, e soffoco l’istinto di scagliarmi contro di lui per spaccargli il cranio con una pietra appuntita.

“Forse non sono messo molto bene sul lato ovest, ma in compenso la natura è stata molto generosa per quanto riguarda il lato nord” commento, picchiettandomi la fronte con la protesi “e non dimenticare quello che ho detto prima all’australiano: Scofield si è già rivelato un abile doppiogiochista nel corso della nostra prima evasione, chi ci assicura che non voglia giocarci qualche brutto scherzo anche adesso? Credi davvero, Patròn, che non ci consegnerà di nuovo in pasto alle autorità, se dovesse presentarsi l’occasione perfetta? Tu lo sottovaluti troppo”

“Pensa ai puntelli” si limita a commentare Lechero, senza aggiungere altro, ma dalla sua espressione capisco benissimo che le mie parole hanno fatto centro, e che finalmente sono riuscito ad instillare in lui più di un dubbio su Michael.

Ma questo non mi basta.

Avere Lechero dalla mia parte è un buon inizio, tuttavia non è abbastanza, e così decido di ripetere lo stesso giochetto con Mahone, con la speranza che il suo odio per Scofield superi il disgusto che prova verso di me.

“Whistler!” esclamo, non appena mi capita l’occasione di restare da solo con lui nel tunnel sotterraneo “non ti sei mai chiesto che cosa abbia di così importante?”

“In questo momento, la mia unica preoccupazione è riuscire a finire il buco per l’evasione di questa notte” risponde l’ex agente, laconico, versando una sostanza viscosa sopra a quello che sembra essere un enorme vassoio dalla forma ovale “Michael ha detto che dobbiamo coprire il buco con qualcosa, così quando tornerà la luce, impiegheranno diverso tempo ad accorgersi della nostra fuga, e questo ci darà un enorme vantaggio… Dovrebbe essere della misura giusta… Aiutami a mischiare la melassa con la sabbia”

“Non pensi che sarebbe un’ottima merce di scambio?” domando, riprendendo il discorso dal punto in cui sono stato interrotto; Alex lascia cadere a terra il contenitore della melassa, rivolgendomi uno sguardo seccato perché ho ignorato la sua richiesta.

“Hai in mente qualcosa?” mi chiede poi, iniziando a raccogliere la sabbia da terra e mischiandola alla melassa.

“Stavo pensando che abbiamo diverse cose che ci accomunano: entrambi sappiamo che cosa significa perdere un grande amore, visto che io non ho più la donna della mia vita e tu non sai come riconquistare la tua ex moglie, entrambi sappiamo che cosa significa uccidere un uomo… Ed entrambi ci troviamo qui dentro a causa di Michael Scofield. Non pensi che sarebbe giustizia poetica ricambiargli il favore, infilzando l’australiano?”

“Giustizia?” ripete Mahone, con un sorriso di scherno, senza smettere di occuparsi della poltiglia molliccia ed appiccicosa “se esistesse ancora un briciolo di giustizia sulla Terra, a quest’ora ti ritroveresti in una tomba senza nome, a faccia in giù, insieme a tutta la tua famiglia incestuosa”.

Sono costretto a reprimere di nuovo l’istinto di ricorrere alla violenza, e di prendere in mano una pietra per porre fine all’esistenza dell’ex agente, ma questa volta è molto più difficile: durante la mia vita ho permesso a tanti insulti di scivolarmi addosso, ma non sono mai riuscito a fare lo stesso con le insinuazioni che riguardano la mia famiglia; e per quanto possano essere vere le parole di Alex, non è mai semplice accettare certi sporchi segreti.

Figuriamoci esporli ad alta voce, alla luce del giorno.

“Guarda che l’unica cosa che ci distingue è un distintivo, e ti ricordo che non lo indossi più da molto tempo” ribatto poi, rovesciando il vassoio a terra per ripicca e per essere guardato negli occhi “continua pure a non voler guardare in faccia la realtà, Alex, continua pure a portare i paraocchi, ma non dimenticare mai la lezione di vita che sto per darti: con i paraocchi diventa molto, molto, molto più difficile guardarsi alle spalle”.



 
Contro ogni previsione, quando calano le tenebre il buco è pronto: in meno di ventiquattro ore, lavorando ininterrottamente per tutto il giorno, siamo riusciti a portare a termine tutti i preparativi per l’evasione; l’unica cosa che possiamo fare, adesso, è attendere che Lincoln faccia saltare la corrente in tutto l’edificio, ed è Michael in persona a ricordarcelo, non appena ci raggiunge nel tunnel, come ci ricorda il brevissimo lasso di tempo che abbiamo a nostra disposizione per raggiungere un riparo sicuro nella fitta giungla.

“Quando le luci si spegneranno, avremo solo trenta secondi a nostra disposizione per scappare, di conseguenza non possiamo sprecare un solo secondo: se qualcuno resta indietro, non potremo fare nulla per lui”

“Aspetta solo un secondo!” esclamo, interrompendo il suo monologo, e punto l’indice destro contro il ragazzino rannicchiato dietro di lui: non conosco il suo nome, ma l’ho visto diverse volte giocare a basket nel cortile interno di Sona “si può sapere che cazzo ci fa lui qui? Non è della squadra”

“Lui verrà con noi”

“Non penso proprio” commenta Lechero, dando voce ad un pensiero che condivido appieno.

“Ha ragione, bellezza, non puoi cambiare le carte in tavola quando e come ti piace. Hai già dimenticato quello che hai detto? Abbiamo solo trenta secondi, una persona in più equivale a più probabilità di mandare tutto a puttane… Hai proprio una bella faccia tosta ad introdurre una novità dell’ultimo secondo, soprattutto vista la ramanzina che hai avuto il coraggio di farmi dopo l’ingresso di Bellick nella squadra. Non m’importa se sei il Capo, lui non viene con noi questa notte”

“Si tratta di una faccenda persona che non vi riguarda”

“Perfetto, allora, se questa è davvero la tua ultima risposta non ci lasci altra possibilità che agire di conseguenza” mormoro, con un sorriso, tiro fuori da una tasca dei pantaloni un cacciavite affilato ed il mio Patròn fa lo stesso; Michael sposta velocemente lo sguardo su entrambi, per poi soffermarsi in modo particolare su di me.

“Volete uccidermi?” chiede, ed in tutta risposta scoppio in una risata divertita.

“Assolutamente no, tu ci servi per la riuscita del piano, ma visti i precedenti che ci sono stati, non nutriamo nessuna fiducia nei tuoi confronti. Faremo così: noi due usciremo per primi, oppure lui non si muove da questo tunnel” dico, indicando Whistler, che nel frattempo è stato immobilizzato dal mio Patròn.

“Noi due avevamo un accordo”

“Sì, lo so, me lo ricordo molto bene. Avevamo stipulato una piccola tregua che prevedeva niente doppio giochi o voltafaccia dell’ultimo minuto, ed io ero davvero intenzionato a rispettare i patti, Michael, ma non sono neppure intenzionato a farmi fottere da te per la seconda volta. Non sono io ad aver iniziato a remare contro, non sono io quello che continua ad avere segreti ed a raccontare mezze verità. Questa volta ti sei fregato con le tue stesse mani, bellezza. Allora? Qual è la tua scelta? Lascerai uscire noi due per primi, oppure sei ansioso di vedere la carotide di Whistler squarciata dalla punta di un cacciavite?”

“Va bene! Va bene! Andate voi per primi! Uscirete per primi da quel buco!”

“Bravo, hai preso la decisione migliore” mormoro, abbassando il cacciavite; sussulto, colto del tutto impreparato, quando le luci nel tunnel si spengono improvvisamente e ci ritroviamo avvolti dal buio assoluto.

“Lincoln è riuscito a far saltare la corrente” sussurra Scofield, a poca distanza da me “trenta secondi a partire da ora. Dobbiamo uscire subito!”.
 

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Capitolo 29
*** Todos Somos Iguales! (T-Bag) ***


Il primo ad uscire è Lechero.

Poi arriva il mio turno, e subito dopo è quello di Bellick.

Senza guardarci alle spalle, senza perdere un solo secondo di tempo, attraversiamo correndo la Terra di Nessuno, ma a metà strada, molto prima dello scadere dei trenta secondi, riceviamo una brutta ed inaspettata sorpresa: i fari posizionati nelle quattro torrette di sorveglianza si accendono di nuovo, uno dietro l’altro, investendoci in pieno con i loro fasci di luce, trasformandoci in tre bersagli ben visibili agli occhi delle sentinelle; ed infatti delle voci, in spagnolo, ci intimano subito di non muovere un solo passo e di alzare le braccia in segno di resa.

Io obbedisco immediatamente, per non ritrovarmi crivellato di colpi, Bellick mi imita in automatico, ma lo stesso non vale per il mio Patròn: ignorando gli ordini urlati al megafono dalle sentinelle, riprende a correre in un disperato tentativo di raggiungere la salvezza e, prima che possa gridargli di fermarsi, viene colpito da un proiettile nel petto, appena sotto la spalla destra, che gli strappa un grido di dolore e lo fa crollare a terra come uno sacco di iuta.

“Io non… Non capisco…” balbetta Bellick, mentre veniamo raggiunti da alcuni uomini in divisa.

“Zitto, non dire una sola parola, sono sicuro che Scofield verrà a tirarci fuori da questo casino il prima possibile, sempre se riusciranno ad uscire da quel tunnel” mormoro, guardandomi attorno, facendo capire a Brad quello che sta per succedere e come deve comportarsi di conseguenza: quando qualcosa va storto nel corso di un evasione, ed i detenuti vengono fermati prima che possano scappare di prigione, i poveri malcapitati vengono subito condotti in una stanza per essere interrogati; nel nostro caso non veniamo condotti in una stanza per gl’interrogatori, in compenso ci ritroviamo faccia a faccia con  il generale Mestas, l’uomo che si occupa di dirigere Sona.

Quest’ultimo punta subito su Bellick, perché lo identifica come l’anello debole, ed infatti bastano appena due pugni ed un braccio attorno al collo per far sputare il rospo al grasso maiale, ed a nulla servono le mie occhiate furiose: rivela l’esistenza del tunnel e del buco situati sotto gli appartamenti di Lechero, ma quando veniamo trascinati lì dentro, riceviamo la seconda brutta sorpresa della serata.

Il tunnel è completamente vuoto.

“Non capisco… Non capisco… Erano qui…” balbetta di nuovo Brad, scuotendo la testa più volte, è così stupido che non riesce a guardare in faccia la realtà e tocca a me il compito di fargli ingoiare la pillola amara.

“Ma non riesci proprio a capire che cosa è successo, brutto sacco di merda?” ringhio a denti stretti, riuscendo a controllare appena la rabbia “questo era il piano fin dall’inizio. Scofield ci ha fregati di nuovo, ha lasciato che fossimo noi tre i primi ad uscire perché sapeva che c’era un secondo generatore, sapeva che le luci si sarebbero riaccese molto prima dei trenta secondi. Noi tre siamo stati delle semplici esce”.

Ecco perché non si è veramente opposto al voltafaccia mio e di Lechero e perché non ha insistito affinché fosse Whistler il primo ad uscire dal buco: sapeva tutto fin dal primo momento, aveva calcolato ogni singola cosa nei più piccoli particolari, ed anche il nostro patto non è stato altro che una presa per il culo.

Ancora una volta ho lasciato che Michael mi fottesse: lui adesso è un uomo libero, che può vendicare la propria donna, mentre io sono ancora rinchiuso in questo schifo d’inferno in Terra, in procinto di ricevere il pestaggio più doloroso della mia vita.

Brutto figlio di puttana.

Brad non ha il tempo di rispondere alla rivelazione che gli ho appena fatto: un soldato gli si avvicina e lo colpisce in pieno viso con il calcio del fucile, accusandolo di aver raccontato una bugia, e lui si accascia a terra coprendosi il naso con entrambe le mani, in un vano tentativo di fermare il flusso di sangue.

“Non è una balla! C’entra davvero Scofield in questa faccenda, perché non fate la conta? Vedrete subito che mancano alcuni uomini all’appello!” esclama, cercando di uscire dalla brutta situazione in cui si trova fino al collo: pensa davvero di riuscire a pararsi il culo in questo modo, non ha capito che questa non è la fine dell’interrogatorio, ma solo l’inizio.

Non ha neppure capito che la parte dolorosa deve ancora iniziare.

Il generale Mestas ed i suoi uomini non si accontentano di sapere chi sono i prigionieri che hanno provato a scappare e quali sono quelli che sono riusciti nell’impresa, vogliono conoscere tutti i singoli passaggi del piano di Michael, affinché una cosa simile non accada ancora, e soprattutto vogliono sapere dove sono diretti gli evasi, in modo da riuscire a fermarli e riportarli a Sona prima che abbandonino la città e lo Stato; e per estorcere tutte le informazioni da quel grasso maiale di Bellick non provano neppure a fare un tentativo con le buone maniere, ma passano direttamente alle cattive: lo picchiano a sangue, nel cortile interno, senza risparmiarsi in fatto di pugni e calci, e si fermano solo quando la loro vittima cade a terra priva di sensi, con un paio di denti in meno.

“Questo qui è andato” commenta Mestas, girando intorno al corpo di Bellick, lanciando poi una breve occhiata a Lechero “e quello lì ha già un piede nella fossa. A quanto pare ci è rimasta un’unica opzione. Portatelo fuori di qui, nel mio ufficio”.

Prima che possa rendermi conto che si sta riferendo proprio a me, due uomini mi afferrano per le braccia e mi conducono al di fuori del cancello di Sona; uno di loro m’intima di accelerare il passo e mi dà una spinta così violenta che mi ritrovo a sbattere il viso contro il terreno.

Sputo della sabbia, mista a saliva, ma quando provo a rialzarmi, noto per puro caso un piccolo libretto abbandonato sotto un camion dei militari; anche se è in parte nascosto dalla sabbia, lo riconosco subito e riesco a prenderlo e ad infilarlo in una tasca dei jeans senza farmi vedere dagli uomini del generale, qualche istante prima di essere costretto ad alzarmi ed a seguirli all’interno dell’ufficio del loro superiore.

Ed è proprio lì che ricevo il peggior pestaggio della mia vita.

Peggiore di quello che ho ricevuto da parte di Abruzzi, C-Note e dei loro uomini; peggiore perfino di quello che Bellick ed il suo sottoposto mi hanno riservato nella vecchia casa di Susan.

Esattamente come nel caso dell’ex Capo delle guardie di Fox River, anche con me non si risparmiano in fatto di pugni e calci, con l’aggiunta di qualche sputo in faccia: i colpi che ricevo, in ogni parte del mio corpo, sono così violenti che non riesco neppure a riprendere fiato e la vista mi si annebbia più volte, ma dalle mie labbra non esce una sola parola.

Perché io non so assolutamente nulla, non so in che modo evolva il piano di Scofield una volta raggiunta la giungla.

“Potete continuare a picchiarmi per tutto il tempo che volete, ma io non dirò una sola parola perché non so nulla. So molto meno di te” dico, rivolgendomi ad uno dei miei carnefici, senza riuscire a tenere a freno la lingua “e vuol dire molto, visto quanto sei ignorante, pezzo di merda senza cervello”.

Ricevo un pugno allo stomaco che mi fa crollare in ginocchio sul pavimento, boccheggiando alla ricerca d’aria, ormai vicino a perdere conoscenza; le due guardie si scambiano qualche parola in spagnolo e poi una esce dall’ufficio, mentre l’altra mi tira su e mi costringe a salire sopra ad una sedia.

“Tirati giù i pantaloni” ordina, ed io mi limito a sbattere le palpebre, rivolgendogli uno sguardo confuso.

“Come?”

“Tirati giù i pantaloni”

“Se avessi saputo prima che a Panama vi divertite in questo modo, non avrei tentato di scappare” commento, obbedendo allo strano ordine ricevuto, ed in tutta risposta ottengo solo una bastonata allo stomaco ed una battutina sarcastica da parte dell’uomo in divisa, il quale mi dice che è ansioso di vedere se a breve avrò ancora così tanta voglia di parlare; afferro appieno il senso delle sue parole solo quando l’altra guardia rientra con in mano uno scatolone, per la precisione quando vedo il contenuto dello scatolone: si tratta di due cavi dotati di morse, del genere che si usa per ricaricare la batteria di una macchina.

E capisco altrettanto bene che cosa vogliono fare con i cavi non appena uno dei due uomini li prende in mano e sfrega le morse l’una contro l’altra, dando origine ad una piccola pioggia di scintille.

Merda.



 
Al mio rientro a Sona, ormai a mattinata inoltrata, nel cortile interno regna l’anarchia più assoluta: ci sono detenuti che urlano, altri che corrono ed altri ancora che lanciano giù dal primo piano tutto quello che trovano nelle rispettive celle; dei cadaveri che giacciono a pancia in giù in una pozza di sangue testimoniano come alcuni uomini hanno approfittato subito dell’occasione per sistemare delle faccende in sospeso, senza ricorrere alla famigerata zampa di pollo.

Osservo attonito l’intera scena, tamponandomi il sangue che mi esce dal naso con una bandana nera, finché non vengo raggiunto da Bellick, che versa in condizioni molto simili alle mie: mi afferra per il braccio sinistro e mi rivolge uno sguardo sorpreso ed incredulo, come se facesse fatica a credere di avermi davvero davanti ai suoi occhi.

“Sei vivo!” esclama, difatti, squadrandomi da capo a piedi, soffermandosi sul rivolo di sangue che mi esce dal naso, sul taglio che ho sulla spalla sinistra e sulla canottiera sporca di terra ed altro liquido scarlatto “come hai fatto ad uscire dall’ufficio del colonnello sulle tue gambe?”

“Stavano per friggermi i gioielli di famiglia” rispondo, reprimendo a stento un brivido al ricordo delle morse che sprizzavano scintille “ma la fortuna mi ha arriso proprio nel momento in cui avevo bisogno di lei: nella stanza accanto, per puro caso, ho visto Sucre e gli ho puntato l’indice contro, dicendo che era lui l’uomo giusto e che sapeva ogni cosa del piano. Naturalmente Fernando ha provato a negare tutto, dicendo di non conoscere Scofield e di non averlo mai sentito prima in tutta la sua vita, ma non ha potuto più farlo quando Mestas gli ha mostrato un articolo che parlava degli Otto di Fox River. E così sono riuscito a pararmi il culo”

“E se vuoi continuare a rimanere in vita, è meglio andarcene subito di qui e trovare il miglior nascondiglio possibile” mormora Bellick; prova a trascinarmi lontano dal cortile, ma io mi ribello a causa di una scena che mi lascia completamente senza parole: proprio al centro del rettangolo di sabbia battuta, tre uomini stanno prendendo a calci Lechero, e lui non può difendersi a causa della grave ferita che ha al petto, da cui ha già perso una consistente quantità di sangue.

“Non posso lasciarlo lì” dico, provando a raggiungerlo, ma Bellick non molla la presa dal mio braccio, impedendomi di prestare soccorso al mio Patròn.

“Ma sei pazzo? Non possiamo fare più niente per lui, tutti lo odiano e vogliono la sua pelle, se restiamo con lui rischiamo di fare la stessa fine”

“Quell’uomo mi ha dato un posto dove stare, senza di lui non sarei sopravvissuto un solo giorno a Sona”

“Sì, ma stai parlando dello stesso uomo che non si è fatto scrupoli a picchiarti più volte ed a versarmi sulla schiena del caffè bollente” mormora Brad, riferendosi alla spiacevole esperienza che gli è capitata appena qualche giorno prima, alla quale ho assistito in prima persona.

E devo ammettere, mio malgrado, che in quell’occasione ho goduto non poco nell’udire le urla di dolore dell’ex secondino.

“Se tu vuoi nasconderti come un verme, fallo pure, ma io non sono intenzionato a guardare senza fare qualcosa” ribatto, a denti stretti, scrollandomi il grasso maiale di dosso; raggiungo a passo veloce il mio Patròn, urlo ai tre uomini di allontanarsi dopo aver colpito uno di loro con un pugno, e lo aiuto ad alzarsi, passandomi il suo braccio sinistro attorno alle spalle “non ti preoccupare, ti aiuto io, cerca di fare un piccolo sforzo per raggiungere il tuo appartamento e poi potrai riposarti”.

Fortunatamente, Bellick non taglia la corda e mi dà una mano a sorreggere Lechero in modo da arrivare il prima possibile nel suo appartamento, ma quando entriamo nel salotto, scopriamo che anche questa parte della prigione non è scampata dalla violenta rivolta che è esplosa: tutte le stanze sono state saccheggiate, i mobili ribaltati, e sul pavimento sono sparpagliati fogli di carta, oggetti, ed il contenuto di numerosi cassetti; un rumore improvviso, proveniente dalla cucina, attira la nostra attenzione e dopo qualche secondo ci rendiamo conto di non essere soli.

Due uomini sono ancora intenti a cercare qualcosa di prezioso da rubare e non appena vedono Lechero, anziché scappare o implorare perdono, scoppiano a ridergli in faccia, con disprezzo, perché nelle condizioni in cui è ridotto ora non suscita più alcuna paura o rispetto; ma l’ex Capo di Sona, nonostante la grave ferita al petto, si avvicina barcollando ad una parete, getta a terra un quadro, apre una cassetta di sicurezza e tira fuori una pistola che punta contro i due sciacalli.

E loro, intuendo il pericolo, lasciano cadere a terra ciò che sono riusciti a trovare e si dileguano subito, uscendo in terrazza; quasi contemporaneamente, il mio Patròn si appoggia ad una parete, ansimando esausto, perché l’emorragia lo sta rendendo sempre più debole ad ogni minuto che passa.

Ordino a Bellick di sollevare una poltrona che è stata rovesciata a terra, ed aiuto Lechero a sedersi, per riposarsi e per non sprecare altre energie preziose, e faccio lo stesso anch’io per qualche secondo, avvicinandomi alla tenda che separa l’interno dell’appartamento dalla terrazza; il mio sguardo si concentra in automatico sui detenuti radunati nel cortile, ed anche se a questa distanza non posso sentire le loro parole, riesco benissimo ad immaginare di che cosa stanno discutendo.

E Brad la pensa esattamente come me.

“Qui sta per esplodere un enorme casino” mi sussurra ad un orecchio, per non essere sentito da Lechero “quell’uomo finirà per ucciderci”

“No, ti sbagli, quell’uomo ci farà uscire da questo maledetto posto” rispondo, a denti stretti, prima di allontanarmi per prendere una bottiglia di disinfettante; svito il tappo con i denti, verso un’abbondante dose di alcol sulla ferita del mio Patròn e lui si lascia scappare un gemito di dolore, serrando con forza i denti “perdonami, brucia un po’, ma è necessario per evitare che sorga un’infezione. Quando mi hanno tagliato la mano, ho rischiato di andare incontro alla setticemia e ho passato le pene dell’inferno. Forse è meglio se adesso posi quella pistola, Patròn, qui non corri più alcun rischio, e poi ci siamo noi due per ogni evenienza”

“Teodoro…” commenta lui, scuotendo la testa, puntandomi la canna della pistola contro “l’ultima persona che avrei immaginato di avere a mio fianco durante i miei ultimi momenti… Da quando sono stato rinchiuso a Sona, ho avuto tanti leccapiedi e tutti loro si sono rivelati dei lupi travestiti da agnelli”

“Stai dicendo che voglio tradirti?” ribatto subito, lanciando la bottiglia di disinfettante contro una parete per sfogare la frustrazione, il tutto sotto lo sguardo stravolto di Bellick “ma non hai ancora capito che io sono qui per aiutarti? Preferisci spararmi un colpo in pieno petto e restare qui a vedere la vita scivolare lentamente via dal tuo corpo, oppure scappare in tempo per essere ricucito e rimesso in sesto?”

“Che cosa stai blaterando?”

“Una guardia mi ha assicurato un lasciapassare per noi tre, per il giusto prezzo ovviamente”

“Una guardia che parla in questo modo dice solo un mare di cazzate. Non puoi credere davvero ad una promessa simile”

“Sona ha un nuovo colonnello adesso, e a differenza del suo predecessore sa come funziona il mondo e sa che a volte scendere a patti può essere molto vantaggioso. Certo, la nostra Susie Sona ha un prezzo abbastanza elevato, ma lo è anche la posta in gioco, e quando si tratta della propria pelle nessun prezzo da pagare è così alto”
“E quanto vorrebbe?”

“Cinquantamila. In contanti, ovviamente”.

Dalle labbra di Lechero esce un verso seccato, diffidente, e subito dopo scuote la testa, dichiarandosi contrario a quella che considera solo come una follia.

“Non se ne parla. Vai a prendere una bottiglia di rum, ho bisogno di bere qualcosa di forte”

“Molto bene” sibilo, acconsento alla sua richiesta e torno dalla cucina con una bottiglia ancora sigillata, che sbatto con forza sopra ad un tavolino “ecco la tua bottiglia di rum, questa è l’ultima della scorta. Io mi congedo, Patròn, ho fatto tutto ciò che era in mio potere, non ci tengo ad assistere alla tua autodistruzione, questo non posso accettarlo”.

Volto le spalle a lui ed a Bellick, ma vengo subito richiamato dalla sua voce.

“Anche se riuscissi a procurarmi la cifra che il colonnello vuole, come posso farla arrivare a Sona? Non c’è nessuno di cui posso fidarmi”

“Questo non è esatto” sussurro, avvicinandomi alla poltrona ed inginocchiandomi sul pavimento “sai molto bene che c’è una sola persona di cui puoi fidarti, ed a cui puoi affidare un compito simile. E sai altrettanto bene a chi mi sto riferendo”.



 
Trascorro pochi, essenziali, secondi al telefono e dopo aver chiuso la chiamata, comunico al mio Capo ed a Bellick la buona notizia: i soldi ci sono ed a breve arriveranno a Sona.

“Perfetto, e come faremo a consegnarli alla guardia? Che cosa ti ha detto riguardo allo scambio?”

“Non ci sarà nessun scambio, Brad”

“Che cosa? Per quale motivo non vuoi più seguire il piano? Noi… Noi dobbiamo dare quei soldi alla guardia, altrimenti non usciremo da questo posto!” chiede l’ex secondino, sconvolto; Lechero lancia una breve occhiata al tavolino posizionato poco lontano dalla poltrona, i suoi occhi scuri indugiano sulla bottiglia di rum mezza vuota e sulle pezze sporche di sangue, che io stesso ho utilizzato per tamponare il buco lasciato dal proiettile che lo ha trapassato.

“Stai cercando questa?” chiedo, mostrandogli la pistola “l’ho presa qualche minuto fa, quando ti sei finalmente deciso di posarla”.

Alla vista dell’arma carica, stretta nella mia mano destra, nelle sue iridi scure scende un velo di consapevolezza che fa apparire sulle mie labbra il sorriso compiaciuto che sono stato costretto a trattenere finora.

“Non lo hai ancora capito? Non c’è mai stata alcuna guardia corrotta ed alcun piano per scappare da Sona. Era questo il suo piano fin dall’inizio”

“Esatto” confermo, continuando a sorridere; ordino a Bellick d’immobilizzarlo, ma il grasso maiale è così sconvolto dalle mie intenzioni che non muove un solo passo, limitandosi ad osservare la scena con gli occhi e la bocca spalancati: una reazione piuttosto bizzarra per una persona che lavorava in un penitenziario, abituata ad avere a che fare con scene cruente.

“Teodoro, Teodoro, Teodoro...” mormora, allora, Lechero ripetendo l’orribile storpiatura del mio nome, che contribuisce solo a farmi salire il sangue al cervello; manda giù un lungo sorso di rum e mi allunga un cuscino della poltrona “da disgraziato a disgraziato, se proprio devi farlo, cerca almeno di essere il più rapido possibile”.

Prendo a mia volta la bottiglia di liquore, svuotandola in due lunghi sorsi, e poi afferro l’arma improvvisata, sostituendola alla pistola.

“Lo farò, ma tu non devi opporre alcuna resistenza” dico, facendo schioccare l’osso del collo “adios, Norman. Non sai da quanto tempo stavo aspettando questo momento”.

Dopo avergli fatto questa piccola rivelazione, non induco ulteriormente.

Salgo a cavalcioni sulle sue gambe e premo il cuscino contro il suo viso, aiutandomi con il peso del mio corpo, dando sfogo a tutta la rabbia che ho dovuto reprimere per giorni e giorni, per settimane intere; vendicandomi finalmente di tutte le umiliazioni, le vessazioni ed i pestaggi che sono stato costretto a subire in silenzio, senza fiatare, per avere vita facile dentro questo buco di merda, dimenticato da Dio.

E quando lo sento agitarsi negli ultimi spasmi di vita, per poi rimanere completamente immobile, vengo invaso da una sensazione di piacere così assoluto, che può essere paragonata solo al migliore degli orgasmi.



 
Dall’altra parte della recinzione, Carmelita mi guarda in silenzio, troppo sconvolta da ciò che le ho appena detto per pronunciare una sola parola.

“Lechero è…” prova a dire, con voce tremante, senza riuscire a formulare una frase di senso compiuto “lui è… Lui è davvero…”

“Sì” mi limito a dire, abbassando la testa “mi dispiace. Ho provato a fare qualunque cosa per salvarlo, ma la ferita al petto era troppo grave. Ho assistito ai suoi ultimi istanti di vita: un attimo prima era lì, ed un attimo dopo non c’era più. È stato orribile. È stato come se… Come se qualcuno mi premesse con forza un cuscino sul viso, soffocandomi”

“Tu non hai alcuna responsabilità, non darti colpe che non hai. Come facciamo con i soldi? Senza Lechero, le guardie non mi permetteranno più di entrare a Sona”

“Passami solo quello che ti ho chiesto, il resto conservalo tu per tempi migliori” sussurro; Carmelita annuisce e, attraverso gli anelli metallici, mi passa un consistente rotolo di banconote, che nascondo subito in una tasca dei jeans “tanto per essere chiari, se dovessi provare a fregarmi ed a scappare con il resto dei soldi potresti seccarmi parecchio. Devi sapere che ho problemi a gestire la rabbia quando si tratta di qualcuno che tradisce la mia fiducia”

“Non lo farei mai, e non credere che abbia dimenticato ciò che ci siamo detti durante il nostro ultimo incontro. Io ti aspetto” mormora a sua volta la ragazza panamense, mi lancia un’ultima occhiata prima di voltarmi le spalle ed allontanarsi insieme alla borsa che contiene il resto dei cinquantamila dollari; osservo la sua figura esile, la folta chioma corvina, con le mani appoggiate alla recinzione, e rientro solo quando diventa un puntino lontano ed indistinguibile ai miei occhi.

Non salgo negli appartamenti del mio ex Capo, ma mi dirigo bensì nel cortile interno, laddove è radunata la maggior parte dei detenuti.

Prendo una vecchia cassetta di legno per la frutta, la capovolgo e ci salgo sopra, schiarendomi la gola, per attirare l’attenzione di tutti i presenti.

“Lechero non c’è più. Sono venuto qui per seppellirlo, non per lodarlo, perché non c’è nulla di lodevole nel modo in cui ha gestito Sona. Non c’è nulla di lodevole in un uomo che, pur non avendo nulla di diverso da tutti noi, decide di elevarsi al di sopra degli altri detenuti e di spadroneggiare, instaurando un vero e proprio regno di terrore all’interno di una prigione. Ecco, vedete questi soldi? Questo è tutto ciò che resta di quel regno di terrore” urlo, agitando il consistente rotolo di banconote verdi, affinché sia ben visibile agli occhi della folla che mi accerchia “soldi che ha guadagnato alle vostre spalle, rubandoli alle vostre famiglie, ma fortunatamente quei giorni sono passati e se sono qui, ora, sopra questa cassa di legno a consumarmi le corde vocali, è perché voglio restituirvi ciò che vi spetta di diritto”.

Lancio in aria le numerose banconote, che volteggiano pigramente dell’aria come tanti coriandoli color smeraldo, e contemporaneamente un boato di gioia esplode tra i detenuti, seguito da una marea di mani allungate, che tentano di afferrare più dollari possibili; qualcuno, inaspettatamente, mi afferra per i fianchi e mi ritrovo seduto sulle spalle di due uomini, in modo che tutti possano vedere in faccia il loro salvatore, colui che ha appena restituito la democrazia a Sona.

“Todos somos iguales!” esclama una voce, dalla folla, ed io sollevo le braccia, ripetendola più volte.

“Todos somos iguales! Todos somos iguales! Todos somos iguales!” grido a pieni polmoni, imitato dalle persone che mi circondano, in uno stato di euforia generale.

Poco prima che lo uccidessi, Lechero mi ha confidato di aver avuto tanti leccapiedi e tutti loro si sono rivelati dei lupi travestiti da agnelli.

Nessuno dei presenti, ad eccezione di Bellick, si rende conto di quanto siano terribilmente vere queste parole, e di come possano essere adattate alla perfezione anche in questo caso.

Non si rendono conto di essere un gregge di agnelli che sta inneggiando un suo simile, talmente ubriacati dalle sue parole da non accorgersi degli artigli che spuntano da sotto i zoccoli.

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Capitolo 30
*** Leaving Panama (T-Bag) ***


Quattro giorni dopo la mia proclamazione, momento che ha posto definitivamente la parola ‘fine’ alla tirannia di Lechero, Sona viene distrutta da un terribile incendio.

Era scritto nelle sue fondamenta che prima o poi ciò dovesse accadere: in fin dei conti, quanto tempo può resistere un carcere lasciato in balìa degli stessi detenuti?
Dopo la tragica, prematura, scomparsa del mio ormai ex Patròn, nessuno ha avuto il coraggio di farsi avanti per prendere il suo posto, per timore di essere linciato pubblicamente; nessuno voleva più essere comandato, tutti volevano la democrazia, e così è stato.

Peccato che quest’ultima si è rapidamente trasformata, degenerando in una forma devastante di anarchia assoluta.

Il caos, gli atti di sciacallaggio, gli omicidi sono continuati ininterrottamente per tre giorni e, durante la notte del quarto, Sona si è trasformata in un vero e proprio inferno in Terra perché è scoppiato un incendio: le lingue di fuoco erano così alte che era impossibile vederne la fine, il fumo ha invaso in pochi istanti i corridoi e le celle, e tantissimi detenuti non sono arrivati alla mattina seguente.

Alcuni si sono fatti prendere dal panico e si sono gettati dalla terrazza del primo piano, altri hanno inspirato una dose letale di fumo ed altri ancora sono arsi vivi, contaminando l’aria con uno sgradevole e disgustoso odore di carne bruciata.

Le guardie non hanno quasi mosso un dito per salvare la prigione: quando ormai era chiaro che non potevano fare nulla, si sono limitate ad aprire i cancelli di Sona, permettendo ai pochi sopravvissuti (me compreso) di uscire.

Ed è così che sono tornato ad essere un uomo libero per la quinta volta.



 
Chiudo gli occhi per qualche secondo, lasciando che la brezza marina mi accarezzi il viso, poi li riapro ed attraverso la strada, raggiungendo una macchina parcheggiata vicino al marciapiede ed il giovane uomo appoggiato ad essa, a braccia incrociate.

“Sei venuto” commento con un sorriso, togliendomi gli occhiali da sole e lanciando un’occhiata all’orologio che porto al polso destro “e… Sei in perfetto orario. Impressionante”

“Era questo che prevedeva il piano, giusto?” commenta a sua volta Michael, guardando in direzione dell’oceano “e direi che ogni fase è andata esattamente come avevamo previsto, senza particolari intoppi”

“A parte quando mi hai lasciato a Sona” mormoro, distendendo poi le labbra in un ghigno, in risposta alla sua espressione seccata “ohh, tranquillo, nessun rancore, faceva parte del piano: nessuno, compreso il tuo adorato fratellone maggiore, doveva sapere che quel bravo ragazzo di Michael Scofield fosse veramente sceso a patti con la Serpe di Fox River, e così è stato. Il litigio pubblico a causa di Bellick è stato molto convincente, e lo stesso vale per il mio voltafaccia dell’ultimo secondo. Nessuno ha sospettato che in entrambi i casi si trattasse solo di una messinscena, perché si aspettavano esattamente quello da me, e noi non abbiamo deluso le loro aspettative”

“Linc non avrebbe capito, ed avrebbe insistito per farmi cambiare idea”

“Non devi giustificarti con me, bellezza. A proposito, dove hai lasciato il gorilla?”

“Ha detto che resterà per un po’ a Panama, insieme a LJ”

“Ahh!” esclamo “quindi lo scambio è andato a buon fine? Lui ha riavuto suo figlio, e quegli uomini hanno avuto l’australiano?”

“Sì, ma Mahone è riuscito a scappare”

“E quindi? Non è più un agente dell’FBI, è solo un drogato che non farebbe paura neanche ad un bambino”

“Ha ucciso a sangue freddo una persona molto cara a me ed a Lincoln, ed ha fatto lo stesso anche con Patoshik, Abruzzi e Tweener. Se non lo sapessi, la Compagnia lo aveva corrotto per ucciderci, non per arrestarci. Doveva far in modo che qualcosa andasse storto nel momento della cattura, in modo da archiviare l’intera faccenda come un incidente”

“Se vuoi vendicarti, puoi sempre farlo dopo che avremo risolto la nostra faccenda”

“Ed è esattamente ciò che voglio fare” risponde Scofield, per poi spostare l’attenzione ad un altro argomento: allunga il braccio sinistro e mi mostra la prima pagina di un giornale locale, occupata interamente da un articolo dedicato all’incendio che ha divorato Sona “era proprio necessario scatenare questo? Quando mi hai detto che avevi già una mezza idea per uscire da solo, non immaginavo che ti stessi riferendo ad un simile disastro”

“E quindi?” domando di nuovo, scrollando le spalle, per nulla toccato dalle parole del giovane l’uomo o da quello che ho vissuto in prima persona durante la notte appena trascorsa: ormai ho visto così tanti spettacoli raccapriccianti, che non esiste più nulla in grado di turbarmi “nel patto che abbiamo fatto non c’era nessuna clausura che m’impediva di dar fuoco ad un’intera prigione. Sei stato tu a darmi il via libera di agire. E poi, stiamo parlando di un carcere che racchiudeva una parte dei peggiori criminali esistenti al mondo, la maggior parte di loro ha fatto la fine che meritava… Sai, dovresti ringraziarmi per quello che ho fatto”

“E perché dovrei farlo?”

“Perché, per merito mio, adesso il mondo è un posto migliore”.

Il piccolo Michelangelo non commenta la mia battuta, ma mi strappa il giornale dalle mani, lo appallottola e poi lo getta dentro un cestino.

“Sucre e Bellick?”

“Non so che fine abbiano fatto, durante l’incendio regnava la confusione più totale, e sinceramente ero troppo occupato a salvarmi la pelle per pensare al tuo Papi ed al grosso maiale” rispondo, lasciandomi scappare un profondo respiro e scuotendo la testa, senza riuscire a resistere alla tentazione di prendermi gioco del piccolo pesciolino “certo che è stata davvero una sfortuna per Sucre essere rinchiuso lì dentro proprio quando sei riuscito ad evadere. Come è accaduto? Che cosa è andato storto nella sua parte?”

“Non ne ho idea, mi auguro solo che sia riuscito a scappare da quell’incendio. Andiamo”

“Con molto piacere”.

Occupo il sedile anteriore del passeggero, sistemo lo zaino che ho portato con me in quelli posteriori, e mi accorgo che su quello a destra sono appoggiati due oggetti: una pistola ed un origami a forma di tulipano; allungo la mano destra per prendere in mano il fiore di carta, ma Michael mi blocca prontamente, fulminandomi con uno sguardo dallo specchietto retrovisore.

“Non toccarlo”

“È l’ultimo ricordo che hai di Sara?” chiedo, per poi mostrargli la fotografia di me e Nicole che custodisco gelosamente, e che ho quasi perso nel corso dell’incendio “questo è tutto ciò che mi è rimasto di Nickie. Come puoi vedere, tu ed io non siamo così diversi alla fine”

“Che cosa c’è nello zaino che hai portato con te?”

“Ohh, nulla d’importante. Giusto qualche cosuccia per rendere più interessante la chiacchierata che farò con la nostra amica. Lo vedrai molto presto, a meno che tu non sia sensibile e facilmente impressionabile, in quel caso ti consiglio fin da ora di uscire dalla stanza prima di vomitare. E non provare a fermarmi, detesto essere interrotto quando devo fare una ‘lunga chiacchierata’”

“Non lo farò, i patti sono patti” risponde Scofield, voltandosi verso di me “ma come io rispetterò la mia parte, devi fare altrettanto con la tua. Ricordati le due condizioni che devi rispettare: il colpo di grazia spetta a me e…”

“E non appena quella stronza sarà cibo per i vermi, andrò a costituirmi volontariamente. Niente trucchetti e voltafaccia, hai la mia parola” termino la frase al posto suo, come se stessi ripetendo una poesia imparata a memoria.

Il mio compagno di viaggio mi osserva ancora per qualche istante negli occhi, probabilmente per essere certo che non lo stia prendendo per il culo per l’ennesima volta; quando si convince che questa è una delle rare volte in cui sono totalmente sincero, inserisce la chiave nel cruscotto, la gira per accendere il motore e parte con una sgommata, imboccando una larga strada deserta costeggiata dall’oceano.

E ben presto, nel silenzio più assoluto, ci lasciamo Panama alle spalle per sempre.

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Capitolo 31
*** They're Alive; Parte Uno (T-Bag) ***


Osservo la parete occupata interamente da ritagli di giornale, fotografie ed appunti, e piego il viso di lato, sorseggiando un drink.

“Toglimi una curiosità” mormoro, dopo aver svuotato il bicchiere in un unico sorso, voltandomi a guardare il mio compagno di viaggio “hai fatto un mappazzone simile anche per organizzare l’evasione di tuo fratello?”

“Più o meno” risponde Michael, laconico, senza mai smettere di fissare qualcosa al di là del vetro della finestra; indietreggio di qualche passo, in modo da avere una visuale più ampia dell’intera opera, e mi soffermo ad osservare la fotografia di una donna bellissima, affascinante, dagli occhi azzurri, di una sfumatura quasi glaciale, messi in risalto dalla lunga e liscia chioma corvina.

La stessa donna che, senza battere ciglio, ha ucciso a sangue freddo sia Sara che Nicole.

Nelle tre settimane successive all’incendio che ha distrutto Sona, Michael ed io siamo riusciti ad entrare in possesso di diverse informazioni, ed abbiamo scoperto che Susan B. Anthony in realtà si chiama Gretchen Morgan; abbiamo trascorso intere giornate a studiare un piano che fosse perfetto nei più piccoli particolari, ed ora, finalmente, si è presentata l’occasione perfetta per attuarlo.

E niente può, e deve, andare storto.

“C’è un’altra cosa che mi sono sempre chiesto” continuo, spezzando di nuovo il silenzio “perché tu e Lincoln non avete lo stesso cognome? Avete due padri diversi?”

“Perché, d’improvviso, ti sta così a cuore la storia della mia famiglia?”

“Sai com’è… Nelle ultime tre settimane mi sono reso conto di non sapere quasi nulla sul tuo conto, bellezza, e pensavo che questa potesse essere l’occasione giusta per conoscerci meglio. Per sapere più cose l’uno dell’altro”

“Non se ne parla nemmeno. E, in ogni caso, adesso le nostre preoccupazioni sono altre. Guarda”.

Michael mi fa cenno di avvicinarmi a mia volta alla finestra, mi passa un cannocchiale e, attraverso le lenti, riesco a vedere un uomo ed una donna, entrambi vestiti con estrema eleganza, scendere da una limousine ed entrare nella hall di un hotel.

“Whistler?” domando incredulo, per poi rivolgere uno sguardo perplesso a Scofield “perché la lurida cagna si è portata appresso l’australiano? Che cos’hanno intenzione di fare?”

“Non lo so. Guarda chi è il loro autista”

“Mahone?” domando di nuovo, sempre più sorpreso, osservando l’uomo che sta salendo, occupando il posto di guida della limousine “pensavo che avremmo avuto a che fare solo con Gretchen, non anche con i suoi due nuovi cagnolini. Sai, adesso che siamo in netto svantaggio, non so più se sia una buona idea introdurci in quel hotel…”

“Non ha importanza, non cambieremo il piano solo perché c’è stato un imprevisto. Andiamo” risponde il mio compagno di viaggio, categorico; mi ordina di seguirlo fuori dalla stanza e questa volta obbedisco senza protestare, anche se ormai ho il dubbio che stiamo andando incontro, a braccia aperte, al suicidio.

Non cerco di far cambiare idea a Michael perché so già che ogni tentativo di persuasione andrebbe a vuoto: vuole vendicare la fine brutale della donna che amava, non è interessato ad ascoltare dei saggi suggerimenti e non gl’importa neppure di rischiare la propria vita; il suo intero mondo è crollato nello stesso istante in cui Lincoln gli ha comunicato l’assassinio di Sara, ha smesso di vivere da quel giorno, di conseguenza non gl’importa neppure di essere crivellato di colpi.

Anzi, in parte sono sicuro che speri in un finale simile, in modo da ricongiungersi con lei per sempre.

Il piano che abbiamo progettato per tre settimane è molto semplice, almeno dal punto di vista teorico: dobbiamo fingerci degli addetti del catering in modo da passare indisturbati la sorveglianza, entrare nell’edificio tramite una porta secondaria, indossare i completi eleganti nascosti all’interno degli scatoloni del catering, trovare Gretchen e costringerla a seguirci fuori dall’hotel senza dare troppo nell’occhio, e senza che abbia il tempo di chiamare rinforzi.

Per quanto riguarda i primi tre punti, tutto va liscio come l’olio, il vero problema inizia quando arriviamo al quarto, perché non c’è alcuna traccia della donna nell’enorme hall dell’albergo: semplicemente, sembra essere sparita nel nulla.

“E adesso?” chiedo, guardandomi ancora attorno, nella speranza di riuscire a scorgerla tra i numerosi invitati dell’evento “che cosa facciamo?”

“Nessuno di loro due è uscito, devono per forza essere qui dentro”

“Guarda, guarda, forse la fortuna inizia finalmente a girare dalla nostra parte” commento, indicando un uomo che passa velocemente a poca distanza da noi due, per poi scomparire dietro la porta di un’altra stanza “anche se non è la persona che stiamo cercando, sarà l’esca perfetta per attirarla in trappola, non credi?”

“Muoviamoci”.

Il piccolo Michelangelo mi supera in fretta, e sono costretto ad accelerare il passo per non rimanere indietro; è lui il primo ad entrare nella stanza, ma l’australiano non si accorge della nostra presenza finché non sbatto la porta con forza, richiudendola alle mie spalle, a quel punto solleva di scatto il viso, spalanca gli occhi e si affretta a nascondere qualcosa dietro la schiena.


“Michael? T-Bag?” chiede, sorpreso, guardandoci entrambi “si può sapere per quale motivo siete qui?”

“Chiama Gretchen. Falla venire qui, è con lei che dobbiamo parlare” risponde il mio compagno di viaggio, prendendo la pistola che tiene nascosta sotto la giacca, ed io faccio lo stesso con un cacciavite che ho riposto in una tasca dei pantaloni; prima che Whistler possa controbattere, la fortuna gioca in nostro favore per la seconda volta: sento dei passi provenire dal corridoio appena fuori dalla stanza, seguiti da una voce femminile che si rivolge proprio all’australiano, e quando la porta si apre, afferro subito per un braccio la donna dai capelli neri, puntandole il cacciavite contro la pelle della gola.

“Buongiorno, bellezza” sussurro in un soffio, richiudendo la porta con un calcio “stavamo aspettando il tuo arrivo con trepidazione. Conosci molto bene il piccolo Michelangelo qui presente, e puoi immaginare altrettanto bene perché vuole fare una chiacchierata faccia a faccia con te, ma non penso che lo stesso valga per me. Andrò subito al punto della questione: hai presente la ragazza bionda che hai decapitato insieme alla dottoressa Tancredi? Era la mia Nickie”.

Grechen Morgan mi rivolge uno sguardo glaciale ed impassibile, senza mai sbattere le palpebre, ed anziché supplicare me e Michael di risparmiarle la vita, si volta in direzione del suo fedele cagnolino, per rivolgergli una domanda seccata.

“Non lo hai ancora detto? Questi due idioti non sanno ancora nulla?”

“Non ho avuto il tempo”

“Si può sapere di che cosa state blaterando?” chiedo, a denti stretti, interrompendo il piccolo battibecco tra i due agenti della Compagnia; la troia dagli occhi di ghiaccio torna a concentrarsi su di me, e sulle sue labbra carnose appare un sorrisetto di scherno.

“Sara e la tua Nickie sono ancora vive”.

Io e Scofield ci lanciamo una rapida occhiata e poi scoppio a ridere, di gusto, gettando la testa all’indietro.

“Tesoro, lascia che ti dia un consiglio in quanto bugiardo patologico: sono sicuro che sei in grado d’inventare qualcosa di più originale e convincente”

“Non è una bugia, loro sono ancora vive”

“Ma Lincoln ha visto le loro teste” interviene Michael, facendo notare a Gretchen che sta cercando di arrampicarsi su uno specchio, ma lei non demorde, e continua a sostenere l’assurda idea che le nostre compagne siano ancora vive.

“Si è sbagliato, chiedigli che cosa ha visto esattamente, scommetto che si è limitato a lanciare una rapida occhiata al contenuto dello scatolone. Non dovevi sapere che Sara era riuscita a liberarsi, altrimenti non avresti più collaborato per liberare Whistler da Sona. Mi sono occupata personalmente del messaggio da spedire a tuo fratello e lui, naturalmente, ha subito abboccato”

“Balle!” esclamo “sono solo balle!”

“Se questo è vero, allora dicci dove si trovano” dice Scofield, ignorando completamente il mio commento; l’agente della Compagnia resta in silenzio, limitandosi a guardarlo in modo sprezzante, e dall’esterno dell’hotel giunge il suono inconfondibile di alcune sirene della polizia.

“Dobbiamo andare, a quanto pare hanno già trovato il corpo”

“Corpo? Quale corpo?”.

Whistler non risponde alla mia domanda: impugna una revolver e punta la canna contro la testa del mio compagno di viaggio che, proprio come me, ha ancora sotto tiro la troia con gli occhi di ghiaccio.

“Michael, ti prego, abbassa quell’arma. Non è il momento adatto per fare questo genere di giochetti. Sei davvero sicuro di volerla uccidere? Pensa a quello che ha appena detto ad entrambi: se adesso la fate fuori, non saprete mai dove si trovano le vostre donne”

“Non credere alle sue parole, bellezza, anche lui sta raccontando solo una marea di cazzate. Sara e Nicole non ci sono più, e noi dobbiamo portare a termine il piano che abbiamo progettato per tre, fottute, settimane! Cazzo!”.

Con mia enorme sorpresa, Scofield abbassa lentamente l’arma e mi ordina di fare lo stesso con il cacciavite; sgrano gli occhi, guardandolo allibito, per poi chiedergli altre spiegazioni, visto che stiamo facendo tutto l’opposto di quello che avevamo concordato in precedenza.

“Ti ho detto di abbassare subito quel maledetto cacciavite! Adesso!” mi urla contro, e finalmente ubbidisco, ma non prima di aver premuto la punta contro la gola di Gretchen, facendole uscire un piccolo rivolo di sangue: un avvertimento personale per farle capire che la faccenda, per me, non è affatto conclusa, è solo rinviata ad un altro momento.

Io ed il piccolo pesciolino siamo costretti a scappare dalla stessa porta sul retro per non essere riconosciuti ed arrestati dalle autorità; la nostra corsa finisce solo a qualche isolato di distanza dall’albergo e, nonostante il fiato corto, mi scaglio ugualmente contro il mio compagno di viaggio, assestandogli un pugno sul naso: lui barcolla all’indietro, portandosi le mani sul volto, ma quando provo ad attaccarlo per la seconda volta, scatta e riesce a bloccarmi contro un muro, disarmandomi.

“Lasciami subito andare!”

“Ma si può sapere che cazzo ti è preso? Vuoi attirare l’attenzione di tutti i presenti? Vuoi che qualcuno chiami la polizia?”

“Perché hai abbassato la pistola? Perché mi hai ordinato di lasciarla andare? Avevamo l’occasione perfetta tra le mani e per colpa tua l’abbiamo sprecata. Lo sai, vero, che non ricapiterà mai più? Che abbiamo appena mandato a puttane l’opportunità di vendicare Sara e Nickie? Non dirmi che credi davvero alle parole che hanno detto Whistler e quella donna!”

“Non lo so!” grida Scofield, lasciandomi andare; passa entrambe le mani sulla testa rasata e poi torna a parlarmi con un tono di voce molto più basso e controllato, perché siamo entrambi ancora dei ricercati e basta un solo passo falso per farci sbattere dentro una cella a vita, almeno nel mio caso “ma sarei un ipocrita se ti dicessi che quelle parole non mi hanno fatto venire qualche dubbio… Io… Ho bisogno di parlare con Lincoln. Adesso. Ho bisogno di sentire, dalla sua voce, che cosa ha visto quando ha sollevato il coperchio della scatola”

“Perfetto, come vuoi tu” commento, allargando le braccia e lasciandole ricadere lungo i fianchi “allora andiamo alla ricerca di una fottutissima cabina telefonica e chiamiamo quel gorilla di Burrows!”.

Ed è proprio quello che facciamo.

Alla prima cabina telefonica isolata che incontriamo, Michael Scofield si ferma per chiamare il fratello maggiore, mentre io mi fermo qualche metro prima e faccio da palo, in modo d’avvertirlo nel caso di qualche strano movimento: sicuramente Gretchen e James avranno avvertito i loro superiori della nostra mossa azzardata, quindi non è da escludere che la Compagnia possa essere sulle nostre tracce per eliminarci fisicamente.

Un altro punto d’aggiungere alla lista dei ‘perché odio il piccolo pesciolino’: per merito suo, mi ritrovo immischiato fino al collo in affari loschi che non mi riguardano e ci sono altre persone che desiderano solo scuoiarmi vivo, come se non ce ne fossero già abbastanza che vorrebbero fare scempio del mio cadavere.

Quando il mio compagno di viaggio posa la cornetta e mi raggiunge, non perdo un solo secondo di tempo per chiedergli che cosa gli ha detto Lincoln.

“Secondo lui, le teste dentro quella scatola appartenevano a Sara ed a Nicole, ma ha anche ammesso di non averle osservate con attenzione”

“Direi che questo scioglie ogni possibile dubbio”

“Assolutamente no, almeno non prima di avere giocato un’ultima carta: solo allora potrò avere la certezza assoluta che Whistler e Gretchen ci hanno presi per il culo”

“Ahh, non è ancora abbastanza evidente ai tuoi occhi? Ed in che cosa consiste quest’ultima carta da giocare?” domando, accelerando il passo.

“Prima di tutto dobbiamo trovare una biblioteca”.

Mi blocco all’improvviso e Michael è costretto a fare lo stesso per non lasciarmi indietro.

“Una biblioteca?” domando, con uno sguardo scettico.

“Sì, una biblioteca” ripete lui, inarcando il sopracciglio destro “hai qualcosa contro le biblioteche?”

“Ho qualcosa contro qualunque tipo di luogo pubblico, dal momento che siamo degli evasi. Ti rendi conto che è un azzardo che, forse, non possiamo permetterci? È così essenziale andare in una biblioteca pubblica? Questa fantomatica carta non si può trovare anche in un luogo più isolato e che dia meno nell’occhio?”

“Rispondi ad una mia domanda, e fallo con assoluta sincerità: provi davvero qualcosa per quella ragazza, oppure è solo un divertimento?”

“Se fosse solo un divertimento, credi davvero che starei facendo tutto questo?” chiedo, risentito, liberandomi dalla presa del piccolo pesciolino ed allontanandomi di un passo; e lui, per la prima volta, mi sorride senza la minima traccia di schermo o sarcasmo.

“E allora dobbiamo andare in biblioteca”.



 
Lancio una rapida occhiata alle mie spalle, per assicurarmi che non ci sia nessun altro, e torno a fissare lo schermo del computer, per la precisione la pagina che Scofield ha appena aperto e che appartiene ad un curioso e bizzarro sito su cui spicca l’immagine di un cardellino.

“Potresti spiegarmi di che cosa si tratta? Non ho mai visto nulla di simile, eppure ad una prima occhiata non sembrerebbe un sito porno”

“Infatti non è un sito porno. Serve per mandare messaggi in modo del tutto anonimato. L’ho creato io. Doveva servire per rimanere in contatto con alcuni componenti della squadra dopo l’evasione, in caso qualcuno si fosse trovato in difficoltà”

“Ecco come Sucre è riuscito a trovarci nello Utah! E per quale motivo io non sapevo nulla dell’esistenza di questo sito?”

“Perché non facevi parte di quella parte della squadra per cui l’avevo creato. Anche Sara sapeva della sua esistenza: se lei e Nicole sono ancora vive, avranno provato a mandarci un messaggio”

“Questo è nuovo” mormoro, indicando un messaggio che, in effetti, non risulta ancora né selezionato né letto, e che risale proprio ad oggi, ad una manciata di minuti prima di effettuare il nostro accesso al sito.

Ma non appartiene né a Sara né a Nicole, e questo ci è fin da subito chiaro.

“Ho delle informazioni che riguardano le vostre donne” mormora Michael, leggendo le due brevi righe “incontriamoci sul molo vicino al luna park, alle undici”

“Prima che tu possa dire qualunque cosa, bellezza, lascia che sia io a farlo: suona terribilmente come una trappola. Una volta mi sono ritrovato coinvolto in una situazione simile, è stato poco tempo dopo il mio arrivo a Fox River…”
“Può essere, ma potrebbe anche non esserlo. In ogni caso è tutto ciò che abbiamo, di conseguenza andremo a questo appuntamento, scopriremo chi ci ha recapitato questo messaggio e, soprattutto, che cosa sa riguardo a Sara e Nicole”

“Ho capito” mormoro, annuendo con il capo “ci faremo ammazzare, ma almeno avrò la soddisfazione personale di dirti ‘te lo avevo detto’”.

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Capitolo 32
*** They're Alive; Parte Due (T-Bag) ***


Ancora una volta, Michael ignora volontariamente i miei consigli ed i miei dubbi riguardo alla presunta trappola e mi dimostra che l’ottusità non è un tratto predominante che appartiene solo al suo adorato fratello maggiore, che nel frattempo è rimasto a Panama insieme al figlio, nel tentativo di ricostruire una nuova vita lontano dall’Illinois.

Puntuali come un orologio svizzero, ci presentiamo sul molo vicino al luna park alle undici e, dopo qualche minuto, si palesa dinanzi a noi il nostro informatore, che attira la nostra attenzione chiamandoci per nome; si toglie il cappello a tesa larga da pescatore, fa lo stesso con gli occhiali da sole dalle lenti scure, e ci troviamo faccia a faccia con l’ultima persona che ci aspettavamo di vedere sulla faccia della Terra: Alexander Mahone.

“Ha!” esclamo, soddisfatto, tirando fuori da una tasca dei pantaloni il mio fedele cacciavite a stella “visto? Te lo avevo detto che era solo una trappola! La Compagnia ha mandato Mahone per ucciderci e per fare a pezzi i nostri corpi, in modo che nessuno possa mai trovarli!”

“Vi siete fatti un’idea completamente sbagliata, non sono qui per conto della Compagnia. Ho davvero delle informazioni che possono esservi utili, ma prima vi devo parlare di un’altra questione e non posso farlo qui. Siamo troppo esposti, dobbiamo andare in un posto più riparato, seguitemi”.

Alex ci fa segno di seguirlo in direzione della spiaggia, per allontanarci dalle persone che passeggiano sulla banchina o in prossimità delle giostre; cerco di avvisare Michael con un’occhiata, facendogli capire che non è una buona idea seguire la persona che aveva il compito di uccidere gli Otto di Fox River, ma ancora una volta non mi da retta e lo segue, costringendomi silenziosamente a fare lo stesso.

“Bene, adesso che siamo in un posto più isolato vuoi farci questa enorme rivelazione? Ohh, oppure si trattava solo di una messinscena e adesso tirerai fuori una pistola per ucciderci?”

“Non voglio fare nulla di simile, ve l’ho già detto, ma non dirò una sola parola fino a quando non avrai fatto sparire quel cacciavite”

“T-Bag, fa quello che Alexander ha chiesto. Sono curioso di sapere che cosa ha da dirci” rincara la dose Scofield, ed a me non resta altro da fare se non obbedire e mordermi la punta della lingua per trattenermi.

“Whistler si trovava in quell’edificio per un compito ben preciso. Doveva copiare una scheda: Scylla. Si tratta del libro nero della Compagnia. Dentro quel piccolo oggetto ci sono tutte le informazioni che la riguardano. Tutto, qualunque cosa”

“D’accordo, ma questo non ha nulla a che fare con quello che siamo venuti a fare e con quello che c’interessa: dicci ciò che sai riguardo a Sara e Nicole, e finiamo questa faccenda” ribatte prontamente Michael, tornando ad essere dalla mia parte; Mahone abbassa lo sguardo sulle scarpe che indossa e smuove della sabbia.

Mi bastano questi due semplici gesti per capire che c’è qualcosa che non quadra.

“Io non so nulla riguardo loro due, è Whistler ad avere le informazioni che state cercando. Ha mandato avanti me per convincervi ad incontrarlo”

“E perché non è venuto anche lui qui?” domando, con una smorfia, perché questa storia mi convince sempre meno.

“Perché siamo ancora troppo esposti, ma vi sta aspettando in un luogo più appartato a poca distanza dal molo. Vuole parlarvi con la massima urgenza. Adesso” mormora l’ex agente dell’FBI, rivolgendo lo sguardo a Michael “per favore, si tratta di una questione davvero importante”.



 
Il luogo più appartato, citato da Alex, si rivela essere un vicolo stretto e sporco, che forma un curioso contrasto con il completo elegante che indossa James Whistler.

“Mi dispiace avervi trascinati qui, ma sono stato costretto a prendere qualunque precauzione possibile… Alex deve avervi già accennato a questa” dice l’australiano, prendendo da una tasca della giacca una comunissima scheda elettrica “questa è la copia di Scylla. Qui dentro c’è tutto quello che serve per smantellare l’intera Compagnia fino alle fondamenta… Ma purtroppo è criptata. Ricordi il libro sugli uccelli che avevo con me a Sona? Quello che ho perso durante la fuga? Là dentro c’erano tutti gli appunti per riuscire a decodificarla, ma forse con il tuo aiuto non è ancora tutto perduto, Michael”

“Mi stai ricattando? Vuoi che ti aiuti a decodificare quella scheda in cambio delle informazioni che stiamo cercando? E chi mi assicura che, in realtà, tu non sai nulla? Dove si trova Sara? Se è ancora viva, se è vero che hai delle informazioni su lei, allora dimmi tutto quello che sai”

“D’accordo. Perfetto” dice James, senza provare a nascondere la delusione, riponendo Scylla in una tasca interna della giacca scura “le ultime informazioni che ho su di lei risalgono ad una settimana fa, circa: ha comprato un biglietto aereo a Santa Fe, con Chicago come destinazione”

“E riguardo Nickie?” chiedo subito io, ansioso di sapere qualunque cosa sul destino della mia ex compagna, ma l’australiano stronca ogni mia speranza scuotendo la testa.

“Non so nulla riguardo a lei. Mi dispiace, Bagwell”

“Che cosa?” urlo, senza più riuscire a trattenermi “ma nel messaggio c’era scritto che avevate informazioni riguardo ad entrambe! Non solo su Sara! Vi siete presi gioco di me fin dall’inizio!”

“Ascolta, ti ho già detto che…”.

Il rumore di uno sparo interrompe Whistler a metà frase.

Nel suo viso si dipinge un’espressione di assoluta sorpresa, mista a terrore, i suoi occhi azzurri si spalancano e scivola a terra; io, Michael ed Alex lo guardiamo altrettanto scossi, mentre una pozza di sangue fresco si allarga sempre di più sotto la sua testa.

Vengo riscosso dal torpore in cui sono caduto solo dalla mano di Scofield che mi afferra per il braccio sinistro, trascinandomi lontano dal cadavere dell’agente della Compagnia; ci allontaniamo, correndo, dal luogo dell’omicidio, per non trasformarci a nostra volta in vittime per mano del sicario, o dei sicari.

Ed anche questa volta, ci fermiamo solo quando siamo sicuri di essere abbastanza lontani ed al sicuro.

“Cristo!” esclamo, ansimando ed appoggiandomi con la schiena e la nuca al muro di un edificio “si può sapere che cazzo è appena successo?”

“Hanno ammazzato Whistler, probabilmente gli uomini della Compagnia ci stavano già seguendo da un pezzo a nostra insaputa”

“L’avevo capito, Michelangelo, la mia era una domanda retorica” ringhio, e assesto un pugno al muro di mattoni rossi “figlio di puttana. Maledetto figlio di puttana. Si è preso gioco di me fin dall’inizio. Lo sapevo che sarebbe finita in questo modo, lo sapevo”

“Dove stai andando?” mi domanda il piccolo pesciolino, quando mi allontano da lui.

“Vado a cercare Nickie, non è abbastanza evidente? Il piano è cambiato, bellezza, ed io non sono più intenzionato a costituirmi alla prima centrale di polizia: come tu vuoi ricongiungerti a Sara, io voglio fare lo stesso con Nicole”

“E come pensi di trovarla? Da dove credi di iniziare? Guarda in faccia la realtà: non hai nessun indizio che possa aiutarti a tracciare una pista. Aiutami a trovare Sara e poi faremo lo stesso anche con Nicole”

“E per quale motivo dobbiamo iniziare dalla tua donna? Perché lei deve avere la priorità?”

“Perché sappiamo dove si trova, e forse Sara saprà dirci qualcosa sul posto in cui si è rifugiata Nicole, è così difficile da capire?”.

Sono costretto a mordermi ancora la lingua per non controbattere, ma sono costretto anche a dargli ragione: la dottoressa Tancredi è l’unica persona che potrebbe sapere qualcosa sulla mia Nickie.

“D’accordo… D’accordo…” mormoro, arrendendomi “ma anche nel caso della tua dolce Sara non sappiamo molto. Si dal caso che Chicago non sia una piccola cittadina di provincia, è come cercare un ago in un pagliaio”

“Ma forse conosco qualcuno che potrebbe sapere dove si trova adesso” mormora a sua volta il mio compagno di viaggio, rivolgendo lo sguardo pensieroso altrove “ho bisogno di fare un’altra telefonata”

“Un’altra?” domando, inarcando il sopracciglio destro “devi chiamare ancora il tuo adorato fratello maggiore?”

“No” risponde lui, secco, mentre attraversiamo la strada per raggiungere una cabina telefonica che si trova proprio dall’altra parte; per i miei gusti si trova in un posto troppo esposto, ma Michael è così in fibrillazione che non ci fa neppure caso “Bruce Bennet”

“Chi è?”

“Un amico del governatore Tancredi. Se Sara è davvero tornata a Chicago, lui lo saprà”

“D’accordo, ma cerca di fare presto” mormoro, guardandomi attorno, passandomi la lingua sulle labbra “non è saggio restare per troppo tempo così esposti, potremo essere riconosciuti ed arrestati”

“Finché continuerai ad avere questo atteggiamento, qualcuno potrebbe avere davvero qualche sospetto” commenta il mio compagno di viaggio, rivolgendomi un sorrisetto “dovresti sapere molto bene, ormai, che un evaso deve sempre avere i nervi saldi, Theodore”.

Resto in silenzio assoluto perché non ho voglia di iniziare una discussione con Scofield, non in un luogo pubblico dove basta alzare di poco la voce per attirare l’attenzione di tutti i passanti; lo guardo digitare un numero e poi tormentare il filo della cornetta, nell’attesa di ricevere una risposta.

I suoi occhi azzurri s’illuminano di una luce carica di speranza, quando una voce maschile interrompe la serie di squilli, ma la sua felicità dura solo una manciata di secondi, perché vedo il suo volto trasformarsi rapidamente in una maschera che esprime incredulità e paura.

Corruccio le sopracciglia, sto per chiedergli spiegazioni, ma quando schiudo le labbra, vengo preceduto da una voce che proviene dalle mie spalle.

Mi giro lentamente e mi ritrovo faccia a faccia con due poliziotti in uniforme.

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Capitolo 33
*** They're Alive; Parte Tre (T-Bag) ***


“L’avevo detto che quella cabina telefonica era situata in un posto troppo esposto. Se avessi dato retta alle mie parole, se ne avessimo cercata un’altra più riparata, adesso non saremo qui ad aspettare la limousine che ci riporterà dritti a Fox River”

“Puoi stare zitto? Ormai non sopporto più le tue lamentele”

“Ohh, sì, certo. Per te è facile parlare così, bellezza! Tu non devi scontare due ergastoli! Farai un paio di anni dietro le sbarre, tornerai in libertà e potrai ricongiungerti con la tua donna. Io non potrò fare lo stesso e non avrò neppure la consolazione di ricevere delle visite coniugali perché scatterebbero subito le manette per Nickie”

“Se amavi veramente quella povera ragazza, avresti fatto di tutto per tenerla lontana da te, invece non ti sei fatto scrupoli a trascinarla in una vita da complice e fuggiasca. Questo non è amore, è possessione ed istinto animalesco”

“Ti sbagli, dolcezza, se ami davvero una persona non la lasci andare, ma fai di tutto per averla a tuo fianco… E poi, il tuo mi sembra un discorso piuttosto ipocrita, visto che a tua volta non ti sei fatto scrupoli per coinvolgere in questa storia la dottoressa Tancredi, anzi… Credo che tu abbia fatto di peggio. Prova a riflettere per un secondo: Sara era uscita dalla dipendenza da droga, era riuscita a ricostruirsi una nuova vita ed una nuova reputazione con il lavoro a Fox River, e poi sei arrivato tu a stravolgere di nuovo le carte in tavola. L’hai coinvolta nel tuo piano, l’hai resa tua complice e così facendo le hai fatto mandare a puttane tutto il duro lavoro che aveva fatto negli ultimi cinque anni. Sbaglio o ha pure tentato il suicidio con un’iniezione di morfina? Mi sembra di averlo letto un paio di settimane fa sulla prima pagina di un giornale, quando eravamo evasi da pochi giorni…”

“Vuoi chiudere quella cazzo di bocca?” urla Michael, voltandosi di scatto verso di me e rivolgendomi uno sguardo furioso, testimone del profondo odio che prova nei miei confronti e che neppure la tregua momentanea è riuscita ad attenuare; in tutta risposta allargo le braccia e, mentre lui affonda di nuovo il viso tra le mani, allungo le gambe, appoggiando i piedi sul tavolo di metallo posizionato di fronte a noi, dondolandomi sulla sedia.

“Scatta pure tutte le volte che vuoi, pesciolino, puoi anche picchiarmi se la cosa ti fa sentire meglio, ma nulla cambierà il fatto che siamo bloccati in una fottuta stanza per gl’interrogatori, all’interno di un’altrettanto fottuta stazione di polizia di Los Angeles, e stiamo per tornare a Fox River”

“Almeno, se finiremo entrambi dietro le sbarre, avrò la consolazione che non ucciderai e stuprerai nessun altro adolescente”.

Adesso è arrivato il mio turno di gridare in faccia al piccolo Michelangelo, ma vengo bloccato appena in tempo dall’ingresso di un uomo in giacca e cravatta che chiude dietro di sé la porta, ed abbassa la tendina sulla finestra che dà sul corridoio, affinché nessuno possa disturbarci; appoggia una pila di cartelle rigide sopra al tavolo, prende posto sull’unica sedia libera e finalmente si presenta.

“Don Self, della sicurezza nazionale” dice, mostrandoci un distintivo ed ordinandomi di mettere subito i piedi giù dal tavolo “mi è stato riferito che eravate presenti nel momento in cui Whistler è stato ucciso”

“Sì, eravamo presenti” confermo, anticipando qualunque mossa di Scofield “ma non lo abbiamo ucciso. Di conseguenza, se il suo piano è tentare di addossarci un crimine che non abbiamo commesso, le consiglio fin da ora di cambiare tecnica, perché con noi non attacca questo genere di giochetti”

“Lo so” risponde Self, spiazzandomi completamente, si alza e raggiunge un distributore automatico dell’acqua, riempiendo un bicchiere per sé ed altri due per me e Michael, che continua a studiare l’uomo in silenzio e che non sembra essere intenzionato a parlare per il momento “James Whistler era un agente della Compagnia da dieci anni, ormai, o almeno questo è ciò che loro pensavano. In realtà, era un nostro agente infiltrato e nell’ultimo periodo si stava occupando di una missione molto importante e delicata… Prima che gli spaccassero il cranio con un proiettile, è riuscito a dirvi che cosa è Scylla?”

“Ha detto che si tratta del libro nero della Compagnia, ma a me è sembrata una banalissima scheda”

“Ma si dal caso che quella banalissima scheda racchiuda tutte le informazioni per bloccare quell’organizzazione di pazzi e che lo vogliate o meno, ormai siete entrambi coinvolti. Soprattutto tu, Scofield: poche ore fa, alcuni sicari hanno provato a far fuori tuo fratello, lui ha reagito ed è stato arrestato. Per vostra fortuna sono riuscito a stipulare un accordo con le autorità panamensi, affinché sconti la sua detenzione in patria, e tra poco dovrebbe essere qui”

“Allora non prenderò nessuna decisione finché Linc non sarà qui” mormora Michael, parlando per la prima volta dall’inizio della conversazione, e si dimostra assolutamente inamovibile nella sua decisione perché non pronuncia più una sola parola, chiudendosi in un mutismo autoimposto, ed io faccio lo stesso; trascorro quasi un’intera ora a riflettere sulle parole di James Whistler e di Don Self, su Scylla e sulla Compagnia, e so per certo che anche il mio compagno di viaggio sta riflettendo sulle poche informazioni che abbiamo ricevuto in modo confuso.

Quando quel gorilla di Burrows arriva, la conversazione riprende dall’esatto punto in cui è stata interrotta, senza lasciare ai due fratelli neppure il tempo di scambiarsi un saluto o un abbraccio.

“Whistler è riuscito a fare una copia di Scylla, ma è stata rubata dalla stessa persona che lo ha freddato in quel vicolo. E non abbiamo neppure notizie del libretto che James aveva con sé a Sona, che racchiudeva il procedimento per decodificare la scheda” spiega in parole semplici l’agente della sicurezza nazionale, e nello stesso modo ci racconta che il sistema per decriptare il libro nero della Compagnia è custodito proprio all’interno del loro quartier generale, che si trova a Los Angeles, e di cui, però, non si conosce l’esatta ubicazione.

“Quindi noi dovremo cercare una scheda che è andata perduta, trovarla, e riuscire ad infiltrarci in un edificio di cui ignoriamo completamente ogni cosa?” domanda Scofield, incredulo, ed io non perdo un solo secondo di tempo per rincarare la dose, aggiungendoci un commento sarcastico.

“E non dimenticare la parte in cui dovremo decodificare Scylla tramite un procedimento di cui non conosciamo nessun passaggio”

“Non se ne parla nemmeno”

“Tu sei l’unico che può aiutarci a distruggere questa organizzazione di pazzi, Michael, davvero non lo capisci? Sei riuscito ad evadere da due penitenziari, sono sicuro che per te sarà un gioco da ragazzi, e poi non sarete da soli in questa impresa” ribatte Don Self, prendendo in mano alcuni fascicoli dalla pila consistente “Sucre e Bellick sono stati fermati ed arrestati al loro ingresso negli Stati Uniti, e lo stesso vale per Mahone in Colorado: alcuni agenti di polizia lo hanno ammanettato davanti alla propria abitazione, era tornato perché qualcuno ha ucciso suo figlio Cameron, di otto anni, appena poche ore dopo l’assassinio di Whistler”.

Anche se non apro bocca, non riesco a reprimere un brivido perché è chiaro che non si tratta di una macabra coincidenza: la Compagnia ha voluto mandare ad Alex un messaggio ben chiaro e preciso, e la prossima volta potrebbe essere il turno di uno di noi; potrebbero prendersela con il figlio di Lincoln o con la dottoressa Tancredi.

O, peggio ancora, con Nickie.

Ecco perché, ora più che mai, devo assolutamente trovarla il prima possibile.

Possibilmente viva.

“Non se ne parla nemmeno!” esclama Burrows, interrompendo il flusso dei miei pensieri “se mai dovessimo accettare di prender parte a questa follia, Mahone non deve assolutamente essere un membro della squadra! Era uno della Compagnia, ed ha ucciso mio padre”

“Alexander Mahone non sarà un problema, perché noi non siamo intenzionati ad accettare”

“Sul serio? Non volete andare infondo a questa faccenda una volta per tutte? Preferite finire di nuovo dietro le sbarre? Se accettate questo incarico, e se riuscite a portarlo a termine con successo, ad ogni singolo membro della squadra verrà ripulita completamente la fedina penale… E può essere un compenso molto vantaggioso, soprattutto se si deve scontare un doppio ergastolo” commenta Self, soffermandosi a guardarmi negli occhi per qualche istante, ed io restituisco lo sguardo senza sbattere le palpebre e senza cedere, perché ho una certa esperienza riguardo ai metodi utilizzati dagli uomini in divisa: spesso e volentieri puntano su ciò che un arrestato desidera di più al mondo per farlo crollare, facendolo cadere dritto in una trappola.

Quando vede che anche i due fratelli non sono intenzionati a retrocedere di un solo passo, gioca il suo ultimo asso nella manica: mostra a Michael un pezzetto di carta su cui qualcuno ha scritto, con una penna dall’inchiostro nero, la parola ‘Scylla’.

“Che cos’è?”

“Riconosci la calligrafia? È di tuo padre, stava lavorando su Scylla da due anni, sei ancora sicuro della tua risposta?”

“Sì” risponde il piccolo pesciolino, categorico, posando il foglietto sul tavolo e rivolgendo a Self uno sguardo glaciale; quest’ultimo non ha il tempo né di riprendersi dall’ennesimo rifiuto né di pensare ad un’altra tecnica di persuasione, perché una donna bussa alla porta e gli fa cenno di avvicinarsi; gli sussurra qualche parola ad un orecchio e poi sparisce nel corridoio, lasciando la porta della stanza socchiusa.

“A quanto pare oggi è il vostro giorno fortunato. Qualcuno ha pagato le vostre cauzioni” commenta l’uomo, con un sorriso carico di amarezza “tutte e tre”

“Tre?” chiedo, alzando il viso di scatto, senza riuscire a nascondere la sorpresa “questo significa che qualcuno ha sborsato dei verdoni per pagare anche la mia cauzione? Sul serio?”

“Sì, Bagwell, sul serio. Vedi qualcun altro dentro questa stanza?” commenta di nuovo l’agente della sicurezza nazionale, con sarcasmo; prende in mano i fascicoli e li porge a Scofield, prima che possa uscire “so che finora hai continuato a ripetere che non vuoi essere coinvolto nell’operazione Scylla, ma voglio che tu prenda ugualmente questi fascicoli in caso di un ripensamento dell’ultimo minuto”.

Michael prende le cartelline senza dare una risposta a Don, e veniamo scortati in un’altra stanza, per incontrare il nostro misterioso benefattore che si rivela essere un uomo alto ed imponente di mezz’età, mai visto prima nella mia vita; il piccolo pesciolino è l’unico che sembra conoscerlo, ed infatti rivela la sua identità sottoforma di una domanda incredula.

“Bruce?” domanda, e finalmente capisco che si tratta di Bruce Bennet: l’amico del padre di Sara che aveva provato a contattare pochi secondi prima del nostro arresto plateale.



 
Bruce Bennet non fornisce alcuna informazione riguardo a ciò che ci aspetta, semplicemente ci fa salire in un’elegante berlina tirata a lucido, ed il suo autista personale ci conduce ad un’altrettanta elegantissima villa a poca distanza dall’oceano; fa cenno a Michael di entrare per primo nell’abitazione e solo quando entro a mia volta capisco appieno il motivo, e capisco anche perché non ha voluto dire nulla durante il tragitto: proprio al centro del salotto, in piedi, c’è Sara.

La giovane dottoressa si tormenta le mani, muove qualche passo incerta, e finalmente raggiunge il suo compagno, che la guarda incredulo, come se fosse un miraggio o un’apparizione; Sara allunga timidamente il braccio destro, sfiora il viso di Scofield e solo allora lui si riscuote dallo stato di trance in cui è caduto: stringe la sua donna a sé con trasporto e lei ricambia, aggrappandosi con forza e singhiozzando contro il suo petto.

A me non resta altro che guardarmi attorno, in silenzio, sentendomi improvvisamente il terzo incomodo, e sono più che sicuro che anche Burrows sta provando la medesima, sgradevole sensazione; nel mio caso, ad essa si aggiunge una dolorosissima morsa allo stomaco, perché ancora non ho la più pallida idea di dove si trovi la mia Nickie.

Non so se è viva, se sta bene e se si trova in un posto sicuro.

Dopo il modo in cui ci siamo lasciati a Sona, poi, non so neppure se vuole ancora vedermi.

“Teddy?”.

Trattengo il respiro nello stesso momento in cui sento una voce femminile pronunciare il mio nome; mi giro, ed i miei occhi scuri incontrano quelli chiari di una ragazza bionda, immobile ai piedi delle scale che conducono al primo piano della villa, con la mano sinistra stretta attorno al corrimano di ferro battuto.

“Nicole?” sussurro, in un soffio, troppo incredulo per aggiungere altro.

È lei la prima a riprendersi e ad azzerare la distanza tra noi due: mi cinge il collo con le braccia, i fianchi con le gambe, e scoppia in un pianto di sollievo.

Ricambio l’abbraccio passandole le braccia attorno ai fianchi e la stringo con forza, perché ho bisogno di avere una prova concreta che non si tratti solo di un parto della mia mente.

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Capitolo 34
*** New Life? (Nicole) ***


Sposto lo sguardo dal paio di forbici appuntite che impugno allo specchio, prendo un profondo respiro e taglio la prima ciocca di capelli, procedendo in modo sicuro e senza ripensamenti, soffermandomi poi ad ammirare l’opera finale: se prima i capelli mi arrivavano alle spalle, adesso si fermano all’altezza del mento.

Raccolgo le ciocche cadute dentro il lavandino, le faccio sparire all’interno di un cestino, e torno in camera.

“Allora?” domando, facendo un piccolo giro su me stessa “che ne pensi? Ti piace il mio nuovo taglio? Sono stata brava?”.

Teddy mi osserva in silenzio, piega il viso verso sinistra e fa schioccare la lingua contro il palato.

“Nicole, ai miei occhi saresti stupenda anche con i capelli rasati” mormora, distendendo le labbra in un sorriso che fa fare una capriola al mio stomaco “ma ciò non significa che adesso, per sfida, lo devi fare. Potresti dirmi il perché di questo cambio improvviso di look?”

“Sai come si dice…” commento, scrollando le spalle; lo raggiungo sul letto e prendo in mano una scatolina di cibo cinese d’asporto, che consiste in una porzione di spaghetti di soia con gamberi e verdure, attaccando il contenuto con un paio di bacchette di legno “quando una ragazza inizia una nuova relazione, ricorre spesso ad un nuovo taglio di capelli. E poi, non dimenticare che siamo ancora dei ricercati, dobbiamo cambiare spesso aspetto per non rischiare di essere riconosciuti… Mi sembra che anche tu abbia fatto lo stesso. Il biondo ti annoiava?”

“Ormai era passato di moda. Che ne dici dei nuovi cambiamenti che ho fatto?”.

Adesso sono io ad osservarlo in silenzio, con il volto piegato di lato; con l’indice destro gli sfioro il pizzetto e faccio la stessa cosa con i baffi.

“Ti stai riferendo a questi… Cosi?” domando, reprimendo a stento una risata divertita.

“Cosi? Li hai davvero appena definiti ‘cosi’? Si dal caso, Nickie, che questi siano un paio di baffi perfetti”

“No, per essere davvero perfetto dovresti indossare un sombrero e suonare un paio di maracas” rispondo, senza più riuscire a trattenere una risata; Teddy mi guarda risentito e mi punta contro il suo paio di bacchette, con cui ha appena infilzato un gambero.

“Dici questo solo perché sei invidiosa” dice, con un mezzo sorriso, per poi tornare subito serio “Nicole, come avete fatto a scappare tu e Sara? Voglio dire… Lincoln era sicurissimo di aver visto le vostre teste dentro quello scatolone”.

Aspettavo una domanda simile da parte sua, ma nonostante ciò non riesco a rispondere: delle goccioline di sudore freddo appaiono improvvisamente sulla mia fronte, ed inizio a tremare così forte che alcuni spaghetti di soia finiscono sul lenzuolo pulito; riesco a riprendere il controllo del mio corpo solo quando il mio uomo mi prende per mano e mi accarezza il dorso con il pollice, compiendo movimenti lenti e delicati.

“Scusami” mormoro con un mezzo sorriso imbarazzato, sentendomi una stupida “per un istante non sono più riuscita a controllarmi”

“No, scusami tu, sono stato maledettamente insensibile a farti una domanda così diretta dopo quello che hai passato. Facciamo così, Nickie: quando te la sentirai, mi racconterai ogni singola cosa, e ti prometto che fino a quel giorno aspetterò con pazienza, senza mai provare a costringerti” sussurra lui, lasciando la presa sulla mia mano per accarezzarmi il viso “ho commesso fin troppi errori, non voglio rischiare di andare incontro all’ennesimo”.

Sorrido, in un muto ringraziamento, per poi spostare l’attenzione altrove per non rovinare l’atmosfera: io e Teddy non viviamo un momento simile dal nostro primo giorno in Alabama, non sappiamo quando potrà ripetersi ancora, e non possiamo permetterci di sprecarlo con lacrime e ricordi da incubo.

“Allora… Vuoi raccontarmi che cosa sta succedendo?”

“Potresti essere più chiara?”

“Ti sei presentato qui insieme a Michael e Lincoln… Voi tre…” commento, scuotendo la testa incredula, e Theodore scrolla le spalle, terminando i suoi gamberi alla piastra.

“A volte ti ritrovi costretto a scendere a patti e stipulare un’alleanza perfino con il tuo peggior nemico, ed è quello che Scofield ha fatto. Dopo avermi comunicato ciò che era accaduto a te ed a Sara, mi ha proposto un accordo: sarei diventato un membro effettivo della squadra che stava per evadere, e mi avrebbe incluso nel suo piano di vendetta, a due condizioni”

“Quali?”

“Avrei dovuto lasciare a lui l’onore di sferrare il colpo di grazia a quella troia, e subito dopo mi sarei dovuto consegnare volontariamente alla prima centrale di polizia… Ma ovviamente abbiamo apportato qualche piccola modifica al nostro accordo, non appena abbiamo saputo che potevate essere ancora vive”

“Ne sei sicuro?” domando, improvvisamente preoccupata “e se Michael si aspetta che tu lo faccia lo stesso?”

“In quel caso non avrebbe ancora imparato a conoscermi” risponde lui, con una risata che, però, non mi contagia “e poi, resteremo qui ancora per pochissimo tempo. Ce ne andremo non appena saremo sicuri che tutti staranno dormendo: quando apriranno gli occhi, noi saremo già molto lontani”

“E dove andremo?”

“Penseremo a questo quando sarà il momento”

“E con i soldi? Come faremo adesso che non abbiamo più i cinque milioni?”

“Penseremo anche a questo più tardi, in questo momento le mie priorità sono altre” sussurra Teddy, con un mezzo sorriso compiaciuto, appoggiando l’indice destro sulle mie labbra per zittirmi; provo a protestare, ma vengo ridotta al silenzio una seconda volta da un bacio passionale e travolgente, che mi strappa un piccolo gemito.

Passo le braccia attorno alle spalle del mio uomo, aggrappandomi letteralmente a lui, ma quando sento la sua mano destra soffermarsi in modo lascivo sulla mia coscia sinistra, mi allontano bruscamente, lanciandogli uno sguardo perplesso, che viene ricambiato appieno.

“Teddy” sussurro, ansimando “non fraintendere il mio gesto, ma non credo che questo sia il posto più adatto per…”

“Perché?”

“Non è abbastanza evidente? Michael e Sara sono nella camera da letto affianco alla nostra, e Lincoln è al piano di sotto… Potrebbero sentire qualcosa… O uno di loro potrebbe entrare per… Per qualche motivo, non ci hai pensato?”

“Secondo te che cosa stanno facendo in questo preciso istante Scofield e la dottoressa Tancredi? E per quanto riguarda quel gorilla di Burrows, non sono affari che gli riguardano. E se proprio dovesse entrare, dal momento che ha un figlio adolescente, sono sicuro che sappia che cosa significhi l’espressione ‘fare l’amore’” ribatte, in tono sicuro, polverizzando all’istante ogni mio singolo dubbio, ogni mia singola esitazione.

Quando riprende a baciarmi e ad accarezzarmi, chiudo gli occhi, mi lascio completamente andare e non provo neppure a reprimere i gemiti di piacere e gli ansimi; cerco di darmi un contegno solo nel momento in cui raggiungo l’orgasmo, perché non è il caso di dare spettacolo pubblico, e mi mordo il labbro inferiore per reprimere un urlo.

Non l’ho mai detto a Theodore, perché il suo ego smisurato non ha bisogno di essere alimentato ancora, ma andare a letto con lui è un’esperienza unica, una riscoperta continua: ogni volta che accade, sa sempre cosa desidero e non c’è il bisogno che glielo dica a parole; le sue dita, la sua bocca e la sua lingua sanno sempre come muoversi sul mio corpo.

Sanno come farmi rabbrividire, sanno come togliermi il fiato e sanno come farmi contorcere dal piacere prima di raggiungere l’apice con l’orgasmo.

E quando, poi, mi fissa con i suoi occhi scuri, con il volto sudato e con un ciuffo di capelli che gli ricade sulla fronte, allora tutte le mie barriere crollano una ad uno, come i tasselli del domino.

Gli do un ultimo bacio a fior di labbra, senza approfondirlo con la lingua, e scivolo fuori dal letto per rivestirmi il più in fretta possibile, perché non voglio andare incontro a nessun incidente imbarazzante; indosso gli slip, il reggiseno, i jeans e mentre sto facendo lo stesso con la maglietta, mi volto a fissare il mio uomo, che non si è mosso di un solo millimetro.

“Ti stai godendo il panorama?” lo stuzzico, con un sorrisetto ammiccante.

“A quanto pare mi hai beccato con le mani nel sacco. Sì, volevo godermi un po’ questo meraviglioso spettacolo, ma non ti nascondo che non mi dispiacerebbe avere un piccolo aiutino per rivestirmi… Sai, da quando non ho più la mano sinistra, ho difficoltà a compiere moltissimi gesti semplici”

“Invece sei in grado di farlo benissimo da solo. Vestiti in fretta, forza, perché ho bisogno di parlarti”

“Ohh, allora questo significa che sono nei guai fino al collo” mormora Theodore, mentre recupera i suoi indumenti “voi donne fate sempre così: prima attirate gli uomini con il sesso, e poi sganciate la bomba. Avanti, in che cosa consiste l’ordigno che stai per far esplodere? Farà molte vittime?”.

Anziché rispondere alla sua battuta, aspetto pazientemente che si rivesta del tutto e solo allora mi siedo sul bordo del letto, vicino a lui; mi passo le mani tra i capelli, sistemando delle ciocche dietro le orecchie, prendo un profondo respiro e finalmente sono pronta per parlare.

“Ascolta, Teddy, se davvero vogliamo ricominciare una nuova vita insieme, c’è una cosa che devi sapere. Io… Ecco…” m’interrompo bruscamente a causa di un rumore che sento provenire da poco lontano “hai sentito? Lo hai sentito anche tu? Sembrava un…”.

Il rumore si ripete ancora, e questa volta è molto più vicino.

Il vetro della finestra si crepa, ed appare un piccolo foro che prima non c’era; io e Theodore ci alziamo di scatto dal letto, e quasi in contemporanea la porta viene spalancata da Lincoln, che ci comunica in modo concitato quello che sta accadendo.

“Qualcuno ci sta sparando contro, dobbiamo uscire subito da qui”.

Teddy mi afferra per un braccio e mi trascina fuori dalla stanza prima che venga esploso un terzo colpo; insieme ai due fratelli ed a Sara usciamo dalla villa di Bennet il più in fretta possibile, e troviamo momentaneamente rifugio all’interno di un capanno per gli attrezzi da giardinaggio.

Quando Lincoln spranga la porta, qualcosa scatta nella mia testa e realizzo finalmente ciò che è appena successo: hanno provato ad ucciderci; uno sconosciuto ha volontariamente sparato in direzione della villa per ammazzarci.

Improvvisamente la stanza intorno a me inizia a girare; mi aggrappo ad una parete, scivolo lentamente a terra, ritrovandomi seduta sul pavimento, e inizio a boccheggiare, alla ricerca di aria.

Non riesco a respirare, Sara è la prima ad accorgersene e mi presta subito soccorso, riconoscendo nei sintomi il principio di un attacco di panico.

Con tono fermo e calmo mi dice di guardarla negli occhi e di prendere dei profondi respiri, ma non ci riesco: il mio corpo è completamente congelato e non risponde ai comandi che riceve dal mio cervello; per quanto io mi sforzi, non riesco a riempire i polmoni di ossigeno, riesco solo a fare dei brevi respiri spezzati con la bocca, misti a dei singhiozzi disperati.

Poi, nel mio campo visivo appare Teddy.

“Nicole, guardami” ordina in un sussurro “andrà tutto bene, ma adesso devi fare ciò che Sara ti ha ordinato: prendi dei profondi respiri. Guarda, così”.

Theodore mi mostra come devo fare e, dopo qualche tentativo, il mio respiro torna ad essere regolare.

“Mi… Mi dispiace, non doveva accadere” balbetto in un sussurro, lasciandomi scappare un altro singhiozzo “che cosa è successo? Chi è stato? Perché ci hanno sparato contro?”

“La Compagnia, sono stati loro” risponde Lincoln, socchiudendo appena la porta del capannone per assicurarsi che il sicario non sia più nei paraggi “non siamo al sicuro qui”
“Posso chiedere a Bruce di mettere a nostra disposizione un’altra delle sue proprietà, magari lontana da Los Angeles, sono sicura che non avrà nulla in contrario” suggerisce Sara, scossa almeno quanto lo sono io, ma la sua proposta viene subito accantona da Michael.

“No, non servirebbe a nulla, quegli uomini non si fermeranno fino a quando non ci avranno impiantato una pallottola in fronte, ed io non posso rischiare di perderti per la seconda volta, Sara” mormora, scuotendo la testa, e compie un gesto che mi lascia perplessa: da una tasca della giacca, tira fuori un cellulare e digita velocemente un numero.
“Chi stai chiamando?” domando, rivolgendo lo stesso quesito a Teddy “chi sta chiamando? Qualcuno che potrà aiutarci ad uscire da questa situazione?”.

Il mio uomo resta in silenzio e si morde la punta della lingua, mentre Scofield parla con una persona di cui ignoro l’identità.

“Don, sono Michael Scofield” dice “accettiamo la sua proposta, quando s’inizia?”.

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Capitolo 35
*** Scylla; Parte Uno (Nicole) ***


“Vuoi spiegarmi che cosa sta accadendo, Teddy? Chi era l’uomo con cui Michael ha parlato al telefono? Ed a che cosa si stava riferendo, quando ha detto che avrebbe accettato?”

“Si chiama Don Self, è un agente della sicurezza nazionale. Quando io e Scofield siamo stati arrestati e scortati ad una centrale della polizia, abbiamo avuto una lunga conversazione con lui e… E ci ha offerto la possibilità concreta di uscire da questo casino” mormora Theodore, guardando in direzione della finestra, soffermandosi in particolar modo sul buco provocato dal proiettile; attendo in silenzio che prosegua, ma quando ciò non accade, lo raggiungo e mi posiziono tra lui ed il vetro, costringendolo a guardarmi negli occhi.

“Cioè?” chiedo, esortandolo a proseguire.

“Tu che cosa sai della Compagnia e di Whistler?”

“Solo quello che Lincoln mi ha raccontato a Panama. È a causa della Compagnia se lui è stato rinchiuso a Fox River, e per quanto riguarda Whistler… So che era un loro agente, e che Michael doveva riuscire a farlo evadere da Sona, altrimenti quegli uomini avrebbero ucciso sia Sara che LJ”

“James Whistler non era un uomo della Compagnia, ma un infiltrato della sicurezza nazionale da almeno dieci anni. Nell’ultimo periodo, il suo compito era di recuperare Scylla: una scheda in cui è racchiusa ogni singola informazione della Compagnia stessa. Il suo libro nero. L’unica arma al mondo per distruggere quel gruppo di pazzi, smontandola mattone dopo mattone. Whistler era riuscito a fare una copia di Scylla ma qualcuno, probabilmente la stessa persona che ha provato ad ammazzarci poche ore fa, lo ha freddato in un vicolo ed ha recuperato la copia”

“E questo che cosa c’entra con noi?”

“Don Self vuole che siamo noi a recuperare Scylla, in cambio avremo una fedina penale pulita e nuove identità: tutto il necessario per ricominciare una nuova vita e per lasciarci gli avvenimenti degli ultimi mesi alle spalle, per sempre”.

Ascolto in silenzio la spiegazione e sorrido, prendendo per mano il mio uomo.

“Teddy, ma è stupendo, è proprio quello di cui abbiamo bisogno!” esclamo, contenta, ma la sua espressione mi fa rapidamente cambiare umore “tu non… Tu non la pensi allo stesso modo?”

“Nickie, non puoi essere così ingenua” mi rimprovera, rivolgendomi un mezzo ghigno “per esperienza personale ti posso dire che sono le offerte più vantaggiose a nascondere i retroscena più spinosi. Sai quali sono i membri della squadra? Tu, io, Scofield, Burrows, la dottoressa Tancredi, Mahone, Sucre e Bellick. Secondo te perché hanno scelto proprio noi? Che cosa ci accomuna? Te lo dico io: siamo tutti ed otto dei ricercati, e sai questo che cosa significa? Se qualcosa dovesse andare storto, se uno di noi dovesse essere catturato durante l’operazione, nessuno muoverà un solo dito per aiutarci. E se uno di noi dovesse essere ucciso, tanto meglio… Così avranno un problema in meno di cui occuparsi”

“Sono dei rischi che tutti noi siamo pronti ad affrontare”

“E poi, fare una copia di Scylla è solo la parte più ‘semplice’ dell’operazione. La scheda è criptata, lo strumento per decodificarla è ben custodito nel quartier generale della Compagnia: un edificio di cui nessuno conosce l’esatta ubicazione, neppure Self. Ohh, aspetta, perché non è finita qui. Per decodificare Scylla esiste un determinato procedimento che Whistler aveva appuntato su un libretto che aveva con sé a Sona, e quel libretto è andato perso”

“D’accordo, forse la fortuna non è proprio dalla nostra parte, ma non dimenticare che nella squadra c’è Michael. Sono sicura che riuscirà a trovare una soluzione”

“E credi che davvero ci daranno ciò che ci è stato promesso?” mi domanda, sempre con quel sorriso sarcastico “credi davvero che, se mai riuscissimo a portare a termine l’intera operazione, ci daranno delle nuove identità e le nostre fedine penali torneranno ad essere immacolate?”

“Stiamo parlando della sicurezza nazionale, sono sicura che loro possono fare questo in casi eccezionali”

“E credi che lo faranno anche con me?” insiste ancora, allontanandosi dalla finestra e da me “forse potranno mantenere la parola data con te e con il resto della squadra perché siete coinvolti in reati minori, ma lo faranno anche con me? Con un mostro come me? Chi mi assicura che, per l’ennesima volta, non mi ritroverò con un paio di manette attorno ai polsi?”.

Finalmente capisco l’origine del turbamento di Theodore, ed una domanda esce spontanea dalle mie labbra.

“Vuoi scappare?”

“Questa non è la nostra lotta, Nicole. Tu ed io non abbiamo nulla a che fare con la Compagnia, non vedo perché dovremo mettere in pericolo le nostre vite” risponde il mio uomo, confermando così il sospetto che nutro; ritorna da me e mi stringe con forza la mano sinistra, guardandomi negli occhi “scappiamo finché siamo ancora in tempo, Nickie, prima che qualcuno possa aprire la porta della camera. Andiamo in Messico e ricominciamo una nuova vita insieme. Fanculo Scofield, Burrows, la Compagnia e Scylla”.

Aspetto con pazienza che finisca di parlare e questa volta sono io che mi sottraggo dalla sua presa; gli appoggio le mani sulle guance e gliele accarezzo con dolcezza, sorridendogli, ma quando parlo, il mio tono è fermo e deciso, e soprattutto non ammette repliche.

“Lincoln si è preso cura di me quando eravamo a Panama, avrebbe potuto lasciarmi sul marciapiede in cui mi ha trovata, ma non lo ha fatto. Sara si è offerta di ospitarmi perché non avevo un posto dove andare. Michael ti ha fatto uscire da Sona e ti ha offerto una tregua momentanea per vendicare me e Sara, avrebbe potuto lasciarti marcire in quel carcere, ma non lo ha fatto…”

“In verità, io non sono evaso con il piccolo pesciolino, ma in un secondo momento perché…”

“Teddy!” esclamo, facendogli capire che non deve interrompermi ancora “Michael, Lincoln e Sara non avevano nessun debito nei nostri confronti, eppure ci hanno aiutato. Adesso siamo noi ad avere un debito nei loro confronti e per questo motivo non scapperemo come due codardi, ma aiuteremo loro ed il resto della squadra a recuperare Scylla e ad affondare la Compagnia. Non so se Self manterrà la parola data, se nel caso riuscissimo nell’impresa avremo davvero delle nuove identità e una fedina penale pulita, ma io ci voglio credere. Ho bisogno di crederci, ed ho bisogno di avere te a mio fianco”.

Prendo da una tasca dei jeans la catenina con la fede che appartiene a Teddy, la lascio cadere sul palmo della sua mano destra e gli mostro il cerchietto dorato che adorna il mio anulare sinistro.

Mentre aspetto, con trepidazione, una risposta da parte sua, qualcuno bussa alla porta e Lincoln si affaccia per comunicarci che è arrivato il momento di partire; faccio un cenno affermativo con la testa e, quando lui richiude la porta, torno a fissare Theodore, che sta facendo lo stesso con la catenina che gli ho restituito.

“Se tu ci credi, allora ci credo anche io” mormora alla fine, indossandola “d’accordo, lo farò, ma solo perché me lo stai chiedendo tu e perché non desidero avere debiti nei confronti dei due fratelli”

“Sapevo che avresti fatto la cosa giusta” sussurro, avvicinando il mio viso al suo per dargli un bacio “e nel peggiore dei casi, se dovessero provare a fregarci, allora opteremo per una fuga in Messico. Andiamo, stanno aspettando solo noi”

“Aspetta”

“Cosa c’è?”

“Che cosa dovevi dirmi ieri notte? Poco prima dell’aggressione mi avevi detto che dovevi parlarmi di una cosa importante, di che cosa si trattava?”

“Ahh, sì, quella cosa” commento, passandomi una mano tra i capelli “ecco… Io… Volevo chiederti scusa per quello che è successo, sai a che cosa mi sto riferendo. Se non fossi stata così stupida, se non mi fossi comportata come una stronza senza cuore, noi non…”

“Basta, non ha importanza” m’interrompe Theodore, appoggiando l’indice destro sulle mie labbra “abbiamo sbagliato entrambi, ed entrambi abbiamo pagato. Rivangare il passato non serve a nulla, giusto?”

“Giusto” ripeto, in un soffio, annuendo con un sorriso, e lo seguo fuori dalla camera da letto.

Ho detto una bugia a Teddy: ciò che devo confidargli non ha nulla a che fare con il nostro allontanamento momentaneo, ma per adesso preferisco tacere perché Scylla ha la priorità assoluta.



 
Il suv nero messo a nostra destinazione ci conduce al porto di Los Angeles.

Quando arriviamo a destinazione, oltre al resto della squadra, davanti ai miei occhi si palesa finalmente Don Self, l’agente della sicurezza nazionale che ci ha assoldati per recuperare Scylla: un uomo alto, robusto, dai capelli rossicci e con addosso un completo scuro molto elegante; ad una prima occhiata si capisce subito che si tratta di un tipo a cui è meglio non giocare brutti scherzi, e le parole che pronuncia confermano appieno la mia prima impressione.

“Se riuscirete a portare a termine l’intera operazione con successo, non solo eviterete la galera ma dovrete essere orgogliosi di voi stessi per aver distrutto la più grande minaccia alla democrazia americana. Se qualcuno dovesse perire nel corso dell’impresa, avrà un degno funerale da eroe. Ma se qualcuno dovesse provare a fregarci, tentando di scappare, allora verrà subito arrestato, freddato e seppellito nel posto in cui si trova, per cui toglietevi immediatamente qualunque strada idea dalla testa. E adesso indossate una di queste” Self apre la valigetta ventiquattrore che tiene sottobraccio, mostrandoci il contenuto che consiste in otto cinture arrotolate, ciascuna dotata di un piccolo display spento.

“Che cosa sono?” chiedo, indicandone una “e per quale motivo dobbiamo indossarle?”

“Perché siete dei ricercati, signorina Baker. Alcuni di voi sono accusati di complicità, altri sono evasi da un carcere, altri ancora sono evasi da ben due carceri: ciò fa di voi dei soggetti pericolosi, che devono essere tenuti sottocontrollo in ogni singolo momento, e queste cavigliere dotate di GPS eviteranno spiacevoli inconvenienti. Diciamo che si tratta di una piccola precauzione”

“Una piccola precauzione del cazzo!” esclama Teddy, prima che possafermarlo “io non sono intenzionato ad indossare quell’affare”

“Non credevo che lo avrei mai detto, ma concordo con T-Bag” interviene a sua volta Lincoln, incrociando le braccia, ma Don non retrocede di un solo passo, e passa direttamente alle minacce.

“Non m’importa nulla di quello che pensate voi due. Il mio non è un consiglio, ma un ordine: o indossate queste cavigliere, o sarò io stesso a farvi un buco in fronte. Io sono un vostro alleato, ma sono anche il vostro capo, di conseguenza se io vi ordino di fare qualcosa, voi lo fate. Se io vi ordino di dire qualcosa, voi lo dite. E se io vi ordino di indossare una maledetta cavigliera, voi lo fate senza aprire bocca, adesso sono stato più chiaro o c’è qualcun altro che desidera esprimere il proprio parere personale?”.

Nel gruppo cala il silenzio, nessuno si azzarda a protestare e Mahone si fa avanti per primo per prendere una delle cavigliere; gli altri lo imitano, me compresa, ad eccezione di Teddy che non sembra essere intenzionato a scendere a questo piccolo compromesso, e sono costretta ad esortarlo dandogli una gomitata allo stomaco.
“Teddy, per favore, non complicare la situazione” sussurro, rivolgendogli uno sguardo supplicante, e solo allora si decide a prendere l’ultima cintura rimasta nella ventiquattrore, borbottando qualcosa d’incomprensibile.

“Molto bene. Adesso che abbiamo chiuso questa piccola parentesi, potete seguirmi dentro quello che sarà il vostro quartier generale per le prossime settimane. L’opinione pubblica sa che siete stati rinchiusi in un penitenziario di massima sicurezza degli Stati Uniti quindi, per evitare incidenti imbarazzanti e per agire in modo indisturbato, dovete stare ben lontani dal centro città. Ricordatevi: testa bassa e orecchie ben aperte” ci spiega l’agente della sicurezza nazionale, scortandoci davanti ad uno dei numerosi capannoni disposti in file ordinate; spalanca la porta, e resto letteralmente a bocca aperta da ciò che vedo “qui dentro troverete tutto ciò di cui avete bisogno: cellulari, vestiti, acqua, cibo, medicazioni ed altri beni di prima necessità. Per qualunque altra cosa, dovete solo chiedere, ma senza calcare troppo la mano. Naturalmente ognuno di voi potrà contare su una identità fittizia e documenti falsi. Sopra a quel tavolo troverete delle buste con dentro tutto il necessario per le vostre nuove identità”

“Ehi, e loro chi sono?” chiede un ragazzo, apparendo da un’altra stanza “mi auguro che siano stati perquisiti prima di entrare, perché non voglio rischiare di beccarmi una coltellata”

“E lui chi è?” Michael pone la medesima domanda a Don Self e lui non esita neppure un istante a rispondere.

“Roland Glenn, anche lui fa parte della vostra squadra”

“Non ne abbiamo bisogno, siamo già al completo”

“Michael, anche se sei tu la mente del gruppo, non dimenticare che non si sta parlando della tua squadra, ma della mia. Roland sta pagando la sua pena esattamente come tutti voi… E poi, dati i sistemi si sicurezza che ruotano attorno a Scylla, sono sicuro che la sua presenza vi sarà molto utile”

“E per quanto riguarda la seconda parte del piano?” insiste una seconda volta Scofield, mentre tutti noi non ci perdiamo un solo momento della conversazione “quella che riguarda l’intrusione nel quartier generale della Compagnia. Come faremo senza le informazioni in possesso di Whistler?”

“Per quanto riguarda la seconda fase, ci penserò io, voi preoccupatevi di recuperare Scylla. Bene, credo che non ci sia altro d’aggiungere, potete iniziare a studiare la vostra prima mossa” Self muove qualche passo in direzione della porta, ma poi torna indietro per darci un ultimo avvertimento “se qualcuno di voi dovesse finire in manette, se la vedrà da solo perché il mio ufficio non muoverà un solo dito per tirarlo fuori dalla merda, d’accordo?”.

Qualche mormorio d’assenso si solleva dalla squadra, ma non appena l’uomo esce dal capannone, la situazione degenera all’istante: senza alcun segnale di preavviso, Sucre si scaglia contro Theodore, lo blocca sulla superficie liscia del tavolo ovale e lo colpisce con un pugno in pieno volto, rivolgendogli i peggiori epiteti esistenti al mondo.

Io, Bellick, Lincoln ed Alexander ci precipitiamo subito a dividerli, prima che il pestaggio possa ulteriormente peggiorare, ma si rivela essere un’impresa tutt’altro che semplice perché entrambi tentano di divincolarsi per mettere nuovamente le mani addosso all’altro; Teddy, poi, è una furia e sia io che Mahone fatichiamo a trattenerlo fisicamente.

Fortuna che non ha con sé né coltelli né cacciaviti affilati.

“Se ti metto le mani addosso…” sibila, con il volto contratto in una smorfia “ti farò rimpiangere il giorno in cui sei venuto al mondo, idiota di un messicano”

“Io sono portoricano!” ribatte Sucre, offeso, tentando a sua volta di sfuggire da Bellick e Lincoln.

Solo l’intervento tempestivo di Scofield riesce a ristabilire l’equilibrio precario di qualche istante prima.

“State zitti entrambi! Smettetela immediatamente di comportarvi come due bambini capricciosi!”

“Io non mi sto comportando come un bambino capriccioso. Michael, questo figlio di puttana mi ha fatto rinchiudere a Sona! Ha scaricato su di me tutta la responsabilità dell’evasione! E come se ciò non bastasse, questo pazzo ha dato fuoco all’intero edificio, ed io ho rischiato di essere calpestato vivo dagli altri detenuti!”

“Quelle guardie volevano friggermi i gioielli di famiglia, sono stato costretto a fare il tuo nome, vuoi dire che non avresti fatto lo stesso al posto mio?”

“Basta!” urla di nuovo Michael, alzando le braccia, riducendo i due al silenzio “tutti, qui dentro, abbiamo la nostra storia. Che ci piaccia o meno, per le prossime settimane saremo una squadra e dovremo lavorare insieme… Quindi, se qualcuno di voi ha qualche conto in sospeso che vuole risolvere, si faccia avanti adesso o lasci perdere per sempre”.



 
Ho sempre adorato l’oceano, fin da piccola.

Non c’è niente di più rilassante di lasciarsi cullare dal rumore delle onde, e di farsi accarezzare il viso ed i capelli dalla brezza marina; nel mio caso, poi, mi aiuta anche a riflettere ed a schiarire le idee.

“Non dovresti essere in compagnia del tuo… Fidanzato?”.

Una voce, alle mie spalle, mi coglie totalmente alla sprovvista; mi giro di scatto e vedo Burrows raggiungermi, prendendo posto a mio fianco sul bordo del molo.

“Marito” dico, correggendolo, e sollevo la mano sinistra “io e lui siamo ancora sposati, ciò significa che siamo marito e moglie”

“Quindi, di conseguenza, questo fa di te la signora Bagwell?”

“Sì, ma non c’è bisogno che mi chiami in questo modo. Nicole o Nickie va benissimo. E riguardo alla domanda che mi hai fatto, Sara si sta occupando di sistemare il naso a Teddy. Fortunatamente il pugno di Sucre non è stato così violento come sembrava in un primo momento. In un paio di giorni tornerà nuovo, mi auguro solo che non voglia vendicarsi…” commento, con un sospiro, stringendo le labbra “più tardi gli parlerò, sperando che si sia calmato, ma sono sicura che riuscirò a fargli cambiare idea”

“Immagino che tra voi due si sia sistemato tutto”

“Nella villa di Bruce abbiamo parlato a lungo e siamo riusciti a risolvere tutti i nostri problemi. Abbiamo lasciato entrambi il passato alle spalle e siamo intenzionati ad iniziare una nuova vita. La fede nuziale che ho ricominciato ad indossare parla da sola, non credi?” dico con un mezzo sorriso che, però, non viene ricambiato “ma tu non la pensi allo stesso modo, ho indovinato? Continui a vederlo come un mostro, proprio come tutti gli altri, e sei convinto che mi farà soffrire ancora”

“Ho paura che tu riponga troppa fiducia nei suoi confronti”

“Non sono un’ingenua o una stupida, a differenza di quello che tu e gli altri pensate, Lincoln. So benissimo che una parte di lui vorrebbe scappare subito, perché non vuole avere nulla a che fare con la Compagnia e Scylla, ma so altrettanto bene che l’altra parte è stanca di condurre una vita da ricercato e desidera solo trovare una soluzione definitiva a questa storia… Ecco perché sono sicura che non ci abbandonerà”

“Io continuo a restare della mia idea”

“Perfetto, allora sarò ben lieta di dirti ‘te lo avevo detto’ quando arriverà il momento”

“Mi auguro solo che non avvenga il contrario, allora” commenta Burrows, con lo sguardo rivolto verso la città, appena visibile all’orizzonte “faresti meglio a rientrare con me, ora, non mi sento tranquillo qui fuori e non ci tengo a trasformarmi in un bersaglio vivente”

“Arrivo, ma prima ho bisogno di qualche altro minuto per me” mormoro; quando rimango da sola mi stringo nelle spalle, perché il sole sta calando e la frizzante brezza di mare si sta trasformando in un vento gelido, tutt’altro che rilassante.

Guardo per l’ultima volta l’oceano e poi mi alzo, con l’intenzione di raggiungere il capannone, ma un rumore improvviso, seguito da alcune urla, attira la mia attenzione e mi dirigo verso la parte opposta, in un punto in cui sono radunati degli enormi container per i trasporti oltreoceano: vedo Sara colpire la facciata di una delle strutture con una trave di legno, si ferma solo quando l’oggetto si spezza a metà a causa di un colpo troppo violento.

Appoggia la mano destra sulla fronte, la sinistra sul corrispettivo fianco, ed i suoi occhi incrociano i miei.

Capisce all’istante che ho assistito all’intera scena, e si affretta subito a cercare una spiegazione, finendo però col balbettare qualcosa d’incomprensibile.

“Mi dispiace, ho perso il controllo” sussurra alla fine, usando parole simili a quelle che io stessa ho pronunciato per giustificare l’attacco di panico “ma ci sono momenti in cui i ricordi ritornano, ed io non posso fare niente per impedirlo. A volte ho paura che sia tutto un sogno e che, da un momento all’altro, mi risveglierò ancora nelle mani di quegli uomini. Ti prego, non dire nulla di ciò che ti ho appena confidato a Michael. Ha già abbastanza pensieri per la testa, non voglio dargli un’altra preoccupazione”

“Ho le labbra cucite” la rassicuro, con un sorriso complice, e torniamo insieme nel capannone, ricongiungendoci agli altri componenti della squadra: Sara si estranea in un angolo, a braccia conserte, ancora immersa nei propri pensieri, mentre io raggiungo il mio uomo per accertarmi di quali siano le sue condizioni fisiche.

“Se non avessi ricevuto quel pugno, starei molto meglio” si lamenta lui, tastandosi il naso fasciato “aspetta solo che mi capiti l’occasione giusta per…”

“Per fare cosa? Per dare una lezione a Sucre? Tu non farai niente di simile, hai capito? Non hai ascoltato le parole che ha detto Michael? Adesso siamo una squadra, e nelle prossime settimane dobbiamo sforzarci di lavorare insieme”

“Mi stai rimproverando? Non dirmi che sei dalla loro parte…”

“Io non sono dalla loro parte, Teddy, credi che per me sia così semplice? Credi che abbia dimenticato quello che Bellick ha fatto ad entrambi a Tribune? O credi che abbia dimenticato le minacce che Mahone mi ha rivolto quando mi ha interrogata? Anche io vorrei togliermi qualche sassolino dalle scarpe, ma preferisco concentrarmi sulla ricompensa che Self ci ha offerto perché vale molto di più di una scazzottata” ribatto, con uno sguardo duro, per fargli capire che davvero non vale la pena rovinare tutto per una mera vendetta personale, perché la posta in gioco è molto più alta.

Theodore sta per ribattere a sua volta, ma viene preceduto da Alexander.

“Forse so come rintracciare Scylla” annuncia l’ex agente, facendo un passo in avanti, concentrando su di sé l’attenzione di tutti i presenti “Whistler aveva il compito di consegnare la scheda dati ad un altro uomo della Compagnia, che a sua volta doveva fungere da custode. Purtroppo non l’ho visto in faccia, ma sono stato più fortunato con il suo autista”

“Stupefacente” commenta Lincoln, ovviamente in tono sarcastico, dimostrando quanta poca stima nutra nei confronti di Mahone “e che cosa vorresti fare? Realizzare uno schizzo del suo viso e confrontarlo con tutti gli uomini che a Los Angeles lavorano come autisti?”

“In realtà, ho visto molto di più del suo viso: mentre tutti gli altri autisti parlavano di lavoro, lui se ne stava in disparte a gambe divaricate, con le mani dietro la schiena, in posizione di riposo come se fosse un ex militare, e la sua auto era rivestita di una carrozzeria antiproiettile. E l’abito che indossava… Con una semplice paga da poliziotto non puoi permetterti un completo simile, neppure arrotondando facendo l’autista privato durante il weekend. Questo significa che il nostro uomo lavora a tempo pieno ed è ben retribuito. Chiedete al nostro signor Self di fare un controllo fiscale su tutti gli uomini tra i quarantacinque ed i cinquantacinque anni, con la pensione militare a Los Angeles, che sono pagati con uno stipendio a sei zeri da un’agenzia di sicurezza privata, e avremo ristretto il campo da dieci milioni a neppure cinquanta uomini. E tra quei cinquanta uomini, io troverò il nostro” spiega Alex, lasciandoci tutti senza parole; fa una breve pausa per riprendere fiato e poi conclude il suo ragionamento “e una volta trovato l’autista, avremo trovato anche il custode di Scylla”.

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Capitolo 36
*** Scylla; Parte Due (T-Bag) ***


“Allora!” esclamo mentre io, Scofield, Burrows, Mahone e Sucre rientriamo dalla nostra piccola gita per le strade di Los Angeles “quale notizia preferite sentire per prima? La buona o la cattiva?”

“Prima quella buona” risponde Nicole, sollevando gli occhi azzurri da alcune scartoffie che lei e Sara stanno controllando “ammesso che sia veramente una buona notizia”

“Abbiamo seguito l’autista e ci ha portati proprio a casa del custode”

“E la cattiva qual è?”

“Che abita in una vera e propria fortezza” dice Michael, precedendomi, e srotola una cartina, che ritrae il quartiere in questione, sopra al tavolo ovale “ci sono guardie del corpo ovunque, sensori di movimento ed allarmi in ogni angolo della villa”

“E noi dobbiamo trovare il modo per entrare lì dentro, passando del tutto inosservati” commento, con una breve risata divertita; mi sposto nella stanza adiacente per prendere qualcosa da mettere sotto i denti e, non appena torno dalla squadra, vengo subito trafitto dallo sguardo contrariato di quel bestione di Burrows.

“Sei davvero intenzionato a mangiare? In questo momento?”

“Si” rispondo, in modo affermativo, addentando la barretta di cioccolato al latte e caramello “non lo sai che a stomaco pieno si riesce a fare meglio qualunque cosa?”

“Anche uccidere e stuprare?”

“Basta, dateci un taglio, non mi sembra il momento migliore per iniziare l’ennesima discussione!” esclama Nickie, ammonendoci entrambi con uno sguardo severo, ma non appena torna a concentrarsi sui documenti, ne approfitto per mostrare al diretto interessato il dito medio della mia mano destra.

“Nicole ha perfettamente ragione, non possiamo perdere tempo perché non abbiamo settimane a nostra disposizione” mormora Mahone, massaggiandosi le tempie.

Le sue parole scatenano un esilarante attacco di panico in Bellick: il grasso maiale si agita all’improvviso, inizia a sudare, a balbettare, ed io sono costretto a premere una mano contro la bocca per non scoppiare a ridere di fronte a tutti.

Non ci tengo a ricevere un altro pugno in faccia.

“Perché? Che cosa vuol dire che non abbiamo settimane a nostra disposizione? Don Self non ci ha dato una data di scadenza”

“Quanto tempo pensi che passerà prima che la Compagnia scopra che siamo ancora a piede libero? Credi davvero che la balla sulla nostra reclusione reggerà ancora a lungo? Prima o poi crollerà, e quando quel giorno arriverà, la Compagnia impiegherà pochissimo tempo per rintracciarci e per mandare qualcuno ad ucciderci”

“Ecco perché ogni singolo istante è prezioso e non possiamo permetterci di sprecarlo” mormora Scofield, senza mai staccare gli occhi dalla cartina, rigirandosi un pennarello colorato tra le mani; termino di mangiare la barretta ed ascolto, distrattamente, gli inutili suggerimenti di Brad riguardo ad un possibile ‘piano d’attacco’: secondo la sua mente ottusa e limitata, la cosa migliore da fare è intrufolarci in un’abitazione vicina e scavare un tunnel sotterraneo per arrivare indisturbati alla villa del custode.

Perfino un bambino di otto anni sarebbe in grado di partorire un’idea più intelligente e sensata della sua.

“Ohh, sì, gran bel piano, Brad. Dico davvero” commento, gettando via l’involucro dello snack “dopotutto, non c’è nulla di più semplice che introdursi in una casa e scavare un lunghissimo tunnel sotterraneo senza che i suoi proprietari sospettino nulla. Sono senza parole”

“Teddy…” Nickie mi ammonisce ancora una volta per i miei toni sarcastici, ma la colpa non è mia, bensì di Bellick che apre la bocca senza prima collegare il cervello; emetto uno sbuffo seccato e decido di non inferire ulteriormente sull’ex secondino.

“Ad ogni modo” proseguo, prendendo posto davanti al lungo tavolo ovale “non c’è modo di entrare in quell’abitazione senza essere visti. Esattamente come ha detto il piccolo pesciolino, l’intero edificio è sorvegliato a vista da guardie del corpo, ed è tappezzato di allarmi e sensori di movimento: è umanamente impossibile intrufolarci lì dentro senza essere beccati, e questo vale sia per il giorno che per la notte”

“E se non fosse necessario introdursi lì dentro?” domanda Burrows, in una delle rarissime occasioni in cui mette in moto gl’ingranaggi del cervello “insomma… Se ciò che deve custodire è così importante, l’avrà sempre con sé”

“Ohh, mio dio, sono sempre più esterrefatto! Quindi… Questo significa che anche tu hai un cervello in grado di ragionare, Burrows? Cavolo, chissà se Scofield riuscirà a reggere il confronto” commento, con un sorriso, perché non riesco a trattenermi dal restituirgli la battutina di poco prima; il bestione ‘tutto muscoli e niente testa’ ignora la mia provocazione, in compenso guadagno la terza occhiataccia ammonitrice da parte della mia dolce metà.

“Stando ai catasti pubblici, l’uomo che abita in quella villa si chiama Stuart Tuxhorn” interviene Sara, ad alta voce, per impedire che la situazione degeneri di nuovo; s’interrompe, fruga tra alcuni fogli che ha in mano e finalmente trova quello che sta cercando “è l’amministratore delegato di una compagnia chiamata Spectroleum”

“Un tizio così in alto gira sempre con la protezione” commenta a sua volta Mahone, passandosi una mano sugli occhi, e la dottoressa Tancredi rincara subito la dose, sottolineando la difficoltà dell’impresa che ci aspetta.

“Come possiamo rubare una scheda ad un tizio che la porta sempre con sé, senza che se ne accorga, e che gira tutto il giorno circondato da guardie del corpo?”

“Semplice. Non la rubate. La copiate”.

Tutti quanti ci voltiamo a guardare Roland Glenn, il giovane hacker che Self ha affibbiato alla squadra, che allarga le braccia sorpreso, perché per la prima volta siamo interessati ad ascoltare ciò che ha da dire.

“Copiarla è anche più difficile che rubarla” dice Sucre, con un’espressione diffidente “dovremo prenderla e rimetterla al suo posto senza che lui se ne accorga”

“Questo se non aveste me, hombre” risponde prontamente il ragazzo, e tira fuori da una tasca della felpa quello che ha tutta l’aria di essere un normale cellulare, mostrandocelo con aria compiaciuta.

“Che cos’è?” domanda Burrows dopo qualche secondo, per nulla impressionato dal piccolo apparecchio tecnologico.

“Questo è il motivo per cui sono stato arrestato”

“Per aver rubato un cellulare?” chiede Bellick, dando ancora una volta sfogo della propria ignoranza, e le sue parole toccano l’orgoglio di Roland, che reagisce con un’osservazione piccata.

“Ohh, certo, condannato al carcere federale per avere rubato un semplice cellulare… No, no, no… Sto parlando sul serio. È un apparecchio di mia invenzione: ad una prima occhiata sembra un semplice cellulare, in realtà è una sorta di buco nero digitale in grado di assorbire dati nel raggio di tre metri”

“Per esempio?” domando, osservando l’oggetto.

“Tipo le informazioni bancarie contenute in qualsiasi computer portatile, tipo i pin di qualsiasi carta di credito appena usata. Esco di qui ed in dieci minuti ottengo le identità e gli estratti conto di dieci persone, tranquillamente, tenendomi una mano sulle palle”

“E le informazioni dentro Scylla?” interviene Michael, rigirando un pennarello colorato tra le mani, e Glenn sorride compiaciuto.

“Se ci avviciniamo abbastanza, sono nostre”.



 
Anche se adesso siamo una squadra, è chiaro che Scofield non si fida di me, e lo dimostra il fatto che, anziché ordinarmi di seguirlo per mettere in atto il piano, mi lascia nelle retrovie insieme a Nicole, Sara, Mahone e l’hacker.

E la frustrazione è tale che la riverso su un’altra barretta al cioccolato e caramello.

“Vai piano con quelle, o finirai per ingrassare”

“Conosco tre modi per sfogarmi: uccidere, fare sesso e mangiare. Dal momento che le prime due opzioni non sono fattibili al momento, sono costretto a ripiegare sulla terza. E poi, ti posso assicurare che queste barrette sono davvero fenomenali, dovresti assaggiarne una, Nickie. Potresti diventarne dipendente” commento; apro l’involucro colorato e do un morso allo snack, il tutto sotto lo sguardo indecifrabile della mia compagna.

“E noi potremo fare un discorso serio almeno per una volta?”

“Vuoi farmi l’ennesima ramanzina?”

“No, voglio solo sapere che cosa ti sta succedendo”.

Sollevo il sopracciglio sinistro, perplesso.

“Che vuoi dire? Non ti seguo…”

“Non ti vedo molto collaborativo”

“Se ti stai riferendo a quello che è successo questa mattina, ti ricordo che non sono stato io il primo ad iniziare, ho semplicemente risposto alla frecciatina che Burrows cha generosamente pensato di lanciarmi. Come pretendi che possa essere collaborativo con queste persone, se loro per prime ci trattano come degli appestati? Guardati attorno” dico, indicandole con un cenno della testa il capannone attorno a noi “loro sono in campo, in prima linea, mentre noi siamo confidati qui dentro. Hanno portato perfino Bellick! Bellick! Ti rendi conto?”

“Anche noi siamo utili, Teddy”

“Ohh, certo. Roland si trova qui perché il suo lavoro è stare davanti allo schermo di un portatile, Sara si trova qui perché Michael non vuole esporla ad altri inutili pericoli dopo averla quasi persa… Ma che mi dici riguardo a noi due e Mahone? Ci tengono reclusi perché non si fidano di noi, ed hanno paura che possiamo approfittare dell’occasione per scappare”

“Non starai diventando un po’ troppo paranoico?” risponde Nicole, con un sorriso divertito che non mi contagia affatto “perché non ti sforzi di vedere il lato positivo delle cose? Sono sicura che ci hanno chiesto di restare alla Base perché, in caso dovesse accadere qualcosa a loro, ci saremo ancora noi ad occuparci del recupero di quella scheda dati. Tu ed Alex siete molto intelligenti…”

“Da quando hai questa enorme confidenza con lui?”

“Non ce l’ho, ma mi è bastato ascoltare il ragionamento che ha fatto sull’autista di Tuxhorn per capire che è allo stesso livello di Michael. Dopotutto, il vostro caso non era stato affidato proprio a lui?” mormora la mia compagna, lanciandomi un ultimo sorriso prima di ricongiungersi agli altri, radunati dietro a Glenn ed al suo computer portatile della Apple.

Sospiro, mi passo la mano destra sul viso e mi unisco a mia volta al piccolo gruppo, proprio nel momento in cui l’hacker sta spiegando come funziona la sua invenzione.
“Quando il dispositivo sarà abbastanza vicino a Scylla, inizierà a copiarla in automatico, ed io potrò seguire l’intero procedimento tramite questo programma. Però devo avvertirvi che c’è un piccolo problema che non sono ancora riuscito a risolvere, ma non è nulla di preoccupante: non posso accedere ai dati copiati finché il download non sarà completo”

“Come quando scarichi illegalmente un film e poi scopri che si tratta di un porno?” domando, incrociando le braccia, e di sfuggita vedo Alex scuotere la testa e togliersi gli occhiali da vista.

Come se in tutta la sua vita non avesse mai guardato un porno.

Ipocrita.

“E per una scheda dati come Scylla, quanto tempo ci vorrà al tuo dispositivo per effettuare una copia?”.

La voce maschile che interrompe il silenzio proviene dal cellulare di Sara, ed appartiene al suo principe azzurro tatuato: abbiamo deciso di restare in contatto telefonico per tutto il tempo dell’operazione, in modo da essere aggiornati in tempo reale su quello che sta succedendo, per sapere se ogni parte del piano procede liscia come l’olio o se c’è qualche intoppo.

“Due minuti… Tre al massimo”

“Perfetto, rimanete in linea”.

Con queste tre parole, il piccolo Michelangelo ci congeda in fretta, ed a noi non resta altro se non aspettare, pregando che ogni cosa vada per il verso giusto.

Il piano, di per sé, è semplice e perfino quasi banale: mentre Scofield e Burrows si occuperanno di controllare la situazione generale da una distanza di sicurezza, per non rischiare di essere visti e riconosciuti da qualcuno, Bellick e Sucre devono tagliare la strada alla macchina di Tuxhorn, provocare un tamponamento, e poi il portoricano deve iniziare un inutile litigio con l’autista, in modo da avere la scusa di avvicinarsi il più possibile al nostro obiettivo.

E Fernando, incredibilmente, ci riesce, anche se rischia di beccarsi una pallottola in testa proprio dallo stesso autista, ma non accade ciò che tutti noi ci aspettiamo: sullo schermo del portatile non appare né un segnale né tantomeno una barra di caricamento, e questo può significare solo due cose.

Primo: a differenza dell’idea che ci siamo fatti, il custode non porta sempre con sé Scylla.

Secondo: siamo di nuovo al punto di partenza.

Dobbiamo copiare una scheda dati custodita all’interno di una villa sorvegliata ventiquattro ore su ventiquattro, in cui è impossibile entrare senza essere visti, e non sappiamo dove sbattere la testa per farci venire in mente un piano B; e, come lo stesso Alexander Mahone ci ha già ricordato una volta, il tempo non è affatto dalla nostra parte.

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Capitolo 37
*** Scylla; Parte Tre (Nicole) ***


Continuo a rileggere il foglietto che ho in mano, a bassa voce, finché una voce alle mie spalle non mi fa sobbalzare: non si tratta di Teddy, né di Lincoln, con mio enorme stupore mi trovo faccia a faccia con Michael, che si siede di fronte a me.

Per la prima volta mi rendo conto che io e lui non abbiamo mai avuto una vera conversazione, finora ci siamo scambiati a malapena qualche parola di circostanza, sempre in riferimento all’operazione Scylla.

“Credo che tu abbia qualcosa che mi appartiene” dice, riferendosi al foglietto, ed io rispondo con un sorriso colpevole.

“Buffo, una delle prime conversazioni che ho avuto con Theodore è iniziata proprio con parole simili. Mi dispiace, non avrei dovuto frugare tra le tue cose, ma il nome Scylla continuava a rimbombarmi in testa, ero sicura di averlo già sentito da qualche parte, ma non riuscivo a ricordarmi dove… Finché non ho trovato questo dentro una cartellina che era appoggiata sopra al tuo letto” appoggio il foglio di carta sopra al tavolo ovale ed indico le righe scritte con una penna dall’inchiostro blu “questi appunti…”

“Sono di mio padre”

“Sono tratti da un verso dell’Odissea. Se la memoria non m’inganna, Ulisse si trova costretto ad affrontare un mostro il cui nome è, appunto, Scylla, e se vuole proseguire col suo cammino deve sacrificare sei dei suoi uomini. E lui, alla fine, lo fa”

“Non so se sarei in grado di prendere una decisione simile”

“E se ciò dovesse accadere?” domando, mordendomi il labbro inferiore “se dovessi davvero essere costretto a prendere una decisione simile a quella di Ulisse, che cosa faresti? Arriveresti davvero al punto di sacrificare qualcuno della squadra per portare a termine l’operazione?”

“Esiste sempre un modo per sistemare le cose”

“E se, in questo caso, non ci fosse una seconda alternativa?”

“Sei preoccupata per la sorte del tuo uomo? Hai paura che possa accadergli qualcosa? Se non te ne fossi ancora resa conto, sappi che una delle sue poche qualità positive è la capacità di uscire totalmente illeso da qualunque situazione. Quando ho organizzato l’evasione da Sona, lui è rimasto lì dentro perché gli altri non dovevano sapere nulla del nostro accordo secondario, soprattutto mio fratello, e mi ha solo detto che quattro giorni dopo avrei dovuto aspettarlo vicino al molo del porto. E quattro giorni dopo si è presentato puntuale, anche se per scappare ha dato in pasto alle fiamme l’intera prigione”

“Non mi aveva raccontato questo piccolo particolare” mormoro, lasciandomi scappare un sorrisetto “ma la fortuna non può essere sempre dalla sua parte. Prima o poi finirà, ed ho paura che quel giorno possa arrivare molto presto, magari anche domani…”

“Non accadrà. Se rispetterete tutte le fasi del piano senza fare di testa vostra, ne usciremo vivi”.

Annuisco e subito dopo corruccio lo sguardo.

“Michael, hai un rivolo di sangue che ti esce dal naso” gli faccio notare, e lui si affretta a pulirsi con un fazzoletto che poi getta dentro un cestino “ti capita spesso?”

“Qualche volta negli ultimi giorni. A volte lo stress gioca questi brutti scherzi. Per quanto riguarda il piano di domani, ho bisogno che tu faccia una piccola parte, Nicole”

“D’accordo” mi limito a dire, annuendo; quando chiedo in che cosa consiste il piccolo lavoretto che devo svolgere, Scofield me lo spiega attentamente, affinché non mi sfugga nessun dettaglio, perché si tratta di un passaggio molto importante e perché da esso dipende l’intera riuscita del piano “sì… Sì, penso di avere capito tutto. E penso anche di farcela senza nessun problema”

“Allora ti consiglio di andare a riposarti, perché domani ci attende una lunga giornata. Questo, se non ti dispiace, lo riprendo io” risponde il giovane uomo, riappropriandosi del biglietto che ho preso in prestito senza il suo consenso.

“Michael” pronuncio il suo nome, richiamandolo indietro, perché non so quando ricapiterà di trovarci faccia a faccia da soli “so benissimo quello che pensate di me, ma volevo dirvi che, anche se sono la sua donna, non ho alcuna intenzione di fregarvi perché desidero tanto quanto voi che questa storia finisca. E farò qualunque cosa per evitare che anche lui lo faccia”

“Nicole, qui dentro siamo tutti dei ricercati, non siamo nella posizione migliore per giudicare la vita degli altri componenti della squadra e quello che hanno fatto” Scofield ritorna da me, e questa volta prende posto alla mia destra “adesso voglio confidarti una cosa: per far evadere mio fratello da Fox River, avevo bisogno che qualcuno lasciasse la porta aperta in infermeria e per questo motivo mi sono avvicinato a Sara. Il piano originale non prevedeva che m’innamorassi di lei, eppure è successo. E quando siamo evasi ed io sono stato costretto ad abbandonarla, lei si è sentita presa in giro ed ha tentato un gesto estremo. Non sono così perfetto come mio fratello e gli altri credono, anch’io ho le mie colpe, anch’io ho delle vite sulla mia coscienza, di conseguenza non mi permetterei mai di giudicare le tue scelte”

“Adesso mi prenderai per pazza” gli confido a mia volta, a bassa voce “ma quando eravate ancora a Fox River, ho fatto uno strano sogno in cui c’eri anche tu: io e Teddy eravamo nella casa in cui sono cresciuta… Ricordo che lui aveva la maglietta sporca di sangue e mi abbracciava, e continuava a ripetermi che non dovevo preoccuparmi di niente perché tutto si sarebbe sistemato… Ma poi sei apparso tu, in cima alle scale della cantina, ed hai iniziato a dirmi che non dovevo fidarmi di lui, che non dovevo ascoltare le sue parole perché era solo un bugiardo. Ho ripensato spesso a quel sogno, ed altrettante volte mi sono chiesta quello che avrei dovuto fare, quindi, adesso, voglio chiederlo proprio a te. Che cosa dovrei fare, Michael? Sono una stupida a credere in un futuro insieme a lui? Secondo te… Secondo te mi ama veramente?”

“Quando eravamo rinchiusi a Sona, sono stato io a comunicargli che tu e Sara eravate state uccise. Proprio perché ho visto la sua espressione in quel momento, posso dirti con certezza che non ti sta prendendo in giro. Forse all’inizio eri davvero solo un divertimento, ma ora non più. Però, Nicole, non dimenticare mai che stiamo parlando di Theodore Bagwell: una persona profondamente egoistica ed egocentrica, che mette sempre sé stesso in primo piano rispetto agli altri. Sai che cosa farebbe se dovesse essere costretto a scegliere tra la sua pelle e quella dell’intera squadra, quindi non farmi anche questa domanda, o sarei costretto a mentire per non spezzarti il cuore”.



 
Teddy non è assolutamente d’accordo con la piccola parte attiva che devo svolgere: da quando sono stata rapita dalla Compagnia, ai suoi occhi sono diventata fragile come una bambolina di porcellana, pronta a rompersi in mille pezzi al primo tocco.

“Prima ti lamenti di essere confinato nelle retrovie, poi ti lamenti se entrambi entriamo in azione, che cosa vuoi di preciso?” sbuffo, spazientita, controllando il mio riflesso su uno specchio; Theodore, alle mie spalle, inarca il sopracciglio sinistro ed appoggia la mano destra sul fianco, assumendo un’espressione incredula, e così facendo contribuisce solo ad irritarmi ed a peggiorare la situazione.

“Io non ho alcun problema a dare un contributo più attivo del precedente, ma vorrei che lo stesso non valesse anche per la mia donna. Secondo te perché il piccolo pesciolino non ha chiesto questo ‘piccolo favore’ a Sara? Perché sa che si tratta di un’operazione rischiosa e non vuole mettere in pericolo la sua vita, e che cosa fa? Chiede a te di farlo perché la tua è sacrificabile!”.

Le sue proteste sono così assurde che non riesco a trattenermi, e scoppio a ridergli in faccia.

“A volte dovresti davvero sentirti quando parli. Non si tratta di un’operazione rischiosa e la mia vita non sarà messa in pericolo. Se così fosse stato, Michael neppure me lo avrebbe chiesto. Andiamo, dopotutto devo solo scambiare quattro chiacchiere con una donna alla fermata dell’autobus, lasciar cadere dentro la sua borsa il dispositivo di Roland e poi salirò in macchina. Michael e Lincoln mi osserveranno a distanza per tutto il tempo, pronti ad intervenire in qualunque momento. Non hai nulla di cui preoccuparti, cerca piuttosto di rispettare la tua parte”

“Continuo ad essere dell’idea che questa cosa non mi piace affatto”.

Mi allontano dallo specchio per avvicinarmi al mio uomo, gli passo le braccia attorno alle spalle e gli poso un bacio sulle labbra per tranquillizzarlo.

“Adesso basta” mormoro, in un soffio “non hai nulla di cui preoccuparti, andrà tutto bene”.

Penso davvero ciò che ho detto al mio uomo, perché in situazioni come questa l’ottimismo e l’autoconvinzione giocano un ruolo molto importante, ma quando raggiungo la fermata dell’autobus e vedo avvicinarsi il mio obiettivo, sento i palmi delle mani diventare improvvisamente appiccicosi a causa del sudore; stringo con più forza il giornale, tastandolo nel punto in cui è nascosto il dispositivo, deglutisco e lancio una seconda occhiata alla donna, una portoricana dalla corporatura robusta: la vedo in difficoltà mentre cerca qualcosa all’interno della sua borsa, e così mi offro di aiutarla, reggendo ciò che ha in mano.

“Sei molto gentile” ringrazia, passandomi un bicchiere di cartone, di quelli che si trovano nelle caffetterie d’asporto “questa borsa è così grande che divento pazza ogni volta che devo cercare qualcosa al suo interno. Puntualmente sembra sparire chissà dove”

“Io invece ho il problema opposto” commento, sorridendole “sono un insegnante, e sono sempre così sommersa di cose che devo portare con me, che sarò costretta a comprare un furgoncino prima o poi. In effetti stavo giusto pensando a quanto sembra essere spaziosa la sua borsa. Dove l’ha comprata?”

“È un regalo del mio Capo”

“Le dispiace farmela vedere più da vicino?”

“No, certo che no, prego”.

La donna mi porge la borsa in pelle e, mentre fingo di osservarla con attenzione, lascio scivolare al suo interno il dispositivo.

“La ringrazio” mormoro, restituendogliela proprio nel momento in cui l’autobus si ferma a poca distanza da noi; aspetto che salga nel mezzo di trasporto e mi allontano, senza dare nell’occhio, per poi salire sui sedili posteriori di un grosso suv nero “è andato tutto secondo i piani, non ha avuto il minimo sospetto. Adesso dobbiamo solo attendere che arrivi a destinazione, e sperare che proprio oggi il custode non abbia deciso di portare Scylla con sé”

“Perfetto. Andiamo” ordina Michael al fratello maggiore, che accende subito il motore della macchina e parte con una sgommata.

Siamo noi i primi ad arrivare in prossimità della villa, e la donna delle pulizie arriva appena qualche minuto più tardi; rigiro il cellulare tra le mani, in attesa del momento in cui dovrò chiamare Teddy, e nel frattempo pongo un’altra domanda al nostro caposquadra.

“Come riusciremo a fare in modo che la donna resti nella stessa stanza di Scylla il tempo necessario per copiarla?”

“Con una semplice chiamata: fingerò di essere il tecnico che si occupa degli allarmi di sicurezza e di avere appena ricevuto la segnalazione di un malfunzionamento. Le dirò di controllare le finestre di tutte le stanze, e quando arriverà in quella giusta, le dirò di attendere per qualche minuto, il tempo necessario per riavviare l’allarme, e poi sarà libera di riprendere le sue normali attività di pulizie”.

Detto questo, Scofield prende un cellulare da una tasca della giacca, digita velocemente un numero di telefono e, dopo qualche secondo, inizia una conversazione con la colf portoricana, dimostrandosi un perfetto ed impeccabile tecnico degli allarmi; ordina alla donna di spostarsi nelle diverse stanze della lussuosa ed immensa abitazione finché Lincoln, al telefono con Glenn, non gli fa un cenno con la testa per fargli capire che hanno trovato finalmente quella giusta.

Con la scusa di dover riavviare l’allarme, riesce a non far uscire dalla stanza la donna fino a quando il download non è completo al cento percento; a quel punto, la liquida in fretta, ringraziandola per la collaborazione.

“È fatta?” domando, senza riuscire a nascondere l’ansia.

“Sì, è fatta” mi comunica il minore dei due fratelli “chiama il tuo uomo. Adesso tocca a lui e ad Alex”.

Senza alcun indugio, chiamo subito Teddy per comunicargli che è andato tutto bene e che adesso è arrivato il momento di recuperare il dispositivo di Glenn, che si trova ancora dentro la borsa della portoricana: a turno finito, quando la donna tornerà alla fermata dell’autobus per tornare a casa, Teddy si fingerà un ladro e le ruberà la borsa, mentre Alex si esibirà nella parte di un cittadino altruista che inseguirà il malvivente per recuperare la borsa.

Un gioco da ragazzi per loro due, insomma.

La parte più semplice del piano.

Peccato che la maggior parte delle volte sono proprio le cose più semplici a rivelarsi, poi, le più insidiose.

E quando il mio uomo mi richiama per comunicarmi l’esito del finto scippo, ciò che mi sibila inviperito ribalta completamente le carte in tavola.

“Michael, il dispositivo non c’è più!” esclamo, allarmata “Teddy e Mahone hanno frugato dentro quella dannata borsa, ma non lo hanno trovato! Non c’è più! È sparito!”.



 
“Voi siete assolutamente sicuri che il dispositivo non sia scivolato fuori dalla borsa durante lo scippo? E siete altrettanto sicuri di aver controllato con cura la borsa?”

“Abbiamo ispezionato ogni singolo centimetro di quella maledetta borsa, in che lingua devo dirtelo? Non c’era! Che cosa devo fare per dimostrarti che non ti sto prendendo in giro, bellezza?”

“Però abbiamo Scylla, giusto? Il dispositivo è riuscito a completare la copia, quindi il problema non sussiste”

“Sbagliato, hombre, perché senza il mio dispositivo non posso decodificare la copia”

“E non puoi costruirne un altro?”

“Hai idea di quanto tempo ho impiegato per progettare quel dispositivo, grassone? Non è un oggetto che si può costruire in pochi giorni, impiegherei mesi interi per farne un altro e non abbiamo così tanto tempo a nostra disposizione, o te lo sei già dimenticato?”

“Il vero problema è un altro” l’intervento di Mahone interrompe l’accesa discussione tra Michael, Theodore, Sucre, Roland e Bellick “se trovano quel dispositivo, e capiscono di che cosa si tratta, siamo fottuti”

“Cerchiamo di ragionare su quello che abbiamo: quando la donna è entrata nella villa, aveva con sé il dispositivo, e quando è uscita, presumibilmente non lo aveva più con sé” mormora Lincoln, stropicciandosi le palpebre con la mano destra, mentre io sono costretta a coprirmi la bocca per reprimere uno sbadiglio: ormai sono ore che stiamo cercando di trovare la soluzione a questo terribile rompicapo, e non abbiamo fatto un solo passo avanti.

“Quindi, sempre per deduzione, la donna ha lasciato il dispositivo dentro la villa” interviene a sua volta Sara, seduta davanti al tavolo ovale, con il palmo della mano sinistra appoggiato alla corrispettiva guancia, alternando lo sguardo da noi ad alcuni fogli stampati.

“Forse lo ha trovato ed ha pensato che appartenesse al suo Capo, di conseguenza potrebbe averlo lasciato vicino alla porta prima di andarsene, in modo che fosse ben visibile a Tuxhorn. Lo avrà scambiato per un cellulare che deve aver accidentalmente preso. E se il dispositivo si trova ancora dentro quell’abitazione, ci troviamo sempre allo stesso punto di partenza: dobbiamo entrare lì dentro e non esiste un modo per farlo”mormoro, passandomi entrambe le mani nei capelli, esasperata, perché tutto ciò che abbiamo punta verso un’unica strada: quella di fare irruzione nella villa super sorvegliata “Michael, abbiamo bisogno dell’aiuto di Self per riuscirci, da soli non possiamo farcela”

“Ha detto che non è una questione che gli riguarda”

“Che cosa?” chiedo, sconcertata “ma lui aveva detto che per avremo potuto chiedere il suo aiuto, se ce ne fosse stato bisogno!”

“Sì, ma senza tirare troppo la corda, ed a quanto pare lo abbiamo già fatto. Al telefono mi ha detto che non è un problema suo, visto che abbiamo messo nelle mani di una colf portoricana la riuscita dell’intero piano. In poche parole: dobbiamo cavarcela da soli, perché lui ed i suoi uomini non alzeranno un solo dito per noi” spiega Scofield, senza mai staccare gli occhi azzurri da uno schema dei sistemi d’allarma che circondano la villa.

Sollevo gli occhi al soffitto e lancio un’occhiata a Teddy, che si è chiuso in uno strano mutismo assoluto; ormai so fin troppo bene che quando questo accade, non significa mai nulla di buono.

Lincoln parla di nuovo, ripetendo ciò che ha detto pochi minuti prima: dobbiamo concentrarci sulle poche informazioni certe che abbiamo a nostra disposizione, ed elaborare il miglior piano possibile.

“Mettiamo caso che riusciamo ad intrufolarci nella villa di Tuxhorn, quanto tempo impiegherebbero gli allarmi ad entrare in funzione?” domanda Alex, ricevendo quasi subito una risposta da parte di Sucre.

“Un secondo e mezzo”

“Questo significa che le guardie del corpo, armate di mitraglietta, entrerebbero subito in azione” commenta Bradley.

“E dopo trenta secondi, l’agenzia di sicurezza manderebbe dei rinforzi. Tre o quattro macchine, a seconda della disponibilità” aggiunge Sara, assestando la stoccata finale.

Teddy scoppia a ridere, ed io lo guardo perplessa a causa della sua reazione completamente fuori luogo.

“Adesso ho capito perché hanno voluto che ci occupassimo noi di Scylla. Non si tratta delle nostre capacità fisiche e mentali, semplicemente siamo delle pedine sacrificabili: a chi mai importerebbe qualcosa di un manipolo di criminali?”.

Questa volta non rivolgo alcuna occhiataccia al mio uomo, e non gli ordino neppure di tacere, perché inizio a credere che abbia perfettamente ragione.

E se il vero scopo di Self, oltre al recupero di Scylla, fosse di liberarsi fisicamente di tutti noi nel modo più discreto possibile?

“Agiremo in questo modo: Lincoln e Sucre forzeranno una finestra nella facciata laterale destra dell’abitazione, in modo da far scattare l’allarme ed attirare l’attenzione delle guardie del corpo; Tuxhorn, svegliato di soprassalto dal rumore, scenderà per controllare a sua volta quello che sta succedendo, staccherà tutti gli altri sistemi di sicurezza, ed a quel punto un altro membro della squadra entrerà, prenderà il dispositivo ed uscirà prima di essere scoperto. Noi lo aspetteremo in strada, con una macchina pronta a partire. Qualcuno si offre volontario?”.

Alle parole di Michael segue un lungo silenzio, perché nessuno è ansioso di cimentarsi in una operazione suicida; almeno finché non faccio appello a tutto il mio coraggio ed alla mia incoscienza.

“Mi offro io come volontaria. Penserò io a recuperare il dispositivo. C’è bisogno di qualcuno che sia agile e scattante, e credo di potercela fare” dico ad alta voce, sorprendendo tutti i presenti; Teddy, ovviamente, è contrario alla mia decisione, che considera troppo impulsiva e frettolosa.

“Stai scherzando, Nicole? Vuoi farti ammazzare?”

“No, voglio solo fare la mia parte”

“L’hai già fatta alla fermata dell’autobus, non c’è bisogno che ti esponi così tanto per la seconda volta nel giro di poche ore”

“Non sono una bambola di porcellana, non sono così fragile come pensi! Posso fare la mia parte e voglio farla. Posso introdurmi in quella villa ed uscire senza che Tuxhorn, o qualcuno dei suoi gorilla in giacca e cravatta, mi veda e mi faccia un buco in fronte, Teddy!” protesto, lanciandogli uno sguardo supplicante, perché non sono intenzionata a ritornare sui miei passi, e neppure lui può farmi cambiare idea; finalmente sembra capirlo, perché mi fa un cenno affermativo con la testa, ma le sue labbra sono ancora strette in una pallida linea sottile.

“D’accordo, ma verrò con te”

“No, andrò io con lei”.

Con mia enorme sorpresa, è l’ex agente dell’FBI ad offrirsi come mio braccio destro, al posto di Theodore; ed il mio compagno non reagisce affatto bene all’intrusione di Alexander.

“Ti ringrazio per l’interessamento, ma ho detto che l’accompagnerò io, non c’è bisogno della tua presenza, Alex”

“Questo è un lavoro per persone dotate di entrambe le mani. Per entrare nella proprietà privata saremo costretti a scavalcare il cancello e la siepe, come pensi di farcela con quella protesi? Finiresti per rallentare e compromettere l’intera operazione di recupero. Lo ha detto anche Nicole: ci vuole qualcuno di agile e scattante, e tu non possiedi nessuna di queste due qualità. Questa mattina, quando hai rubato quella borsa, sono stato costretto a rallentare, altrimenti ti avrei raggiunto subito”.

Se qualche giorno fa è stato Fernando a scagliarsi contro il mio uomo, adesso è il suo turno di perdere completamente il controllo; per fortuna riesco a posizionarmi davanti a Theodore prima che possa stringere la mano destra al collo di Alex e, per precauzione, Lincoln gli dà una spinta, in modo da allontanare di qualche passo i due.
“Non permetto ad un drogato di parlarmi così. E non dimenticate che quest’uomo era stato incaricato dalla stessa Compagnia di trovare ed uccidere gli Otto di Fox River”

“Adesso basta!” urlo, completamente esasperata dagli atteggiamenti del mio uomo “smettila, Teddy, mi hai stancata! Mi dispiace, ma in questo caso Mahone ha ragione. Nelle condizioni fisiche in cui ti trovi, non saresti altro che un ostacolo. È meglio se tu rimani in macchina con gli altri”.

Theodore spalanca gli occhi, mi guarda incredulo e, dopo qualche secondo, allontana da sé Lincoln con un gesto seccato, carico di rancore.

“Molto bene, come vuoi tu” mormora, con così tanta freddezza da lasciarmi spiazzata “ma se qualcosa dovesse andare storto, non venire a versare una sola lacrima tra le mie braccia”.

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Capitolo 38
*** Scylla; Parte Quattro (Nicole) ***


Odio litigare con Teddy.

Odio questo continuo ferirci a vicenda.

Ma, più di ogni altra cosa al mondo, odio il fatto di non avere il tempo necessario per parlare con lui con calma, chiarire ogni divergenza e fare pace con un bacio, perché il recupero del dispositivo ha la priorità assoluta; peccato che, proprio a causa di esso e dell’operazione Scylla, ogni momento trascorso insieme potrebbe essere l’ultimo per uno di noi due.

Ed io non voglio che a Teddy o a me accada qualcosa strappandoci, così, l’opportunità di porre rimedio ad uno stupido battibecco.

Mi arrampico in cima all’enorme cancello di ferro battuto, lo scavalco e mi lascio cadere dall’altra parte; Alex mi afferra prontamente e, dopo avermi posata a terra delicatamente, ci nascondiamo in una nicchia della siepe che circonda il cancello, in attesa del segnale per entrare in azione.

“Non appena Burrows farà scattare l’allarme, dobbiamo correre in direzione della porta d’ingresso ed aspettare che Tuxhorn, dall’interno, lo spenga momentaneamente. A quel punto entriamo, recuperiamo il dispositivo ed usciamo prima che qualcuno possa accorgersi della nostra presenza. Scavalchiamo di nuovo il cancello e saliamo in macchina, pensi di avere capito tutto?” Mahone ripercorre a bassa voce le fasi del piano che dobbiamo seguire; lo ascolto in silenzio, annuisco e rispondo con un semplice monosillabo.

“Sì”

“Devi restare concentrata, i problemi che ci sono tra te e Bagwell possono attendere… O temi che dopo questa notte possa non esserci un’altra occasione per chiarire?”.

Spalanco gli occhi e mi volto a fissare il mio partner, nonostante la semioscurità riesco a vedere un sorriso increspare le sue labbra.

“Come ci riesci?” mormoro, riferendomi alla sua innata perspicacia.

“Alcuni lo chiamano talento naturale, io preferisco definirlo spirito di osservazione. Non immagini neppure quante cose si possono capire di una persona con un semplice sguardo, senza che lei pronunci una mezza parola. L’espressioni del nostro viso, soprattutto quelle che facciamo a nostra insaputa, sono molto più rivelatrici di qualunque confessione fatta a voce. Il trucco sta nel non lasciarsele scappare. Tu ami quell’uomo, ma ci sono momenti in cui dubiti che questo sentimento sia ricambiato fino infondo, anche se non vuoi ammetterlo a te stessa… Ed hai paura che possa cambiare qualcosa tra voi due, se lui dovesse conoscere il tuo passato”

“Teddy conosce il mio passato, io stessa gliel’ho raccontato mentre eravamo in fuga” dico in un sussurro strozzato, senza riuscire a reprimere un brivido “abbiamo avuto un’infanzia molto simile, e questo è uno dei tratti che maggiormente ci accomuna. Sappiamo tutto l’uno dell’altra, di conseguenza non ha alcun senso quello che hai appena detto”

“Davvero? Sei davvero sicura che lui sappia ogni singola cosa, Nicole?” domanda Alex, guardandomi negli occhi, incatenandomi con lo sguardo, senza mai sbattere le palpebre; deglutisco a vuoto, con la gola improvvisamente secca, socchiudo le labbra e fortunatamente il suono dell’allarme attivato da Linc pone fine alla piega spinosa presa dalla conversazione.

Attendiamo qualche istante, il tempo necessario perché le guardie del corpo si spostino verso il lato destro della casa, usciamo dal nostro nascondiglio e raggiungiamo il più velocemente possibile la porta d’ingresso: grazie al vetro trasparente, riusciamo a vedere il quadro dei comandi dell’intero sistema di sicurezza.

Non appena la lucina lampeggiante rossa si spegne, sostituita da una verde brillante, entriamo nella villa e richiudiamo la porta senza fare rumore, muovendoci con passo felpato; abbiamo pochissimi minuti a nostra disposizione per trovare l’oggetto simile ad un comune cellulare, e dobbiamo fare attenzione a non imbatterci nel padrone di casa, altrimenti saremo letteralmente fottuti.

Percorro un piccolo corridoio guardandomi attorno, spostando lo sguardo sui diversi soprammobili, alla disperata ricerca del dispositivo, mentre Alexander fa lo stesso; mormoro qualche parola d’incoraggiamento, e per poco non mi lascio sfuggire un urlo quando finalmente lo trovo sopra ad un mobiletto, posizionato tra un mazzo di chiavi ed un altro cellulare.

Attiro l’attenzione del mio partner mostrandogli, trionfante, il dispositivo e lui, in risposta, dice che dobbiamo abbandonare immediatamente la villa, prima che Tuxhorn riattivi l’intero sistema di sicurezza e che la nostra presenza venga così svelata; annuisco con il capo, ma dopo aver mosso pochi passi mi rendo subito conto di non essere seguita: l’ex agente dell’FBI si è improvvisamente immobilizzato, ed il suo sguardo è fisso su una foto incorniciata che ritrae un bambino di sette anni.

“Alex, dobbiamo andarcene” cerco di risvegliarlo dallo stato di trance in cui è caduto, ma è tutto inutile: anche quando provo a tirarlo per un braccio, non ottengo alcun risultato.

“L’uomo che la Compagnia ha messo sulle nostre tracce è andato a casa della mia ex moglie in Colorado” mormora lui, senza distogliere lo sguardo dalla foto “ha ucciso nostro figlio a sangue freddo, senza battere ciglio, per colpire me. La Compagnia ha dato l’ordine di massacrare un bambino innocente, che non centrava nulla con tutto questo”

“E tu lo vendicherai distruggendo la Compagnia stessa. Ma se ora, invece, deciderai di prendertela con un unico individuo, manderai all’aria tutto quanto e tuo figlio non potrà mai riposare in pace. Non possiamo cambiare ciò che è già successo, ma possiamo evitare che altre vite innocenti vengano spezzate per colpa di un manipolo di pazzi, corrotti fino alle ossa. Ti prego, Alex, usciamo di qui finché siamo ancora in tempo, ormai ci restano pochi secondi”.

Finalmente Mahone ritorna in sé, e riusciamo ad uscire dalla villa poco prima che la luce lampeggiante torni ad essere rossa; scavalchiamo nuovamente il cancello e qualcuno della squadra apre la portiera posteriore sinistra del suv, permettendoci di entrare e di essere al sicuro.



 
Consegno il dispositivo a Michael, che a sua volta lo affida a Roland perché possa decifrare Scylla; mi volto appena in tempo per vedere Teddy uscire dal capannone e lo raggiungo vicino ad un vecchio container, mentre sembra intento ad osservare il mare.

“Adesso che abbiamo recuperato Scylla, dobbiamo solo occuparci della parte dell’irruzione al quartier generale della Compagnia: una volta fatta anche questa, saremo finalmente liberi e non dovremo più guardarci le spalle” sorrido, attendo una risposta, ma mi scontro con un muro fatto di silenzio “potresti dire qualcosa? Qualunque cosa, per favore? Questo silenzio mi sta uccidendo, soprattutto perché non è da te essere così taciturno”

“Che cosa vorresti sentirti dire? Che sei stata brava? Che tu ed Alex siete una coppia formidabile? Che non è affatto un’impresa impossibile fare irruzione in un edificio di cui non sappiamo assolutamente nulla? Ho così tante opzioni a mia disposizione che non so neppure da quale iniziare, quindi ti dispiacerebbe essere un po’ più chiara?”

“Sei ancora arrabbiato con me?”

“Non lo so, dimmelo tu, come mi dovrei sentire dopo quello che mi hai detto? Hai detto che sono inutile e lo hai fatto davanti agli occhi di tutta la squadra. Se il tuo scopo era quello di sfottermi, allora ci sei riuscita benissimo, Nickie” commenta Theodore, continuando a fissare il mare, rifiutandosi di posare lo sguardo sul mio viso; per qualche, breve, istante sento la rabbia ribollire nuovamente nelle mie vene, ma decido di ricacciarla indietro.

È inutile litigare proprio ora, anziché festeggiare per l’ottima riuscita dell’operazione, e poi non fa bene al nostro rapporto.

“Mi dispiace, non era mia intenzione sfotterti o… Ferire il tuo animo così sensibile”

“Ecco, vedi? Lo stai rifacendo anche adesso” ribatte prontamente il mio uomo, ma questa volta sposta lo sguardo su di me, segno che la tempesta è passata; lo prendo per mano e lo trascino dentro al container, socchiudendo il portone, lasciando appena uno spiraglio per far filtrare un po’ di luce “e adesso quali sarebbero le tue intenzioni?”

“Non voglio perdere tempo a discutere o in inutili discorsi di scuse che non hanno né un inizio né una fine, quando esistono modi molto più piacevoli per fare la pace. Diciamo che il piccolo fuoriprogramma dovuto al recupero del dispositivo di Roland mi ha fatto capire che ci troviamo in una situazione così delicata, che è da stupidi sprecare i pochi momenti che abbiamo a nostra disposizione” sussurro, avvicinandomi alle sue labbra “e dal momento che all’interno del capannone è impossibile avere un po’ di privacy ed intimità, anche durante la notte, dobbiamo crearceli da soli. È meglio se facciamo presto, potrebbero venirci a cercare in qualunque istante, e non ho voglia di dare delle spiegazioni imbarazzanti”

“E non ti eccita il fatto che potremo essere scoperti in qualunque momento, anche adesso?”

“Sì, terribilmente” sono costretta ad ammettere, ed indietreggio di qualche passo “proprio per questo ho lasciato la porta socchiusa. L’ho fatto apposta perché pensavo che rientrasse nelle tue corde”.

Non riesco ad aggiungere altro perché mi ritrovo bloccata contro una parete, con le labbra di Teddy premute contro le mie in un bacio passionale e possessivo; vado subito ad armeggiare con la zip dei suoi pantaloni, occupandomi poi dei miei, per facilitargli l’intera operazione e per fargli capire che non ho alcuna intenzione di perdere tempo in preliminari.

Lui comprende al volo e, anziché farsene un cruccio, asseconda il mio desiderio e mi penetra con una spinta quasi violenta, che mi strappa un gemito di piacere; anche se è trascorso poco tempo dall’ultima volta in cui abbiamo fatto l’amore, ai miei occhi sembra un’eternità.

Lo prego di non trattenersi, di lasciarsi completamente andare, e mi asseconda di nuovo, facendomi raggiungere l’apice del piacere con pochi, ma decisi, affondi; adesso è il mio turno di aggrapparmi alle sue labbra per un bacio urgente e profondo, che non può aspettare un solo secondo in più.

Quando mi allontano da lui, di pochi centimetri, mi perdo a guardare le sue iridi scure e sorrido.

“Non credere che la faccenda sia risolta così” sussurra, appoggiando la fronte sudata contro la mia “per il modo in cui ti sei comportata, e per le parole poco carine che mi hai rivolto, una sola volta non è sufficiente per farmi dimenticare tutto. Pretendo altro”

“Vedrai che tra non molto avremo tutto il tempo del mondo per scusarci a vicenda tra le mura di una comodissima camera da letto… O di una suite, con tanto di servizio in camera, bottiglia di champagne e vasca ad idromassaggio a nostra completa disposizione” ribatto a mia volta, ridendo insieme a Theodore.

Ci rivestiamo in fretta, ed altrettanto velocemente usciamo dal container; ma i nostri piano di rientrare nel capannone prima che qualcuno possa scoprirci, si frantumano nello stesso istante in cui mi scontro con Burrows.

I suoi occhi verdi passano rapidamente da Theodore a me, e ne capisco subito il motivo: ho le guance ancora paonazze, i capelli scompigliati e sicuramente qualche livido sul collo; Teddy, poi, non è in condizioni migliori perché ha la camicia per metà sbottonata e la zip dei pantaloni è ancora abbassata.

Prima che la situazione possa diventare ancora più imbarazzante, mi schiarisco la gola e domando a Lincoln se Roland è riuscito a decodificare la scheda.

“Sì” risponde lui, sorvolando sulle nostre condizioni pietose “ma qualunque cosa sia, non ci siamo proprio”

“Che vuoi dire?” chiedo, spalancando gli occhi.

“Tra poco lo vedrete anche voi, sono venuto apposta a cercarvi. Muovetevi, e cercate di essere presentabili” ci avvisa, lanciandomi un’ultima occhiata prima di rientrare nel capannone.

Lego i capelli in un nodo dietro la nuca, sistemo con cura la maglietta bianca che indosso, ed entro a mia volta nel nostro quartier generale, raggiungendo gli altri componenti della squadra radunati attorno a Glenn ed al suo portatile di ultima generazione; rivolgo, a mia volta, lo sguardo in direzione dello schermo, ma vedo solo una moltitudine di dati incomprensibili che scorrono velocemente.

“Che cosa significa?” domando, corrucciando le sopraciglia, mentre Theodore appare al mio fianco, dopo essersi sistemato i vestiti a sua volta, soprattutto la zip dei pantaloni.

“Cercherò di spiegarlo in modo che tutti voi possiate capire: se Scylla fosse una pizza, noi ne avremo solo una fetta. I dati sono incompleti, ma questo ha perfettamente senso… Come abbiamo fatto a non pensarci prima?” risponde Roland, scuotendo la testa, appoggiandosi allo schienale della poltrona.

“È come per i codici di lancio nucleare. Non vengono mai dati ad una sola persona” commenta, amareggiato, Mahone, passandosi la mano destra sul viso; improvvisamente ripenso all’appunto del padre di Michael e Lincoln, e trattengo il fiato perché non mi sembra più così assurdo.

“Michael” sussurro, guardando il giovane uomo “il verso dell’Odissea scritto su quel biglietto. Scylla era un mostro a sei teste, che richiedeva un sacrificio di sei uomini”

“Scylla non è una scheda. Si tratta di sei schede” mormora lui, lanciando il pennarello che ha in mano contro il tavolo, allontanandosi di qualche passo.

Nella squadra cala il silenzio assoluto, siamo troppo sconvolti da ciò che abbiamo appena scoperto per dire qualunque cosa.

“E come diavolo facciamo a trovare altre cinque schede simili a questa, senza avere la più pallida idea di dove iniziare?” domanda Theodore, esternando per primo il pensiero comune di tutti noi; si volta a guardare Michael, in attesa di una risposta, ma lui si limita a scuotere la testa ed a fissare il vuoto: per la prima volta da quando l’operazione è iniziata, lo vedo completamente sperduto.

“Non lo so. Chiamo subito Self e gli chiedo d’incontrarci immediatamente, perché questi non erano i patti. Voi rimanete qua, ed aspettate il mio ritorno” ordina alla fine; prende il suo cellulare, digita un numero ed esce dal capannone richiudendo la porta con un gesto secco, tanto che il tonfo sordo riecheggia nell’aria.

È così furioso che non vuole neppure essere seguito dal fratello.

Mi sposto in cucina per prepararmi qualcosa di caldo da bere e, mentre aspetto che l’acqua si scaldi, appoggio le mani sul bordo del lavandino; chiudo gli occhi e prendo una serie di lunghi respiri, finché non riesco a reprimere la nausea.

“Stai bene?”.

Nonostante le condizioni fisiche in cui mi trovo, riesco comunque a rivolgere un sorriso a Lincoln.

“Sì, sto bene, devo solo riprendermi dall’ultima novità. Credevo che mancasse solo la parte dell’irruzione al quartier generale della Compagnia, invece siamo cinque passi indietro. Con la prima scheda abbiamo avuto fortuna, perché per puro caso Mahone aveva visto l’autista di Tuxhorn, ma una cosa simile non può capitare una seconda, una terza, una quarta, una quinta ed una sesta volta, Linc. Come cazzo facciamo a recuperare altre cinque schede senza uno straccio di indizio dalla nostra parte? Perché ad ogni giorno che passa ho sempre di più l’impressione di essere finita in un labirinto senza via di fuga?” mormoro, rivolgendogli uno sguardo disperato “Self lo sapeva, lo sapeva sicuramente, ecco perché ha voluto noi. Mio dio, ma in che razza di gioco contorto siamo finiti?”

“Ehi, calmati” Lincoln si avvicina e posa entrambe le mani sulle mie spalle, guardandomi negli occhi “va tutto bene, non agitarti, hai sentito le parole di mio fratello? Chiederà spiegazioni a Self, e sono sicuro che riuscirà a trovare una soluzione anche a questo problema. Non dimenticare che c’è sempre una soluzione a tutto, d’accordo?”.

Annuisco, asciugandomi una lacrima ribelle che non sono riuscita a reprimere, e fermo il giovane uomo prima che possa uscire dalla cucina, perché mi sento in dovere di dargli delle spiegazioni riguardo all’incontro imbarazzante di poco prima.

“Per quanto riguarda quello che hai visto vicino al container… Ecco… Ti pregherei di non farne parola con gli altri, se non ti dispiace” sussurro, con un sorriso imbarazzato, sistemandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio destro.

“Nicole, ciò che fate tu e T-Bag nella vostra sfera privata non mi riguarda, ma forse è meglio se d’ora in poi imparate a reprimere i vostri impulsi sessuali, almeno fino a quando non avremo recuperato le altre schede. Ci sono già abbastanza dissapori nella squadra, non mi sembra il caso di crearne altri di nuovi”

“Ricevuto” mormoro, annuendo, senza provare a replicare alla ramanzina.

Lincoln esce dalla cucina proprio nello stesso momento in cui entra Teddy e, inevitabilmente, si scambiato una veloce occhiata.

“Perché Burrows era in cucina?” chiede subito, aprendo lo sportello del frigorifero.

“Aveva sete” rispondo; verso l’acqua calda in una tazza di ceramica e c’immergo la bustina di una tisana alle erbe “perché? Sei geloso anche di lui?”

“No, ma non vorrei mai che t’importunasse” commenta, richiudendo lo sportello del frigorifero perché ha trovato ciò che stava cercando: una di quelle barrette che tanto adora; si appoggia con la schiena ad un mobile e cerca di strappare la carta dello snack senza dover usare i denti “so che abbiamo già affrontato questo argomento diverse volte, ma visto che gli altri ne stanno discutendo, penso che dovremo farlo anche noi. Non mi piace questa storia, Nickie, più andiamo avanti e più scopro cose che non mi piacciono affatto”

“E cosa vorresti fare?” mi avvicino a lui, prendo la barretta e strappo la carta colorata, facilitandogli il compito.

“Quello che ti ho già detto: scappiamo, finché siamo ancora in tempo. Forse ben presto saremo così tanto nella merda, che non potremo più farlo”.

Chiudo gli occhi e sospiro.

Non ha ancora accantonato l’assurda idea di tagliare la corda.

“Teddy, non se ne parla e riguardo a questo sono inamovibile”

“Perché?”

“Perché scappare sarebbe la peggiore delle decisioni, proprio non riesci a capirlo? Gli uomini della sicurezza nazionale ci troverebbero in pochissimo tempo e contribuiremo solo a mettere nei guai gli altri. Pensi davvero che non ci sarebbero ripercussioni per l’intera squadra, se anche uno solo di noi dovesse decidere di abbandonare tutto? E poi, non mi sentirei sicura a sapere che c’è qualcuno, lì fuori, che vuole ucciderci”

“Non me ne frega nulla delle conseguenze che potrebbero subire gli altri… Perché t’importa così tanto di loro?”

“E perché a te non importa nulla di nessuno? Non vuoi dimostrarti diverso dall’idea che gli altri si sono fatti di te, Theodore?”

“Loro non cambieranno mai idea su di me, bambina, qualsiasi cosa io faccia. Potrei anche salvare la vita al piccolo pesciolino, al gorilla od alla bella dottoressa… Perfino al drogato, a Papi od al grasso maiale. Continuerebbero comunque a guardarmi con diffidenza ed a non fidarsi me. E comunque, non m’importa nulla di quello che pensano di me, e non ho tempo da sprecare nel vano tentativo di far cambiare idea a qualcuno di loro sei. Non rientra nelle mie priorità” commenta, facendo schioccare la lingua contro il palato.

“Ed io? Io rientro nelle tue priorità?” gli chiedo, a bruciapelo, guardandolo di sottecchi, per non lasciarmi sfuggire la più piccola sfumatura di espressione.

Teddy socchiude gli occhi, ed inclina la testa di lato, scrutandomi a lungo ed in silenzio.

“Perché mi fai questa domanda?”

“Non cercare di rigirare la situazione come fai di solito: rispondi e basta”

“Penso che la risposta sia ovvia, visto quello che ho fatto nelle ultime settimane per te, Nicole. O vuoi ancora rinfacciarmi ciò che è successo? Perché, in quel caso, ti ricordo che l’ago della bilancia non pende esclusivamente dalla mia parte. Io avrò pur sbagliato a reagire in quel modo così… Animalesco… Ma se l’ho fatto, è stato perché sono stato spinto a comportarmi così”

“Tu non… Tu non mi hai veramente perdonata, giusto? C’è una parte di te che ancora mi odia per quello che ho fatto, e lo capisco. Ma se proprio dobbiamo mettere tutte le carte in tavola, ricorda che non sono io quella che ha intrapreso una nuova relazione mentre aveva ancora in testa un’altra persona” dico, restituendogli la frecciatina, e voltandogli le spalle per non fargli vedere che ho gli occhi colmi di lacrime.

Sono stanca di questa situazione.

Ogni volta che ci avviciniamo l’uno all’altra, finiamo sempre per discutere ed allontanarci sempre di più.

Ed ho la terribile, profonda, paura che la fine dell’operazione Scylla possa combaciare anche con la fine della nostra relazione.

Sento un paio di braccia circondarmi i fianchi, mi giro e passo le mie attorno alle spalle di Teddy, nascondendo il viso nell’incavo del collo, inspirando il profumo della sua pelle.

“Scusami, sono stato uno stronzo” soffia, a poca distanza dal mio orecchio destro.

“Cavolo, dici sul serio? Questa devo segnarmela sul calendario, è la prima volta che ti sento dire una cosa simile” commento, senza riuscire a trattenere una mezza risata.

Questa è una delle parti migliori del nostro rapporto altalenante: anche se litighiamo spesso, poi ci basta poco per fare pace.

Il buonumore che è tornato a regnare tra noi due dura poco, e sparisce completamente quando Michael ritorna dall’incontro chiarificatore con Don Self; il viso serio e la mascella tesa non promettono nulla di buono.

“Self ha detto che non sapeva nulla delle sei schede e che l’operazione non è conclusa, dal momento che non abbiamo recuperato Scylla, ma solo una piccola parte” ci comunica, guardandoci uno ad uno negli occhi.

“Ma questi non erano i patti iniziali” protesta Teddy “l’accordo si basava su un’unica scheda. La nostra parte l’abbiamo fatta, adesso dobbiamo pensare a progettare l’irruzione e poi a ricostruirci delle nuove vite. Io non sono intenzionato ad alzare un solo dito per qualcosa che non rientra nell’accordo iniziale”

“L’accordo iniziale è cambiato, T-Bag, e possiamo fare ben poco con una sola scheda”

“Michael” interviene Mahone, avvicinandosi al minore dei due fratelli “per esperienza personale, so per certo che il governo tende a defilarsi quando qualcosa non va nel modo che aveva stabilito, di conseguenza la mia domanda è questa: anche se l’accordo è cambiato, la nostra ricompensa è ancora valida o è diventata carta straccia? Self ti ha assicurato che quella parte non ha subìto alcun cambiamento?”

“Pensiamo ad inventarci qualcosa per le schede e poi… Alex, torna qui. Non fare così, per favore” Michael s’interrompe perché l’ex agente dell’FBI gli volta le spalle ed esce dal capannone, senza lasciargli il tempo di finire la frase; nessuno prova a seguirlo e Lincoln di consiglia di lasciarlo perdere, perché è solo tempo sprecato, e di concentrarci sulla ricerca del prossimo custode.

“Forse abbiamo qualcosa da cui iniziare, anche se non è molto. Il mio apparecchio deve essere stato posato vicino al palmare di Tuxhorn, perché ha rubato tutte le informazioni presenti al suo interno. Compresi gli appuntamenti segnati nella sua agenda personale”

“E c’è qualcosa che fa al caso nostro?”

“Devi chiederlo alla dottoressa Tancredi, è lei che ha in mano i fogli stampati” risponde Glenn, indicando Sara.

“Non molto, però ho notato un particolare curioso. Guarda qui, Michael” Sara si avvicina al suo compagno e gli passa alcuni fogli “Tuxhorn segna qualunque appuntamento con una precisione quasi maniacale, eppure la pagina corrispondente ad oggi è completamente vuota, ad eccezione di questo piccolo asterisco. Che abbia a che fare con il nostro prossimo custode? Forse deve incontrare qualcun altro della Compagnia. Come spiegheresti, altrimenti, tutta questa segretezza?”

“Forse… Può essere… Ma mi auguro vivamente che sia così” mormora lui, strofinandosi una mano sul viso; il mio cuore inizia a battere più velocemente, perché è chiaro che la sua risposta evasiva nasconde qualcosa che non ha ancora avuto il coraggio di confessarci.

“Michael, c’è altro che dobbiamo sapere?” mormoro, anche se non credo di essere così ansiosa di conoscere la verità fino infondo.

Nella maggior parte dei casi, poi, si rivela ben peggiore di qualunque congettura.

“Self ha detto che abbiamo tempo fino a questa sera per trovare il prossimo custode. Se dovessimo fallire, torneremo tutti immediatamente in carcere”.
 

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Capitolo 39
*** 'Little' Snag; Parte Uno (Nicole) ***


Guardo per l’ultima volta il mio riflesso nel piccolo specchietto ovale che ho portato con me, e poi lo chiudo, riponendolo all’interno di una borsetta; salgo una rampa di scale mobili e passo, velocemente, davanti a Teddy, che non riesce a staccare gli occhi dall’appariscente scollatura del mio vestito.

“Attento, hai un rivolo di bava che ti cola dalla bocca” commento, a bassa voce, rivolgendogli un sorrisetto compiaciuto e facendogli l’occhiolino; mi avvicino ad una delle numerose casse dell’ippodromo, faccio una puntata e mi allontano in direzione di una caffetteria, mentre Bellick inizia un’accesa discussione con una cassiera, accusandola di avere fatto l’esatto opposto di ciò che le ha chiesto.

Mi accomodo davanti ad un tavolino e, nel giro di qualche secondo, vengo raggiunta da Lincoln; prende posto davanti a me, e mi porge un bicchiere di cartone.

Accetto la sua offerta con un sorriso e sorseggio il cappuccino caldo.

“Ti ricordi ogni fase?” mi domanda, concentrandosi sulla sua bibita calda.

“Sì” rispondo prontamente, cercando con lo sguardo il mio uomo “Bellick farà una scenata, in modo da attirare l’attenzione generale su di sé, mentre Sucre informerà alcuni degli uomini della sicurezza della presenza di un individuo molesto nella zona delle casse. Quando arriverà anche il direttore dell’ippodromo, Sara penserà a distrarre l’uomo che vigila davanti alla porta che conduce al suo ufficio, così Teddy e Mahone potranno posizionare il dispositivo di Roland sotto la scrivania”

“E nel frattempo, mentre le guardie ed il direttore cercheranno di placare le acque, io sistemerò questo nel cancelletto di Sparkle Kid” continua Burrows, mostrandomi una minuscola scatolina metallica “bloccherà per qualche secondo l’apertura del cancello, ed il nostro uomo correrà subito a chiedere spiegazioni al direttore nel suo ufficio. A quel punto il dispositivo inizierà a copiare la scheda, e quando avrà finito…”

“Mi occuperò di distrarre la guardia, permettendo ad Alex ed a Teddy di recuperarlo, e taglieremo la corda” concludo “ed a quel punto avremo nelle nostre mani anche la quarta scheda. Mio dio. Ce l’abbiamo quasi fatta, Lincoln, non mi sembra vero”

“Aspetta a cantar vittoria, la copia non è ancora nelle nostre mani e qualcosa potrebbe sempre andar storto. Sei davvero sicura di aver capito tutto?”

“Sì… Questo maledetto vestito è così scomodo” mormoro, lisciando una piega apparsa sulla stoffa azzurra “e questa parrucca è terribilmente urticante. Spero di andarmene il prima possibile, non vedo l’ora di togliermela”.

Non volevo indossare una parrucca, è stato Theodore ad insistere.

Ed è stato sempre lui a scegliere l’abito striminzito e scollato che indosso.

“A mio parere, non ti rende affatto giustizia. Sei molto più bella con addosso un semplice paio di jeans ed una maglietta”.

Prima che possa avere il tempo di ribattere, Lincoln si alza e si allontana per sistemare il dispositivo d’interferenza sul cancelletto di Sparkle Kid; lo guardo scomparire nella folla, ed inarco il sopracciglio destro, scuotendo la testa, incredula.

Lincoln Burrows ha provato a rivolgermi un complimento?

Decido di lasciar perdere lo strano comportamento del giovane uomo, e concentro lo sguardo su un enorme schermo che sta per trasmettere l’inizio della gara: quando l’arbitro spara in aria il colpo d’inizio, tutti i cancelletti si aprono in automatico, ad eccezione del numero otto, che resta bloccato per qualche secondo; anche se si tratta di un tempo relativamente brevissimo, in casi come questo può ribaltare l’esito dell’intera gara, ed il cavallo favorito può trasformarsi in quello perdente.

Vedo un uomo, in giacca e cravatta, rientrare dalle tribune e dirigersi verso l’area riservata al personale; e quando la guardia lo fa passare, senza bloccarlo o chiedergli un documento d’identificazione, sorrido compiaciuta: è lui, il custode della quarta scheda che compone Scylla.

Inizio a tamburellare le dita della mano destra sul tavolino, senza mai staccare gli occhi dalla porta; quando il custode ricompare, allontanandosi insieme al direttore, lancio un’occhiata in direzione di Teddy e di Mahone.

Con un semplice cenno, capiscono che è arrivato il mio momento.

Prendo il bicchiere, mi alzo e mi avvicino alla guardia, con la scusa di chiederle alcune delucidazioni sul cancelletto guasto; riesco a distrarlo quel tanto che basta per permettere a Theodore e ad Alex di entrare indisturbati per recuperare il dispositivo, ma non riesco a trattenerlo ulteriormente per consentir loro di uscire allo stesso modo: dopo avermi liquidata con qualche parola secca, l’uomo in uniforme torna nuovamente davanti alla porta.

“La prego, deve aiutarmi” insisto, appoggiandogli entrambe le mani sul braccio sinistro, tentando con la tecnica della seduzione “se il mio capo venisse a sapere che ho puntato molti più soldi di quelli che posso permettermi, sono finita. La prego, dovrà pur esserci qualcosa che può fare per me, mi aiuti. Non so neppure dove devo andare”

“Ed io le ripeto che non posso fare nulla per lei, signorina, deve parlare con le persone che lavorano alle casse. Se ne vada prima di aggravare la sua situazione”.

Lancio un’occhiata in direzione del riquadro in vetro che c’è nella porta: vedo Alex farmi qualche cenno e poi allontanarsi, insieme al mio uomo, nel corridoio, alla ricerca di un’uscita secondaria; stringo le labbra, sposto la mia attenzione sulla guardia e, in tono freddo, lo ringrazio per la sua gentilezza.

Mi allontano di qualche passo e vengo subito raggiunta da Lincoln, che mi afferra sottobraccio, esortandomi a proseguire più velocemente; gli rivolgo uno sguardo confuso, mentre lui si sistema con cura il berretto a visiera.

“Si può sapere che cosa stai facendo?”

“Due idioti che avevano scommesso su Sparkle Kid sono passati alle maniere forti. Qualcuno ha chiesto l’intervento della polizia, e gli agenti sono già arrivati. Se rimaniamo qui dentro un istante in più, siamo fottuti”.

Usciamo dall’ippodromo e ci ricongiungiamo con la squadra che ci sta aspettando in una zona appartata, all’ombra di alcuni alberi; mi guardo attorno, alla ricerca di Theodore, ed una morsa mi stringe la bocca dello stomaco.

“Dov’è ? Dov’è Theodore?” domando, ed inizio già a temere il peggio, almeno fino a quando non vengo sorpresa da una voce maschile e strascicata alle mie spalle.

“Sono qui”.

Mi giro di scatto, emetto un sospiro sollevato, ed abbraccio il mio compagno, stringendolo con forza.

“Avete recuperato il dispositivo?” chiede Michael, interrompendo bruscamente il nostro momento d’intimità.

“Sì, ce l’ha Alex”

“E dov’è Alex?”.

Teddy si guarda attorno, confuso almeno quanto lo siamo noi.

“Giuro che era dietro di me fino ad un attimo fa… Ne sono assolutamente sicuro… Non capisco” mormora, sbattendo più volte le palpebre.

“Ohh, no…” sussurro a mia volta, staccandomi da lui “è là”.

Tutti e sette guardiamo l’ex agente dell’FBI, in manette, scortato da due poliziotti e costretto a salire sui sedili posteriori di una volante.

“Lo hanno preso” commenta Theodore, con una smorfia amareggiata “ed ha con sé il dispositivo di Roland”.

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Capitolo 40
*** 'Little' Snag; Parte Due (T-Bag) ***


Appoggio la fronte sulla superficie del tavolo ovale e chiudo gli occhi, con la speranza di trovare un attimo di sollievo dal mal di testa che continua a perseguitarmi da diverse ore.

Anche se è passato appena un mese e mezzo dalla sbronza che mi è quasi costata la vita, e la detenzione a Sona, sarei pronto a dare qualunque cosa per avere una bottiglia di whisky in questo momento.

Perfino l’unica mano che mi è rimasta.

“Allora? Che cosa ha detto Self?” la voce lagnosa di Bellick non fa altro che restringere il cerchio che ho attorno alla scatola cranica “si sta adoperando per far uscire Mahone?”

“Ha detto che non può farlo e che abbiamo creato un bel casino” anche quella di Michael non contribuisce a migliorare la situazione.

“Cosa? Ma… Ma non è possibile! È riuscito a tirare fuori noi di prigione, che avevamo accuse ben più gravi, e non può fare nulla nel caso di Alexander, che è stato fermato per resistenza a pubblico ufficiale? Non capisco”

“C’è un’altra cosa che io non riesco a capire, invece. E vorrei avere qualche chiarimento riguardo al suo arresto”.

Il silenzio che segue mi costringe ad alzare la testa, e scopro di avere gli occhi dell’intera squadra puntati contro, in particolar modo quelli dell’ottuso gorilla.

“Scusa, stai parlando con me?”

“Credevo fosse ovvio”

“E quali chiarimenti vorresti avere riguardo al suo arresto, di grazia?”

“Vorrei che raccontassi ancora una volta come è successo”

“Ve l’ho già spiegato come si sono svolti i fatti: io ed Alex abbiamo cercato un’altra via di fuga, ma siamo stati visti da una guardia. Io sono riuscito a scappare, lui no. Punto. Fine della questione. È così difficile da capire?”

“No, assolutamente no, ma c’è un piccolo dettaglio che continua a sfuggirmi: perché tu sei riuscito a scappare e Mahone no?”

“Magari perché sono stato più veloce?” rispondo, con una breve risata divertita, ma Lincoln continua a fissarmi con uno sguardo truce, a braccia incrociate; spalanco gli occhi quando, finalmente, capisco che cosa si nasconde dietro le sue insistenti domande “oh, mio dio. Stai insinuando che Mahone sia stato arrestato per colpa mia? Che l’ho spinto appositamente tra le braccia dei poliziotti e poi ho tagliato la corda?”

“Sto solo valutando i dati che ho in modo oggettivo, e ciò che è successo mi suggerisce questo”

“Stai parlando sul serio?” chiedo, ancora incredulo “cazzo, ma sei proprio convinto di quello che hai detto! E secondo te sarei stato così stupido da tendere una trappola a Mahone, pur sapendo che era lui ad avere il dispositivo? Apri bene le orecchie, Burrows, e metti in funzione il cervello per una buona volta: se avessi davvero voluto fregare Alex, non pensi che mi sarei assicurato di prendere il dispositivo prima di tagliare la corda?”

“Come se a te importasse davvero qualcosa dell’operazione”

“Ragazzi, adesso basta!” esclama Nicole, interponendosi tra noi due, ed appoggia la mano destra sul mio petto “non è il momento migliore per litigare e per scambiarvi accuse reciproche. Mahone è stato arrestato, ed a meno che Self non decida d’intervenire in prima persona, possiamo fare ben poco per lui. Sapevamo che poteva accadere, era un’opzione che avevamo preso in considerazione fin dall’inizio”

“No, no, no” ribatto, allontanando Nickie con un movimento brusco, perché non sono intenzionato a lasciare la questione in sospeso “invece questo è il momento perfetto per mettere tutte le carte in tavola. Forza. Qualcun altro la pensa come Burrows? C’è qualcun altro che condivide ciò che ha detto?”.

Allargo le braccia, esasperato, in attesa di ricevere una risposta.

Incredibilmente, la prima a farsi avanti è Sara.

“Non possiamo confermare la supposizione di Lincoln, ma non abbiamo neppure prove per smontarla. Solo tu ed Alexander sapete come sono i fatti si sono svolti veramente, e noi possiamo sentire solo la tua versione, Theodore” afferma, guardandomi con freddezza, e Sucre non perde tempo a farle da eco.

“Vogliamo ricordare tutte le volte che ci hai voltato le spalle a Fox River? O quando sei scappato con i cinque milioni? O tutte le volte che hai provato ad uccidere qualcuno di noi? A Panama mi hai impiantato un cacciavite nella spalla sinistra! Non sei riuscito a trafiggermi in pieno petto solo perché sono riuscito a spostarmi in tempo! Per colpa tua sono stato rinchiuso a Sona e per poco non mi hanno calpestato vivo durante l’incendio che tu stesso hai appiccato!”

“Frena la lingua, Papi” ribatto, puntandogli l’indice destro contro, alzando la voce “da quando siamo evasi, ognuno ha sempre pensato per sé, ed io mi sono limitato a fare lo stesso. Vuoi dirmi che davvero quei cinque milioni sarebbero stati divisi in modo equo? Ohh, andiamo, a chi vuoi darla a bere, Sucre? Non avrei visto neppure un dollaro, se non vi avessi fregati. E ciò che è successo a Panama rientra nella categoria ‘legittima difesa’, dal momento che tu e Scofield volevate consegnarmi all’ambasciata americana. E per quanto riguarda Sona, te l’ho già spiegato una volta: se non avessi dato la colpa a te, quelle guardie mi avrebbero fritto i gioielli di famiglia. Avresti fatto lo stesso, se ti fossi trovato al mio posto, sei solo uno schifoso ipocrita! È vero, a Fox River ho giocato sporco più volte, ma perché voi per primi eravate impazienti di farmi fuori dalla squadra. E nonostante ciò, ho dimostrato più volte di avere spirito di squadra! Chi ha pensato al poker per racimolare i soldi per avere la cella di Scofield? E chi ti ha aiutato a pararti il culo da Bellick, quando dovevi richiudere il buco nella stanza delle guardie?”

“E ti aspetti davvero che tutti noi ti crediamo?” domanda Lincoln, avanzando nuovi ed assurdi dubbi “e chi ci assicura che finora non hai fatto nulla perché stavi aspettando il momento giusto? Un paio di giorni fa hai quasi aggredito Mahone, e per puro caso viene arrestato. Nessuno di noi era presente in quel momento, ad eccezione di te, T-Bag. Direi che i fatti parlano chiaro. Smettila con questa recita e dì la verità, sempre se hai le palle di farlo”

“Io non ho nulla da confessare, vuoi mettertelo in testa? Non sto remando contro di voi” ringhio, a denti stretti; nessuno è intenzionato a credermi, e così provo a giocare la mia ultima carta, invocando l’aiuto della persona che odio di più al mondo, che non ha ancora pronunciato una sola parola “bellezza, ti prego, dimmi che almeno tu non credi al mare di stronzate che continua ad uscire dalla bocca di tuo fratello. Tu lo sai che non sto assolutamente cercando di fregarvi. Che cosa ci guadagnerei? Io più di tutti voglio avere una fedina penale di nuovo candida, non credi? Ti ho dimostrato di essere in grado di collaborare sia durante il nostro soggiorno a Sona sia dopo l’evasione. Avanti, Michael, abbiamo trascorso intere settimane da soli. Tu ed io. Quante occasioni ho avuto per ucciderti, se davvero avessi voluto farlo? E se avessi voluto liberarmi di Mahone, non avrei fatto lo stesso anche con lui, anziché farlo cadere in una trappola e rischiare di essere arrestato a mia volta? Ormai dovresti conoscermi molto bene…”.

Scofield, senza aprire bocca, mi osserva in silenzio per qualche minuto.

La mia credibilità, adesso, è completamente nelle sue mani.

“È vero. Ci sono state occasioni in cui ti sei dimostrato collaborativo, ma perché dietro c’era sempre un tornaconto personale, quello che fai non è mai dettato da un disinteresse personale. Se non c’è qualcosa da guadagnare, non alzi un solo dito. Forse davvero, in questo caso, si tratta solo di un enorme malinteso e tu non c’entri niente con la cattura di Alex, ma la domanda che mi pongo è questa: se la Compagnia dovesse offrirti ciò che Self ci ha promesso, in cambio delle nostre vite, tu che cosa risponderesti?”

“Ingrato figlio di puttana!”urlo, rovesciando una sedia sul pavimento “giuro che questa me la pagherai, Scofield. Me la pagherai molto amaramente”.

Senza aggiungere altro, esco dal capannone a passo veloce e raggiungo la zona in cui sono accumulati dei vecchi container; la discussione mi ha nauseato così tanto che non voglio più vedere nessuno della squadra, almeno per le prossime ore.

Colpisco la parete di un container con un pugno, e sento una voce femminile esclamare il mio nome; Nicole mi raggiunge quasi correndo, con i capelli mossi dal vento e con il viso contratto in un’espressione preoccupata: prova a calmarmi, ma l’allontano nuovamente in modo brusco, perché sono furioso anche con lei, dal momento che non ha pronunciato una sola sillaba per prendere le mie difese.

“Teddy… Teddy, ti prego! Calmati, sei fuori di te dalla rabbia!”

“Certo che sono fuori di me dalla rabbia! Come dovrei reagire dopo le accuse infamanti che mi sono state rivolte? Mio dio, mi hanno fatto un vero e proprio processo! Mi hanno messo alla gogna!”

“Ti prego, così mi fai preoccupare”

“Potevi preoccuparti prima, adesso è troppo tardi. E ti ringrazio per non aver esitato un solo secondo per difendere il tuo uomo, sono commosso” commento, con una risata sarcastica, allontanandomi di qualche passo.

“Lo avrei fatto, ma non me ne hai lasciato il tempo”

“Ohh, non provare a mentirmi così spudoratamente, Nicole. Ti prego. Stai parlando con un criminale, non con uno stupido, quindi fammi il favore di non trattarmi più come tale, o potrei davvero perdere le staffe”

“D’accordo, scusami, ho sbagliato. Non era mia intenzione mancarti di rispetto, Theodore, ma cerca di calmarti, per favore, perché così non risolvi nulla. Ti prego. Prendi qualche respiro profondo e chiudi gli occhi”.

Provo a seguire il suo consiglio: chiudo gli occhi, prendo un paio di profondi respiri, ma quando sollevo le palpebre, mi sento esattamente come poco fa.

Profondamente incazzato ed in procinto di perdere il controllo.

“Schifosi ingrati. Ecco cosa sono: degli schifosi ingrati. Non appena qualcosa va storto, scaricano tutta la colpa a me perché sono il capro espiatorio perfetto. E avrei dovuto immaginare che Scofield non avrebbe preso le mie difese… Ma tu… Tu mi hai davvero deluso! Perché non hai detto nulla?”

“Gli animi erano così accesi che avrei solo peggiorato le cose, Teddy, ma ho intenzione di parlare agli altri non appena tutti si saranno calmati, e non appena lo sarai anche tu” ripete “io sono dalla tua parte…”.

La frase lasciata in sospeso mi fa socchiudere gli occhi.

“Ma? Su, avanti, continua”

“Davvero non c’entri nulla con l’arresto di Alex?”


“Ohh, mio dio!” esclamo, gridando di nuovo “fanculo! Stai dicendo che credi a quello che hanno detto loro? Non ti fidi delle mie parole?”
“Non sto dicendo questo, Theodore” si affretta a dire la mia compagna, tormentandosi il labbro inferiore “però non è un mistero l’odio che provi nei confronti di Alex. Adesso che siamo da soli, puoi dirmi cosa è successo all’ippodromo? Ti prometto che non dirò nulla agli altri e che non ti giudicherò, ma ho bisogno di sentire la verità”

“Ma io l’ho già detta la verità: l’arresto di Mahone è stata solo una spiacevole coincidenza, io non c’entro nulla”

“D’accordo, Teddy, ti credo. Forza, rientriamo”

“No, piccola, non sono intenzionato a muovere un solo passo ed a rientrare dopo il modo in cui sono stato trattato. Finalmente ho avuto la prova che aspettavo: non si fidano di me, mi odiano, di conseguenza perché dovrei continuare a sprecare il mio tempo per quelle persone e rischiare la vita per loro? Chi me lo fa fare? Nessuno. Fanculo Scylla, Self e la ricompensa che ci ha promesso, sempre se esista davvero: io mi chiamo fuori e tu verrai con me”

“Che cosa stai dicendo?” sussurra Nicole, spalancando gli occhi azzurri.

“Aspetteremo la notte e, quando tutti si saranno addormentati, ce ne andremo. Ohh, ovviamente dopo esserci sbarazzati di queste maledette cavigliere dotate di GPS”

“Sai che non possiamo farlo”

“Perché? Chi ce lo impedisce? Il piccolo pesciolino? Burrows? Don Self? Quando si accorgeranno della nostra fuga, ormai sarà troppo tardi. Avanti, Nickie, come puoi non volerlo anche tu? Come puoi credere alle parole di quell’uomo? Siamo le persone più ricercate d’America, non ci permetteranno mai di tornare ad essere liberi. Sai che cosa accadrà, se mai dovessimo recuperare le sei schede e riuscire a fare irruzione nel quartier generale? Verremo arrestati, rinchiusi in diversi carceri di massima sicurezza e Self si prenderà tutto il merito di aver sgominato l’intera Compagnia. Dobbiamo andarcene questa stessa notte” insisto, appoggiando la mano destra sul suo viso, e gioco l’asso che ho nella manica “e poi… Non dirmi che non hai notato quanto l’operazione Scylla sta avendo un impatto negativo sulla nostra relazione, Nickie. Ormai non facciamo altro che litigare. Ti ho già persa una volta, non voglio che accada ancora. Io ti amo, e voglio stare con te”.

Nicole mi passa le braccia attorno alle spalle, si alza in punta di piedi e mi posa un fugace bacio sulle labbra.

“Anche io ti amo, e non desidero altro che stare con te” mormora poi, con un sorriso che si spegne rapidamente “ma non da ricercata. Sono stanca di continuare a scappare e di vivere nella paura, Teddy. Voglio avere una seconda possibilità. Voglio avere una vita normale insieme a te. Non desidero altro che avere una bella casa, in quartiere tranquillo, dei vicini gentili e cordiali, un lavoro ben retribuito, e di costruire una famiglia insieme a te”

“Sai che non posso avere figli, abbiamo già affrontato questo argomento”

“Sì, lo so” sussurra la mia compagna, abbassando lo sguardo per qualche istante, prima di tornare a fissarmi “io voglio credere alle parole di Self, perché anche tu non vuoi farlo? Lo so che sei stato fregato tantissime volte ed hai paura che accada di nuovo, ma chi te lo dice che questa volta non sia tutto reale? Io ti credo, se mi dici che non hai colpe per l’arresto di Alex, che importanza ha quello che pensano gli altri? Mancano altre due schede da recuperare, siamo sempre più vicini alla fine, ti chiedo di fare un ultimo sforzo per me, e poi non vedrai mai più le loro facce per il resto della tua vita: Michael, Lincoln e gli altri diventeranno solo un ricordo sgradevole e lontano, che piano piano scomparirà, come se non fossero mai esistiti. Pensi di farcela, Theodore? In nome della nostra relazione, e del sentimento che provi per me, pensi di poter accantonare ciò che è accaduto e di fare un ultimo, piccolo, sforzo?”.

Emetto un profondo sospiro, ed appoggio la fronte contro quella di Nicole.

“Sì, penso di potercela fare”.

Lei mi sorride, io ricambio e le chiedo di essere lasciato ancora un po’ da solo per sbollire le ultime tracce di rabbia.

In realtà resto fuori per intere ore, e quando rientro è ormai notte.

Salgo al piano superiore del capannone, nella zona delle camere da letto, ed entro in quella che condivido con la mia compagna: la trovo profondamente addormentata, sdraiata sul fianco sinistro, rannicchiata in posizione fetale e con le mani nascoste sotto al cuscino.

Mi siedo sul bordo del materasso, le scosto con delicatezza una ciocca bionda dal viso, e la guardo a lungo, per imprimermi con chiarezza la sua immagine nella mia mente; poi, con cautela, slego la cavigliera e l’appoggio in corrispondenza del posto che di solito occupo io, e faccio lo stesso anche con la catenina a cui è appesa la mia fede nuziale.

Esito ancora qualche istante e poi, finalmente, abbandono il quartier generale, la squadra e l’operazione Scylla per sempre.

Ho chiuso con questa merda.

So che Nicole mi odierà per questo, non la biasimo, ma non potrà dire che sono un bastardo, insensibile, ed egoista, perché le ho dato la possibilità di tagliare la corda insieme a me.

E lei ha rifiutato.

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Capitolo 41
*** Adios, Angelita (T-Bag) ***


Busso due volta alla porta d’ingresso del piccolo appartamento e, quasi contemporaneamente, appare una ragazza dalla folta chioma corvina, che indossa una canottiera rossa ed una frusciante minigonna bianca; i suoi occhi scuri si spalancano a causa della sorpresa, mentre le sue labbra carnose si schiudono per emettere un gridolino eccitato.

Mi abbraccia con così tanto trasporto, cingendomi i fianchi con le gambe, che sono costretto a retrocedere di qualche passo per non perdere l’equilibrio e cadere a terra.

“Teodoro!” esclama, chiamandomi con l’orribile storpiatura del mio nome “sei proprio tu!”

“Sì, sono proprio io” rispondo, sciogliendo l’abbraccio “scusami se non sono riuscito a raggiungerti prima, ma qualche piccolo intoppo me lo ha impedito. Possiamo entrare? Il caldo di Panama mi sta uccidendo”.

Carmelita mi prende per mano, conducendomi dentro la piccola abitazione, e mi offre un bicchiere di limonata fresca, che ha preparato con le sue stesse mani; ne mando giù un paio di sorsi e chiudo gli occhi, facendo schioccare la lingua contro il palato.

Avevo proprio bisogno di rinfrescarmi la gola.

“Quando ho saputo dell’incendio a Sona, mi sono preoccupata tantissimo. E quando non ti ho visto arrivare, ho temuto il peggio. Dove sei stato per tutto questo tempo? Che cosa ti è successo?”

“Lunga storia, bambina. È una lunga storia che adesso non ho voglia di raccontare. Ho fatto un lunghissimo viaggio per tornare a Panama, e da te, e adesso desidero solo rilassarmi un po’, comprendi?” allungo la mano destra, le sfioro una ciocca di capelli e, con l’indice, percorro il contorno delle labbra della ragazza panamense; lei, in tutta risposta, sorride e m’invita a seguirla dentro una stanza che funge da camera da letto.

La stessa in cui, immagino, sia solita appartarsi con i suoi clienti.

Prendo posto sul bordo del letto, Carmelita si siede a cavalcioni sulle mie gambe, e la osservo mentre si occupa dei bottoni della mia camicia; dopo avermela sfilata, si concentra per qualche istante su di sé: senza mai staccare gli occhi dai miei, si toglie la canottiera rossa e slaccia il reggiseno, lasciandolo poi cadere sul pavimento.

“Ti piace quello che stai vedendo?” chiede, in un soffio, socchiudendo appena le labbra; sono costretto a deglutire prima di rispondere.

“Sì. Ho una confessione da farti: è dal primo momento in cui ti ho vista che desidero fare l’amore con te”

“Anch’io ho qualcosa da dirti: avrei voluto farlo già il giorno in cui mi hai salvata dalle guardie. E dentro di me ho quasi esultato quando mi hai detto che tra te e quella ragazza bionda non c’era più nulla da tempo”.

Il riferimento indiretto a Nicole mi coglie del tutto impreparato, ma mi riprendo in fretta; attiro a me l’ex amante di Lechero, e mi avvento sulle sue labbra, baciandole e mordendole con passione, lasciandomi cadere di schiena contro il materasso.

Lascio che sia lei a condurre il gioco, a dominarmi, perché, come io stesso le ho detto, desidero solo rilassarmi un po’ e dimenticare, almeno momentaneamente, le ultime settimane; trattengo il fiato quando la sento lasciarmi una scia di baci umidi lungo il petto e scendere sempre più in basso.

La prego di non fermarsi, per nessuna ragione al mondo, e lei asseconda la mia volontà, spingendosi a fare ciò che Nickie non ha mai avuto il coraggio di fare, a causa del troppo pudore: inizia a stimolare il mio membro con la punta della lingua, e quando finalmente lo prende in bocca, non riesco più a reprimere un gemito di piacere.

Non so come sia possibile, ma questa ragazza sembra essere in grado di leggere nella mia mente e di carpire i miei desideri più segreti; difatti, non appena finisce di soddisfarmi oralmente, mi prepara un bagno caldo e, quando mi abbandono contro il bordo della vasca, mi porta una bottiglia di birra e si offre per farmi un massaggio alle spalle, perché a suo parere sono troppo teso.

“Ahh, Carmelita” mormoro, sorridendo compiaciuto “sei proprio una donna da sposare. Mi domando come abbia fatto senza di te per tutto questo tempo. Neppure ricordo l’ultima volta in cui qualcuno si è preso cura di me in questo modo. Non sono abituato a ricevere così tante attenzioni, la tua dolcezza mi riscalda il cuore”

“E tu sei l’unico uomo a non avermi mai trattata come una bambola. Per tutti gli altri sono solo un oggetto da una botta e via”

“Ohh, dovrebbero solo vergognarsi. Non hanno la più pallida idea di quello che si sono persi. Meglio per me”

“Avresti voglia di raccontarmi che cosa ti è successo? Scusami se insisto così tanto, ma… Sei sparito per settimane intere, Teodoro, e ho avuto tanta paura che ti avessero ucciso”

“Piccola, ci vuole ben altro che un semplice incendio per farmi fuori. In passato mi sono trovato in situazioni molto più spinose” commento, mandando giù un altro sorso di birra ghiacciata “nelle ultime settimane sono rimasto coinvolto, mio malgrado, in una faccenda di cui non posso raccontarti molti dettagli perché ha a che fare con l’ufficio della sicurezza nazionale degli Stati Uniti: a me e ad altre otto persone è stato affidato il compito di recuperare sei schede contenenti dati importantissimi e segreti. Mentre ci stavamo occupando della quarta, io ed un altro della squadra siamo stati scoperti dalla polizia, e lui non è riuscito a tagliare la corda in tempo. E la colpa è stata addossata interamente a me. Quegli ingrati hanno avuto il coraggio di puntarmi l’indice contro e dire, addirittura, che era una trappola organizzata da me. Rispondi ad una mia domanda, Carmelita: tu a chi avresti creduto?”

“A te, senza il minimo dubbio”

“Esattamente ciò che volevo sentire” mormoro, uscendo dalla vasca; mi asciugo, mi rivesto e guardo il mio riflesso sulla superficie liscia di uno specchio ovale “hai ancora la borsa con i soldi? Quella che ti ho affidato quando sei venuta  a farmi visita a Sona?”.

La ragazza panamense annuisce, spalanca le ante di un armadio e mi porta un borsone da ginnastica, che contiene numerose mazzette di dollari verdi e fruscianti: tutto ciò che rimane dell’impero di Lechero; conto rapidamente i piccoli rotoli ed inarco il sopracciglio sinistro, incredulo, perché non manca un solo centesimo dai cinquantamila.

“Qualcosa non va?”

“No, sono solo sorpreso perché hai mantenuto la parola data. Sei la prima. Ecco, tieni” dico, porgendole un rotolo di banconote “come segno di gratitudine per la tua lealtà”

“Te ne stai andando?” domanda Carmelita, spalancando gli occhi scuri, mentre prendo il borsone, lo zaino che ho portato con me, e mi avvio in direzione della porta d’ingresso; s’interpone tra me ed il legno, nella speranza di farmi cambiare idea “ma sei appena arrivato, perché te ne vuoi andare? C’entra quello che mi hai raccontato? Perché non resti qui con me?”

“Vorrei tanto, piccola, ma proprio non posso. Almeno per il momento. Quelle persone mi hanno voltato le spalle alla prima occasione, non posso far finta di niente, devo ripagarle con la loro stessa moneta, e penso di avere già in mente il modo perfetto. Mi vendicherò di loro grazie a questo” frugo all’interno dello zaino e tiro fuori un libretto dalla copertina stropicciata, che lei osserva perplessa “un oggetto che pensano sia andato perduto per sempre, e che invece io ho tenuto nascosto come possibile asso nella manica”

“Un libro sugli uccelli?”

“Le apparenze spesso possono ingannare, mia cara” commento, riponendo il libretto in una tasca dei pantaloni “come si dice in spagnolo ‘piccolo angelo’?”

“Angelita”

“Allora… Adios, angelita” sussurro, posandole un bacio sulle labbra.

Ed esco dal piccolo appartamento, senza voltarmi un’ultima volta.

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Capitolo 42
*** Victim And Perpetrator (Nicole) ***


Lincoln mi raggiunge sul molo, e si siede affianco a me.

Provo così tanta vergogna per me stessa che non ho neppure il coraggio di guardarlo negli occhi, e continuo a fissare l’oggetto che ho tra le mani; aspetto che sia lui a dire qualcosa, ma quando il silenzio diventa insopportabile da sostenere, decido di spezzarlo per prima.

“Puoi dire tutto quello che vuoi, sai? Puoi anche dire ‘te l’avevo detto’, ne hai tutto il diritto”

“Non sono venuto qui per inferire”

“Perché?” domando, alzando finalmente il viso “è proprio quello che merito”

“Nicole, quello che è successo non è colpa tua”

“No, ti prego, non dire così. Non dire che la colpa non è mia perché è l’esatto opposto: la colpa è solo ed esclusivamente mia” ribatto, incapace di reprimere un singhiozzo dalla rabbia “sono la persona più stupida che esista sulla faccia della Terra. Avrei già dovuto capire tutto quando sono stata abbandonata per la prima volta, ed invece non l’ho fatto: quando mi ha chiamata, completamente ubriaco, sono partita subito per Panama, senza chiedermi se quello che stavo facendo fosse giusto o sbagliato. Sono scattata come un cagnolino ubbidiente e fedele”

“Nicole, il tuo lato razionale era offuscato dai sentimenti. Quando si tratta di amore, è più che normale commettere azioni impulsive”

“Ohh, sì, certo. Azioni impulsive che comprometteranno per sempre la tua vita. Karla, la mia unica amica, aveva provato a farmi aprire gli occhi, proprio come hai fatto tu, ma io ho volontariamente ignorato i consigli di entrambi… E cosa ci ho guadagnato? Solo l’ennesima mazzata sui denti” i miei singhiozzi si trasformano in un pianto di rabbia e delusione “io ho voluto credere alle sue parole, mi sono fidata di lui perché lo amavo. Avrei fatto qualunque cosa per stare a suo fianco, e gliel’ho dimostrato più volte. Ho gettato al vento la mia vita solo per stare insieme a lui, mi sono trasformata nella complice di un criminale, ho messo a tacere la mia stessa coscienza, mi hanno rapita ed ho rischiato di beccarmi un proiettile in fronte… Ma questo non è stato abbastanza per lui. Non lo è mai stato e mai lo sarà. E me lo ha dimostrato nel modo più diretto ed efficace”.

Dischiudo le dita della mano destra e mostro a Lincoln l’oggetto che ho sul palmo: la catenina dorata con la fede nuziale che appartiene a Teddy; o forse, alla luce degli ultimi avvenimenti, che apparteneva a Teddy.

Burrows guarda l’anello, e poi si concentra nuovamente sul mio viso: le sue iridi verdi esprimono compassione ed un enorme dispiacere; due sentimenti che contribuiscono sono ad accrescere la rabbia ed il disgusto che provo nei miei confronti.

Incredibilmente, in questo momento, non sento nulla per il mio ex compagno, ad eccezione di un vuoto che non so come colmare; posso davvero prendermela con lui per avermi prima illusa e poi abbandonata? No, non del tutto almeno.

Karla, Lincoln e Michael hanno tentato più volte di farmi aprire gli occhi e di mettermi in guardia, io non ho voluto ascoltarli e ora ne pago le conseguenze: Linc può andare avanti anche tutto il giorno ad affermare il contrario, ma né lui né nessun altro riuscirà a farmi cambiare idea.

La colpa è solo, ed esclusivamente, mia.

“Nicole… Nickie, posso chiamarti in questo modo?” domanda prima di proseguire “non essere troppo dura con te stessa. Stai dimenticando un particolare essenziale: stiamo parlando di T-Bag. Purtroppo quell’uomo è un bugiardo patologico molto convincente e lo ha dimostrato numerose volte. Sarebbe accaduto lo stesso a qualunque altra persona, hai solo avuto la sfortuna di essere stata proprio tu quella persona”

“E questo dovrebbe farmi sentire meglio? Dimostra solo quanto io sia profondamente stupida ed ingenua. Mi vergogno così tanto che non ho neppure il coraggio di rientrare nel capannone. Non riuscirò mai a guardare in faccia gli altri, non dopo aver difeso a spada tratta Theodore”

“Nessuno è arrabbiato con te”

“Mi dispiace, ma continuo a non sentirmi meglio”

“No, sono io a doverti chiedere scusa, ma purtroppo non sono mai stato bravo a consolare. Di solito è Michael a saperci fare con le parole, lui sa sempre dire la cosa giusta al momento giusto. Forse è meglio se torno dalla squadra, immagino che vorrai rimanere un po’ da sola, ho già combinato abbastanza danni”.

Poso una mano sul braccio sinistro del giovane uomo, stringendo appena la stoffa della manica, facendogli capire che non desidero affatto che se ne vada.

“Scusami, sono un mostro” mormoro, sforzandomi di sorridere e di essere gentile, perché lui non c’entra assolutamente nulla con ciò che è successo tra me e Teddy, come del resto tutti gli altri “e ti ringrazio per quello che stai cercando di fare, ma non me lo merito”

“Tu non sei un mostro, Nicole, adesso l’ho finalmente capito: anche tu, come tutti noi, sei solo una vittima. Mi dispiace non averlo capito prima e mi dispiace essere stato rude nei tuoi confronti. Ho detto cose di cui, adesso, mi pento”

“Non ti preoccupare. Io per prima non sono stata un esempio di gentilezza nei tuoi confronti”.

Lincoln mi rivolge un sorriso che, mio malgrado, ricambio; si alza e mi porge la mano destra, invitandomi a fare lo stesso.

Dopo un attimo di esitazione accetto, alzandomi a mia volta, ma non sono ancora pronta a tornare dentro al capannone, perché prima c’è una cosa che devo assolutamente fare; Theodore è stato fin troppo chiaro con il messaggio che mi ha lasciato: non ha solo troncato ogni rapporto con la squadra e l’operazione Scylla, ha fatto lo stesso anche con me, semplicemente perché mi sono opposta all’assurda decisione di abbandonare tutto e riprendere la vita da ricercati.

La nostra relazione, il nostro matrimonio, è definitivamente finita.

Sfilo la fede che indosso ancora all’anulare sinistro e la poso sul palmo della mano destra, affianco alla catenina del mio ex compagno, guardo i due gioielli brillare alla luce del sole e, senza ripensamenti, li lascio cadere in acqua, in un simbolico colpo di grazia.

Li osservo sparire tra i flutti, verso il fondo dell’oceano, mi asciugo le lacrime e finalmente sono pronta per tornare dagli altri insieme a Lincoln.

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Capitolo 43
*** Two Strangers (Nicole) ***


“Nicole? Nicole… Nickie, sei pronta?”.

Distolgo lo sguardo dallo specchio e mi volto a fissare Lincoln: ero così immersa nei miei pensieri che non l’ho neppure sentito entrare nella stanza; annuisco, distendo le labbra in un sorriso e mi concentro nuovamente sul mio riflesso, lisciando una piega immaginaria del tailleur nero che indosso.

Raccolgo i capelli in un nodo sulla nuca, che fermo con una molletta, e lascio che alcuni ciuffi mi ricadano ai lati del viso; muovo qualche passo all’indietro per osservare meglio l’opera finale, e solo allora rispondo alla domanda del mio interlocutore.

“Sì, credo di essere pronta. Come sto? Può andare bene questo completo, o è troppo rigido e formale?”

“Stai benissimo, credo che sia semplicemente perfetto per il ruolo che devi interpretare”

“Sospetteranno qualcosa?”

“No, ma se non te la senti puoi tirarti indietro in qualunque momento, non è troppo tardi. Sei sicura di farcela, o vuoi che me ne occupi io? Lo sai che per me non sarebbe un problema, anzi, me ne occuperei molto volentieri perché ho proprio bisogno di scambiare qualche parola con lui”

“Sì, lo so molto bene, ma non è il caso. Si tratta di una situazione molto delicata, che deve essere gestita nel migliore dei modi e senza tralasciare alcun particolare, ho paura che potrebbe finire con una scazzottata e non mi sembra il caso. Se dovessi andare al posto mio, Linc, non farebbe altro che provocarti per tutto il tempo, fino a farti raggiungere il punto di rottura. Con me sarà diverso”

“D’accordo. Andiamo”.

Lancio un’ultima occhiata al mio riflesso, seguo Burrows fuori dall’appartamento ed occupo il sedile anteriore destro di un grosso suv nero; per tutta la durata del tragitto non pronuncio una sola parola, limitandomi a tormentare un lembo di stoffa del tailleur, senza mai staccare gli occhi dal finestrino e dal paesaggio che scorre velocemente.

Quando arriviamo a destinazione slaccio la cintura di sicurezza, ma anziché aprire la portiera e scendere, mi copro il viso con le mani, sentendomi improvvisamente sopraffatta da una marea di sensazioni contrastanti; sento un braccio attorno ai miei fianchi, ma prima che Lincoln possa stringermi, scuoto la testa e gli appoggio la mano destra sul petto, facendogli capire che non ho bisogno di essere consolata.

“Sto bene, Linc, dico davvero. È stato solo un momento, adesso passa” mormoro, asciugandomi le lacrime prima che possano rigarmi le guance, rovinandomi così il trucco “sono solo una stupida. Quello che è capitato a me è una sciocchezza in confronto a ciò che è accaduto a Michael e Sara”

“Se hai bisogno di parlare, se hai bisogno di sfogarti, per qualunque cosa io sono qui, Nicole. E se non te la senti di entrare…”

“Ho detto a Michael che avrei pensato io a questa parte del piano, e non ho alcuna intenzione di tirarmi indietro all’ultimo minuto, non sono una codarda. Ho molto da farmi perdonare, a causa delle scelte sbagliate che ho fatto, questo è davvero il minimo per sdebitarmi. E poi…” deglutisco a vuoto “se non lo affronto di persona, guardandolo negli occhi, non riuscirò mai ad andare veramente avanti. Ho bisogno di alcune risposte e lui è l’unico che può darmele, solo a quel punto sarà tutto finito. Solo che…”

“Solo che? Solo che cosa?” m’incalza Lincoln, esortandomi a completare la frase.

“Solo che trovo tutto questo terribilmente ingiusto” commento con un sospiro “lo so, non mi dovrei lamentare visto quello che Sara e Michael stanno passando, visto che rischiano di non poter stare insieme per colpa delle accuse che pendono su di lei, del bambino che rischiano di dover dare in adozione… Eppure continuano a stare insieme, capisci? Loro si amano. Sono una coppia e continueranno ad esserla qualunque cosa accadrà. Lui la ama con tutto se stesso, e lo stesso vale per Sara. Non possono vivere l’uno senza l’altra, sono due anime complementari che si sono trovate… Perché non è stato così anche per me? Perché anch’io non merito di trovare una persona così? Perché anch’io non merito di vivere una storia d’amore simile alla loro?”.

Osservo Linc con la vista appannata a causa delle lacrime, in attesa di una risposta che possa strapparmi dal baratro di disperazione in cui sto cadendo; sento il bisogno di una mano amica, di una spalla su cui piangere, di un sostegno.

Mi sento in balìa delle onde del mare, in lotta per restare in superficie, a pregare perché qualcuno mi lanci un salvagente prima che sia troppo tardi.

Burrows appoggia la mano sinistra sulla mia nuca e mi attira a sé; le sue labbra si posano sulle mie in un bacio delicato, quasi timido.

Le muove piano, senza alcuna fretta, come se volesse assaporare il momento appieno; ma non appena acquista maggior sicurezza, sento la sua lingua farsi strada nella mia bocca, ed io l’accolgo senza alcuna ritrosia.

Per qualche minuto il silenzio che regna nel suv è interrotto solo dal rumore dei nostri sospiri; quando ci separiamo, abbiamo entrambi il respiro corto ed ansimante.

Il mio accompagnatore è il primo a prendere coscienza di ciò che è appena accaduto; si copre la bocca con una mano, appoggiandosi al volante.

“Scusami, non avrei mai dovuto farlo vista la situazione in cui ti trovi. Io… Sono stato terribilmente indelicato” mormora, dispiaciuto ed imbarazzato, senza sapere come continuare; scendo dalla macchina senza pronunciare una sola parola, perché anche io sto iniziando a realizzare ciò che è successo, e mi avvio con passo veloce verso l’imponente struttura che sorge dall’altra parte della strada: Miami-Dade.

Un penitenziario di massima sicurezza diviso in due ali: da un lato quella maschile e dall’altro quella femminile.

Un uomo in divisa mi chiede d’identificarmi e, solo dopo aver controllato in modo accurato i miei documenti, mi accompagna personalmente in una stanza vuota, utilizzata per le visite tra i detenuti ed i parenti, e mi dice di attendere per qualche minuto; quando la pesante porta blindata viene richiusa alle mie spalle, raggiungo uno dei tanti tavoli metallici e mi lascio cadere su una sedia.

Mi sento completamente esausta, e la parte peggiore deve ancora arrivare.

Per ingannare l’attesa, e combattere l’ansia, sciolgo il nodo ed inizio a giocherellare con la molletta colorata; anche se cerco di distrarmi in qualunque modo possibile, i miei pensieri vanno in automatico agli avvenimenti delle ultime settimane.

Siamo riusciti a portare a termine con successo l’operazione Scylla, ed a fermare la Compagnia, ma non senza risvolti negativi: Roland e Bellick non ci sono più, Lincoln e Sara hanno rischiato la vita e Michael, per un soffio, non è andato quasi all’altro mondo per colpa di un tumore nell’ipotalamo.

Le continue epistassi, difatti, erano dovute proprio a quello.

Don Self, alla fine, si è rivelato uno schifoso doppiogiochista: una volta recuperate le sei schede, se ne è andato con Scylla, lasciandoci un plico di fogli bianchi anziché i documenti con le nostre nuove identità, ed ha inscenato il suo omicidio con lo scopo di far ricadere la colpa su di noi.

E, come se tutto ciò non fosse già abbastanza sconvolgente, Lincoln e Michael hanno scoperto una terribile rivelazione riguardo la loro madre: non solo Christina Rose era ancora viva, ma ricopriva uno dei ruoli più alti all’interno della Compagnia, insieme a Jonathan Krantz, il Generale.

Alla fine io, Lincoln, Michael, Sara, Sucre ed Alex siamo riusciti ad uscire vivi da questa situazione solo ed esclusivamente grazie all’intervento di Paul Kellerman, un ex agente, pentito, della Compagnia: si è occupato di dare Scylla in mani sicure, ed ha procurato a tutti i membri ancora in vita della squadra delle nuove identità, dei nuovi documenti, ed una fedina penale immacolata.

Tutti i requisiti per poter iniziare, finalmente, una nuova vita.

E Michael e Sara hanno voluto farlo nel migliore dei modi: in riva al mare, su una spiaggia di Los Angeles, dinanzi a me, Lincoln e Sucre, si sono scambiati il fatidico ‘sì, lo voglio’ e sono diventati la signora ed il signor Scofield.

Ma il giorno più bello della loro vita si è rapidamente trasformato in un incubo ad occhi aperti quando, durante i festeggiamenti, sono arrivate due volanti della polizia, e alcuni uomini in divisa hanno prelevato Sara con la forza, dichiarandola colpevole di omicidio volontario.

Per quanto riguarda Theodore, anche lui si trova dietro le sbarre di una cella a Miami-Dade: dopo aver tradito la squadra una volta, ha ben pensato di farlo una seconda passando dalla parte del Generale, offrendosi come leccapiedi e tuttofare; e quando Kellerman ci ha chiesto che cosa doveva fare con lui, tutti, nessuno escluso, hanno concordato per rispedirlo in prigione, questa volta per sempre.

Sto ancora indugiando col pensiero sul mio ex compagno, e marito, quando lo vedo entrare, ammanettato e scortato da una guardia; sento un tuffo al cuore, e sono costretta a rivolgere lo sguardo altrove, soffermandomi su una piccola crepa che spicca su una parete grigia.

Theodore prende posto di fronte a me, la guardia gli toglie le manette e ci lascia finalmente da soli, ma non prima di averci ricordato che abbiamo solo mezz’ora a nostra disposizione; la porta si chiude con un tonfo sordo, distolgo lo sguardo dalla crepa e lo concentro sul viso del mio ex compagno, perché non posso continuare ad ignorarlo: le guance sono più scavate rispetto all’ultima volta in cui l’ho visto, ed i tagli che ha sulla fronte e sugli zigomi stanno iniziando a rimarginarsi.

Lo fisso in silenzio e lui fa altrettanto con un’espressione indecifrabile.

“Quando mi hanno detto che avevo ricevuto una visita da parte del mio avvocato, temevo che il Generale avesse organizzato una trappola per sbarazzarsi di me, visto che sembra essere piuttosto insofferente nei miei confronti, di conseguenza dovrei sentirmi sollevato dato che la mia interlocutrice sei tu e non un sicario pronto a freddarmi… Eppure non lo sono affatto. Anzi. Inizio a temere di essere appena caduto in una trappola ben peggiore” mormora, passandosi la lingua sulle labbra “a questo punto le opzioni sono due: o hai fatto un corso accelerato di giurisprudenza per essere davvero il mio avvocato, oppure ti ha mandata il piccolo pesciolino. E dopo quello che è accaduto nell’ultimo periodo, sono più propenso per la seconda opzione”

“Abbiamo solo mezz’ora a nostra disposizione, quindi ti prego di non farmi perdere tempo con discorsi privi di senso perché dobbiamo discutere riguardo a molte cose” congiungo le mani sopra al tavolo, imponendomi di smetterla di tormentare la molletta o il tailleur “non sono qui per prendere le tue difese, è stato Michael a mandarmi”

“Ma davvero? Non lo avrei mai immaginato”

“Noi… Ecco… Abbiamo bisogno di un favore da parte tua”.

Sulle labbra di Theodore appare un ghigno compiaciuto, che non promette nulla di buono.

“Un favore da parte mia… Un favore da parte mia” ripete, umettandosi di nuovo le labbra “se la memoria non m’inganna, l’ultima volta che mi sono trovato faccia a faccia con il pesciolino e quel gorilla del suo fratello maggiore, mi hanno comunicato che sarei ritornato in cella per il resto della mia vita, e mi hanno rifilato una gomma da masticare a forma di mano. Che uomo sarei se, adesso, non ricambiassi cotanta gentilezza”

“Ascolta, sei l’unico che può aiutarci”

“Mmhh, questo continua a non giocare a vostro favore. Potevate pensarci una seconda volta prima di spedirmi qui dentro a calci in culo, Nicole. Adesso non potete venire da me, chiedere il mio aiuto e pretendere che io accetti col sorriso sulle labbra, come se non aspettassi altro. No, non funziona in questo modo” Theodore appoggia la guancia sinistra sul palmo della protesi, ed abbassa la voce per non essere sentito dalla guardia al di là della porta blindata “ma se mi spiegassi nei minimi particolari quello che sta accadendo, forse potrei cambiare idea. A meno che tu non sia stata contagiata dalla stessa irritante mania di Michael di parlare per enigmi, piccola”.

Chiudo per qualche istante gli occhi, sospirando irritata per il nomignolo con cui mi ha chiamata e che mi fa ripensare a quando eravamo una coppia; estraggo un ritaglio di giornale dalla borsa che ho portato con me e lo passo al mio ex compagno: lui lo prende in mano, scorre rapidamente le fitte righe, ed emette un lungo fischio impressionato.

“Come puoi vedere, tu e Krantz non siete gli unici rinchiusi a Miami-Dade” spiego, congiungendo di nuovo le mani “Sara si trova nell’ala riservata alle donne. È stata arrestata con l’accusa di avere ucciso Christina Rose. Le autorità sono in possesso di un filmato di sorveglianza in cui è ripresa l’intera scena”

“E così la dolce dottoressa Tancredi non solo si è trasformata in una killer professionista, ma avrebbe anche eliminato la sua stessa suocera? E come sarebbe accaduto?”

“Michael non voleva consegnare Scylla a sua madre, lei stava per sparargli e Sara non ha avuto altra scelta. Tutto quello che devi fare è trovare un modo per azionare l’allarme antincendio domani sera alle sette e mezza. Quando tutto sarà finito, verseremo cinquemila dollari sul tuo conto bancario. Mi sembra una ricompensa equa, forse fin troppo generosa se dobbiamo considerare ciò che stavi per fare a Sara”

“E cosa avrei dovuto fare? Lasciarmi scappare un’occasione simile?”.

Di fronte alla risposta strafottente di Teddy, non riesco più a trattenermi: gli assesto uno schiaffo così forte e violento che l’eco risuona per tutta la stanza vuota; e nonostante il mio sguardo furente e risentito, lui non si scompone minimamente.

A fatica, e con un enorme sforzo, ritorno padrona del mio corpo.

“Perdonami, non avrei dovuto reagire così” dico, sforzandomi di sorridere perfino “in realtà, da una parte dovrei esserti grata per ciò che hai fatto. Sai perché? Perché mi hai dimostrato di essere esattamente come gli altri ti hanno sempre descritto. Sono davvero contenta di aver gettato le fedi nell’oceano, è stata la scelta più saggia che potessi mai prendere”.

Non so perché decido di rivelare questo particolare al mio ex compagno, forse perché spero di suscitare una qualunque reazione da parte sua, di vedere svanire quel ghigno arrogante, ma la sua espressione non cambia; inarca il sopracciglio destro e mi rivolge una domanda che è più dolorosa di una pugnalata allo stomaco.

“E quindi? Dovrebbe importarmene qualcosa?”

“No, naturalmente, perché a te non importa niente di nessuno e lo hai dimostrato in modo molto esplicito numerose volte, Theodore. Per esempio, quando hai deciso di abbandonare la squadra dopo avermi promesso che saresti rimasto, e che avresti fatto uno sforzo per ignorare tutte le accuse che gli altri ti rivolgevano” sento di essere vicina a perdere di nuovo il controllo, ma questa volta, anziché trattenermi, esplodo perché ho sopportato per troppo tempo in silenzio “non ti sei fatto scrupoli a tradire gli altri e non hai agito in modo diverso quando si trattava di me. Sei stato tu il primo a farmi capire che tra noi due era tutto finito, io non ho fatto altro che agire di conseguenza, ma potevi risparmiarmi le cazzate che hai sempre raccontato”

“E non pensi a me?”

“A te?” domando incredula “stai parlando seriamente, Theodore? Hai ascoltato almeno una delle parole che ho detto? Lo sai che il mondo non ruota attorno a te?”

“Dicevi di amarmi, Nickie, ma hai sospettato di me proprio come tutti gli altri. Quando ti ho chiesto di seguirmi, prima che potesse essere troppo tardi, hai rifiutato, e che cosa è successo, poi? Sbaglio o Self vi ha fregati tutti? Te lo avevo detto che una proposta così vantaggiosa non poteva essere reale, ma tu che cosa hai fatto? Hai dato ascolto all’uomo con cui volevi trascorrere insieme il resto della tua vita, oppure hai preferito dare retta a delle persone che conosci appena e che hanno provato più volte a darmi il benservito? Che cosa avresti fatto al mio posto? Come ti saresti sentita, Nickie?”

“Non chiamarmi così”

“Perché? Una volta ti piaceva, non dirmi che adesso ti disgusta. Non dirmi che anch’io ti disgusto”

“Molte cose che hai fatto mi disgustano” commento, rivolgendo lo sguardo altrove, perché non riesco più a sostenere il suo; sbatto più volte le palpebre per ricacciare indietro le lacrime e lancio un’occhiata all’orologio appeso sulla parete alle spalle del mio ex compagno: mancano poco più di cinque minuti allo scadere della mezz’ora a nostra disposizione “allora? Pensi di riuscire ad azionare l’allarme antincendio per cinquemila dollari?”

“L’amore della vita di Michael vale solo cinquemila dollari? Mi sarei aspettato qualcosa in più”

“Purtroppo è il massimo che abbiamo da offrirti”

“Ne voglio almeno seimila”

“Allora sei completamente sordo” ribatto con un sorriso freddo “ho detto che non possiamo offrirtene più di cinquemila, e mi sembra una cifra piuttosto consistente considerando il fatto che resterai chiuso in carcere per il resto della tua vita. Come pensi di spendere una cifra così alta dietro le sbarre di una cella?”

“Questi non sono particolari di tua competenza, Nickie: versate seimila dollari nel mio conto entro le sette di domani sera, ed avrete il vostro allarme antincendio. Provate a fregarmi ancora una volta, e non mi farò scrupoli a spifferare al direttore in persona ciò che avete intenzione di fare” Theodore sorride a sua volta, incurvando l’angolo sinistro della bocca, e proprio quando penso che la nostra conversazione sia conclusa, mi prende alla sprovvista con un’altra domanda diretta “verrai a trovarmi ancora?”.

Lo guardo negli occhi e, quando capisco che sta parlando seriamente, mi lascio scappare una risatina nervosa.

“Si tratta di una domanda retorica o devo davvero darti una risposta?” domando; la voce mi trema così tanto che sono costretta a fermarmi per deglutire prima di riprendere a parlare “Teddy, ormai non sei più un bambino da molto tempo, sei un adulto, ed in quanto tale devi prenderti la responsabilità delle tue azioni. Se la prima volta la colpa era di entrambi, adesso è solo ed esclusivamente tua”

“Tutti hanno diritto ad una seconda possibilità”

“Ma tu l’hai già avuta, Teddy, possibile che non te ne rendi conto? Hai avuto una miriade di seconde possibilità, ed ogni volta le hai sempre sprecate perché non sei in grado di uscire dal ruolo che tu stesso hai creato. Non sei in grado di gettare la maschera. Anche se… Anche se riuscissi a perdonarti, prima o poi mi volteresti ancora le spalle, ed io sono stanca di questo. Sono stanca di soffrire e di stare male per te, Theodore, non merito tutto questo. Questa è l’ultima volta che ci vedremo e riguardo a ciò sono inamovibile” dico senza mai riprendere fiato, togliendomi un enorme peso dalle spalle, incredula perché sono riuscita a trovare il coraggio di troncare definitivamente con il mio ex compagno.

L’uomo che amavo, o forse che credevo di amare.

Ora non ne sono più così sicura.

Lui stringe le labbra in una linea sottile, annuisce un paio di volte, sposta lo sguardo altrove e si morde la punta della lingua: si sta trattenendo, sta cercando di reprimere l’impulso di allungare la mano destra e di stringermela al collo; d’istinto lancio un’occhiata verso la porta, per accertarmi che la guardia sia ancora presente dall’altra parte e pronta ad intervenire in qualunque momento.

“Sai, non te l’ho mai detto, ma qualche settimana prima dell’evasione a Fox River ho ricevuto una visita da Susan, la mia ex compagna, ti ricordi di lei? Aveva bisogno di vedermi e di parlarmi, affinché sapessi quanto si sentiva tradita e delusa dal mio comportamento, perché durante la nostra storia non le ho mai raccontato chi fossi veramente. Durante quell’incontro, poco prima che se ne andasse, le ho detto che prima o poi sarei uscito, e che sarei andato a cercarla…” Teddy abbassa la voce e si sporge in avanti, i nostri visi quasi si sfiorano “volevo solo dirti che… Volevo solo dirti che sono già scappato da due penitenziari, ed anche senza l’aiuto di Scofield troverò il modo di evadere una terza volta. E quando quel giorno arriverà, verrò a cercarti, Nickie. Puoi assumere tutte le identità fittizie che vuoi, puoi anche trasferirti dall’altra parte del mondo, per me non è un problema: ho atteso cinque anni per parlare faccia a faccia con Susan, non dimenticarlo. So essere estremamente paziente”

“Abbi cura di te, Theodore, ne hai davvero bisogno” mormoro senza battere ciglio.

Ignoro completamente la minaccia che mi ha rivolto, raccolgo in fretta la mia borsa, mi alzo e mi allontano senza rivolgere un ultimo sguardo al mio ex compagno: ho paura di guardarlo negli occhi e di cedere ancora, di ritornare sui miei passi e ricadere nel circolo vizioso in cui sono stata intrappolata negli ultimi mesi.

Quando salgo in macchina chiedo a Lincoln di partire subito, perché voglio lasciarmi Miami-Dade alle spalle il prima possibile, ma dopo pochi metri gli ordino di fermarsi vicino al ciglio della strada; scendo dalla vettura, slaccio i bottoni del tailleur, e mi appoggio al cofano ansimando, sforzandomi di prendere una serie di profondi respiri.

Burrows mi raggiunge ed appoggia la mano destra sulla mia schiena: la sento scendere e salire lungo una linea invisibile delicatamente, e grazie a questa carezza riesco a riprendere il controllo senza dover chiamare il noveunouno per richiedere un’ambulanza; cerco di rassicurare il mio accompagnatore con qualche parola pronunciata con un filo di voce, ma lui non si lascia abbindolare così facilmente.

“Sei davvero sicura che vada tutto bene?” mi domanda con un’espressione preoccupata.

“Sì” confermo in un primo momento, ma poi cedo insieme a tutti i miei nervi “no, cazzo, non va tutto bene. Non c’è niente che va bene. È stato orribile, Linc, mio dio. È stato peggio di un incubo”

“Ti ha minacciata?” Lincoln mi afferra per le spalle, voltandomi “Nicole, ti ha minacciata? Che cosa ti ha detto?”

“Sì, lo ha fatto, ma non è stata questa la parte peggiore… Ci siamo detti cose terribili. Io ero fredda e distaccata, e lo era anche lui. Sembravamo due estranei, capisci? E non riesco a capire come sia possibile… Come possono due persone innamorarsi, stare insieme, sposarsi, fare l’amore, separarsi, tentare di stare insieme una seconda volta e poi trasformarsi in due completi estranei? Per tutto il tempo in cui abbiamo parlato, Lincoln, ho avuto l’impressione di avere davanti ai miei occhi un completo sconosciuto. Ma con chi ho avuto una relazione?”

“Non lo so, Nicole, non so davvero come rispondere alla tua domanda. Forse non esiste neppure una risposta” mormora Burrows, lasciandomi andare; appoggia le mani sui fianchi e si sofferma ad osservare la strada impolverata “credo che tu non abbia mai conosciuto il vero T-Bag, ma solo una delle sue tante maschere, ecco perché hai avuto questa sensazione. Quell’uomo è così abituato a fingere, mentire e manipolare che non è in grado di mostrare il suo vero volto, sempre se esista ancora”

“Dovrei odiarlo per avermi rovinato la vita, invece provo solo un’enorme pena per lui”

“Almeno ha accettato di collaborare?”

“Ohh, sì” rispondo, schiarendomi la gola “quando si tratta di soldi, Bagwell sa essere sempre molto disponibile e collaborativo, ma vuole avere seimila dollari ed io non ho la più pallida idea di come faremo a procurarci i mille che ci mancano. Riguardo a questo non sono riuscita a farlo ragionare: o versiamo sul suo conto la cifra che vuole, o andrà a spifferare ogni cosa e non riusciremo a tirare fuori Sara da Miami-Dade”

“Qualcosa c’inventeremo. Michael ha sempre la soluzione a tutto, sono sicuro che riuscirà a trovare un modo per sorvolare anche questo piccolo ostacolo. Quell’uomo non si smentisce mai, è sempre il solito figlio di puttana…” commenta Lincoln, senza più riuscire a trattenersi, pentendosene subito dopo “scusa, ho esagerato, non avrei dovuto chiamarlo così in tua presenza visto che… A proposito, come ha reagito quando gli hai detto…”

“Non gliel’ho detto”

“Credevo fosse una delle ragioni per cui volevi parlargli di persona”

“Sì, infatti era così all’inizio, ma poi ho capito che era inutile e che non avrebbe cambiato nulla. Va bene così. Gli ho detto che deve prendersi la responsabilità delle sue azioni, ed io sono intenzionata a fare lo stesso”

“Posso dirti che, a mio parere, hai preso la scelta migliore?”

“Sì, lo so” mormoro con un sorriso, stringendo la mano destra del mio accompagnatore “ma allo stesso tempo ho preso anche la più difficile”.

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Capitolo 44
*** The Best Choice (Nicole) ***


La scelta migliore non equivale sempre alla più semplice da prendere; nella maggior parte dei casi, anzi, corrisponde proprio alla più difficile.

Non so se ho fatto bene a non rivelare a Theodore il segreto che porto con me da diverse settimane ormai: ho provato in diverse occasioni ad affrontare l’argomento, ma ogni volta si è rivelato solo un enorme buco nell’acqua; non so se arriverà il giorno in cui mi pentirò profondamente della scelta che ho preso, ma in questo momento non sono intenzionata a fare un solo passo indietro.

Il nostro rapporto è irrecuperabile, lui stesso me ne ha dato la prova concreta rivolgendomi quella minaccia velata.

Se diventerà mai concreta? Non lo so e non voglio neppure pensarci, perché adesso le priorità sono altre e non hanno nulla a che fare con il mio ex compagno: io, Linc, Sucre ed Alex stiamo aspettando l’arrivo di Sara e Michael; alle nostre spalle sono parcheggiati due grossi suv, pronti per la fuga.

“Ehi…” sussurra Lincoln, a poca distanza dal mio orecchio sinistro “se continui a morderti il labbro in quel modo, finirai per farlo sanguinare”

“Scusami, sono agitata” rispondo, senza riuscire a staccare gli occhi dalla porta in metallo, da lontano giungono i suoni inconfondibili della sirena di una volante e del motore di un elicottero in volo “i minuti continuano a trascorrere e loro due non si vedono”

“Arriveranno a momenti, non preoccuparti”

“Lo spero” nello stesso momento in cui sussurro queste due semplici parole, Sara spalanca la porta e ci raggiunge correndo; si blocca davanti a noi quattro e si guarda attorno con gli occhi spalancati: ha un livido violaceo attorno all’occhio destro, mentre un secondo fa capolino sullo zigomo sinistro.

“Sara” mormora Burrows, interrompendo il silenzio, afferrandola per il braccio destro “dov’è Michael?”.

Lei si volta, guarda la porta, ma non risponde.

Linc ripete la domanda più volte, avvicinandosi al cancello che ci separa dalla porta metallica, ed Alex è il primo a pronunciare la frase che nessuno di noi ha il coraggio di formulare ad alta voce.

“Michael non verrà, Lincoln”

“No, no, non voglio crederci. Lui verrà”

“No, Lincoln, non questa volta. Vieni, dobbiamo andare, tra poco avremo la polizia alle costole”

“Linc, per favore, andiamo prima che sia troppo tardi” lo supplico a mia volta, stringendogli le mani attorno al braccio sinistro; lui continua a fissare l’edificio grigio, convinto di vedere comparire il fratello minore da un momento all’altro, ma quando si rende conto che non accadrà nulla di simile, a malincuore si allontana dagli anelli metallici del cancello ed occupa il posto di guida del primo suv.

Salgo a mia volta in macchina e, mentre ci allontaniamo, lancio un’ultima occhiata alla porta metallica con ancora la speranza di vederla spalancarsi; naturalmente ciò non accade, e ben presto Miami-Dade si trasforma in un puntino lontano.

 Le sirene della polizia ed il rumore dell’elicottero in volo lasciano spazio ad un profondo, innaturale, silenzio.
 

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Capitolo 45
*** Amen (T-Bag) ***


“Fermi! Fermi!” grido, puntando i piedi, rifiutandomi di muovere un solo passo in più “non potete farmi questo dopo il favore che ho fatto al direttore! Vi ho detto tutto ciò che sapevo riguardo all’evasione di Sara Tancredi! Perché sto pagando anch’io le conseguenze? Non c’entro nulla in tutto questo!”

“Hai chiesto di parlare con il direttore perché non hai ricevuto il pagamento che ti era stato promesso, Bagwell” ribatte con prontezza un secondino, strattonandomi per il braccio destro “ciò, ai sensi della legge, fa di te un complice. Resterai qui dentro, in isolamento, fino a quando non verrà organizzato il tuo trasferimento in una struttura più adeguata ad accogliere soggetti come te”.

Prima che abbia il tempo materiale per ribattere, vengo letteralmente spinto contro il pavimento di una misera cella d’isolamento, provvista solo di una brandina, un cesso, ed una finestra con le sbarre pressoché irraggiungibile; mi rialzo, mentre il porco in divisa chiude la porta blindata, e mi avvicino ad essa per sfogarmi: la prendo a calci e pugni finché non sento un dolore sordo provenire dalla mano destra.

Abbasso lo sguardo e vedo un rivolo di sangue scendere copiosamente da un taglio all’altezza delle nocche, alcune gocce scarlatte cadono sul pavimento, riempiendo il silenzio con il loro ticchettio: la beffa che si aggiunge al danno.

Stringo la mano a pugno e sfogo la mia frustrazione urlando a pieni polmoni il nome dell’uomo che, per l’ennesima volta, ha mandato a rotoli la mia vita.



 
Due giorni più tardi vengo ammanettato, prelevato dalla cella d’isolamento e caricato con la forza dentro un furgone blindato; sono così di pessimo umore che per tutta la durata del lungo, lunghissimo, tragitto non pronuncio una sola parola, ma quando finalmente arriviamo a destinazione, e scendo dal mezzo di trasporto, scoppio in una sonora risata perché non posso credere a ciò che i miei occhi vedono: dinanzi a me sorgono le imponenti ed inconfondibili mura di Fox River.

Tanta strada, tanta fatica, tanto sudore e tanto sangue per poi, a distanza di quasi un anno, ritrovarmi all’esatto punto di partenza con la sola differenza di avere un arto in meno.

Dopo essermi sottoposto alla solita routine costituita dal controllo medico e dall’assegnazione della divisa e del numero di matricola, vengo scortato all’interno del Braccio A e gli occhi di tutti i presenti si concentrano in automatico su di me; tra essi riconosco molte facce famigliari, ma non mi soffermo su nessuno in particolare perché non sono dell’umore adatto per riallacciare i vecchi ‘legami di amicizia’: come potrei mai esserlo, d’altronde, dal momento che io sono qui dentro mentre Scofield, Burrows ed il resto della loro allegra squadra sono liberi?

Per ironia della sorte vengo assegnato alla mia vecchia cella, la numero sedici.

Casa dolce casa, no?

Mi lascio cadere sulla brandina inferiore e chiudo gli occhi, passandomi la mano destra sulle palpebre; non passa molto tempo, però, che sento qualcuno bussare sulle sbarre della porta ancora spalancata: quando sollevo le palpebre, e giro il viso verso sinistra, vedo alcuni componenti del mio vecchio gruppo di fedelissimi, compreso Trockey.

Sono particolarmente sorpreso di vedere lui, dato che a causa mia è stato ingiustamente incolpato dell’omicidio di Bob.

“Sei venuto per vendicarti?” gli domando; mi alzo dalla brandina e mi appoggio alla parete alla mia destra, incrociando le braccia “perché ti assicuro che non avresti ugualmente scampo, anche se sono disarmato e sprovvisto di una mano, quindi ti consiglio di riflettere meglio su ciò che sei intenzionato a fare e tornare sui tuoi passi finché sei ancora in tempo”

“Non sono qui per rivangare il passato, e poi credo che tu abbia già pagato anche se in modo indiretto: ti hanno tagliato una mano e sei stato sbattuto nuovamente in questo buco merdoso” Chris mi allunga un giornale arrotolato “diciamo che ho portato con me un’offerta di pace”.

Lo guardo a lungo negli occhi prima di prendere il giornale ed allontanarmi di un passo: anche Abruzzi mi aveva offerto una tregua momentanea, e l’unica cosa che ho rimediato è stato un arto amputato con un’accetta.

Srotolo il quotidiano e, con mia enorme sorpresa, trovo non uno, ma bensì due regali: un cacciavite lucido ed appuntito, pronto all’uso, ed un articolo in prima pagina, a caratteri cubitali, che m’informa della tragica dipartita del piccolo pesciolino, avvenuta nel corso dell’evasione di Sara.

Per la prima volta, nelle ultime quarantotto ore, sulle mie labbra appare un sorriso estremamente compiaciuto.

“Ohh, ragazzi” commento, prendendo un profondo respiro, sorridendo ancora più apertamente “prendetemi pure per pazzo, ma credo che questo sia il giorno più bello della mia vita. Sono davvero contento di essere tornato a Fox River”

“Allora sarai ancora più contento dopo ciò che sto per dirti: ieri mattina è arrivato un nuovo carico di carne fresca. Se lo desideri, per festeggiare, posso procurarti un nuovo compagno di cella. Così non sarai costretto a passare la notte completamente solo, T.”

“Amen!” esclamo con una risata compiaciuta, facendo schioccare la lingua contro il palato “e così sia”.

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Capitolo 46
*** Epilogo: I Feel So Alone... (Nicole) ***


Lincoln parcheggia la macchina vicino ad un vialetto; gira la chiave, spegne il motore e stringe con forza il volante per sfogare la rabbia che, a quattro giorni di distanza, continua ad artigliargli il petto e lo stomaco.

Appoggio la mano sinistra sul suo braccio destro, risalgo lentamente e mi soffermo sulla guancia, accarezzandogliela con delicatezza; contemporaneamente lui apre gli occhi e mi rivolge uno sguardo carico di dolore e rammarico: si considera responsabile per ciò che è accaduto e non riesco a fargli cambiare idea.

“Perché lo ha detto ad Alex? Perché non mi ha detto nulla riguardo a ciò che era intenzionato a fare? Era mio fratello…”

“Perché sapeva che ti saresti opposto, e quello era l’unico modo per permettere a Sara di scappare” mormoro “Michael aveva fatto degli esami ed i risultati parlavano chiaro: il tumore non se ne era andato del tutto, aveva ripreso a crescere e ben presto lo avrebbe ucciso. Sapeva che gli rimaneva poco tempo a sua disposizione, e così ha voluto sacrificare la sua vita per permettere a Sara ed al loro bambino di costruirsene una nuova”

“Diceva sempre che c’era una soluzione a tutto e che c’era sempre un modo per sistemare le cose. Mike ha fatto così tanto per me, ed io, invece, non sono neppure riuscito a proteggere la mia famiglia. Se in passato non fossi stato così stupido, adesso…”

“No!” esclamo, spalancando gli occhi “non azzardarti a terminare la frase! Togliti dalla testa la malsana idea che la colpa è tua, Lincoln, perché non è affatto così. Il tuo arresto non ha nulla a che fare con quello che è successo a Michael, perché la malattia aveva già iniziato a svilupparsi quando è arrivato a Fox River, purtroppo doveva accadere. Né tu, né Sara, né io avremmo potuto fare qualcosa per impedirlo. Ti prego, non vivere nel rimorso, perché finirà solo per avvelenare la tua esistenza. Dobbiamo essere grati per la seconda possibilità che ci è stata concessa, e dobbiamo godercela fino infondo. Sono sicura che Michael la penserebbe allo stesso modo, e se in questo momento potesse vederti, sarebbe molto arrabbiato. LJ, Sara ed il bambino che aspetta hanno bisogno di te”

“Ed io non sono intenzionato a deluderli” sussurra Linc; prende la mia mano, la stringe nelle sue e se la porta alle labbra, prima di lasciarmi andare “che cosa farai adesso?”

“Chiederò a Karla di ospitarmi per qualche giorno, e quando mi sarò ripresa penserò a ricostruire la mia vita da zero, mattone dopo mattone. Molto probabilmente me ne andrò via da Chicago, qui ci sono troppi ricordi che mi tengono ancorata al passato”

“Se pensi che questa sia la soluzione migliore, allora hai il mio completo appoggio, Nickie” questa volta è Burrows ad appoggiarmi una mano sul braccio sinistro, per infondermi coraggio “immagino che tu abbia bisogno di un po’ di tempo per te stessa, per riorganizzare le idee, ma per qualunque cosa non esitare a chiamarmi”.

Mi allunga un bigliettino su cui ha scritto un numero di cellulare; lo prendo e lo ripongo con cura in una tasca dei jeans.

“Grazie, Linc”

“Ricordati che io ci sarò sempre per te, per qualunque cosa” dice, afferrandomi il volto con le mani “ed anche se adesso vale ben poco, sappi che mi dispiace terribilmente per tutto quello che hai passato. Non meritavi di soffrire così tanto, Nicole, mi dispiace davvero tanto”

“Nessuno di noi meritava di soffrire così tanto. Grazie, Linc, ti auguro il meglio. Salutami Sara ed il bambino, dille che tutto andrà bene”

“Lo stesso vale per te, Nickie: andrà tutto bene”.

Sorrido un’ultima volta al giovane uomo, scendo dalla macchina e la osservo allontanarsi; alzo la mano destra, in segno di saluto, e resto immobile sul marciapiede finché la vettura non si trasforma in un puntino lontano e indistinguibile dalla linea dell’orizzonte, solo allora abbasso il braccio e percorro il vialetto affiancato da un giardino ben curato.

C’è stato un momento, in macchina, in cui avrei voluto baciare Lincoln, e so che lui avrebbe voluto fare lo stesso, ma sarebbe stato solo un grave errore; ora ho bisogno di schiarirmi le idee, di pensare per un po’ a me stessa e di capire da dove iniziare per costruire una nuova vita: quando avrò risolto questi problemi, chiamarlo sarà la mia priorità.

Prendo un profondo respiro, suono il campanello ed indietreggio di un passo, in attesa di una risposta dall’interno dell’abitazione; quando apre la porta, Karla si copre in automatico la bocca con le mani, talmente è tanta la sorpresa di vedermi viva ed in perfetta forma fisica, con tutte le parti del corpo ancora al loro posto.

“Oh, mio dio!” esclama, senza fiato, abbassando lentamente le mani “Nicole, sei davvero tu?”

“Sì, sono davvero io” confermo con un sorriso; Karla mi afferra per il polso destro, trascinandomi letteralmente dentro casa, e mi stringe in un abbraccio caloroso.

“Oh, mio dio!” ripete per la seconda volta, allontanandosi da me, squadrandomi da capo a piedi “oh, mio dio! Credevo che non ti avrei mai più rivista! Sei sparita per mesi, dove sei stata? Ho letto sul giornale…”

“Sto bene. Non sono più una ricercata, Karla, è tutto finito”

“Che cosa è successo? Te la senti di raccontarmelo?”

“No” mormoro, scuotendo la testa “scusami, ma in questo momento proprio non ci riesco. Ti prometto che anche questa volta ti darò le dovute spiegazioni, ma prima devo riprendermi. Dimmi che capisci ciò che intendo, per favore”.

La mia ex collega annuisce in silenzio, mi fa accomodare sul divano e, dopo essere sparita in cucina, ritorna con in mano due tazze fumanti di cioccolata calda; me ne allunga una, ed io la ringrazio con un sorriso: per la seconda volta, nell’arco di qualche mese, Karla mi sta offrendo il suo aiuto senza chiedere nulla in cambio e senza alcuna reticenza.

Non potrei desiderare un’amica migliore di lei, e decido finalmente di dirglielo.

“Sei mia amica, e le amiche si aiutano sempre nei momenti di bisogno” risponde con un sorriso, prendendo posto a mio fianco; si rigira la tazza di ceramica tra le mani e lancia un’occhiata in direzione della porta d’ingresso “lui non…”

“No”

“Stai dicendo che è…”

“No, assolutamente no, è vivo. Lo hanno arrestato a Los Angeles, e di recente è stato trasferito a Fox River” commento, mandando giù un sorso di cioccolata “da un lato lo trovo terribilmente buffo… Così tanta strada per poi tornare al punto di partenza. Forse è davvero destinato a trascorrere là dentro il resto dei suoi giorni”

“Quindi… Sei riuscita a trovarlo?”

“Sì, sono riuscita a trovarlo ed a parlargli… In verità abbiamo trascorso diverso tempo insieme e…” le mani iniziano a tremarmi così tanto che sono costretta ad interrompere il racconto e ad appoggiare la tazza sopra ad un tavolino; le congiungo, stringendole con così tanta forza che le nocche diventano bianche, e prendo un profondo respiro ad occhi chiusi per ritrovare il controllo del mio corpo.

La mia unica amica mi passa il braccio sinistro attorno alle spalle, per darmi conforto.

“Nicole” sussurra subito dopo “se non te la senti di parlarmi di lui, possiamo rimandare anche questo a quando ti sarai ripresa del tutto, non preoccuparti”

“No, tranquilla, ce la faccio, anche perché non c’è molto da raccontare: abbiamo avuto modo di chiarire ciò che aveva portato a dividerci e la nostra storia è ricominciata da zero. Pensavo fosse cambiato davvero questa volta, mi aveva fatto tante promesse, invece alla prima buona occasione mi ha abbandonata e se ne è andato. Quando è stato arrestato a Los Angeles, sono andata a trovarlo in carcere perché avevo bisogno di chiarire alcune cose e… Mi ha minacciata. Mi ha detto molto chiaramente che troverà ancora una volta il modo di evadere e la prima cosa che farà, una volta libero, sarà di venirmi a cercare”

“Questo non accadrà, sono sicura che a Fox River prenderanno tutte le precauzioni necessarie per evitare che si verifichi di nuovo una fuga! Forse lo metteranno in isolamento, a questo non hai pensato?”.

Sorrido mestamente.

So cosa sta cercando di fare Karla: vuole rassicurarmi in qualunque modo possibile, ma lei non conosce Theodore quanto lo conosco io.

“Lui mantiene sempre le sue promesse. Riuscirà ad uscire di lì in un modo o nell’altro, presto o tardi… Mio dio…” mi copro gli occhi con entrambe le mani, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, piegandomi in avanti “come abbiamo potuto ridurci in questo modo? Tutti i progetti che avevamo fatto su una vita insieme, lontano dall’Illinois, sono svaniti in un attimo, come se non fossero mai esistiti. Quando ho parlato con lui in carcere, quasi non lo riconoscevo. Per tutto il tempo ho avuto l’orribile sensazione di avere un completo estraneo davanti ai miei occhi. Chi è l’uomo di cui mi sono innamorata, Karla? Esiste davvero oppure è sempre stato un’illusione? Una maschera?”

“Mi dispiace tanto, Nickie, ma temo che la realtà sia proprio questa: ti sei innamorata di una persona che non è mai esistita. Mi dispiace davvero, non meriti di soffrire così tanto”

“No, ti prego, non dirlo anche tu. Negli ultimi giorni tutti mi ripetono che la colpa non è mia, ma non è affatto così. Potevo ignorare i suoi complimenti, le sue avance, i suoi sorrisi… Potevo ignorare tutto, ma non l’ho fatto. Tu stessa avevi provato ad avvisarmi numerose volte, a farmi tornare sui miei passi, ma ti ho volontariamente ignorata. Anche la mia testa continuava a dirmi di scappare il più lontano possibile da lui, di non credere alle bugie che mi raccontava, ma non l’ho fatto perché volevo crederci. Avevo bisogno di crederci” mi alzo dal divano e raggiungo una finestra; incrocio le braccia, mi appoggio con la spalla sinistra ad un mobile e guardo una coppietta che sta passeggiando, mano nella mano, sul marciapiede dall’altra parte della strada: per un solo istante, vedo me e Teddy al posto dei due ragazzi “non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere, e non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire”.

Nel salotto cala un improvviso silenzio, interrotto dopo qualche minuto da una domanda che formula Karla.

“Nicole, che cosa hai intenzione di fare adesso? Voglio dire…”si schiarisce la gola “che cosa farai una volta che ti sarai ripresa? Hai intenzione di rimanere a Chicago o vuoi trasferirti in un altro Stato? Andrai a trovare Bagwell in carcere?”

“Non lo so” rispondo, voltandomi, con le lacrime che mi rigano le guance “non ho la più pallida idea di quello che farò. Ogni volta che pensavo al futuro, vedevo sempre Teddy al mio fianco. Ma adesso è tutto cambiato e non so neppure da dove iniziare. Mi sento sola, Karla, mi sento sola ed abbandonata. Ed ho paura. Ho paura di non essere abbastanza forte per affrontare ciò che mi aspetta. Ho paura di combattere una guerra che è già persa in partenza”

“Questo non accadrà, tesoro” ribatte prontamente la mia ex collega; si alza a sua volta dal divano e mi abbraccia per la seconda volta, per confortarmi ancora “ricorda che il sole torna sempre a brillare dopo una tempesta, per quanto essa possa essere violenta e distruttiva. Quel momento arriverà anche per te, Nicole, molto prima di quello che adesso immagini, d’accordo?”

“D’accordo” annuisco, sforzandomi di sorridere, e mi asciugo le lacrime con l’indice destro “hai ancora la ricetta per preparare quei deliziosi pancakes? Sono così affamata che potrei mangiare per due persone”.

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