Occhio per occhio

di fedegelmi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte uno ***
Capitolo 2: *** Parte due ***
Capitolo 3: *** Parte tre ***



Capitolo 1
*** Parte uno ***


Questa storia partecipa alla “Soulmate Challenge” indetta sul gruppo facebook “Il Giardino di Efp”
Ogni ferita inferta a uno compare anche sulla pelle dell'altro.
 
 
Mentre cammino sulla spiaggia, i miei piedi nudi percepiscono ogni piccolo granello di sabbia e io me li godo uno ad uno. Non ricordo di essermi mai sentita più rilassata, con l’infrangersi delle onde come sottofondo.
Il sole sta ormai tramontando, scende pigramente cercando di nascondersi dietro al mare calmo e sulla riva ci sono solo io.
È raro che in autunno la gente si ritrovi qui.
Per questo quando cado a terra improvvisamente, nessuno corre in mio soccorso.
Contraggo il viso in una smorfia di dolore, mi pulsa terribilmente la coscia destra, come se qualcosa mi avesse appena trafitto.
Socchiudo gli occhi, pur non avendo ancora sollievo dal dolore inaspettato, per volgerli alla gamba. Le mani sono appoggiate sul punto offeso e, sebbene io non comprenda ancora il motivo di tanta sofferenza, ancora non ho il coraggio di toglierle da lì.
Normalmente penserei che sia un crampo, anche se il dolore non è lo stesso, eppure dentro di me so che non è così. Tremo al pensiero che sia accaduto di nuovo, non riesco a trovare il coraggio per spostare le mani dalla coscia.
Il sangue che cola tra le dita mi precede facendomi trattenere il respiro.
Ancora una volta no, penso esasperata mentre gli occhi mi si inumidiscono e il battito aumenta.
Sposto lentamente le mani dal punto leso, mi tremano, tutto il corpo trema.
Oltre al liquido vermiglio che esce copiosamente dalla ferita, c’è un buco non troppo grande, ma abbastanza profondo da far sgorgare molto sangue.
La prima arma che mi viene in mente vedendolo è il cacciavite. Ho sempre amato i film e i libri splatter che alla gente solitamente fanno venire il voltastomaco. Avevo già letto da qualche parte di una ferita esattamente come la mia, sebbene quella di mia conoscenza fosse posizionata sul cuore.
Fortunatamente il punto in cui sono stata colpita –se così si può dire- non è pericoloso per la mia vita, ma se il sangue continuerà ad uscire, potrei anche rischiare.
Tenendo premuta una mano sulla ferita, recupero il cellulare che avevo relegato in fondo alla piccola borsa a tracolla.
Lo sblocco sporcandolo irrimediabilmente del mio stesso sangue e, lottando con il touch screen, riesco a trovare il numero dell’unica persona che posso contattare senza essere presa per una matta.
Due soli squilli. «Pronto?»
«Fabio, sono io» pronuncio senza riuscire a trattenere un gemito di dolore.
«Ehi, che succede?» domanda il mio agente.
«È successo di nuovo, questa volta sulla coscia. Sembrerebbe un cacciavite. Ho bisogno di una mano, puoi venire a prendermi?»
«Inviami la posizione esatta e sarò lì il prima possibile».
Chiudo la chiamata ringraziando lui e maledicendo il touch screen.
Mi trascino più vicino al mare facendo attenzione a non  aggravare la situazione della gamba e mi sciacquo con l’acqua salata per poi ripulire con la maglietta i residui dal cellulare.
Invio la posizione a Fabio per poi tornare a concentrarmi sulla ferita.
Con le mani chiuse a coppa mi disinfetto con il mare.
Le lacrime mi salgono agli occhi per la seconda volta.
 
Il dottore che Fabio ha chiamato per farmi vedere è un tipo silenzioso e ligio al dovere.
Disinfetta il buco malefico e ricuce la pelle con cura.
Quando finisce di curarmi se ne va abbassando il capo e salutando a malapena.
Vedo il mio agente passargli una busta.
«Maledizione!» impreco quando sento la porta d’ingresso chiudersi. «Non so più cosa fare con questa storia, non hai novità?» chiedo sospirando.
Ho chiesto a Fabio di indagare su quanto mi sta accadendo perché, per quanto scetticamente impossibile, credo che io sia legata in qualche modo a qualcuno. Un qualcuno che, evidentemente, si ferisce o si fa ferire di continuo.
Era cominciato tutto con dei piccoli tagli qua e là ai quali non avevo dato troppo peso, all’inizio.
Poi una notte ho riscontrato la prima vera ferita allarmante, che non potevo essermi fatta con un qualche oggetto che avevo preso dentro per sbaglio.
Stavo dormendo con al mio fianco Fabio: ci frequentavamo anche se era eticamente scorretto.
Improvvisamente un dolore lancinante al braccio sinistro mi aveva destato senza pietà. Ricordo che urlai tirandomi su a sedere in un colpo e, tastandomi il punto dolente, mi ero trovata tra le mani del sangue, il mio.
Mi girai verso Fabio convinta che fosse stato lui e che volesse uccidermi per chissà quale strana ragione, ma lo vidi svegliarsi dopo il mio urlo chiedendomi cosa avessi sognato di tanto brutto.
Non aveva neppure aperto gli occhi.
Gli avevo strillato contro costringendolo ad aprire gli occhi e, quando vide il sangue, sbiancò.
Dopo qualche minuto di totale panico da “cosa diavolo è successo”, eravamo finalmente riusciti a capire che sarebbe stato meglio correre in bagno a medicarmi.
Successivamente avevamo controllato le telecamere poste in ogni stanza della mia casa, ma nessuno si era palesato, e dalle registrazioni sembrava che io mi fossi svegliata senza alcuna ragione, come se avessi avuto un semplice incubo. Eppure il sangue c’era e le ferite pure.
Questo si ripeté altre due volte prima che io chiedessi a Fabio di indagare.
Con questa siamo a quindici casi, ma solo al decimo è uscita l’idea della connessione a un’altra persona.
C’era anche l’ipotesi della bambola voodoo, ma l’avevamo scartata dopo che una “maga” ci dicesse che era poco probabile che si trattasse di una connessione di questo tipo, quanto più ad un collegamento con un altro essere umano.
Sarei una bugiarda se dicessi che ero completamente scettica: tutte le cose sovrannaturali e di questo genere mi hanno sempre affascinata e mi hanno indotto a credere che esistano davvero fenomeni di questo tipo.
Perciò, per quanto assurdo possa sembrare, io credo a questa folle teoria.
«Forse ho qualcosa. È solo un indizio, per ora, ma vale la pena tentare. L’ho saputo poco prima che andassi a fare la tua solita passeggiata e non ho voluto disturbarti».
«Ok, bene. Che indizio è?»
«Beh, il mio informatore…» lo squillo del suo cellulare lo interrompe. «Ah, ecco. Parli del diavolo… rispondo un attimo. Sì, pronto? Sì… Certo… Davvero? Questo è molto interessante. In quanti casi coincide?... Benissimo. Mi dia pure l’indirizzo…Ah, bene… Segnato… Sì, ovviamente… Grazie mille, avrà presto la sua busta. Arrivederci».
Non appena chiude la chiamata, mi regala un sorriso enorme.
«Ora posso dirti con certezza di avere delle novità serie, senza più nessun indizio. Questa è una vera e propria pista».
«Oh, meraviglioso!» esclamo tirando un sospiro di sollievo. «Di cosa si tratta?»
«Te lo spiego in macchina».

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Capitolo 2
*** Parte due ***


«Il mio informatore mi ha comunicato un nome. Il ragazzo in questione ha subìto diverse ferite negli ultimi otto mesi che coincidono perfettamente con le tue in tutto e per tutto».
«Vuoi dire sia il tipo di ferita, che il punto in cui è stato colpito, che il giorno in cui è successo? Tutto coincide? Per tutte le ferite?»
«Tutto coincide, ma non per tutte le ferite. Per alcune non è mai stato in ospedale o comunque non si è mai registrato, ma parliamo di quelle superficiali o facilmente curabili da soli in casa».
«Tipo i tagli sulle braccia».
«Sì, tipo i tagli sulle braccia».
«Quindi stiamo andando a casa sua?»
«Non proprio. Andiamo a trovarlo all’ospedale».
«Ma è un luogo pubblico, potrebbe essere rischioso».
«Non preoccuparti, ho nel baule cappellini e occhiali da sole in quantità. E comunque ormai si è fatto buio, nessuno ci noterà».
 
«Mettiti anche la felpa» mi ordina Fabio indicando il grosso indumento nero e passandomi un voluminoso paio di occhiali da sole da donna. «Ah, non guardarmi così» esclama alzando le mani. «Questi non sono miei, ma di mia madre».
Ridacchio indossandoli mentre, seduta sul baule, mi allungo per afferrare la felpa.
«Certo che sarà difficile passare inosservata visto quanto zoppico» sbuffo indicando la gamba nuda fasciata.
«Stai scherzando? Ci troviamo in un ospedale. Qui tutti zoppicano».
«Sarà. Andiamo» dico scendendo con un balzo dal baule atterrando sulla gamba sana.
Non appena dentro l’ospedale, abbasso il capo facendomi guidare da Fabio.
Da quanto sono diventata così famosa, i problemi che ho nel passeggiare per strada sono decisamente aumentati. Non posso fare nulla senza essere disturbata e, per quanto io possa essere grata ai miei fan, odio non poter passare totalmente inosservata.
«Davide Negroni?» chiede il mio agente alla receptionist.
Allora è questo il suo nome, penso.
Camminiamo lungo un largo corridoio per qualche metro prima di svoltare a sinistra.
Ricomincio a tremare come quando prima mi ero resa conto della nuova ferita. Sono finalmente arrivata al motivo della mia sofferenza assurda?
Mi ritrovo a chiedermi che aspetto abbia questo ragazzo, quanti anni abbia e cosa faccia nella vita.
Considerando il numero di ferite che subisce –subiamo- magari è uno spacciatore o qualcosa di simile. Insomma, chi diavolo è che in otto mesi si ritrova per quindici volte con delle ferite di questo genere?
«Mi hai trovato…» una voce profonda mi distoglie completamente dai miei pensieri costringendomi ad alzare lo sguardo.
Un ragazzo che avrà la mia età, sui venticinque anni, mi guarda sorreggendosi a delle stampelle malconce.
Il mio sguardo ricade subito sulla coscia destra, la quale è fasciata esattamente come la mia.
Non so cosa dire, ho la gola secca e penso di aver perso la capacità di parlare.
Fabio fa un passo in avanti in segno di difesa, continuando a sostenermi. «Sei Davide Negroni?»
«In persona».
«Vogliamo parlare in un luogo più appartato?»
«Sareste così gentili da accompagnarmi a casa mia? Lì potremo parlare senza avere nessuno attorno».
Mi viene istintivo dire di sì, spinta dalla curiosità, ma mi blocco tirando invece la manica della giacca di Fabio per attirare la sua attenzione.
«Possiamo fidarci del tuo informatore? Questo tizio potrebbe essere un fan pazzo che ha creato tutta questa situazione non so come, solo per rapirmi e rinchiudermi in casa sua» gli sussurro cercando di non farmi sentire.
«Mi sembra una teoria drastica, ma se può farti stare più tranquilla posso far venire con noi anche Raul e i suoi».
La mia squadra di scimmioni pronti a dare la vita per proteggermi.
«Sì. Staranno fuori dalla casa, ma il solo pensiero che ci siano anche loro mi tranquillizza».
«Bene, li chiamo» annuisce afferrando il cellulare. «Dammi il tuo indirizzo di casa» ordina, poi, a Davide.
Alzo per la prima vera volta lo sguardo verso di lui e, incrociando i suoi occhi con i miei, un brivido mi percorre la schiena.
 
Arrivati all’abitazione del misterioso ragazzo, Raul e gli altri sono già in posizione con due macchinoni a sbarrare qualsiasi via di fuga.
«Chi sono questi tizi?» si chiede confuso il proprietario di casa.
«Sono i miei uomini. Per precauzione, sai…».
«Addirittura! Ma chi sei, il presidente della Repubblica?» ridacchia dai sedili posteriori.
Nessuno gli risponde e scendiamo dall’auto non appena Fabio la ferma.
Davide si dirige a passo malfermo lungo il vialetto della sua villetta dopo aver aperto il cancellino, e apre la porta con qualche difficoltà sotto i nostri sguardi diffidenti.
Una volta dentro, la prima cosa che noto è l’ordine.
Cavoli, vorrei essere ordinata almeno la metà di quanto non lo sia lui.
Ci sono parecchi quadri appesi e tutti sembrano fatti da artisti amatoriali e non affermati. Mi incanto a fissarne uno che ritrae un ippopotamo.
«Benvenuti nella mia umile casa. Accomodatevi pure in sala mentre vado a prendere qualcosa da bere».
«Posso pensarci io» si offre Fabio dopo avermi aiutata a raggiungere il divano e sedermi. «Siediti pure anche tu, sarò di ritorno subito».
«Bene, nel frigorifero trovi un po’ di bevande, mentre i bicchieri sono dentro lo sportello sopra al fornetto. La cucina è là» conclude indicando una porta a scorrimento e accomodandosi tra i molteplici cuscini. Sospira prima di volgere la sua totale attenzione a me. «Hai intenzione di toglierti tutta quella roba di dosso oppure no? Mi piacerebbe guardarti».
Deglutisco in cerca di liquidi che evidentemente non ho nel mio corpo in questo momento.
Calo il cappuccio dalla testa per poi sfilarmi il cappello; esito un secondo prima di togliere anche i grossi occhiali.
«Oh…» sussurra lui non appena mi riconosce. «Devo dire che me lo aspettavo che fossi tu, ma ora capisco bene il motivo di tutti quei tizi là fuori. Temi che io sia un tuo fan che ti ha in qualche modo raggirata per rapirti e tenerti tutta per sé?»
Fabio torna finalmente in sala con bicchieri e bottiglie tra le braccia.
«È esattamente quello che ho pensato. Oltre a sapermi ferire a distanza, sai anche leggermi nella mente? Inquietante» anche solo la presenza del mio agente qui, mi rende più sicura.
«Mi piacerebbe avere poteri di questo tipo, ma io purtroppo non ne ho, sono esattamente come te. Beh, senza guardie del corpo e con molti meno soldi».
Lo osservo silenziosa, attendendo che inizi a parlare di cose serie. Per quanto sia affascinata da lui –per un motivo che non mi spiego- non voglio aspettare oltre, considerando che tra poco sarà notte fonda.
«Bene, parlando di cose serie» comincia versandosi del thè al limone nel bicchiere. «Sono sollevato che tu sia riuscita a trovarmi. Sai, quando circa due anni fa mi sono spezzato una gamba mentre ero comodamente sdraiato sul divano a guardarmi un film, proprio non riuscivo a spiegarmi come fosse stato possibile».
«Aspetta, due anni fa? Quando mi sono rotta una gamba sciando, me lo ricordo. Ma aspetta, quindi anche tu…?»
«Te l’ho detto, è stato completamente assurdo anche per me. Figurati poi quando ho sentito che in giro non si parlava d’altro che del tuo infortunio da star. Mi ricordo che pensai “che fortuna, mi sono rotto la gamba insieme a lei!”» ironizza gesticolando come una di quelle brutte imitazioni dello stereotipo dell’omosessuale.
«No, ma dico… anche tu subisci le ferite che subisco io? Cioè, come succede a me?»
«Pensavi fosse solo una cosa a senso unico?»
«Non avevo mai pensato al fatto che potesse accadere anche all’altra persona».
«Aah, il più grande difetto di voi star: siete egocentrici! Pensate che tutto succeda solo a voi» nonostante mi stia accusando indirettamente, non ha un tono astioso, anzi. Sembra più il classico nonno che affettuosamente ti fa notare qualcosa di sbagliato.
«Ma come è possibile che non mi sia mai accorta di nulla fino ad otto mesi fa?» mi ritrovo a chiedere forse più a me stessa che a lui.
«Io non ero mai stato in ospedale fino a quando non ci sei andata tu» commenta facendo spallucce. «Sono sempre stato sano come un pesce e non mi sono mai ferito, se non in modo superficiale. Infatti è grazie alla tua fama se ho cominciato a sospettare di avere un legame con te: quando le coincidenze sono cominciate ad essere troppe, ho iniziato a comprare tutte quelle stupide riviste di gossip» sospira indicando una pila di magazine in un portariviste di fianco al divano.
«Per questo prima mi hai detto che te lo aspettavi che fossi io?» chiedo sentendo di nuovo un brivido lungo la schiena.
«Sì. E sapendo che non avrei mai potuto avvicinarmi a te, ho deciso che forse saresti stata tu a cercarmi. Sono stati otto mesi molto pesanti, per me. Io che non avrei mai avuto il coraggio di ferirmi di proposito prima di ritrovarmi costretto a farlo. Sono sollevato che tu abbia pensato la stessa cosa che ho pensato io per tutti questi anni e che mi abbia trovato».
Sono senza parole, non so cosa dire e sento di aver bisogno di bere ancora.
Questa storia è assurda, stento a credere a ciò che sento e, se non avessi vissuto direttamente tutto ciò, non mi crederei.
Magari sono impazzita e tutto questo è solo frutto della mia mente malata.
Non potrò saperlo fino a quando non avrò visto veramente tutto.
«Fabio. Andresti a prendermi un coltello, per favore?»

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Capitolo 3
*** Parte tre ***


«Cosa? Un coltello? Perché? Cosa vuoi fare?» chiede il mio agente allarmandosi.
«Vuole fare la prova del nove» gli risponde Davide guardandomi dritto negli occhi. «Magari per essere sicura di non essere impazzita» sorride.
«Mi sembra un po’ esagerato, no?»
Non nego e non confermo, mi ripeto e basta. «Fabio. Andresti a prendermi un coltello, per favore?»
In questo momento mi sento molto come uno di quegli psicopatici nei libri e nei film. Probabilmente ne ho letti e visti talmente tanti che ormai sono diventata come loro, sotto certi aspetti.
Fabio mi guarda ancora qualche secondo prima di alzarsi lentamente dal comodo divano.
Io tengo lo sguardo fisso su Davide, non so se per paura di distrarmi e rimanere scoperta e vulnerabile, o per il semplice fatto che mi sento attratta da questi occhi, da questo ragazzo.
Sento i passi del mio agente muoversi incerti verso la cucina, poi lo sento fermarsi e rovistare, probabilmente, in un cassetto colmo di posate. Il loro tintinnio mi innervosisce e mi ritrovo a pensare di non vedere l’ora che trovi un maledetto coltello.
Torna nel salotto con un coltello da portata e me lo porge.
«Fabio, accidenti!» esclamo infastidita dalla sua prudenza. «Se mi avessi portato una forbice con le punte rotonde sarebbe stato lo stesso. Puoi portarmi un coltello, per favore? Uno che tagli, possibilmente».
Sospira non muovendosi dalla sua posizione. «Non credo sia il caso di fare una cosa del genere».
Giro la testa verso di lui lentamente –ammetto di averlo fatto apposta per creare l’effetto psicopatico. «Bene. Me lo andrò a prendere da sola, allora» annuncio facendo per alzarmi.
Fabio mi mette una mano sulla spalla trattenendomi sul divano. «Ok, ho capito! Andrò a prenderti un coltello serio».
Lo guardo allontanarsi nuovamente verso la cucina e lo sento trafficare con il cassetto delle posate.
Quando torna, finalmente, ha in mano un coltello adatto.
«Ok, Davide. È il momento della verità, della prova del nove» dico solennemente, con la voce che mi trema appena.
Tra il dire e il fare c’è di mezzo un mare di dubbi, me lo diceva sempre mia mamma; e proprio ora comincio a pensare quanto sia assurda e complicata questa situazione. Voglio davvero farmi un taglio per scoprire che tutto questo è reale? Non ne sono più così sicura, mi fa paura il pensiero di scoprirlo. Quale conclusione potrei trarre dal fatto che sia vero? Che siamo legati? Per quale motivo? Il solo pensare di fare questo gesto, crea molte più domande di quante me ne fossi effettivamente mai poste.
Stringo in pugno il manico del coltello, le nocche bianche, il palmo sudato.
«Se vuoi posso farlo io» si propone Davide guardandomi.
«No» gli rispondo secca. Che io tema che possa farmi molto più male di quanto dovrebbe? Che io non mi fidi? No; non so come mai, ma l’istinto mi dice che potrei fidarmi. «Voglio farlo io» aggiungo, quindi, addolcendo il tono.
Sento lo sguardo di Fabio addosso, soffocante. Per la prima volta da quando lo conosco, vorrei che non fosse qui a guardarmi come se fossi una povera pazza: pronto a fermarmi se dovessi completamente impazzire e uccidermi con lo stesso coltello che stringo, pronta a farmi un piccolo taglio.
Ok, è il momento, penso.
Faccio un profondo respiro che rilascio lentamente, svuotandomi da tutti i dubbi e le ansie.
La mano mi trema, ma la indirizzo verso il mio braccio sinistro brandendo il coltello. Non mi sono mai fatta nemmeno un taglietto, prima, non so quanto io debba premere per far sì che la lama affondi senza procurarmi una ferita troppo profonda. Quanto è delicata la pelle di un essere umano? Quanto è penetrabile?
Appoggio il coltello sul braccio premendo leggermente: non percepisco nulla di più della sua presenza fredda.
Inclino la lama di poco e, continuando a premere, traccio una riga. L’effetto non è decisamente quello immaginato: alle estremità della linea la pelle si è solo sbucciata, ma al suo centro una goccia di sangue fuoriesce pigramente lasciandosi dietro una piccola scia vermiglia.
Alzo lo sguardo di scatto e lo volgo verso Davide. Mi mostra il suo braccio sinistro, identico al mio.
Trattengo il respiro mentre i battiti del mio cuore aumentano. Dio solo sa quante volte mi sia capitato solo oggi.
«E ora?» chiedo con un fil di voce.
«Ora capiamo il perché».
 
Quando mi sveglio il sole è già alto nel cielo e i rumori della città coprono qualsiasi altro suono. Forse per questo quando Fabio entra nella mia camera da letto sussulto.
Mi sfioro il braccio sinistro e sotto i polpastrelli sento il tessuto ruvido del cerotto con il quale ho medicato il piccolo taglio che mi sono fatta ieri sera. Il solo sentirlo sotto al mio tocco, mi fa rivivere tutti gli avvenimenti di poche ore fa.
Dopo la prova del nove, abbiamo deciso di dormirci su e di contattare qualcuno di competente per avere le risposte che ci spettano.
Mi sembra assurdo il fatto che come “competente” io intenda una specie di maga, quelle che credono di leggere il futuro, di prevederlo e tutte queste cose fuori dal mondo.
Ma a chi altro potremmo rivolgerci, d’altronde?
Quale professionista non ci prenderebbe per pazzi?
Non mi piace come idea, ma non abbiamo altra scelta.
Mi alzo a sedere stropicciando gli occhi assonnati.
«Ti ho portato qualcosa da mangiare» mi dice porgendomi un vassoio con un caffè e una brioche. Sa bene che non sono solita abbuffarmi appena sveglia.
«Grazie. Hai già sentito Davide per incontrarci?»
«Sì, ha chiamato lui un paio di ore fa e ci siamo accordati per incontrarci dopo pranzo, verso le due».
«È già mezzogiorno» commento guardando la sveglia digitale sul comodino.
«E io ho ordinato qualcosa da mangiare al volo tra un’ora. Ti consiglio di andare a farti un bagno e di rilassarti un po’. Sarà un pomeriggio impegnativo».
Esce lasciandomi sola nell’intimità della mia camera, che un tempo condividevamo.
Cerco di riordinare i pensieri mentre faccio colazione e con la testa sovrappensiero riempio la vasca, dove mi faccio un bagno rilassante buttando nell’acqua degli oli apposta. Sono ancora con la mente altrove quando Fabio bussa alla porta.
«Ehi, ci sei? È arrivato il cibo» mi comunica.
«Sì, mi asciugo e arrivo».
 
Fuori fa caldo nonostante siamo in pieno autunno: indosso solo una giacca di pelle sopra il vestito, e il foulard intorno alla parte bassa del mio viso serve solo per nascondere la mia identità insieme agli occhiali da sole.
Davide si trova già davanti ad un piccolo negozio in una zona poco affidabile della città, appoggiato al muro dietro di lui con le stampelle al suo fianco.
«Siete arrivati».
Ancora una volta, incrociando il suo sguardo, un brivido mi percorre la schiena.
Lo saluto con un cenno del capo, dirigendomi subito verso l’entrata del negozio.
Fabio mi apre la porta per facilitarmi il passaggio con le stampelle e finalmente sono dentro.
Il luogo è angusto e sento subito l’odore di polvere e muffa che mi infastidisce aggressivamente le narici facendomi starnutire.
Maledizione.
«Cari ragazzi!» esclama una donna sulla quarantina a braccia spalancate. «Venite, vi stavo aspettando».
Ecco la solita frase da veggente. Scontata, penso.
Ci sediamo su un piccolo divanetto da due posti, mentre Fabio rimane dietro di me.
«Mi faccia immaginare» comincio acida, nemmeno sapendo il perché di tanta diffidenza. «Lei sa già perché siamo qui e bla, bla, bla, insomma, quindi abbiamo già finito, giusto?»
«Percepisco molta tensione, questo è vero. Problemi di coppia?»
«Di coppia? No, certo che no! Ci siamo incontrati per la prima volta ieri!» esclamo sbuffando.
Il suo sguardo cade sulle stampelle che entrambi abbiamo, poi sulle gambe fasciate e infine sui nostri volti.
«Ora capisco» mormora facendo un sorriso complice.
«Cosa capisce? Sa il perché entrambi subiamo le stesse ferite se uno dei due si taglia o si rompe una gamba? Sa perché sembriamo in qualche assurdo modo collegati da sempre nonostante ci conosciamo da sì e no 17 ore?»
«Mia cara, carissima ragazza. Un motivo c’è. Voi siete anime gemelle».

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