Sopravviviamo di sophie97 (/viewuser.php?uid=142936)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Non gridate più ***
Capitolo 3: *** Qualcosa è cambiato ***
Capitolo 4: *** Non possiamo mollare ***
Capitolo 5: *** Sarà solo colpa tua ***
Capitolo 6: *** Distrazione ***
Capitolo 7: *** Lui vuole che tu viva ***
Capitolo 8: *** Calma ***
Capitolo 9: *** Uno splendido colpo di fortuna ***
Capitolo 10: *** Tu sarai causa delle tue stesse sofferenze ***
Capitolo 11: *** Il nostro Inferno ***
Capitolo 12: *** Primi effetti ***
Capitolo 13: *** Spogliati ***
Capitolo 14: *** Non sarà per sempre ***
Capitolo 15: *** Sarà peggio la vita ***
Capitolo 16: *** Autodistruzione ***
Capitolo 17: *** Lasciami andare ***
Capitolo 18: *** Per quel che è ***
Capitolo 19: *** Lo so io e lo sai tu ***
Capitolo 20: *** Non va tutto bene ***
Capitolo 21: *** Numero 201 ***
Capitolo 22: *** Vittima e carnefice ***
Capitolo 23: *** Sopportazione ***
Capitolo 24: *** Equilibrio ***
Capitolo 25: *** Non è servito a niente ***
Capitolo 26: *** Pezzi di carta ***
Capitolo 27: *** Dolore ***
Capitolo 28: *** Mai sola ***
Capitolo 29: *** Incubi ***
Capitolo 30: *** Reazioni ***
Capitolo 31: *** Vivi! ***
Capitolo 32: *** Miracoli ***
Capitolo 33: *** Così si sopravvive ***
Capitolo 34: *** Vivere o morire ***
Capitolo 35: *** Vivere ***
Capitolo 36: *** Mondo Beffardo ***
Capitolo 37: *** Ho scelto il silenzio ***
Capitolo 38: *** Per Lily ***
Capitolo 39: *** Sopravviviamo ***
Capitolo 40: *** Il momento giusto ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
“Ho
subìto un danno.
Le persone danneggiate sono pericolose.
Sanno di poter sopravvivere...
È la sopravvivenza che le rende tali... perché
non hanno pietà.
Sanno che gli altri possono sopravvivere, come loro.”
(Il danno, 1992)
PROLOGO:
Cento
giorni.
Ben sospirò piano, appoggiato a quel muretto, fissando come
in trance la
villetta che sorgeva dall’altra parte della strada.
Cento giorni, gli sembrava impossibile. Per la prima volta, cento
giorni prima,
il collega gli aveva raccontato che cosa stesse succedendo tra lui e la
moglie.
E poi, solo due giorni dopo, come se tra le due situazioni ci fosse
stato un
filo diretto, ecco che il notiziario aveva annunciato la fuga di quell’uomo. E tutto,
lentamente, era andato
precipitando.
Cento giorni, più di tre mesi, e ancora l’aria non
aveva smesso di essere
spessa, pesante, irrespirabile.
Era il 12 febbraio, e a Colonia il freddo era ancora pungente.
Ben tirò su col naso e si strinse più nelle
spalle, chiedendosi quando si
sarebbe deciso a entrare.
Stava quasi per alzarsi, quando qualcuno da dietro lo sfiorò.
Ma l’ispettore era talmente immerso nei propri pensieri che
nemmeno vi fece
caso.
«Che cosa fa qui tutto solo, giovanotto?»
esordì la voce alle sue spalle, in
tono bonario.
«Vado a trovare un amico.» rispose Ben, in un
sussurro, più rivolto a se stesso
che al suo nuovo interlocutore, mentre sentiva che l’uomo che
gli aveva parlato
stava aggirando il muretto per avvicinarsi a lui. Non si
curò di voltarsi, aspettò
che il signore gli si sedesse accanto.
«Lei che cosa ci fa qua?» domandò poi,
non appena scorse il profilo familiare a
pochi centimetri da lui.
L’anziano signore alzò le spalle, iniziando
meccanicamente ad accarezzarsi gli
ordinati baffi bianchi e passandosi poi la mano destra sulla folta
barba,
anch’essa candida come la neve.
«Passavo, giovanotto. Il suo amico vive qui? È il
suo collega, non è vero?».
Ben guardò quell’uomo negli occhi, sorridendo per
un attimo al suo accento
inglese.
«Lo era.» commentò poi, distogliendo lo
sguardo.
Il vecchio poggiò una mano sulla sua spalla, rifilandogli
qualche leggero
colpetto di incoraggiamento.
«Fossi in lei sorriderei un po’ più
spesso, giovanotto. Da quando l’ho
conosciuta lo ha fatto sempre troppo poco. Solo alla mia età
si comprende quanto
sorridere sia importante... forza, ragazzo.».
«Non è facile sorridere sempre. Non quando davanti
agli occhi hai la vita
rovinata di una persona a cui vuoi bene.».
L’anziano signore annuì teatralmente. Poi,
appoggiandosi al proprio bastone, si
alzò, staccandosi dal muretto e rimanendo per qualche
istante fermo, in piedi
di fronte al poliziotto.
«Ti do un compito, giovanotto. Oggi sorridi. Va
bene?».
Ben alzò lo sguardo su di lui.
L’uomo indossava un berretto di lana decorato a quadri rosso
e verdone e un’ingombrante
sciarpa dello stesso colore. Non un abbigliamento troppo comune, per
quello che
lui aveva definito un angelo custode.
Il sorriso, osservandolo, gli spuntò spontaneo sulle labbra.
«Bravissimo, così.» fece compiaciuto il
vecchio.
Poi si voltò per andarsene, ma tornò a guardare
Ben dopo aver fatto solo
qualche passo.
«Dimenticavo, giovanotto.» aggiunse, sorridendo
sotto ai baffi curati, prima di
allontanarsi «Usi quella scatolina che ha in tasca.
L’ho vista, sa? Vedrà, la renderà
felice.».
N.d.A.
Buonasera miei cari lettori... ebbene sì, sono ancora viva!
Tanto tempo che non
metto piede su EFP, troppo, e già posso udire gli insulti di
chi stava seguendo
la mia serie e, da un momento all’altro, non ha
più avuto mie notizie...
scusate, scusate, scusate, non ho una valida giustificazione ma
proverò a farmi
perdonare. La serie che ho lasciato in sospeso, “Dieci
ritagli di Cobra 11”,
prima o poi avrà una conclusione, ma ci tengo a sottolineare
che questa storia
non fa parte della serie in questione e non ha assolutamente nulla a
che fare
con quest’ultima.
Qualche piccola premessa, rischiando di rendere queste N.d.A.
più lunghe del
prologo stesso:
1. non so come questa folle storia che vi accingete a leggere mi sia
venuta in
mente, ma sappiate che questa volta sono stata veramente molto
crudele... e se
questo fandom predilige da sempre l’accanimento verso Ben,
sappiate che io
invece mi diverto parecchio a torturare anche il nostro piccolo
turco (non che non ce ne sia anche per Ben eh, non
esultate);
2. ve lo ripeto: crudele, lunga, triste, pesante... siete avvertiti;
3. ho deciso di fare un esperimento e suddividere la storia in capitoli
ricalcando
la suddivisione delle giornate: ciò significa che troverete
capitoli di diverse
lunghezze e che per ogni giornata che compone la storia leggerete un
nuovo
capitolo (a parte qualche eccezione a fini narrativi);
4. ve l’ho già detto che si tratta di una storia
triste e pesante?
Fine delle premesse, vi spiegherò ancora qualche cosetta nel
corso della
storia.
Vi auguro buon Natale con questa storia non propriamente permeata di
spirito natalizio...
Spero che i miei scarabocchi possano incuriosire qualcuno, spero che
non siate
troppo arrabbiati per la mia scomparsa improvvisa e... se vi fa
piacere, ogni
commento è sempre super gradito!
Grazie, buona lettura!
Sophie
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Capitolo 2 *** Non gridate più ***
GIORNO 1 - 14 NOVEMBRE.
Ben tamburellò
impaziente le
dita sul volante.
Il suo socio era in ritardo, come sempre ormai da quasi tre settimane.
All’inizio Ben si era divertito ad aspettarlo per poi fargli
la ramanzina come
Semir aveva sempre fatto con lui da cinque anni a quella parte,
prendendolo
deliberatamente in giro.
Poi però la situazione si era ripetuta e ripetuta ancora e
ai ritardi si erano
aggiunte una stanchezza e una distrazione che sul lavoro il collega non
aveva
mai dimostrato prima.
Ben aveva provato a parlargliene, a chiedere che cosa stesse
succedendo, ma
ogni volta Semir aveva sfoderato un sorriso e risposto che andava tutto
bene. Tutto perfetto.
Allora il più giovane aveva cominciato a portare avanti
nella propria mente
congetture personali e quella mattina, in macchina davanti a casa
Gerkhan, ebbe
la conferma di ciò che aveva pensato fino a quel momento:
qualcosa in casa non
quadrava. Con il finestrino abbassato udiva infatti grida provenire
dalla
piccola villetta, grida che sicuramente non sembravano rientrare
nell’ambito di
una discussione pacifica. Non riusciva a distinguere le parole, ma i
toni erano
decisamente troppo accesi.
A un tratto la porta di casa si spalancò e Semir ne
uscì sospirando, il viso
segnato da profonde occhiaie. Si chinò a salutare Aida che
lo aveva
accompagnato alla porta, le disse qualcosa e le diede un bacio sulla
fronte,
scompigliandole i capelli.
Nel notare quel gesto paterno, Ben non poté fare a meno di
sorridere.
Poi lo vide dirigersi con passo fin troppo deciso verso la Mercedes e
fece
finta di guardare dall’altra parte, sperando che
l’amico non lo avesse colto a
origliare.
«Ehi socio!» fece il poliziotto entrando in
macchina «Scusa, sono
imperdonabilmente in ritardo... di nuovo.».
«Non ti preoccupare socio.» disse Ben con un
sorriso sincero «Ci fermiamo al
bar a comprare la colazione?» propose avviando il motore.
In un’altra occasione Semir avrebbe dissentito, visto
già il ritardo
accumulato. Ma non era questo il caso.
«Sì, magari. Non ho nemmeno preso il
caffè.».
«Venti minuti di ritardo e non hai nemmeno preso il
caffè?» rise Ben.
Semir fece spallucce.
«Ehi socio, sto scherzando.» continuò il
più giovane «Va tutto bene?».
«Sì, non ti preoccupare.».
«Come mai Aida era ancora a casa? Non doveva uscire prima per
la gita?» chiese
ancora, svoltando a destra e parcheggiando nella polverosa area
antistante il
baretto.
«Sì, ma non ci va.» spiegò il
turco uscendo dall’auto «Ha avuto un po’
di mal
di testa stanotte e Andrea ha preferito non farla andare. Vuoi il
solito?».
Ben annuì e il collega si allontanò per
raggiungere il bar, uscendone solo
pochi minuti dopo con in mano due caffè e una brioche
fumante per il collega.
«Grazie
socio.» fece
Ben afferrando e addentando la
colazione, non appena l’altro fu risalito in macchina
«E tu non eri d’accordo
con Andrea?».
Semir lo guardò perplesso, continuando a sorseggiare il suo
caffè.
«Sulla gita, intendo.» puntualizzò il
ragazzo, a bocca piena.
«Perché me lo chiedi?».
«Semir, vi si sentiva urlare dalla strada.».
Il poliziotto sospirò, togliendo dalle mani di Ben il
bicchiere ormai vuoto
perché lui potesse guidare.
Poi abbassò lo sguardo e non fiatò per un
po’.
L’altro continuò a guidare, diretto al comando,
con estrema calma.
«Davvero ci si sentiva dalla strada?»
domandò Semir, dopo qualche minuto di
silenzio.
Ben annuì.
«Semir, sai che con me puoi parlare, non è
vero?».
«Ti ringrazio Ben, ma io sto bene. Sto litigando spesso con
Andrea, è vero, ma
non ti devi preoccupare.».
Ben si sentì tanto come un bambino a cui il padre non voleva
rivelare la vera
situazione familiare per paura di farlo soffrire.
«Quanto spesso?» chiese «Sono almeno tre
settimane che sei particolarmente distratto,
non credere che non me ne sia accorto.».
Semir sorrise ma evitò di rispondere.
Parcheggiarono sotto il comando e salirono in ufficio a passo svelto,
chiudendosi la porta alle spalle, sollevati che la Kruger non avesse
ancora
avuto nulla da ridire sull’orario. Un’oretta dopo
sarebbero usciti per la loro
routine autostradale, ma prima avevano alcuni rapporti da terminare.
Iniziarono a lavorare silenziosamente seduti alle proprie scrivanie,
con
l’intento di finire nel minor tempo possibile.
Dopo qualche minuto, però, Semir smise di scrivere e
posò la penna, alzando lo
sguardo sul collega. Il silenzio imbarazzato che si era creato
già durante il
tragitto in macchina doveva essere interrotto ad ogni costo.
«Ben, senti, non è che io non ti voglia raccontare
nulla... è vero che non va
tutto bene, ma non ti ho detto niente fino adesso perché
speravo che la
situazione si risolvesse, e soprattutto perché ammettere ad
alta voce ciò che
sta accadendo renderebbe il tutto troppo reale e io non voglio che lo
sia.».
Il giovane ispettore chiuse la penna a sua volta e si mise in posizione
d’ascolto, invitando con lo sguardo il collega a proseguire.
«Andrea parla di separazione.».
Il gelo.
La frase tagliò violentemente l’aria chiusa della
stanza.
Ben aprì la bocca per parlare, ma non seppe che cosa dire.
Era così affezionato a loro come famiglia, che non riusciva
a immaginare
potesse accadere una cosa del genere. Non lo riteneva materialmente
possibile.
Loro erano la famiglia.
L’idea di
famiglia normale che lui si era
sempre immaginato.
«Noi... litighiamo su ogni cosa. E ogni sera torno a casa e
sento Andrea sempre
più distante e non so che cosa fare. Forse ha ragione lei,
forse non si può
recuperare, non lo so.».
«Non... non puoi dire così...»
balbettò Ben «La vostra non è una
storia da
prendere, appallottolare e buttare nella spazzatura, così,
di punto in bianco!».
«Lo so, Ben. Lo pensavo anche io. Ma Andrea continua a dire
che sono assente,
che penso troppo al lavoro. È arrivata a chiedermi se io
abbia un’altra storia,
e io non capisco come faccia a pensare anche solo lontanamente una cosa
del
genere, come possa non fidarsi di me.».
Ben lanciò un’occhiata interrogativa
all’amico «Davvero sospetta questo? Semir,
mi devi dire qualcosa?».
L’uomo sgranò gli occhi, con una punta di
delusione nello sguardo.
«Assolutamente no! Io non tradirei mai Andrea, dovresti
saperlo tu così come
dovrebbe saperlo lei.».
Il ragazzo annuì, pentendosi subito di aver posto quella
domanda. Sapeva che
l’amico non avrebbe tradito la moglie, ma il fatto che Andrea
da un momento
all’altro si mostrasse sospettosa lo aveva colpito.
«Semir, tu la ami ancora?».
«Sì, Ben. Davvero. Ma ho paura che per lei non
valga più lo stesso, ormai.».
Quella frase lasciò Ben di stucco.
«Ormai? Semir, non puoi
dire una cosa
del genere. Insomma, da quanti anni è che siete sposati?
L’amore vero quando
c’è non svanisce da un momento all’altro
e questo lo sai tu e lo sa Andrea. Che
cosa sta succedendo?».
Il turco sorrise appena «Non è così
semplice, le cose cambiano. A volte l’amore
non basta, Ben.».
Il ragazzo scosse lentamente il capo «Che cosa è
cambiato? Avete una casa, un
lavoro, due bambine meravigliose. Tu ami tua moglie. Che cosa
è cambiato?».
Semir sospirò rumorosamente «Che ne diresti di
lasciar perdere e terminare
questi rapporti?».
Il collega lo guardò indeciso e
riprese
di mala voglia in mano la penna, ricominciando a scrivere.
Almeno fino a quando Susanne non entrò nel loro ufficio,
subito dopo aver discretamente
bussato alla porta.
«Ragazzi, a che punto siete? Tamponamento sull’A4,
la Kruger ha bisogno di
agenti a dirigere il traffico. Oggi vi tocca, temo.».
«Oh meraviglioso.» mormorò laconico Ben.
Semir invece scattò in piedi quasi entusiasta
«Forza socio, un po’ di movimento
ci farà bene.» esclamò con un sorriso.
Il ragazzo lo osservò mentre prendeva il giubbotto e si
avviava all’uscita e si
domandò come facesse l’amico, nonostante tutto, a
ostentare buon umore. Lo
ammirò terribilmente.
«Accidenti,
è
già tutto bloccato, che macello.»
commentò
Semir, imboccando l’A4 in direzione Düsseldorf
«A che chilometro sono Dieter e
Jenny?».
Non udendo risposta, l’ispettore lanciò
un’occhiata verso il collega, che
guardava assorto fuori dal finestrino.
«Ben? Terra chiama Ben Jager, mi senti?»
continuò il turco, immettendosi sulla
corsia di emergenza per raggiungere più velocemente il luogo
dell’incidente.
«Chilometro 14.» rispose il più giovane,
risvegliandosi all’improvviso da
quello stato di trance e fissando la sirena sulla tettoia
dell’auto.
«Ben, tutto a posto? La brioche di stamattina non era
abbastanza grande?» rise
il turco, premendo il piede sull’acceleratore.
«Semir, ma si può sapere perché fai
così?» sbottò Ben a un tratto.
«Così come?».
«Come se non ti importasse! Come puoi fingere che vada tutto
bene? Come ci
riesci?».
Semir sospirò scuotendo appena il capo «Ben, non
è vero che...».
«Sì, è vero, tu ti comporti come se non
stesse succedendo niente.».
«Ben, non posso fare altrimenti. Non sono solo tre settimane
che va avanti
questa storia, sono mesi che il rapporto tra me e Andrea è
cambiato e se io
avessi passato questi mesi a pensare solo e unicamente ai miei problemi
familiari come credi che sarei riuscito a lavorare?».
Ben non rispose, sospirando silenziosamente.
Il collega accostò vedendo Jenny pochi metri più
avanti e si sporse verso il
sedile posteriore per afferrare la paletta per dirigere il traffico, ma
non
scese ancora dall’auto.
«Non credere che io stia prendendo questa storia con
leggerezza, Ben. Ma come
credi che avremmo arrestato Constantine o messo le mani su Weiss e i
suoi
scagnozzi se avessi pensato solo ai cavoli miei anzi che lavorare? Come
avremmo
sventato quel traffico di ragazzine? Che cosa credi che avrei concluso
in
questi mesi? Niente, niente di niente. Quindi se ti chiedo se ti
è bastata la
brioche di stamattina, lo faccio perché ho bisogno di un
po’ di normalità,
almeno sul lavoro e soprattutto in questo periodo. Chiaro?».
Ben annuì. Sapeva che l’amico avesse ragione,
sapeva che separare la sfera
familiare da quella lavorativa per lui sarebbe stato un bene, ma la
notizia che
il suo socio gli aveva dato quella mattina lo aveva sconvolto, in un
modo che
lui stesso trovava esagerato.
Avrebbe voluto anche lui la normalità, avrebbe voluto
raccontare a Semir della
serata precedente, di quando finalmente aveva chiesto a Margaret, la
ragazza
che frequentava da quasi un anno ormai, di andare a vivere da lui e di
come lei
avesse accettato.
Ma non lo fece. Perché se era vero che il suo socio cercava
normalità, era
anche vero che mai e poi mai Ben avrebbe sbandierato una cosa
così bella per
lui dal punto di vista sentimentale davanti a chi, in famiglia, stava
vivendo
la crisi della situazione opposta.
Lo avrebbe fatto, glielo avrebbe detto, ma non quel giorno.
Si limitò ad annuire e a mormorare un sommesso
“hai ragione”, prima che
entrambi scendessero dall’auto e raggiungessero i colleghi
per aiutarli a
dirigere il traffico.
Erano le nove di sera passate quando Semir entrò in casa,
distrutto. Aveva
trascorso il pomeriggio a recuperare tra le scartoffie il tempo che lui
e Ben
avevano perso durante la mattinata a causa del tamponamento e aveva la
testa
che stava per scoppiare.
Trovò Andrea in cucina, intenta a sistemare sugli scaffali i
piatti appena
usciti dalla lavastoviglie. Non gli andò incontro, non gli
chiese sorridente
come fosse andata la giornata o se volesse qualcosa per cena. A
malapena lo
guardò.
Entrambi rimasero in silenzio per qualche attimo, lei a controllare che
le
stoviglie fossero pulite, lui a guardarla, appoggiato allo stipite
della porta.
«Andrea... ciao.» disse poi Semir, semplicemente.
Spezzato l’incantesimo, lei si voltò a guardarlo e
si allontanò dalla lavastoviglie
aperta con un sospiro.
«Sono le nove e un quarto.» sillabò.
«Sì, lo so, avevo dei rapporti da finire
e...».
«Avevi detto che saresti tornato presto. Lily voleva
aspettarti per giocare ma
le ho detto di andare a dormire. Semir, sappi che stai perdendo anche
loro.».
La voce di Andrea era particolarmente dura, così come lo era
stata nelle serate
precedenti, trascorse sempre e solo a discutere.
«Dopodomani ho il giorno libero, e credo che la prossima
settimana...».
«Semir...» lo bloccò la moglie
«Credi che serva? Davvero credi che basti il tuo
giorno libero?».
Il poliziotto si tolse la giacca che aveva tenuto addosso per tutto il
tempo da
quando era entrato e la appoggiò su una sedia, quindi si
sedette di fronte a
dove si trovava Andrea, che invece rimase in piedi.
«Sono stati due giorni lunghissimi, lo so. Ma posso
rimediare.».
«Hai dormito al comando per quattro notti la scorsa
settimana, Semir. Dimmi se
ti sembra normale.».
«Andrea, ti prego, cerca di capire. Avevamo per le mani un
traffico di
ragazzine, non era una cosa da nulla. E li abbiamo presi, abbiamo preso
quel
bastardo e i suoi complici proprio perché ci siamo dedicati
a quel caso
ventiquattro ore su ventiquattro.».
«E a noi ti sei mai dedicato ventiquattro ore su
ventiquattro?» domandò la
donna, cominciando ad alzare il tono «A me? Alle bambine?
Quando è stata
l’ultima volta che è capitata una cosa del genere,
te la ricordi?».
«Ascolta, è stato un periodo difficile,
ma...».
«La verità, Semir, è che tu vuoi
salvare il mondo, e non ti accorgi che il tuo,
di mondo, è già crollato. Perché tu
non c’eri e non ci sei.».
«Cosa pretendi che faccia? Eh?» cominciò
a scaldarsi Semir «Che molli tutto? È
questo che vuoi?».
«Ne abbiamo già discusso.».
«Di tutto abbiamo già discusso Andrea, di ogni
cosa!».
«Ecco, fatti due domande se non arriviamo mai a una
conclusione.» rincarò la
dose lei.
«Non arriviamo a una conclusione perché tu non
capisci...».
«O magari tu non sai spiegarti.» lo interruppe
Andrea, ormai quasi gridando.
«Dimmi che stai solo cercando un pretesto per farla finita,
Andrea, dimmelo ora
e finiamola qui.».
«Credi che le tue figlie siano un pretesto? Loro non si
sentono considerate, io
non mi sento considerata, che cosa ci stai offrendo? Niente! Credi di
essere un
buon padre, Semir? Eh? Lo credi davvero?».
Semir strinse i denti provando a mantenere la calma, con scarsissimi
risultati.
Sarebbe stata un’altra discussione infinita, ancora una volta.
Ben entrò a casa scuro in volto, ma non appena
varcò la soglia un sorriso a
trentadue denti si dipinse sulle sue labbra. Nell’aria
aleggiava un profumo
delizioso e una musica in sottofondo rendeva l’atmosfera
calda e accogliente.
Il giovane poliziotto seguì la scia di profumo fino a
giungere in cucina, dove
una bellissima apparizione lo aspettava entusiasta.
Margaret, addosso solo una felpa di Ben che le stava enorme e
d’incanto al
tempo stesso, lo aspettava spettinata e con un guantone da forno nella
mano
destra, con un sorriso candido stampato sul viso.
Ben rimase senza fiato, di nuovo, come ogni volta che la guardava.
Era così bella nella sua semplicità, che se in
quel momento una modella dal
corpo perfetto gli fosse passata accanto, lui nemmeno se ne sarebbe
accorto.
I capelli scuri raccolti in uno chignon disordinato, gli occhi verdi e
quella
spruzzata di lentiggini sul naso la rendevano unica agli occhi
dell’ispettore,
che si avvicinò per baciarla dopo essere rimasto per qualche
istante incantato
a scrutarla.
«Ciao sbirro.» sussurrò lei, poi
allontanandosi per tirare fuori dal forno una
teglia fumante «Hai detto che avrei dovuto cominciare ad
ambientarmi, così ho
pensato di cucinare qualcosa e mi sono appropriata della tua felpa.
Potevo?».
«Sei così bella che penso che non potrò
smettere mai di guardarti.» affermò lui
in tutta risposta.
Lei rise, e con quella risata scacciò in un sol colpo tutti
i pensieri scuri
che Ben aveva avuto durante la giornata. Una risata soltanto e i
problemi e i
dispiaceri non esistevano più: esisteva solo lei.
«Il fatto è che io non ce la faccio più
Semir, non ce la faccio più!» gridò
Andrea alzandosi di scatto e andando a sedersi sul divano.
Avevano litigato e urlato per dieci minuti buoni senza mai prendere
nemmeno un
respiro e adesso erano entrambi esausti.
Semir la raggiunse sedendosi accanto a lei sul divano e riprese a
parlare con
un tono normale «Okay... okay, ci dobbiamo dare una calmata,
tutti e due.».
La donna annuì, rossa in viso.
«Che cosa ci sta succedendo, Andrea? Che cosa è
cambiato?».
Andrea rimase in silenzio per pochi secondi, poi gli occhi le divennero
lucidi
e, senza che nemmeno se ne fosse accorta, si ritrovò a
singhiozzare come una
bambina.
«Ehi... Andrea, calmati, va tutto bene...» le
sussurrò Semir, prendendole il
viso tra le mani e asciugando una lacrima che le correva lungo la
guancia.
Ma lei si ritrasse, continuando a singhiozzare.
«No... no, non va tutto bene... Semir, non va tutto
bene...» ripeteva tra le
lacrime, senza trovare il coraggio di aggiungere altro.
«Che cosa succede?».
«Semir... non va tutto bene... io... ti devo dire una
cosa.»
Il poliziotto corrucciò la fronte, sforzandosi di non
pensare a che cosa la moglie
dovesse dirgli di così grave da giustificare quei
singhiozzi, che non volevano
saperne di cessare.
«Dimmi.» mormorò semplicemente.
«Semir, io... io non ti amo più.».
Il silenzio calò
inesorabile.
Ma la pioggia di novembre che batteva contro i vetri parve aumentare la
propria
forza, riempendo quel silenzio in modo assordante.
Andrea continuò a singhiozzare, ma più piano. Si
asciugò le lacrime con i
polsini della felpa che indossava, attendendo la reazione del marito a
quelle
cinque parole che avevano appena fatto crollare un mondo intero.
Ma la reazione non arrivò.
Semir rimase assorto per un istante lunghissimo, senza parlare, senza
guardarla
negli occhi. Aveva bisogno di metabolizzare, di ripetersi quella frase
nella
mente ancora un paio di volte, perché altrimenti non ne
avrebbe compreso il
significato, seppur così ovvio.
«Semir dii qualcosa, ti prego.» sussurrò
la donna, trattenendo a stento i
singhiozzi.
Lui finalmente la guardò negli occhi, ma ancora non
proferì parola.
Un rumore proveniente dal piano superiore lo salvò, una
porta che si chiudeva.
«Aida è sveglia.» fu l’unico
commento di Semir.
Poi si alzò e si diresse verso le scale, lasciando la moglie
lì, sul divano,
con la testa tra le mani.
«Aida.»
sussurrò Semir entrando nella camera delle bambine.
C’era buio pesto ed entrambe erano nel letto, ma lui
immaginava che dovesse
essere la più grande a essere sveglia. E infatti subito la
bambina si alzò a
sedere sul letto, sentendosi scoperta.
«Perché eri in piedi?»
domandò il poliziotto.
La figlia non rispose, e solo allora lui si accorse del tono di
rimprovero con
cui aveva posto la domanda. Non lo aveva fatto apposta.
«È tardi, dovresti dormire.» aggiunse,
con più calma.
«Ma tu e la mamma litigate.» rispose Aida, con una
voce che tradiva preoccupazione.
Semir sospirò piano, poi prese la bambina in braccio
sollevandola dal letto e
uscì con lei dalla stanza, richiudendosi la porta alle
spalle. Voleva parlare
con lei ma senza svegliare la sorellina, così la
portò nella camera sua e di
Andrea e si sedette sul copriletto con la figlia sulle ginocchia.
«Cucciolo, non ti devi preoccupare se ogni tanto io e la
mamma discutiamo.
Capita, lo sai. Ma ti vogliamo sempre bene uguale,
ricordatelo.».
Aida annuì, guardando il padre negli occhi e stringendosi di
più a lui.
«Però litigate tutti i giorni. Io vi sento la
sera... E poi la mamma piange,
l’ho sentita, perché piange?».
«La mamma è stanca Aida, è molto
stanca. Non ti preoccupare, sta bene.».
«E tu stai bene papà?».
Semir sorrise e gli si strinse il cuore nel vedere quella bambina
avvolta nel
caldo pigiamino blu che le aveva regalato il suo socio, che lo guardava
con
quegli occhi enormi e si preoccupava per lui.
«Sì cucciolo, sto bene. Ogni tanto le persone
litigano, è normale. Ma non ti
preoccupare, va bene?».
Lei annuì di nuovo, ma non era convinta.
«Oggi la mamma è stata arrabbiata tutto il giorno.
E tu sei arrivato tardi,
Lily voleva farti vedere il gioco che le hanno regalato i nonni per il
compleanno.»
«Domani arriverò a casa prima,
d’accordo? Te lo prometto. E dopodomani passiamo
tutto il giorno insieme, va bene?».
Il viso della bambina si illuminò
«Davvero?».
«Davvero, promesso.».
«Va bene papà.».
«Ora però vai a nanna, domani devi andare a
scuola.».
«Voi non gridate più?».
Semir scosse il capo con un sorriso che si sforzò di rendere
sincero «Non
gridiamo più.».
Poi si alzò con la bambina in braccio e la
riportò nella sua cameretta. La posò
sul lettino e le diede un bacio sulla fronte, accarezzandole i capelli.
«Buonanotte cucciolo.».
«Buonanotte papà, ti voglio bene.».
Semir chiuse la porta della
camera e scese
nuovamente le
scale, ritrovando Andrea sul divano, seduta nella stessa identica
posizione in
cui l’aveva lasciata.
Senza accennare ad avvicinarsi, prese la giacca dalla sedia su cui
l’aveva appoggiata
e la indossò velocemente, quindi si diresse verso
l’uscita.
«Dove vai?» provò a trattenerlo Andrea,
gli occhi ancora lucidi «Semir, ti
prego, parliamo. Non andartene!».
«Ho bisogno d’aria.» disse lui, senza
nemmeno guardarla.
Poi uscì e si chiuse la porta alle spalle.
Margaret e Ben finirono di mangiare le prelibatezze che lei aveva
preparato e
non smisero mai di guardarsi negli occhi.
«Sei anche una cuoca eccezionale, c’è
qualcosa che non sai fare?» fece Ben, con
un sorriso sincero.
«Tu sei accecato dall’amore.» rise lei
«Il riso era totalmente senza sale.».
«Oh no, era perfetto.».
«Finiscila.» scherzò lei, alzandosi da
tavola e aprendo il congelatore in cerca
di gelato.
Ben si chiese quando mai fosse stato tanto innamorato di una ragazza e
l’unica
risposta che gli venne alla mente fu “mai”. Da
quando l’aveva vista al bancone
di quel bar in fondo alla via dove abitava, aveva giurato che non
avrebbe mai
più smesso di guardarla. Lei ascoltava le canzoni che lui e
la sua band stavano
suonando proprio in quel bar e gli sorrideva. Così poi lui
le aveva offerto da
bere e avevano cominciato a parlare, assetati l’uno della
storia dell’altra.
Era iniziato tutto così, quasi un anno prima, e ora lei era
lì davanti a lui,
in casa sua, e Ben sperava con tutto il cuore che sarebbe rimasta
lì per tutta
la vita.
Si alzò senza che lei nemmeno se ne accorgesse, la raggiunse
e le cinse i
fianchi da dietro, chiudendo il congelatore aperto.
«Le andrebbe un valzer, mademoiselle?».
Lei rise «Ma certo, messieur.».
E, stretti l’uno all’altro, cominciarono a ballare
nel salotto di casa, accompagnati
da una leggera musica di sottofondo.
Andrea guardò sconfortata il cellulare che il marito aveva
lasciato sul tavolo
della cucina, consapevole che non avrebbe potuto rintracciarlo.
Ormai era quasi un’ora che era uscito e lei non aveva idea di
dove fosse o di
che cosa stesse facendo.
Era in ansia. Si era pentita di aver pronunciato quella frase,
continuava a
ripetersi che avrebbe dovuto farlo in modo diverso, o in un altro
momento, ma
sapeva anche che non vi fosse un modo per esprimere quelle parole che
facesse
effettivamente meno male. Faceva male anche a lei che le pronunciava.
Ci aveva pensato tanto, era arrivata a quell’unica
conclusione, a cui nemmeno
lei aveva voluto credere per un po’. Eppure le cose erano
cambiate, era
cambiato tutto, e lei aveva paura che niente sarebbe tornato mai come
prima. Ne
era quasi sicura.
Non si mosse dal divano per ore.
Erano quasi le due di notte quando finalmente sentì scattare
la serratura e
vide il marito rientrare, bagnato fradicio di pioggia, chiudendo piano
la porta
per non svegliare le bambine.
Semir, entrando, si sorprese
nel vedere
Andrea seduta sul
divano, lì dove l’aveva lasciata parecchie ore
prima. Si fermò sulla soglia
della stanza in cui lei si trovava, ma non disse niente.
«Semir, ero preoccupata...» mormorò
Andrea dopo qualche istante di silenzio.
Lui scosse appena il capo con un sorriso amaro e si avviò
verso le scale per
raggiungere la camera da letto.
«Semir, non potremmo parlare un attimo?»
supplicò la donna, provando a
fermarlo.
«Non ho niente da dire Andrea... davvero. Hai già
detto tu abbastanza.».
Lei abbassò lo sguardo senza replicare.
Poi sentì la porta al piano di sopra chiudersi e si
avviò anche lei verso le
scale, mentre una lacrima silenziosa le rigava il viso.
N.d.A.
Ma
che bella situazione in casa Gerkhan... meravigliosa direi! A tal
proposito
vorrei avvisarvi del fatto che da quando Ben ha lasciato la serie io ho
continuato a seguire gli episodi in modo un po’ saltuario,
per cui non so proprio
esattamente come sia finita la storia tra Semir e Andrea e comunque sia
ciò che
è successo nella serie non ha alcun collegamento con
ciò che accadrà qui... mi
incuriosiva semplicemente indagare qualche dinamica di crisi familiare
;)
Detto
ciò, grazie a chi mi sta seguendo, grazie Chiara e Reb
per le recensioni
e buon anno!
Sophie
|
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Capitolo 3 *** Qualcosa è cambiato ***
Dal
capitolo precedente:
«Semir,
non
potremmo parlare un attimo?» supplicò la donna,
provando a fermarlo.
«Non
ho niente
da dire Andrea... davvero. Hai già detto tu
abbastanza.».
Lei
abbassò
lo sguardo senza replicare.
Poi
sentì la
porta al piano di sopra chiudersi e si avviò anche lei verso
le
scale, mentre una lacrima silenziosa le rigava il viso.
GIORNO 2.
Ben entrò in ufficio
stranamente puntuale, trovando il
collega già seduto alla propria scrivania, addormentato
sulla sedia.
Sorrise aprendo piano la porta e gli passò davanti al naso
il bicchiere colmo
di caffè fumante perché lui ne sentisse il
profumo.
Semir aprì gli occhi spaesato, guardando prima il
caffè posato ora davanti a
lui e poi l’amico che prendeva posto di fronte alla propria
scrivania.
«Accidenti, mi sono addormentato.»
bofonchiò il turco, afferrando il caffè.
«Decisamente sì, socio.» rise Ben
«Da quanto sei qui?».
«Sono arrivato presto.» fece Semir, strofinandosi
gli occhi ancora assonnati.
«Parecchio presto direi, socio.»
puntualizzò il più giovane, sorseggiando il
proprio caffè «Ancora rapporti da finire
eh?» disse poi, lanciando un’occhiata
al cumulo di fogli posati sulle due scrivanie.
«Già, meraviglioso vero? Preferirei dirigere il
traffico.».
«No, non lo pensi davvero.» rise ancora Ben.
Semir sorrise al buon umore del collega e lo ringraziò
tacitamente per il suo
carattere allegro. Era stanco, aveva perso la notte in preda ai
pensieri e
aveva decisamente bisogno di qualcuno che, come Ben, sapesse tirar su
il morale
anche senza sapere per quale ragione ce ne fosse bisogno.
«Socio, ti devo raccontare una cosa e sappi che spero nella
tua approvazione.»
iniziò Ben, sondando il terreno
«Pronto?».
«Pronto, spara.»
«Ho chiesto a Maggie di venire a vivere da me.».
Alla fine aveva preferito dirglielo: non riusciva a tenerlo per
sé e sapeva che
se l’amico fosse venuto a saperlo in ritardo gli avrebbe
fatto una bella
ramanzina.
Semir rimase per un attimo interdetto «Quando?».
«Pochi giorni fa, lei ha accettato e ieri sera era
già a casa mia... Semir, ho
la netta sensazione che sia quella giusta.».
Il turco sorrise «Facciamo grandi passi avanti eh... stai
diventando meno
scapestrato di quello che sembri. Bravo Ben! Tanto sai già
che lei mi piace,
approvata.».
Ben sorrise a sua volta. L’aveva presentata a Semir mesi fa e
al collega la
ragazza aveva fatto immediatamente buona impressione, il che per lui
era
importante, visto il suo incredibile sesto senso.
«Mi sembra incredibile, Ben Jager che si imbarca in una
storia seria... quasi
quasi mi fa paura.».
«Ma piantala, guarda che io sono un ragazzo serio.».
«Oh sì, mai pensato il contrario.» rise
Semir «Sai, ho paura sia troppo
intelligente per te. È una psicologa, una scrittrice... tu
dovresti esserne
spaventato.».
I due scoppiarono a ridere, di nuovo.
«Sarà meglio che iniziamo a lavorare,
socio.» disse poi Ben, afferrando una
penna e aprendo il primo fascicolo.
Andrea
varcò la soglia del
commissariato con un certo imbarazzo. Era strano, capitava ogni tanto
che
passasse a trovare Semir, ma erano parecchie settimane che non vi
metteva piede
e quel posto tanto conosciuto la fece sentire stranamente in
soggezione. Sapeva
che questo stato fosse dovuto alla situazione che stavano vivendo lei e
il
marito, anche se era estremamente convinta che nessuno lì
dentro sapesse nulla,
eccetto, forse, Ben.
Salutò calorosamente Susanne, che però sembrava
molto indaffarata, impegnata a
diffondere la notizia di un’evasione, probabilmente appena
ricevuta.
Passò poi a salutare la Kruger, che la accolse con un
sorriso e le chiese se
andasse tutto bene. Ovviamente mentì anche a lei, dicendo
che andava tutto per
il meglio. Si chiese quanto questa farsa sarebbe potuta andare avanti.
Infine, si diresse con passo non troppo sicuro verso
l’ufficio di Ben e Semir.
Dal vetro vide il marito di spalle, chino come il collega su una pila
di fogli.
Ebbe fortissima la tentazione di fare marcia indietro e non entrare, ma
si
costrinse a non fuggire dalla situazione che lei per prima aveva creato
e bussò
alla porta.
Entrambi gli ispettori sollevarono la testa di scatto e a lei non
sfuggì lo
sguardo preoccupato che Ben lanciò all’amico prima
di andarle incontro e
aprirle la porta.
«Ehi, Ben!» esclamò Andrea
abbracciandolo, ancora prima di oltrepassare la
soglia della stanza.
«Andrea, è un sacco di tempo che non passi da qui!
Come stai?».
«Tutto bene, tu? Super fidanzato, mi dicono. Allora, quando
mi farai conoscere
questa famosa Maggie?» continuò lei, ostentando
allegria.
«Presto, le ho chiesto di venire a vivere da me.»
confessò il giovane
poliziotto, arrossendo leggermente.
«Ma è meraviglioso! Bravo Ben, lo sapevo che
sarebbe arrivata quella giusta!».
Ben sorrise, lievemente imbarazzato.
«Potresti venire a cena da noi stasera, Aida mi ha implorato
di invitarti. Se ti
va porta anche lei, ci farebbe piacere.».
«Maggie stasera è impegnata, tornerà
tardi a casa...».
«Puoi venire anche da solo, o Aida finirà per
arrabbiarsi con me.» propose
ancora la donna.
«Questo e altro per la mia principessa!»
accettò Ben, con un sorriso.
Poi sia lui che Andrea rivolsero lo sguardo verso Semir, che a braccia
conserte
aveva assistito a tutta la scena senza muovere un muscolo.
«Che cosa c’è?» chiese poi
seccamente alla moglie, sperando che Ben intuisse
l’aria che tirava e uscisse dalla stanza.
Il collega capì perfettamente che la situazione non fosse
delle migliori e in
un altro momento avrebbe sicuramente lasciato gli amici da soli, ma si
sentì
come se i piedi fossero stati incollati al pavimento. Non si mosse.
«Ho appena accompagnato Lily all’asilo e Aida a
scuola, eravamo rimasti che poi
ti avrei lasciato la macchina per portarla dal meccanico, ti
ricordi?» disse
Andrea, atona.
Quel “che cosa c’è?” era la
prima frase che il marito le aveva rivolto dalla
sera precedente.
Semir annuì «Sì, gliela lascio
stasera.».
«Okay, ho... l’ho parcheggiata qua sotto,
tieni.» aggiunse la donna,
porgendogli le chiavi.
Il turco le prese e le appoggiò sulla scrivania.
«C’è altro?» chiese,
guardandola negli occhi e costringendola ad abbassare lo
sguardo.
Lei scosse il capo.
«No... ci vediamo stasera. Ciao Ben!» fece poi
rivolta al più giovane, con un
mezzo sorriso.
Ben salutò a sua volta e la osservò allontanarsi,
mentre percorreva il
corridoio verso l’uscita, passandosi fugacemente una mano
sugli occhi.
Ben
richiuse la porta
dell’ufficio e tornò a sedersi alla scrivania di
fronte al collega.
Lo vide sospirare silenziosamente e fissare per qualche istante quella
foto che
ritraeva lui e Andrea sorridenti insieme alla figlia più
grande, che non aveva
mai spostato dalla sua scrivania.
«Semir... è tutto okay?».
«Ben, non farti influenzare.».
Il più giovane corrucciò la fronte, senza capire
di che cosa l’amico stesse
parlando «Come?».
«Non farti influenzare da quello che sta succedendo tra me e
Andrea, per
favore. Goditi la tua storia e continua a pensare che Maggie
sarà la donna
della tua vita, perché magari sarà
così, va bene? Non pensare che tutte le
storie finiscano come la nostra.».
«Ma la vostra non è finita...».
Semir scosse leggermente il capo con un sorriso stanco «Ieri
sera Andrea mi ha
detto che non mi ama più.».
Ben sentì un brivido freddo percorrergli la schiena.
«Ieri... ieri sera?» balbettò.
Pensò a quanto stupido fosse stato poco prima a raccontargli
di Margaret, fiero
e sorridente. Si maledisse da solo.
«Non ti preoccupare, non lo potevi sapere. Non avrei nemmeno
voluto dirtelo.»
aggiunse il collega, come se gli avesse letto nel pensiero.
«Semir, mi dispiace così tanto...».
Semir si strinse nelle spalle, capovolse la foto che aveva sulla
scrivania.
«Magari lo ha detto in un momento di rabbia, magari non lo
pensa davvero,
magari...».
«Ben... non serve fantasticare, lei lo ha detto
perché lo pensa. Abbiamo
litigato, poi abbiamo deciso di smetterla di gridare e discutere con
calma, ma
lei ha iniziato a piangere, dicendo di dovermi confessare una cosa. Poi
mi ha
detto che non mi ama più. Fine.» riassunse il
turco «E chissà da quanto tempo
lo pensa senza aver avuto il coraggio di dirmelo.».
«A me sembra incredibile...» mormorò Ben
«Ne avete parlato?».
«Non voglio parlarne. Tantomeno con lei, non ora.».
«Ma Semir, dovete parlarne! Andrea si sarà
espressa male, non puoi pensare che
davvero...».
Il collega lo mise a tacere con una sola occhiata e al più
giovane le parole
morirono in gola.
«Ben, lascia perdere. Possiamo fare finta che non ti abbia
detto niente e
continuare a lavorare normalmente?».
Ben annuì, riprendendo in mano la penna e sistemandosi sulla
sedia «Però mi
prometti che quando avrai voglia di parlare conterai su di me? Lo sai,
io ci
sono.».
«Grazie socio, lo so.».
La
fine della mattinata e il
pomeriggio trascorsero tranquilli, senza emergenze e stranamente senza
questioni in autostrada di cui non potessero occuparsi Dieter e Jenny.
Tuttavia, al comando vi era una strana agitazione.
Ben notò Susanne fare più di una volta avanti e
indietro tra la sua scrivania e
l’ufficio della Kruger con fogli e foto segnaletiche tra le
mani, ma non vi
diede molta importanza. Continuò a scrivere e a scrivere
insieme al suo
collega, e finalmente i due ispettori riuscirono a concludere tutto il
lavoro
arretrato che avevano accumulato.
Erano le sette di sera passate quando Semir alzò per la
prima volta la testa
dalle scartoffie e incrociò lo sguardo preoccupato del
collega, che lo
scrutava.
«Fine.» disse con un sospiro, posando la penna e
concedendosi uno sbadiglio
«Non ci posso credere, è passata
un’intera giornata senza incidenti mortali o
casi da risolvere, sono commosso.».
Ben annuì indeciso «Socio, forse non è
il caso che stasera venga a casa vostra.
Non vorrei creare ulteriore scompiglio...».
«Sai che a prescindere da tutto ci farà sempre
piacere averti a cena.» sorrise
Semir, facendogli l’occhiolino «E poi Aida sta
andando in astinenza da Ben
Jager.».
«Allora dovrò portare la chitarra!»
esclamò il poliziotto, alzandosi in piedi e
afferrando lo strumento che sostava appoggiato alla parete.
I due risero e uscirono dall’ufficio, salutando la Kruger e i
colleghi velocemente.
«Ti dispiace andare a casa con la mia?» fece Semir
una volta fuori dal
commissariato, indicando a Ben la BMW parcheggiata e porgendogli le
chiavi
«Almeno io porto la macchina di Andrea dal meccanico e poi ti
raggiungo. Ci
vediamo a casa mia.».
«Certo socio, no problem.».
«Grazie, a dopo.» salutò il turco,
salendo sulla macchina rossa della moglie e
uscendo dal parcheggio con una sgommata.
Ben aspettò che se ne fosse andato e poi avviò
l’auto del collega con un
sospiro, diretto verso casa Gerkhan.
Parcheggiò
davanti alla villetta
e suonò il campanello, sorreggendo con la mano sinistra il
vassoio di dolci che
si era fermato a comprare lungo la strada.
Andrea giunse sorridente ad aprire, lo salutò ringraziandolo
per i dolci e lo
fece entrare in casa.
Ben respirò a pieni polmoni il profumo di pulito che lo
circondava e non poté
fare a meno di constatare quanto fosse legato a quella casa, a quella
che in
parte era diventata la sua seconda famiglia.
«Zio Ben, zio Ben!» le grida di gioia di Aida lo
riscossero, riportandolo alla
realtà, e l’ispettore fece appena in tempo a
posare i dolci su un mobile che
già la bambina gli era saltata in braccio.
«Principessa! Ma come sei bella con questo vestito,
elegantissima!».
«Grazie.» rispose lei arrossendo e abbracciando il
ragazzo a cui era tanto
affezionata.
«Hai portato la chitarra!» esclamò poi,
con gli occhi che le scintillavano.
«Ma certo mia principessa.».
Ben appoggiò la chitarra sul divano e fece scendere a terra
la bambina, perché
potesse aprire la custodia e studiarne il contenuto come le era sempre
piaciuto
fare.
Andrea
osservava la scena a
qualche metro di distanza e non poteva fare a meno di sorridere:
l’affetto che
c’era tra la figlia più grande e il giovane
poliziotto era tangibile e lei
sarebbe stata sempre grata a Ben per questo.
Si avvicinò mentre Aida era intenta a provare la chitarra,
senza smettere di
osservare la sua bambina.
«Ben, Semir dov’è?».
L’ispettore si voltò verso di lei, notando la sua
espressione preoccupata.
«È andato a lasciare la tua macchina dal
meccanico, sarà qui a momenti. Andrea,
Semir mi ha accennato a quello che sta succedendo...» disse,
abbassando la voce
perché la bambina non lo sentisse.
Andrea annuì «Sì, immaginavo che te ne
avrebbe parlato. Che cosa ti ha detto?».
«Sai che lui non lo ammetterebbe mai, ma non penso proprio
che l’abbia presa
molto bene.» rispose lui, sempre a voce bassa.
«Non sai quanto mi dispiaccia, Ben. Lo so, così io
sicuramente mi trovo ad
essere dalla parte del torto ma... non credere che io stia prendendo
questa
cosa alla leggera...».
«Non mi permetterei mai di pensare questo. Però
secondo me dovreste parlare
e...».
Ben si interruppe sentendo scattare la serratura e vedendo Semir
comparire
nell’ingresso.
«Ci sono!» annunciò.
Andrea sospirò leggermente, sempre rivolta a Ben
«Vado a dare la buonanotte a
Lily che è già nel letto.».
Poi sparì in cima alle scale.
Aida invece corse incontro al padre con un sorriso a trentadue denti
stampato
in viso «Papà, papà! Ben ha portato la
chitarra!».
«Ben ti ha portato la chitarra?» ripeté
il turco, fingendosi sorpreso
«Magnifico, allora dovrai insegnargli a usarla.».
La bambina annuì soddisfatta, tornando poi a guardare lo
strumento, mentre
Semir raggiungeva il collega nel salotto.
«Hai portato anche i dolci? Non dovevi, Ben!».
«Almeno quelli.» rise il ragazzo, riconsegnando poi
le chiavi della macchina
all’amico.
«Andrea dov’è?».
Ben sorrise: pochi minuti prima Andrea gli aveva fatto la stessa
identica
domanda riguardo il marito. Questo fatto gli fece stranamente tenerezza.
«Su a mettere a letto Lily.» rispose, con dolcezza.
«Vado a darle la buonanotte anche io.»
esclamò Semir, salendo le scale quasi di
corsa.
Ben sospirò piano.
Erano una bella famiglia, dal suo punto di vista la famiglia perfetta.
Si
chiese con malinconia che cosa si fosse spezzato senza che lui da fuori
se ne
fosse accorto e si domandò anche se quel qualcosa si potesse
ancora riparare,
oppure se fosse troppo tardi.
La
cena trascorse tranquilla, i
tre adulti parlarono del più e del meno, lasciando
però che fosse Aida a
condurre il discorso. Quando c’era zio Ben, la bambina
sembrava sempre avere
mille cose nuove da raccontare e nei suoi occhi si leggeva un
entusiasmo fuori
dal comune.
Dall’esterno tutto sarebbe parso normale, ma Ben non mancava
di cogliere lo
sguardo di Semir costantemente lontano da quello della moglie e
viceversa.
Giunsero al dolce, Aida mangiò di gusto i muffins che il suo
ospite preferito aveva
portato e andò a sedersi a cavalcioni di Ben, ridendo
soddisfatta.
«Sarebbe ora che andassimo a dormire adesso, Aida.»
disse a un tratto Andrea,
guardando l’orologio «Domani hai anche la verifica
di storia.».
La bambina sbuffò, guardando Ben nella speranza di ottenere
da lui una breve
proroga. Il ragazzo rise, arruffandole i capelli «Temo che la
mamma abbia
ragione, principessa.».
«La verifica di storia, cavolo.» mormorò
invece Semir «Aida, cucciolo, ti avevo
promesso che ti avrei aiutato a fare la ricerca.».
Aida annuì, sempre seduta sulle gambe di Ben ma rivolta
verso il padre.
«Me ne sono dimenticato, scusami! L’hai
fatta?».
«Certo che l’ha fatta.» rispose Andrea
per lei «Credevi che l’avrei mandata a
scuola senza la ricerca?».
«Me la sono completamente dimenticata.».
«Sai che novità.» replicò la
donna, seria.
«Mi sono dimenticato una ricerca, Andrea, capita. Non
è la fine del mondo.»
controbatté Semir, pur imponendosi di rimanere calmo.
«Capita, certo. Tutto capita, non è
vero?» continuò lei «Tutto è
sempre
giustificabile, sempre. Fino a che le persone non si stufano, tua
figlia
compresa.».
«Andrea, non mi sembra il momento, possiamo evitare per
favore?».
«Ma... la ricerca l’ho fatta, non dovete litigare
per questo.» intervenne Aida,
con voce sottile.
«Non ti preoccupare tesoro, non litighiamo per te.
Evidentemente tuo padre non
ha avuto tempo.» rispose Andrea, rivolgendo un sorriso alla
figlia «Come
sempre, del resto.» aggiunse, rivolta al marito.
Semir respirò profondamente per evitare di mettersi a urlare.
«Andrea, basta, possiamo parlarne dopo.».
Ben, che fino a quel momento era rimasto immobile e in silenzio, si
alzò
rumorosamente dalla sedia con la bambina in braccio e
afferrò la chitarra che
aveva lasciato in salotto «Che ne dite se metto io a dormire
questa bella
principessa e le suono qualcosina?» disse poi, sorridente.
Andrea lo ringraziò tacitamente e il ragazzo non
tardò a salire le scale e a
chiudersi nella camera al piano di sopra con Aida e il suo inseparabile
strumento tra le mani.
Non fece nemmeno in tempo a chiudere la porta che già
sentì i padroni di casa
cominciare a gridare.
Si sedette sul letto matrimoniale con un sospiro e rivolse un sorriso
alla
bambina che teneva seduta sulle ginocchia.
«Allora principessa, che cosa vorresti ascoltare?».
«È
una ricerca, Andrea, una
ricerca!» sottolineò Semir «Ti sembra il
caso di fare una scenata per una
ricerca di storia?».
«Proprio non capisci oppure fai finta, Semir?»
continuò sullo stesso tono la
donna «Non è la ricerca che conta, conta il fatto
che Aida ci teneva, voleva
che fossi tu a farla con lei. E tu l’hai delusa,
ancora.».
«Da quando sono diventato un padre così orribile?
Eh? Spiegamelo, per favore.».
«Da quando metti qualsiasi cosa davanti alla tua famiglia,
qualsiasi cosa!».
«Io non mi permetto di dirti che tu non sai fare la
madre.».
«Non ho mai detto che non sai fare il padre.»
ribatté Andrea «Dico che
evidentemente hai più interesse per altre cose. E le bambine
lo capiscono.».
«Stai dicendo tutto questo solo perché per qualche
settimana sono stato più
impegnato al lavoro? Davvero siamo arrivati a tanto?».
«È una vita Semir, non sono settimane. Lo
capisci?».
«Zio
Ben, perché mamma e papà
litigano sempre?» domandò Aida
all’improvviso, interrompendo la magistrale
interpretazione dell’ispettore di una canzoncina per bambini.
Ben posò la chitarra e accarezzò i capelli della
ragazzina, guardandola negli
occhi.
«Le persone litigano, piccola, succede. Papà e
mamma hanno idee diverse, ma è
normale.».
«Però loro urlano. E la mamma piange, ogni
tanto.» puntualizzò lei, con lo
sguardo assorto.
«Non ti devi preoccupare, forse è un periodo in
cui loro sono stanchi, ma non
ti devi preoccupare, te lo dice zio Ben.».
La bambina annuì, poco convinta.
«Allora, se ora io ti canto una bella ninna nanna mi prometti
che andrai a
dormire, principessa?».
«Ci
siamo sposati che ero un
poliziotto, ci siamo conosciuti in commissariato, hai sempre saputo
come
sarebbe stata la mia vita, hai sempre saputo il tempo che avrei avuto.
È sempre
stato così.».
«Forse pensavo che con due figlie sarebbe cambiato
qualcosa.» affermò Andrea,
con rabbia.
«Infatti è cambiato qualcosa!»
esclamò Semir, gesticolando nervosamente «Ogni
volta che metto piede in autostrada, ogni volta che devo estrarre la
pistola,
ogni volta che mi trovo in pericolo penso a loro. E penso a te.
È cambiato
qualcosa. Non posso più dire di non avere niente da perdere
ed è così da quando
è nata Aida, o forse già da quando ci siamo
sposati... quindi è cambiato
qualcosa.».
«Ma...».
«No, ascolta.» continuò il turco,
interrompendo la moglie «La verità è
che tu
stai cercando dei pretesti. Queste sono tutte scuse. Me lo hai detto
ieri sera,
Andrea... Tu mi hai detto qual è il vero problema,
l’ho capito. Ma non
chiedermi di accettarlo. E non usare le bambine come scusa, non dirmi
che non
sono un buon padre solo perché per te questo matrimonio non
vale più niente.».
Ben
ormai non udiva nemmeno più
le grida che provenivano dal piano di sotto.
Infatti non si accorse minimamente di quando cessarono e non si accorse
nemmeno
che qualcuno aveva salito le scale e aveva appena aperto la porta della
camera
in cui si trovava.
Semir rimase per qualche istante sulla porta a guardare
l’amico che cullava tra
le braccia Aida, ormai profondamente addormentata, canticchiando a
bassa voce
una melodia.
Quando Ben si accorse di lui, si voltò e gli sorrise senza
smettere di cullarla
«Tutto okay socio?».
Il turco si sforzò di sorridere.
«Grazie per averla portata su e averla fatta addormentare. E
scusa, non volevo
che la serata finisse così.».
«Non ti preoccupare.» rispose il collega, alzandosi
e sistemando la bambina tra
le braccia di Semir.
Lei si mosse appena.
«Shhh dormi principessa.» sussurrò
ancora Ben, guardandola con affetto.
«La metto a letto.» disse Semir, entrando nella
camera dove già la sorellina
dormiva e adagiandola sotto le coperte.
«Papi...» mormorò Aida, prima che lui
potesse allontanarsi dal letto.
«Cucciolo, sei sveglia?».
La bambina annuì, tenendo però gli occhi
socchiusi «Hai fatto pace con la
mamma?».
«Sì piccola, stai tranquilla. E domani se vuoi,
dopo scuola, ti porto anche a
fare la gita che non hai potuto fare ieri, che cosa ne dici?».
«Viene anche zio Ben?».
«Adesso glielo chiedo, va bene?».
Aida annuì, mezza addormentata.
«Ora però dormi, buonanotte. Ti voglio
bene.» sussurrò Semir, rimboccandole le
coperte e dandole un bacio sulla fronte.
Poi uscì dalla stanza chiudendo la porta e trovò
Ben ad aspettarlo poco oltre
la soglia.
«Mi dispiace davvero per quello che è successo,
avrei dovuto evitarlo.».
«Socio, non ti preoccupare, dico davvero. Ma va tutto
bene?» domandò il
ragazzo, in apprensione.
L’altro annuì e Ben non poté fare a
meno di notare quanto avesse l’aria stanca.
«Potresti prenderti qualche giorno, sai Semir? Per parlare
con Andrea, stare
con le bambine, riposarti un po’...».
Il turco sorrise scuotendo il capo.
«Dico davvero, hai bisogno di riprendere fiato.».
«Sto bene, Ben. E poi domani ho il giorno libero,
è già qualcosa.» rispose
Semir, cominciando a scendere le scale «Domani pomeriggio
porterò Aida allo
zoo, avrebbe dovuto andarci ieri con la scuola, ci teneva tanto: hanno
inaugurato il nuovo recinto delle scimmie. Mi ha chiesto se vuoi venire
anche
tu.».
«Sentivo precisamente la mancanza delle scimmie.»
commentò Ben, ridendo e
seguendo il collega giù per le scale «Certo che
vengo, mi fa piacere.».
I due poliziotti raggiunsero l’ingresso, dove Andrea li stava
aspettando.
Abbracciò Ben per salutarlo «Mi dispiace tanto,
siamo stati due maleducati.».
«Ma figurati, non è successo niente. Anzi, grazie
per la cena, era
buonissima.».
La donna sorrise grata e accompagnò l’ospite alla
porta insieme al marito.
Lo videro allontanarsi nel buio, poi Andrea e Semir rientrarono in casa
e i
loro sguardi si incrociarono, per poi prendere nuovamente direzioni
diverse.
Si stavano perdendo, e ne erano entrambi terribilmente consapevoli.
L’uomo
sollevò finalmente il
cappuccio dalla propria testa, tirando un sospiro di sollievo. Era al
sicuro.
Si guardò intorno, storcendo il naso all’odore di
umido che aleggiava in quella
cantina e si sedette al piccolo tavolo di legno che occupava il centro
della
stanza.
La donna si sedette di fronte a lui «Bene, qui saremo
tranquilli per un po’.».
L’uomo annuì lentamente.
«Allora, quando hai intenzione di agire?»
domandò lei, eccitata.
«Con calma Kate, con calma. Presto gli arriverà la
notizia che sono evaso, e
già basterà questo a farlo cadere
nell’ansia più profonda. Sarà una
vendetta
lenta, molto lenta. Voglio vederlo sgretolarsi pezzo per pezzo davanti
ai miei
occhi.».
La donna sorrise «Sarà tutto perfetto. Io nel
frattempo proseguirò con gli
appostamenti.».
«Brava.» fece lui, con voce pacata
«L’edificio? L’hai controllato? I
meccanismi
funzionano ancora?».
«Come nuovi.».
«Fantastico. Fantastico...» commentò
l’uomo, in un sussurro.
Nelle mani stringeva un foglio piegato in due, una vecchia foto.
La mise in tasca, e sorrise.
N.d.A.
Un altro capitolo introduttivo, un altro capitolo di litigi. Ma non
disperate,
prima o poi si arriverà al dunque...
Grazie a tutti coloro che stanno seguendo, a chi legge in silenzio e a
chi
recensisce, grazie davvero!
Sophie
|
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Capitolo 4 *** Non possiamo mollare ***
Dal capitolo
precedente:
«Allora,
quando hai intenzione di agire?» domandò lei,
eccitata.
«Con calma Kate, con calma. Presto gli arriverà la
notizia che sono evaso, e
già basterà questo a farlo cadere
nell’ansia più profonda. Sarà una
vendetta
lenta, molto lenta. Voglio vederlo sgretolarsi pezzo per pezzo davanti
ai miei
occhi.».
[...]
Nelle
mani stringeva un foglio piegato in due, una vecchia foto.
La mise in tasca, e sorrise.
GIORNO
3.
Semir
parcheggiò la sua BMW
davanti alla scuola di Aida e spense il motore, rimanendo
all’interno della
vettura.
Ben, accanto a lui, abbassò il finestrino con un grande
sbadiglio.
«Ben, non sei obbligato a farlo, lo sai?» gli
ricordò il turco, per l’ennesima
volta.
«Me lo hai detto una decina di volte... invecchiamo
eh?» scherzò il più
giovane, con il sorriso sulle labbra.
«Dico sul serio, magari avresti un modo migliore di passare
il tuo pomeriggio
libero piuttosto che andare a visitare il nuovo recinto delle
scimmie.».
Il ragazzo alzò le spalle «Maggie lavora e io
starei tutto il pomeriggio in
casa a suonare o mangiare schifezze, quindi preferisco trascorrerlo in
compagnia
delle scimmie e della mia principessa preferita.».
Semir sorrise e guardò l’orologio. Mancavano
ancora cinque minuti al suono
della campanella, erano arrivati in anticipo.
«Secondo te io non sono un buon padre?».
La domanda arrivò inaspettata e Ben dovette ripetersela
nella mente prima di
capire che cosa effettivamente l’amico gli stesse chiedendo.
«Andrea ti ha detto questo?».
«Tu rispondi.».
«Io penso che non esista un padre migliore di te. E te lo
dico per esperienza
personale, io so che cosa voglia dire non avere un buon
padre.» rispose Ben,
guardando l’amico negli occhi «Dico
davvero.».
«Ho paura che le mie figlie non la pensino come
te.» mormorò il turco, con un
sospiro.
«Sai Semir, io ogni volta rimango stupito da quanto Aida ti
assomigli. Non riesco
a immaginare che lei possa desiderare un padre diverso da te e sono
sicuro che
non sia così. Non so che cosa ti abbia detto Andrea, ma in
fondo sa anche lei
che tu hai sempre messo le bambine al primo posto, dal momento stesso
in cui
sono nate.».
Il collega annuì, guardando un punto fisso al di fuori del
finestrino «Spero
tanto che tu abbia ragione, Ben.».
Il suono della campanella arrivò chiaro e tondo fino alle
loro orecchie,
archiviando il discorso, e una mandria disordinata di bambini
uscì correndo
dall’edificio rosa, come se tutti stessero scappando da
qualcosa. C’era chi
rideva, chi giocava, chi faceva i capricci ancora prima di incontrare i
genitori. E poi c’era Aida, che notando la macchina del padre
in fondo alla
strada, corse sorridente verso di lui che era appena uscito dalla
vettura per
aspettarla.
Non succedeva spesso che il papà riuscisse a prenderla
all’uscita da scuola, ma
quando questo accadeva la bambina era felicissima.
Quando poi vide Ben seduto dal lato del passeggero, gli occhi le si
illuminarono
ancora di più «Zio Ben, sei venuto!»
gridò, entusiasta.
«Ma certo mia principessa!» confermò lui
con un sorriso allegro.
«E adesso tutti allo zoo!» esclamò
Semir, salendo in macchina e mettendo in
moto, assicurandosi prima che la figlia avesse allacciato la cintura.
«...
E quindi riescono a mangiare
tutte queste cose insieme in pochi secondi. Hai capito zio
Ben?».
Aida concluse un discorso interminabile che aveva portato avanti
dall’esatto
istante in cui si era allontanata dalla gabbia delle scimmie, almeno un
quarto
d’ora prima. Era incredibile quante cose la bambina sapesse
su quegli animali.
«Ho capito, è interessante!»
esclamò Ben, tenendola per mano.
«Aida, ora riprendi fiato.» rise Semir,
scompigliando i capelli alla figlia,
che si mise a ridere.
«Non è ancora arrivata l’ora della
merenda?» chiese Ben, imitando la voce di un
bambino.
«Praticamente ho due bimbi al seguito.»
commentò il collega, guardando l’amico
e la bambina che camminavano per mano.
«Sì papi, anche io voglio la merenda!»
disse Aida, stringendo nella mano libera
la piantina cartacea dello zoo che le avevano consegnato
all’ingresso.
«Qui dovrebbe esserci la baita... eccola!» fece
Semir, facendo strada verso una
piccola struttura in legno.
I tre entrarono e si sedettero a un tavolino accanto alla finestra,
ordinando
qualcosa da mangiare. Ben e Aida ordinarono una grossa fetta di torta
al
cioccolato ciascuno e fecero a gara a chi la finisse più in
fretta.
Solo dopo un po’ il giovane ispettore si accorse che il
collega non li stava guardando,
ma tentava piuttosto di ascoltare il notiziario che la piccola tv
incastonata
nel legno proponeva a volume bassissimo.
«Semir? Tutto bene?» provò a chiedere
Ben, ma il socio gli fece cenno di
aspettare e continuò ad ascoltare, tamburellando
nervosamente sul tavolo con le
dita.
«Papi? Papi, posso andare a giocare qui davanti sullo
scivolo?» chiese Aida,
dopo essersi pulita il viso dai residui di cioccolato.
«Sì, ma stai qui davanti.» rispose il
poliziotto, per poi tornare
immediatamente con lo sguardo puntato verso il televisore.
«Mi scusi, potrebbe alzare il volume?» chiese
all’uomo che sonnecchiava dietro
al bancone del bar. Questi si riscosse e fece come gli era stato
chiesto:
finalmente le parole giunsero chiare alle orecchie dei due ispettori.
“La notizia ha avuto una diffusione
sconcertante, in molti temono che il noto boss della droga abbia deciso
di
uscire dai confini territoriali. Le frontiere sono controllate e una
foto
segnaletica è stata diramata alle autorità e
viene mostrata in ogni notiziario.
Chiunque creda di avere notizie riguardo il possibile nascondiglio
dell’evaso è
pregato di rivolgersi alle forze dell’ordine,
oppure...”.
«Semir, ma chi...» iniziò Ben,
ma venne subito interrotto dal collega, che
gli intimò di stare zitto ancora per qualche secondo.
“Ricordiamo il suo nome, Friedrich
Keller, e invitiamo gli ascoltatori a collaborare perché
quest’uomo venga
riconsegnato alla giustizia.”.
Semir fece un cenno al barista
e
questi riabbassò il volume. Poi, automaticamente,
lanciò un’occhiata fuori
dalla finestra e controllò che Aida fosse sempre intorno
allo scivolo.
«Ehi socio, si può sapere che succede? Sei
diventato pallido, stai bene?».
Solo allora il turco sembrò riscuotersi del tutto e
tornò a guardare Ben,
annuendo meccanicamente.
«Che cosa è successo? Conosci questo
Keller?».
«Sì Ben... sì, lo conosco.».
Keller
continuò a osservare
quella fotografia.
Erano bellissime. Sua moglie, le sue due bambine, erano semplicemente
perfette.
Isabelle, i lunghi capelli biondi che le incorniciavano il viso
abbronzato,
quei due enormi fari azzurri che le illuminavano il volto. E poi Sophie
e
Martha, gli amori della sua vita, le sue due figlie. La più
grande mora, come
il papà. La piccola bionda, come la mamma. Un quadro
perfetto.
Sorridevano, nella foto. Erano felici.
«Allora, Friedrich... quando iniziamo a parlare seriamente di
come agire?».
L’uomo alzò lo sguardo su Kate. Non
gradì l’interruzione del flusso dei propri
pensieri.
I suoi occhi erano pozzi grigi profondi, eppure sembravano emanare
fiamme incandescenti.
«Quell’uomo le ha uccise... le ha
uccise.» mormorò.
E in uno scatto d’ira si alzò e
scaraventò la sedia contro il muro.
«Io...
sono morte, io ho...»
sussurrò Semir, mentre come incantato continuava a fissare
le immagini
dell’evaso che il notiziario divulgava senza sosta.
«Chi è morto? Semir, guardami.» fece
Ben, cominciando a preoccuparsi e tentando
di attirare l’attenzione del collega.
«La sua famiglia.» disse infine il turco, tornando
a guardare il collega e
lanciando un’occhiata fugace ad Aida attraverso la finestra
«Sua moglie e le
sue figlie. Per colpa mia.».
«Ma che cosa stai dicendo? Semir, sei sicuro di sentirti
bene?».
«È stato... durante un’operazione di
polizia. Keller era un magnate della
droga, non aveva mai fatto un passo falso, per anni era riuscito a
gestire il
più grande mercato di droga della Renania
Settentrionale-Vestfalia senza che la
polizia riuscisse a trovare nulla per incastrarlo e far sì
che fosse
incriminato.» spiegò Semir, senza smettere di
tenere d’occhio la figlia, che allegra
giocava sullo scivolo con altri bambini della sua età
«Poi però il mio collega riuscì
a infiltrarsi nell’organizzazione e noi ottenemmo
informazioni sugli scambi che
si sarebbero effettuati nelle settimane successive e in particolare su
quelli a
cui lo stesso Keller avrebbe presieduto.».
«È
stato durante lo scambio con i
francesi. Ricordi Kate?» sibilò Keller, girando
nervosamente per la cantina
semibuia. Era incredibile quanto ricordare ancora facesse male. Ma era
necessario.
«Tu non eri presente... ma ti raccontai come andò.
Come accadde.».
La donna annuì, seria. Sapeva, pur senza comprenderne il
motivo, che
periodicamente quell’uomo sentisse il bisogno di riportare
alla mente e
raccontare quei fatti, nonostante fosse per lui terribilmente doloroso.
«Quello sbirro, quel suo collega si era infiltrato tra i miei
uomini e aveva
divulgato ogni informazione riguardo gli scambi con i francesi. Poi,
quel
giorno...».
«Quel
giorno... il giorno in cui
tendemmo l’imboscata a Keller e i suoi uomini, lui stava per
portare a termine
uno scambio con dei francesi.» continuò Semir, con
un sospiro «Partecipammo sia
noi dell’autostradale sia quelli dell’LKA. Il caso
era di loro competenza, ma
il commissario aveva chiesto aiuto alla Engelhardt e lei aveva messo a
disposizione
tutti i suoi uomini, addirittura lasciando che fosse uno di noi a
infiltrarsi,
per questo eravamo presenti.».
«Che cosa andò storto?»
domandò Ben, chiedendosi come una situazione del genere
potesse essersi conclusa con il coinvolgimento della famiglia di Keller.
«Uno degli uomini di Keller si accorse della nostra presenza
appena prima che
lo scambio avvenisse, quando già sia lui sia i francesi
avevano raggiunto il
luogo indicato.
«Quando
mi dissero che la polizia
ci aveva circondati, l’unica alternativa che mi rimase era la
fuga.» ricordò
l’evaso, scuro in volto.
Kate annuì, scrutando le espressioni dell’uomo che
aveva di fronte e ascoltando
quella storia che già conosceva a memoria.
«Corsi verso la mia macchina, era parcheggiata a pochi metri
dal luogo dello
scambio. Gli sbirri erano impegnati con i miei uomini, nessuno aveva
notato la
mia fuga. A parte quel turco. Lui mi seguì...
maledetto.».
Keller strinse i pugni, cercando di dominarsi mentre di nuovo la rabbia
minacciava di prendere il sopravvento sulla ragione.
«Keller
tentò di fuggire e io lo
seguii.» raccontò ancora Semir, continuando a
tamburellare nervosamente con le
dita sul tavolo «Gli intimai di fermarsi, ma ovviamente non
mi ascoltò. Stava
per raggiungere la propria auto, sarebbe fuggito sicuramente... si
riparò
dietro la macchina e cominciò a spararmi addosso. Io risposi
al fuoco ma mirai anche
agli pneumatici della vettura, per fare in modo che non potesse andare
lontano
anche se fosse riuscito a salirvi. Non avevo visto la perdita di
benzina... io
non l’avevo vista... l’auto prese fuoco.».
«Vai
avanti.» gli intimò la
donna, con una freddezza per lei naturale. Si sistemò i
capelli dietro alle
orecchie, e attese la fine del racconto.
«Le vidi bruciare, Kate...» sibilò
Keller, a denti stretti, sentendo l’ira
sconvolgerlo e il dolore dilaniarlo dall’interno
«Sono saltate in aria davanti
ai miei occhi.».
«Aveva
i vetri oscurati, Ben.»
mormorò il poliziotto, portando lo sguardo a terra e
mordendosi le labbra «Io
non sapevo... non potevo immaginare che dentro a quell’auto
ci fossero una
donna e due bambine. Avevo visto scendere solo Keller e il suo braccio
destro
dalla vettura, e poi lui si era riparato dietro di essa e mi stava
sparando
addosso e io non immaginavo che... tu sai che non avrei mai sparato se
avessi
avuto anche solo il minimo sospetto che ci fosse stato qualcun altro
lì dentro.
Non lo avrei mai fatto.».
«Lo so, Semir. Non potevi sapere.» disse Ben, dando
al socio una leggera pacca
sulla spalla «Ma non capisco, perché mai Keller
avrebbe dovuto portare la sua
famiglia allo scambio rischiando la loro vita? Non ha senso.».
L’altro scosse il capo «Non lo so, non
l’ho mai saputo. Me lo sono chiesto per
mesi, ma non ho mai trovato una risposta.».
«Ma
io avrò giustizia, Kate.»
asserì l’uomo, in preda alla rabbia.
«Certo che l’avrai, Friedrich.».
«Quel poliziotto ha distrutto la mia vita... io
distruggerò la sua. Fosse
l’ultima cosa che faccio, io lo vedrò supplicarmi,
lo vedrò mentre guarda la
sua vita crollare, lo vedrò sperare di morire. Fosse
l’ultima cosa che
faccio.».
«In
quel momento ho visto
quell’uomo cambiare, Ben.».
Il più giovane corrucciò la fronte, chiedendosi a
che cosa alludesse l’amico.
Aspettò che continuasse senza fare domande.
«L’ho visto diventare umano. Fino a quel momento
era sempre stato solo un
criminale senza scrupoli e nell’esatto istante in cui quella
macchina ha preso
fuoco io ho visto le rughe sul suo volto cambiare, i suoi occhi cedere
alla
disperazione, le sue mani tremare. Era dietro all’auto,
è riuscito a salvarsi dall’esplosione
per un pelo... Ma poi l’ho visto accasciarsi a terra e ho
capito subito che ciò
che era finito distrutto non dovesse essere solo una macchina...
è stato
terribile.» spiegò Semir, lanciando ancora
un’occhiata ad Aida attraverso il
vetro della finestra.
«Che è successo dopo?» chiese Ben,
cautamente.
Il collega risollevò lo sguardo, scuotendo appena il capo
per levarsi dalla
mente le immagini orribili che i ricordi avevano scelto di riportare a
galla.
«Keller venne arrestato. Confessò ogni cosa. Prima
di essere trasferito in
carcere, chiese di poter parlare con me, ma quelli dell’LKA
glielo negarono.
Così sì limitò a gridarmelo da lontano
mentre veniva portato via...».
«Gridarti cosa, Semir?».
«“Io ti distruggerò... vedrai la tua
vita crollare. Io ti distruggerò, fosse
l’ultima cosa che faccio.”».
Ben annuì, sentendo un brivido scorrergli lungo la schiena.
«Poi io venni sospeso dal servizio per un periodo... ci fu il
processo, ricordo
ancora le parole del giudice: qualora
si verifichi un evento più grave di quello voluto,
ciò rientra nel rischio
insito nell'uso delle armi da parte del pubblico ufficiale, e di
conseguenza
non può essere posto a carico del medesimo... io non ebbi conseguenze
perché
aprii il fuoco quando Keller aveva già cominciato a
spararmi, legittima difesa.
Però quell’“evento più grave
di quello voluto” è stata la morte di tre
innocenti... Ancora adesso, a volte, non ci dormo la notte.».
«Non me ne avevi mai parlato.» commentò
il più giovane, sorpreso.
«È una cosa che riguarda il passato.
All’epoca Aida era piccola...»
«Pensi che... che lui voglia...».
Semir alzò le spalle, ma aveva il terrore negli occhi.
«Devo portare Aida a casa. E stare a casa, con le bambine,
con Andrea. Ben,
andiamo.».
Il ragazzo annuì e seguì il collega mentre pagava
velocemente le due fette di
torta e usciva dalla baita, prendeva sua figlia per mano e si dirigeva
a passo
svelto verso la macchina, posteggiata di fronte all’uscita
dello zoo.
Ben
scese dalla macchina e salutò
Aida con un bacio. Poi aspettò a rientrare in casa fino a
quando la BMW del
collega, che lo aveva riaccompagnato, non fu sparita
all’orizzonte.
Sospirò ripensando alla storia che l’amico gli
aveva raccontato e si ritrovò a
sperare che l’evaso avesse già lasciato il paese,
con il solo intento di fuggire
il più lontano possibile. Quella storia lo aveva turbato, ma
soprattutto lo
aveva turbato la preoccupazione che aveva letto negli occhi di Semir
mentre la
raccontava. Sperò che arrivando a casa e trovando Lily e
Andrea al sicuro il
socio si sarebbe tranquillizzato.
Sommerso da questi pensieri, varcò la porta di casa nella
più totale
distrazione, ma sorrise raggiante quando ad accoglierlo si
presentò Margaret,
che lo salutò con un bacio.
«Ciao amore mio.» gli sussurrò lei
all’orecchio, lasciandolo poi entrare e
guardandolo mentre lui si toglieva la giacca ed entrava in cucina, alla
ricerca
di un po’ di calore.
Era un autunno rigido, talmente freddo che chiunque avrebbe pensato di
trovarsi
già in inverno pieno, e non solo al sedici di novembre.
Maggie gli cinse le spalle da dietro e lo abbracciò.
«Come è andata allo zoo con la tua
principessa?».
«Bene...» mormorò Ben, prendendo la
ragazza per mano e conducendola verso il
divano, dove entrambi si sedettero accoccolati l’uno stretto
all’altra.
«Sicuro?» chiese lei, notando
l’espressione incerta del poliziotto.
«Sì, è solo che abbiamo saputo di
un’evasione che c’è stata ieri mattina
e...».
«Ah sì, Keller.» lo interruppe Margaret
«Il magnate della droga, non si parla
d’altro da ieri. Sai, me ne ha parlato anche un paziente.
Sembrano tutti
preoccupati.».
Ben annuì piano.
Margaret era una psicologa, lavorava in uno studio con un giro di
pazienti che
si era costruita da sola negli anni e di cui era particolarmente
orgogliosa.
Aveva seguito dei corsi di criminal profiling ed era stato proprio
questo il
primo argomento di conversazione tra i due, quando si erano incontrati
in quel
bar. Non appena lei aveva scoperto che Ben fosse un ispettore di
polizia, aveva
cominciato a raccontare di quanto lei sapesse in proposito, di quanto
avesse
sempre desiderato, fin da bambina, stare
dalla parte dei buoni e catturare i cattivi. E di come, poi,
la vita
l’avesse portata sì ad aiutare le persone, ma non
in veste di poliziotta, bensì
di, come si definiva lei, semplice
strizzacervelli.
Ma la sua vera passione era la scrittura. Scriveva, scriveva, scriveva
fin da
quando aveva avuto le conoscenze per farlo, appena bambina. Non aveva
mai
pubblicato niente, ma era in continua ricerca di spunti, di idee, di
sentimenti
da trasferire su carta.
E questo a Ben era piaciuto moltissimo, dal primo momento che
l’aveva
conosciuta.
Lei non si accontentava. Voleva sempre di più, voleva
conoscere le storie delle
persone, capirle, immaginarle. Voleva saperle scrivere.
«Non mi dirai che anche tu sei preoccupato per
l’evasione, Ben?».
Il ragazzo si strinse nelle spalle, riscuotendosi dai propri pensieri e
immergendosi negli occhi verdi di lei.
«Sono preoccupato per Semir. Lo aveva arrestato lui anni fa e
mentre cercava di
fermarlo la macchina di Keller aveva preso fuoco con dentro sua moglie
e le sue
due figlie. Keller gli aveva giurato vendetta.».
Il volto della ragazza si rabbuiò «Vuoi dire
che...».
«Maggie, si ti raccontassi per bene tutta la storia, tu
sapresti dirmi che
intenzioni potrebbe avere Keller?».
Lei scosse il capo «Non traccio il profilo di un criminale da
anni ormai, non
so se ne sarei in grado. E poi mi servirebbe del materiale
e...».
«Però potresti provarci. Ti fornirò
tutto il materiale che vorrai. Va bene?»
concluse Ben, mostrandole gli occhi dolci.
Margaret sorrise e annuì.
«Se ti fa stare più tranquillo certo che ci provo,
amore mio.».
Semir
si precipitò in casa con
Aida per mano, in preda a un’ansia improvvisa.
Il suo respiro si regolarizzò solo quando vide Lily giocare
beata sul tappeto
in salotto e Andrea intenta ad apparecchiare la tavola in cucina.
Lasciò la mano della figlia più grande, che dopo
aver salutato la mamma
raggiunse la sorella per giocare, e tirò un sospiro di
sollievo.
Andò in cucina, ancora con la giacca addosso e le chiavi
della macchina in
mano, e rimase a guardare Andrea per qualche istante, ma non disse
niente. Il
cuore batteva ancora troppo veloce per lo spavento.
«Semir, tutto a posto?» domandò la
donna, vedendolo sulla porta in quello
stato.
«Andrea, ti devo parlare.».
«È successo qualcosa? Aida sta bene?»
chiese ancora la moglie, lanciando
un’occhiata verso la figlia più grande, che
però giocava tranquillamente con
Lily.
«Non è successo niente, ma ti devo
parlare.».
Andrea annuì, corrucciando la fronte. Il tono del marito non
era quello duro e
arrabbiato degli ultimi due giorni, né quello nervoso delle
settimane
precedenti.
«Andrea, ascoltami, non possiamo mollare.».
«Semir, ti prego...».
«No, ascoltami, parlo sul serio. Non possiamo mollare, non
adesso. Hai capito?
Magari questo è solo un brutto periodo, magari stiamo
sbagliando entrambi,
magari siamo solo stanchi. Ma non possiamo mollare. Andrea, ti prego.
Tutto
questo non può essere gettato via per sempre, il nostro
matrimonio, la nostra
casa, le nostre figlie... Io non voglio questo! E credo... credo che
nemmeno tu
lo voglia, credo che tu mi abbia detto quelle cose l’altra
sera solo perché eri
arrabbiata e...».
«Semir, per favore.» lo interruppe la donna
«Che cosa stai dicendo? Sai che non
è così e...».
«No, Andrea, ti prego, ascoltami.»
continuò Semir, imperterrito «Io ti sto
supplicando... non possiamo mollare tutto, non ora... ti
prego.».
Che dire... vi ho spiegato parecchie cosette con
questo capitolo,
adesso la base della storia è intessuta e possiamo iniziare
davvero. Grazie a
chi mi segue e a chi recensisce, un bacione!
Sophie
PS: lo so, è improbabile, anche con la
perdita di benzina, che una
macchina esploda o prenda fuoco per qualche proiettile, ma prendetela
come una
piccola licenza poetica... d’altra parte, in Cobra 11 esplode
quasi tutto, no?!
A presto!
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Capitolo 5 *** Sarà solo colpa tua ***
Dal
capitolo precedente:
«No,
ascoltami, parlo sul serio.
Non possiamo mollare, non adesso. Hai capito? Magari questo
è solo un brutto
periodo, magari stiamo sbagliando entrambi, magari siamo solo stanchi.
Ma non
possiamo mollare. Andrea, ti prego. Tutto questo non può
essere gettato via per
sempre, il nostro matrimonio, la nostra casa, le nostre figlie... Io
non voglio
questo! E credo... credo che nemmeno tu lo voglia, credo che tu mi
abbia detto
quelle cose l’altra sera solo perché eri
arrabbiata e...».
«Semir, per favore.» lo interruppe la donna
«Che cosa stai dicendo? Sai che non
è così e...».
«No, Andrea, ti prego, ascoltami.»
continuò Semir, imperterrito «Io ti sto
supplicando... non possiamo mollare tutto, non ora... ti
prego.».
GIORNO 4.
La donna girò
attorno al
tavolo come una pantera gira
attorno alla propria preda ormai in trappola, con una specie di sorriso
dipinto
sul viso.
«Allora, Friedrich, da dove vogliamo cominciare?».
«Dalla paura.» sentenziò Keller, con
decisione «Già solo il fatto che io sia
evaso lo farà tremare. Voglio assicurarmi che il suo stato
psicofisico diventi
disastroso, Kate.».
«E per quanto riguarda il problema di cui ti ho
accennato?» domandò Kate,
sempre sorridendo beffarda.
«Potrebbe non essere un problema, dopotutto. Il fatto che
abbia problemi con la
moglie lo porta a stare peggio, il che per noi è un bene. E
non credo proprio
che lui possa tenere meno alla sua famiglia per questo motivo, per cui
il
problema non dovrebbe sussistere.».
«Molto bene. Allora, quando li avremo tutti come ci
muoveremo?».
«Sarà un processo lento, Kate.»
ribadì l’uomo, con voce ferma
«Cominceremo
dalle bambine.».
La donna scosse il capo «Io comincerei dalla moglie,
Friedrich. Così non potrà
nemmeno condividere il suo dolore con qualcuno. Sarà ancora
peggio per lui,
credimi.».
L’evaso rimase un attimo immobile a pensare, poi
annuì. A volte il sadismo di
quella donna lo sconvolgeva.
«Gli porteremo via tutto, Kate. Lo condurremo fino al limite
della
sopportazione. Vedrà tutto ciò che ha costruito
crollare sotto i propri
passi.».
Semir entrò al
comando a
passo di carica, dirigendosi verso
il proprio ufficio scuro in volto, lanciando continuamente occhiate
all’orologio.
«Spero che Dieter e Jenny siano già arrivati a
casa mia, mentre venivo qui.»
esclamò entrando rivolto a Ben, senza nemmeno averlo prima
salutato.
Il collega, seduto alla propria scrivania, sollevò il
cellulare mostrandolo
all’amico «Mi ha appena chiamato Jenny, sono
arrivati ed è tutto a posto. Mi ha
detto che ti hanno visto, sono arrivati proprio mentre tu stavi uscendo
di
casa.».
«Bene.» fu la secca risposta del turco.
Avrebbe parlato del caso Keller con la Kruger in mattinata, ma nel
frattempo
aveva preteso che qualcuno controllasse la sua famiglia quando lui non
era
presente. Aveva chiesto a Dieter e Jenny di fare il primo turno,
chiedendo loro
di sostare semplicemente davanti a casa Gerkhan senza farsi vedere o
dare
spiegazioni ad Andrea, e avvisandoli che lei sarebbe uscita in
mattinata, ma
che loro sarebbero dovuti rimanere davanti a casa, dove sarebbero
rimaste le
bambine con la mamma di Andrea.
«Socio, hai parlato ad Andrea di questa faccenda?»
chiese Ben, intuendo già la
risposta.
Il collega infatti scosse il capo.
«No, anzi. Ieri sera l’ho supplicata
di rimanere con me, di non mollare tutto adesso. Dignità
sotto i piedi,
proprio.» raccontò Semir con un sorriso amaro.
«E lei che cosa ti ha detto?».
«Lascia perdere Ben.».
Il ragazzo ammutolì, non osò chiedere altro per i
cinque minuti successivi.
«Vuoi che andiamo a parlare con la Kruger?»
domandò poi, constatando
l’insistente silenzio dell’amico.
Pochi minuti più tardi erano entrambi nell’ufficio
del commissario.
«E così
lei
crede che la sua famiglia abbia bisogno di due
agenti che la sorveglino ventiquattro ore su ventiquattro?»
ricapitolò la
Kruger, dopo che Semir le ebbe raccontato tutta la storia
dell’evaso.
L’ispettore annuì con convinzione.
«Commissario, io so che Keller proverà a
vendicarsi, gliel’ho letto negli occhi
sette anni fa e sono sicuro che sia così ancora
adesso.».
«Gerkhan, sa che stamattina all’alba il suo boss
della droga è stato avvistato
in un aeroporto in Italia?».
Semir corrucciò la fronte, mentre anche Ben ascoltava, in
disparte ma
altrettanto sorpreso.
«Come scusi?».
«Già, in Italia. Pare che Keller abbia preso il
volo e si sia dato alla fuga.
Le autorità italiane stanno indagando, ma pare proprio che
quest’uomo sia già
lontano e sia riuscito a eludere ogni controllo per uscire dal
paese.» spiegò
la donna «Non che mi sorprenda, un uomo in grado di evadere
da un carcere di
massima sicurezza fingendo il trucco più vecchio del mondo
del grave malore, è
sicuramente anche in grado di fare perdere le proprie tracce e darsela
a
gambe.».
I due ispettori rimasero senza parole.
«Comunque sia, lascerò che per qualche giorno due
agenti controllino la sua
famiglia, se questo la farà sentire più al
sicuro.» aggiunse la Kruger,
comprensiva «Immagino che Jenny e Dieter siano già
lì.».
Semir sorrise, sorpreso per l’ennesima volta per quanto
quella donna avesse
imparato a conoscerli.
«Grazie, commissario, grazie davvero.».
«Sei sicura che il
luogo
dove dobbiamo portarli sia sgombro
e accessibile? E che il macchinario funzioni?»
domandò Keller, sempre seduto al
tavolo.
«Ti ho detto che è tutto a posto,
credimi.» replicò Kate, un leggero fastidio
nella voce «Stupiremo gli sbirri con effetti speciali, se mai
ci troveranno.».
«Bene. Ora lasciami solo.».
La donna alzò un sopracciglio, contrariata.
«Per favore.» aggiunse l’uomo,
sforzandosi di essere gentile.
Lei annuì e uscì, senza emettere un fiato e
richiudendosi piano la porta alle
spalle.
Keller ascoltò i suoi passi allontanarsi e
sospirò, immergendosi nel silenzio
che finalmente regnava sovrano nella piccola e umida stanza. Dopo
qualche
minuto passato a contemplare il vuoto, si decise a muoversi e estrasse
dal
cassetto nascosto sotto al tavolo alcuni fogli di carta ingiallita e
una
vecchia penna.
Era una stilografica, l’uomo si sorprese chiedendosi per
quanto tempo fosse rimasta
abbandonata lì dentro.
Poi si chinò sul foglio, cominciando a scrivere.
“Cara Isabelle...”.
Ben osservò il
collega
rimettersi a sedere alla propria
scrivania e contemplare ancora una volta quella foto incorniciata che
due
giorni prima aveva capovolto, ma che chi si occupava delle pulizie
aveva
rimesso in piedi in bella vista.
«Non credi alla storia della fuga in Italia, non è
vero Semir?».
Il turco sospirò scuotendo il capo «Non lo so, mi
sembrerebbe troppo bello per
essere vero. E troppo facile. Magari qualcuno lo sta coprendo,
magari...».
«E se invece fosse vero? Se l’obiettivo di Keller
fosse solo fuggire?».
«Ben, io so che per te e la Kruger è difficile
crederlo, non c’eravate... ma io
ho visto quell’uomo negli occhi mentre realizzava di aver
perso la sua famiglia
a causa mia. Io... l’ho guardato negli occhi mentre mi
minacciava e ti posso
assicurare, quella non era una minaccia campata in aria.».
«Chi ti ha minacciato?» chiese una voce dura alle
spalle dei due ispettori.
«Andrea, che ci fai qui?» fu la reazione stizzita
di Semir, nel vedere la
moglie che aveva fatto capolino dalla porta dell’ufficio
senza bussare.
«Sono venuta a riprendere le chiavi della mia macchina, te ne
eri già
dimenticato?» rispose la donna, pronta ad attaccare.
«Ciao Ben.» aggiunse poi stancamente, rivolta
all’altro poliziotto.
«Hai ragione.» fece il marito, cercando le chiavi
della macchina in un cassetto
e riconsegnandole a lei «Secondo il meccanico dovrebbe essere
pronta.».
«Sì, ma non mi hai risposto.» insistette
Andrea, afferrando le chiavi «Chi ti
ha minacciato? Ci stai mettendo un’altra volta nei guai, non
è così?».
Semir guardò Ben, che questa volta colse prontamente
l’invito a uscire dalla
stanza e si volatizzò in un secondo, chiudendosi
discretamente la porta alle
spalle. Ma non riuscì a fare a meno di rimanere a guardare
ciò che accadeva attraverso
i vetri, in piedi a qualche metro di distanza dalla porta
dell’ufficio.
«Un’altra
volta rispetto
a quando di preciso, scusa?» domandò il
poliziotto, infastidito, una volta che
il collega ebbe lasciato la stanza.
«Avresti il coraggio di dirmi che non è mai
successo?» controbatté la donna,
con tono che non ammetteva una risposta negativa.
«Senti, possiamo non litigare anche qui, per
favore?».
«Io non sto litigando.» puntualizzò
Andrea, scandendo bene ogni parola «Ti ho
solo fatto una domanda e gradirei una risposta. Per la terza volta, chi
ti ha
minacciato?».
«Stavo raccontando a Ben una cosa accaduta anni
fa.».
«Sai una cosa Semir? Mi fai pena.»
sussurrò lei, con fermezza.
Il marito la guardò senza capire di che cosa stesse parlando.
«Mi fai pena se pensi che io sia così
stupida.» continuò lei, alzando
decisamente il tono della voce «Credi che io non li veda i
notiziari? Credi che
io non mi ricordi delle minacce di Keller? Credi che non abbia visto
Dieter e
Jenny appostati davanti a casa nostra stamattina? Eh?»
gridò istericamente,
mentre le lacrime minacciavano insistenti di salirle agli occhi
«Perché credi
che io sia così stupida?».
Semir si alzò dalla sedia e si avvicinò alla
moglie «Andrea, non è il caso di
urlare in questo modo, calmati, dai...».
Ma la donna si divincolò, spingendo malamente
l’ispettore lontano da lei.
«Calmarmi? Un pazzo a piede libero vuole ucciderci e io
dovrei calmarmi?».
«Andrea, se solo provassi ad ascoltarmi...».
«Mi sono stancata di ascoltarti Semir!»
gridò lei, cedendo alle lacrime «È solo
per questo che ieri sera sei venuto a supplicarmi, non è
così? Perché hai
paura! Perché se ci capitasse qualcosa ti sentiresti in
colpa!».
«Senti, ascoltami, con tutta probabilità Keller
è già fuori dal paese, e tu non
devi preoccuparti...» riprovò a spiegare Semir,
tentando di avvicinarsi ancora
una volta alla moglie per tranquillizzarla, ma lei lo respinse di nuovo.
«Non mi toccare!» gridò «Noi
siamo in pericolo, le bambine sono in pericolo e
tu non hai avuto nemmeno la decenza di dirmelo. L’ho dovuto
sapere da un
notiziario.».
«Te l’avrei detto stasera.».
«Sappi, Semir, che se dovesse succederci qualcosa...
qualunque cosa... sarà
solo colpa tua. Solo colpa tua!» esclamò ancora
Andrea, prima di aprire la
porta, uscire dall’ufficio e sbattere la porta a vetri dietro
di sé.
Uscì dal commissariato quasi di corsa, con le lacrime che
ancora le rigavano le
guance, senza guardare in faccia nessuno dei presenti.
Ben rimase imbambolato davanti
alla
porta chiusa a seguire
il litigio tra i due coniugi che si stava consumando
all’interno dell’ufficio,
e ben presto si accorse che ogni agente all’interno del
commissariato stava
facendo altrettanto.
Persino la Kruger era accorsa a seguire la scena, attratta dalle grida
che le
mura della stanza non erano riuscite a contenere.
Il giovane ispettore vide oltre il vetro Andrea che scoppiava a
piangere, il
marito avvicinarsi e lei respingerlo e urlare ancora. Poi vide la donna
uscire
dall’ufficio e non ebbe il coraggio di provare a fermarla.
Guardò all’interno della stanza in cui era rimasto
il suo collega e vide Semir
stringere i pugni e poi tirare un calcio violento alla sedia, senza
riuscire a
controllare il nervosismo.
Lo raggiunse di corsa.
«Semir, ehi, calmati...» fece con tono pacato,
appoggiando una mano sulla
spalla del socio.
«Credo di avere bisogno d’aria.» fu la
risposta appena sussurrata dell’amico.
Poi prese la giacca e si avviò verso l’uscita.
Ben lo guardò mentre si allontanava, con un sospiro.
«Jager.»
fece la
Kruger, avvicinandosi all’ispettore «Si
può
sapere che cosa sta succedendo tra Gerkhan e Andrea?».
Ben si morse il labbro, senza sapere che cosa rispondere al
commissario. Sapeva
che la donna probabilmente fosse semplicemente preoccupata, ma sapeva
anche che
Semir era già stato reticente a raccontare a lui dei
problemi con la moglie,
non gli avrebbe fatto piacere che altri ne fossero al corrente.
Anche se, effettivamente, dopo la scenata a cui tutto il distretto
aveva
assistito, sarebbe stato difficile celare la reale situazione davanti a
tutti.
«Capo, Semir e Andrea ultimamente non vanno molto
d’accordo.» fu la laconica
risposta del poliziotto.
«Me ne sono accorta.» commentò la Kruger
«Ma la situazione mi è sembrata
leggermente oltre i limiti.».
Seguì un attimo di silenzio imbarazzato e fu di nuovo la
donna a parlare
«Comunque, spero nulla di troppo grave.» disse,
intuendo che l’ispettore non
volesse sbottonarsi più di tanto al riguardo.
«Vada a recuperare il suo collega, Jager, dovreste essere
già di pattuglia a
quest’ora.» aggiunse poi, sparendo nel proprio
ufficio.
Ben annuì e si diresse verso l’uscita, mentre
tutti gli agenti distratti dal
litigio che si era verificato poco prima tornavano silenziosamente alle
proprie
ordinarie mansioni.
Il giovane ispettore scese in
fretta
nel parcheggio e trovò
Semir immobile, stretto nelle spalle, appoggiato al cofano della
propria BMW.
Ben rabbrividì quando fu investito dal vento freddo di
novembre e lanciò
un’occhiata alle nuvole minacciose che rendevano grigio scuro
il cielo sopra di
loro. Andò ad appoggiarsi all’auto anche lui,
vicino al suo collega, con un
sorriso.
«Socio, ti va di parlare?» chiese, con calma.
Semir alzò la testa per guardarlo negli occhi e in quegli
occhi Ben non lesse
rabbia, ma una stanchezza infinita.
«Non so che cosa ci stia succedendo.» disse il
turco in un soffio, tornando a
guardare l’asfalto.
«Non che io sia un grande esperto.»
cominciò il più giovane «Ma credo che
nelle
coppie che stanno insieme da tanto tempo qualche momento di crisi sia
concesso... giusto, socio?».
«Sì, ma questa volta è diverso. Io e
Andrea siamo così... lontani...».
Ben annuì, credendo di capire che cosa intendesse
l’amico.
«Fino a qualche mese fa non sarebbe mai successa una cosa del
genere, non
avremmo mai litigato così davanti a tutto il
commissariato.».
«Non ti preoccupare per questo, può
capitare.».
«No, non deve capitare, Ben. Perché se litighiamo
così al comando, o quando a
cena ci sono ospiti o davanti alle bambine... se litighiamo in questo
modo
anche quando sappiamo che dovremmo e potremmo contenerci, allora
è chiaro che
qualcosa non va. Non so che cosa ci stia succedendo.».
Ben pensò che la logica del collega non facesse alcuna
piega. Eppure, non
riusciva a darsi per vinto nel credere che il suo ideale di famiglia
perfetta
si stesse sfaldando così facilmente.
«Io amo Andrea...» continuò Semir,
sorprendendosi delle sue stesse parole. Non
aveva pianificato di confidarsi così apertamente con
l’amico «Io amo Andrea, ma
credo che questo non basti più. Forse non abbiamo
semplicemente più niente in
comune. Forse lei ha sopportato troppo, forse non riesce più
ad accontentarsi
di quello che le posso offrire, del tempo che le posso
dedicare...».
«Nel momento in cui ha scelto te, Andrea ha scelto anche la
tua vita, Semir.»
commentò Ben «Ha scelto anche il tuo lavoro e i
rischi che il tuo lavoro
comporta. Lo sai tu e lo sa lei.».
«Evidentemente non le va più bene.».
Il più giovane non rispose, limitandosi a dare una leggera
pacca sulla spalla
al collega.
«Dai socio, dobbiamo andare in autostrada. Forza, guida tu...
ti aiuterà a rilassarti.»
disse poi, provando ad alleggerire un po’ la tensione.
Semir sorrise «Grazie, socio, sei un amico.».
Quando Ben entrò in
casa,
ore e ore più tardi, era
infreddolito e stanchissimo.
La giornata era passata tranquilla, lavorativamente parlando, ma stare
dietro
agli umori cupi del suo socio non era affatto semplice e questa
situazione
durava ormai da settimane.
Per fortuna, ad accoglierlo trovò Margaret sempre sorridente
e bellissima, che
lo salutò con un bacio e gli mise le braccia al collo
sinceramente felice di
vederlo.
«Come è andata la giornata?» gli
domandò, accarezzandogli teneramente i
capelli, vedendolo stanco.
«Bene, ma la situazione di Semir e Andrea mi preoccupa sempre
di più. Oggi
hanno litigato perché lui non le aveva raccontato di
Keller.».
«Mi dispiace...» mormorò lei, mentre il
sorriso le si spegneva sulle labbra
«Però ho sentito alla televisione che Keller
è stato visto in un aeroporto nel
sud Italia. Sbaglio?».
«Sì, è vero.»
confermò Ben, sedendosi sul divano «Ma Semir non
è convinto e
d’altra parte la notizia non è ancora stata
confermata.».
«Vedrai, si risolverà tutto per il
meglio.» commentò lei, ritrovando il sorriso
e sedendosi accanto al poliziotto «Io invece ho una
novità.».
Lui si illuminò «Che novità?».
«Ho scelto di iniziare a scrivere un nuovo libro.»
confessò Maggie, con occhi
luccicanti e aria soddisfatta.
«Ma è magnifico!».
«Sì! Non so ancora nello specifico di cosa
tratterà, ma sarà sicuramente un
thriller. Magari psicologico.».
«Mi piace l’idea.» fece Ben, con aria
maliziosa «La mia scrittrice preferita!».
Lei lo guardò e scoppiò a ridere.
Poi lo baciò teneramente, spingendolo a sdraiarsi sul
divano, senza smettere di
sorridere.
Altra
domenica, altro
capitolo, altre basi per la storia, che pian piano giungerà
al dunque.
Tutto
per il peggio, ma il peggio deve ancora venire e nel frattempo il
nostro
evaso si diletta nella scrittura di lettere e la new entry Margaret
nella
scrittura di un romanzo.
Grazie
a chi continua a seguirmi e a presto!
Sophie
|
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Capitolo 6 *** Distrazione ***
Dal capitolo precedente:
«Ho scelto di
iniziare a scrivere un nuovo libro.» confessò
Maggie, con
occhi luccicanti e aria soddisfatta.
«Ma
è magnifico!».
«Sì!
Non so ancora nello specifico di cosa tratterà, ma
sarà sicuramente un
thriller. Magari psicologico.».
«Mi piace
l’idea.» fece Ben, con aria maliziosa «La
mia scrittrice preferita!».
Lei lo guardò
e scoppiò a ridere.
Poi lo baciò
teneramente, spingendolo a sdraiarsi sul divano, senza smettere di
sorridere.
QUATTRO GIORNI DOPO - GIORNO 8.
Erano passati altri quattro
giorni.
Quattro lunghissimi giorni e non c’era stata alcuna
novità riguardo l’evaso,
niente di niente. Nonostante Semir continuasse a insistere sul fatto
che la sua
famiglia dovesse essere protetta e la Kruger continuasse a mandare due
agenti
davanti a casa Gerkhan ogni giorno, non era successo assolutamente
niente.
Nessun tentativo di aggressione, nessuna telefonata sospetta, niente.
La polizia italiana aveva confermato che la testimone, tedesca in suolo
italiano per vacanza, era assolutamente certa di ciò che
aveva visto. Ma le
indagini continuavano in Italia così come in Germania, senza
dare alcun esito.
La Kruger contattava quotidianamente il commissario dell’LKA
per tenersi
aggiornata sulle novità, ma ogni giorno riceveva in risposta
un laconico “ancora
niente” e riattaccava il telefono a metà tra il
sollevato e il preoccupato.
Avrebbe dovuto spiegare al suo sottoposto che prima o poi non avrebbe
più
potuto mandare agenti a proteggere una famiglia che, con tutta
probabilità,
nemmeno era in pericolo, ma rimandava il discorso il più
possibile, non aveva
voglia di confrontarsi con l’umore scuro di Gerkhan in quel
periodo.
Keller era sparito nel nulla, si era volatilizzato.
Ben salì in macchina
decisamente di buon umore quella
mattina.
Stavolta era il socio ad aspettarlo davanti a casa, tamburellando
impazientemente con le dita sul volante.
«Alla buon’ora.» lo salutò
Semir, con una smorfia indispettita.
«Socio, niente ramanzina!» gli ricordò
Ben, con un sorriso.
Aveva fatto giurare al collega che per almeno un mese non avrebbe
potuto dirgli
nulla sugli orari, visto che nelle settimane precedenti era stato
proprio lui a
farsi aspettare.
«Come no.» fece il turco, avviando il motore e
partendo alla volta del loro
giro di routine in autostrada.
Sorrideva, ma Ben si accorse che dietro quel sorriso si celavano un
dispiacere
e una stanchezza enormi. Avrebbe voluto chiedergli come stesse, ma
negli ultimi
giorni Semir aveva evidentemente glissato ogni volta che lui gli aveva
chiesto
di Andrea o gli aveva suggerito di prendersi due giorni di ferie.
Così preferì
evitare direttamente l’argomento e si limitò a
sospirare, addentando la brioche
che aveva trovato sul cofano.
«Ben, ho fatto lavare la macchina fuori e dentro ieri
pomeriggio, se me la ungi
ti lascio a piedi in mezzo all’autostrada.» lo
minacciò Semir, lanciandogli
un’occhiata obliqua.
«Sto attento, giuro.» borbottò il
ragazzo a bocca piena, ma gli veniva da
ridere e fece uno sforzo sovrumano per trattenersi.
«Oh Semir, ti devo raccontare una cosa!»
esclamò poi tutt’a un tratto, una
volta terminata la colazione, con un sorriso a trentadue denti.
«Sarebbe?» fece l’altro, sbadigliando
vistosamente.
«Maggie sta scrivendo un romanzo, un thriller! Non
è meraviglioso?» raccontò il
più giovane, felice come un bambino davanti al suo gelato
preferito.
«Sei proprio cotto eh, Ben?» commentò il
turco, con un mezzo sorriso.
«Temo di sì.» rise l’altro
«Non vedo l’ora di leggerlo, lei mi ha detto che io
sarò l’unico a poterlo leggere prima che lei lo
pubblichi. Ti rendi conto
Semir? Io sarò il suo primo lettore! È una cosa
bellissima... e poi io credo di
essere proprio innamorato questa volta. Voglio dire, lei è
fantastica, è sempre
allegra ed è così...».
Ben continuò a parlare per dieci minuti buoni e non si
accorse nemmeno che dopo
un po’ il collega non lo stava più ascoltando.
Solo quando vide l’auto che li precedeva diventare
terribilmente vicina smise
di parlare e guardò l’amico che era alla guida.
«Semir? Semir, che fai, frena!» gridò,
prima di sentire il colpo.
Poi, senza che nemmeno avesse il tempo di accorgersene, la BMW
sterzò appena
prima di tamponare l’altra auto, poi si capottò e
si capottò ancora, finendo
per atterrare capovolta sull’asfalto bagnato.
Quando Semir aprì
gli
occhi, la prima cosa che vide fu il
collega steso a terra, a qualche metro di distanza da lui.
L’unica cosa che riuscì a pensare di fare fu
raggiungerlo, ma non appena provò
a muoversi sentì dolore in tutto il corpo, come se ogni
centimetro della sua
pelle fosse ammaccato. Ci mise qualche secondo di troppo a mettersi in
piedi,
ma non appena ci riuscì si catapultò sul corpo
immobile del ragazzo, disteso
sull’asfalto.
«Ben! Ben, porca miseria, rispondi, Ben!»
gridò scuotendolo per le spalle,
accovacciato accanto a lui «Ben, svegliati, ti
prego!».
Passò un minuto interminabile prima che il poliziotto
riprendesse i sensi, ma finalmente,
scosso dai continui schiaffetti che Semir gli mollava sulle guance, Ben
aprì
gli occhi e cominciò a tossire.
«Oddio, Ben, grazie al Cielo...» mormorò
il turco, smettendo di scuoterlo e
lasciandosi cadere seduto sull’asfalto accanto a lui.
Dietro di loro si era creata una fila infinita di vetture, e una
volante della
polizia seguita da un’ambulanza stava cercando di raggiungere
il luogo
dell’incidente percorrendo la corsia di emergenza.
«Stai bene?» domandò Semir al
più giovane, mentre questi si rialzava dolorante.
«Sì... direi di sì...»
rispose, controllando di non avere nulla di rotto e
verificando con successo di riuscire a stare in piedi sulle proprie
gambe.
«Okay...».
«State tutti bene?» chiese una voce alle loro
spalle.
I due ispettori si voltarono, notando l’uomo appena sceso
dall’ambulanza in
tuta da soccorritore che correva velocemente verso di loro.
Di lì a poco anche la volante della polizia li raggiunse, e
con sollievo Semir
notò che da essa stavano scendendo Dieter e Jenny, che si
sorpresero vedendo i
due ispettori doloranti e la BMW a loro ben nota così
distrutta.
«Ben! Semir!» gridò la ragazza,
raggiungendoli e controllando che entrambi si
reggessero in piedi «State bene? Che cosa è
successo?».
«Io... io...» cominciò a balbettare
Semir, ma il collega lo precedette.
«La ruote anteriori della macchina hanno slittato.»
spiegò Ben, prontamente
«Non so se sia stato l’asfalto bagnato, o forse
abbiamo centrato una macchia
d’olio. Semir non è riuscito a controllarla, ma va
tutto bene. Stiamo bene.».
Il turco annuì, a confermare la realistica tesi del collega.
Jenny li fissò, ancora con la preoccupazione negli occhi.
«Non volete fare almeno un controllo?» insistette
il soccorritore,
intromettendosi nella conversazione.
I due ispettori risposero gentilmente che era tutto a posto e
l’uomo andò a controllare
i conducenti delle macchine che li
circondavano, che però, spavento a parte, non sembravano
aver recato alcun
danno. Avendo sterzato, anche se all’ultimo, la BMW non aveva
coinvolto nell’incidente
nessun’altra vettura.
«Jenny, rimanete voi a dirigere il traffico?» fece
Ben, mentre Dieter già
annuiva al fianco della ragazza «Abbiamo creato una bella
coda, credo ci sarà
bisogno di voi. Magari... magari io e Semir torniamo al comando.
Possiamo
prendere la vostra auto?».
Jenny annuì, pur trovando strano il comportamento del
collega.
«Ma siete sicuri di stare bene? Semir, stai
sanguinando.».
Semir si portò una mano alla tempia e si ritrovò
effettivamente le dita sporche
di sangue.
«Non è niente Jenny, è solo un graffio.
Non vi preoccupate.» disse
l’interpellato «E grazie per la
macchina.» aggiunse, quando la giovane collega
gli porse le chiavi della volante.
Poi i due ispettori si allontanarono, ma la ragazza non poté
fare a meno di
notare Ben che strappava con decisione le chiavi dalle mani di Semir e
si
sedeva al posto di guida.
«Semir, ti rendi
conto di
quello che poteva succedere?»
sbottò Ben, non appena furono saliti in macchina.
L’altro aprì bocca per dire qualcosa, ma il
collega lo precedette «Potevamo
rimanerci secchi noi, poteva farsi del male qualcun altro! È
un miracolo se
siamo tutti interi.».
«Lo so, Ben...».
Il più giovane avviò il motore e partì
quasi sgommando.
Aveva tagli su tutto il volto e stava sudando, nonostante il freddo che
imperversava fuori dall’abitacolo.
«Mi spieghi come hai fatto a non vedere quello davanti a noi
che rallentava?»
continuò «Ha anche azionato le luci di emergenza,
eravamo a distanza di
sicurezza, ma tu non hai rallentato. Semir, come hai fatto
a...».
Ben si interruppe di colpo.
Il collega guardava insistentemente fuori dal finestrino, non era
nemmeno
sicuro che lo stesse ascoltando.
Improvvisamente si rese conto che erano state l’agitazione e
il panico a
parlare in quegli ultimi secondi e si accorse di aver esagerato con i
toni.
«Semir...» riprese, con più calma,
continuando a guidare piano sulla corsia di
destra, diretto verso il commissariato «Scusa, non volevo
aggredirti, ma mi
sono spaventato. Ho visto che non rallentavi e non capivo che cosa
stesse
succedendo.».
«Io... mi sono... mi sono distratto.»
balbettò Semir, sempre rivolto verso il
finestrino. La voce gli tremava.
La pioggia batteva forte contro i vetri dell’auto. Erano
giorni e giorni che
pioveva, ormai. Il sole non faceva capolino all’orizzonte da
troppo tempo.
Entrambi i poliziotti rimasero in silenzio per il resto del tragitto.
Una volta arrivati nel parcheggio sotto al commissariato, Ben
fermò la macchina
e spense il motore, ma nessuno dei due accennò a uscire
dalla vettura.
Semir continuava a guardare fuori dal finestrino, anche ora che erano
fermi.
«Semir, scusami, non dovevo parlarti
così.» disse Ben, di nuovo «Mi sono
spaventato.».
Finalmente il turco si voltò, ma evitò di
guardare l’amico negli occhi.
«Ben... io mi sono distratto.» ripeté,
con la disperazione tangibile nella voce
«Non... non mi era mai successo prima, non così.
Se... se non sono nemmeno più
in grado di concentrarmi sulla strada... allora io... io...».
Non riuscì a terminare la frase.
Il più giovane sorrise appena, cercando lo sguardo del
collega «Socio, quanto
tempo è che non dormi?».
«Come faccio a dormire, Ben?» fu la disarmante
risposta di Semir.
«Lavoro tutto il giorno, torno a casa e praticamente Andrea
nemmeno mi saluta.
Non appena le rivolgo la parola cominciamo a litigare, tutte le sere e
tutte le
mattine prima che io esca per venire in ufficio finiamo per urlare. Non
so
nemmeno più perché litighiamo, ormai. Ho il
terrore che quel pazzo di Keller si
faccia vivo da un momento all’altro. E sai qual è
l’ultima novità? Anche Aida
ha iniziato a dirmi che non ho tempo per lei. Ben, dimmelo, come faccio
a
dormire?».
Il ragazzo rimase in silenzio, come pietrificato.
«E con questo non mi voglio giustificare.»
continuò Semir, mettendo una mano
sulla maniglia di apertura «Non avrei dovuto distrarmi e non
capiterà più.
Grazie per avermi coperto con Dieter e Jenny.» aggiunse,
aprendo la portiera e
uscendo dalla vettura, per dirigersi verso l’entrata del
commissariato.
Il pomeriggio trascorse
tranquillo,
anche se nell’ufficio
regnava un silenzio quasi innaturale, coperto solo dal rumore della
pioggia che
proprio non voleva saperne di smettere di scendere.
Ogni tanto Ben lanciava sguardi preoccupati al collega, a cui invece
sembrava
interessare solo l’orologio.
Non appena scattò l’orario della fine del turno,
infatti, Semir si alzò dalla
propria sedia e uscì dall’ufficio con un veloce
“ciao Ben” che lasciò il
ragazzo quasi di stucco.
Si maledisse per essere stato duro con lui subito dopo
l’incidente e sperò con
tutto il cuore che l’amico riuscisse a trascorrere almeno una
serata
tranquilla. Ne avrebbe avuto assoluto bisogno.
«Hai sentito
dell’incidente?» quasi gridò la donna,
entrando
nella cantina come una furia, guardando Keller con occhi di fuoco.
Lui non ricambiò lo sguardo. Chino sui suoi fogli, seduto
come sempre al vecchio
tavolo, non distolse l’attenzione dalle sue occupazioni.
«Quale incidente?» domandò, senza alcun
reale interesse.
«Quello di Gerkhan e del suo amichetto.»
sibilò Kate, con una punta di
disprezzo nella voce.
L’uomo alzò immediatamente lo sguardo.
«Gerkhan ha avuto un incidente?» chiese, questa
volta con agitazione «Come
sta?».
Il silenzio che ne seguì gli fece temere il peggio, ma poi
la ragazza accennò a
un sorriso.
«Bene. Stanno bene tutti e due, non si sono fatti un graffio.
Ma ti rendi conto
di che rischio stiamo correndo? Vuoi rischiare di non poter attuare la
tua
vendetta? È questo che vuoi?».
Keller si appoggiò sullo schienale della sedia,
evidentemente più rilassato.
Andava tutto bene.
«Calmati, Kate.» disse semplicemente.
«Gerkhan è stanco, Friedrich. Non dorme. Faccio
appostamenti ogni giorno da
mesi, so che cosa sta accadendo in quella casa. Potrebbe fare qualsiasi
sciocchezza da un momento all’altro e potrebbe mettersi in
pericolo ancora
prima che noi arriviamo a sfiorarlo. Morto o in ospedale non ci serve,
lo
sai.».
«Ti ho detto di calmarti, Kate.» ripeté
Keller, accendendosi un vecchio sigaro
e inspirando piano «Rilassati. Agiremo domani
mattina.».
Semir entrò in casa
e
posò le chiavi sul mobile
dell’ingresso. Si tolse la giacca fradicia di pioggia e,
notando il silenzio
che regnava all’interno della casa, intuì che le
bambine fossero già andate a
dormire. Di nuovo troppo tardi.
Si sedette sul divano, esausto.
Quando Andrea passò davanti a lui, per poco non
lanciò un urlo, lasciando
cadere a terra il libro che aveva in mano.
«Oddio Semir, non ti ho sentito entrare.»
esclamò, ma non vide nel marito
alcuna reazione. Stava seduto e guardava il pavimento, immobile.
La donna raccolse il libro, lo posò sul basso tavolino che
si trovava di fronte
al divano e si andò a sedere accanto a lui.
«Che cosa ti è successo?» chiese,
notando il taglio sulla fronte del
poliziotto.
«Davvero ti interessa?» fece lui, con un sorriso
sarcastico.
La moglie non rispose subito. Avrebbe desiderato una serata di tregua,
lo
avrebbe voluto davvero. Almeno per una sera.
«Ti ho solo chiesto che cosa è successo. Come ti
sei tagliato?».
«Ho avuto un incidente.» fu la secca risposta di
Semir.
«Con Ben? Lui sta bene?».
L’ispettore annuì.
«Come è successo?».
«È un interrogatorio?».
«Dal momento che fosse per te staremmo in silenzio,
sì.» ribatté Andrea, con
astio.
«L’ho provocato io,
l’incidente.».
La donna corrucciò la fronte, ma il marito la precedette
prima che potesse fare
altre domande.
«L’ho provocato io e vuoi sapere perché?
Perché ero distratto, perché non
pensavo alla guida. Vuoi indovinare perché non pensavo alla
guida?».
«Non ci provare, Semir. Non provare a incolparmi per
questo.» scandì lei, con
fermezza.
«Tu però puoi darmi la colpa per ogni cosa, non
è così?» sbottò Semir,
alzandosi dal divano «È colpa mia se arrivo tardi
la sera, è colpa mia se tu
non sei tranquilla durante la giornata, è colpa mia se due
agenti devono stare
davanti alla nostra porta perché potremmo essere in
pericolo. E, dimenticavo, è
solo colpa mia se non riesco più a concentrarmi in niente di
quello che faccio,
è colpa mia persino se Aida prende un brutto voto a scuola,
o se Lily si
sveglia piangendo di notte. È sempre e solo colpa mia, non
è vero?».
«Non è certo un mio problema se tu ti distrai
mentre guidi, Semir, mi dispiace
dovertelo dire. Anzi, è talmente tanto un tuo
problema che adesso puoi anche scordarti di uscire in macchina con le
bambine,
perché evidentemente non mi posso fidare. E nemmeno se
abbiamo due agenti
davanti alla porta è un mio problema. Di certo non ne
avremmo bisogno, se tu
non ci fossi.» quasi gridò Andrea, guardandolo
fisso negli occhi.
Quella frase affettò l’aria nella stanza con una
violenza inaudita.
«Bene.» fece Semir, dopo qualche istante di
silenzio, incredibilmente calmo «E
allora sai che ti dico? Va bene, hai ragione tu, separiamoci. Ma a
cominciare
da stasera.».
La donna non ebbe il tempo di replicare.
Il marito era già uscito, sbattendosi la porta alle spalle.
Voltandosi verso le scale, Andrea vide Aida in piedi, allibita, che
guardava.
Quando il suo cellulare
squillò, Semir lo udì appena a causa
del rumore incessante della pioggia.
Stava vagando per le strade di Colonia, al buio, al freddo, solo.
Rispose aspettandosi una telefonata della moglie, ma con sorpresa al
telefono
udì la voce del suo collega.
«Ehi, socio, come stai?» domandò Ben,
sperando vivamente in una risposta
positiva.
«Ben, che cosa c’è a
quest’ora?».
«Niente, volevo solo assicurarmi che stessi bene... ma che
cos’è questo rumore?
Pioggia? Non sei a casa?» chiese il giovane, cominciando a
preoccuparsi.
«No... sono uscito. Me ne sono andato.».
«Che cosa hai fatto?» esclamò Ben,
dall’altro capo del telefono, spalancando
gli occhi.
«Ben, senti, lascia perdere. Ho litigato con
Andrea.».
«Socio, non fare cretinate, diluvia e fa un freddo
impressionante lì fuori.
Quindi ora torna a casa, oppure prendi la macchina di Andrea e vieni da
me, ma
non provare a vagare per tutta la notte per Colonia, siamo
intesi?».
Il turco sospirò piano.
«Ben, io non...».
«Socio, prendi quella dannata macchina e vieni a casa mia se
proprio non vuoi
tornare a casa. Ma muoviti.».
Semir scosse il capo, cercando nella tasca della giacca il secondo
mazzo di
chiavi della macchina di Andrea, visto che la sua era andata quasi
distrutta.
Una decina di minuti dopo era
da Ben.
Si scusò un centinaio di volte con Margaret per il disturbo,
ma la ragazza si
dimostrò molto contenta di vederlo e gli offrì
subito una tazza di tisana
bollente.
Semir raccontò all’amico che cosa fosse successo a
casa e Ben lo invitò a
rimanere lì per la notte. Lui ovviamente rifiutò.
Ma prima ancora che se ne potesse accorgere, vinto dal freddo e dalla
stanchezza, si era addormentato sul divano del collega.
Dormì profondamente per tutta la notte.
N.d.A.
Quell’“agiremo
domani mattina” promette
finalmente un po’ di azione, ma
soprattutto promette l’inizio di tanti tanti guai...
Grazie
a chi continua a seguirmi e un bacione!
Sophie
|
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Capitolo 7 *** Lui vuole che tu viva ***
Dal
capitolo precedente:
«Ben, io
non...».
«Socio, prendi quella dannata macchina e vieni a casa mia se
proprio non vuoi
tornare a casa. Ma muoviti.».
Semir scosse il capo, cercando nella tasca della giacca il secondo
mazzo di
chiavi della macchina di Andrea, visto che la sua era andata quasi
distrutta.
Una decina di minuti
dopo era da Ben.
Si scusò un centinaio di volte con Margaret per il disturbo,
ma la ragazza si
dimostrò molto contenta di vederlo e gli offrì
subito una tazza di tisana
bollente.
Semir raccontò all’amico che cosa fosse successo a
casa e Ben lo invitò a
rimanere lì per la notte. Lui ovviamente rifiutò.
Ma prima ancora che se ne potesse accorgere, vinto dal freddo e dalla
stanchezza, si era addormentato sul divano del collega.
Dormì profondamente per tutta la notte.
GIORNO 9:
Semir si svegliò con
la luce dell’alba che penetrava
attraverso le tende del salotto.
Ci mise un po’ per ricordare che cosa fosse successo, tanto
aveva dormito profondamente,
ma quando gli tornarono alla mente le immagini della serata precedente,
desiderò con tutto se stesso di ripiombare nel sonno.
Consapevole che ciò non fosse possibile, si alzò
dal divano con un sospiro e si
avviò verso la finestra. C’era il sole. Era
flebile, un sole pallido e
invernale, ma era la prima volta da settimane che il cielo era
così limpido.
L’ispettore si diresse verso la cucina e scrisse in fretta un
biglietto per il
padrone di casa, che ancora stava dormendo insieme a Margaret.
Guardò l’orologio: le sette passate. Sorrise. Se
non si fosse svegliato in
fretta il suo socio sarebbe sicuramente arrivato in ritardo al lavoro.
Lo avrebbe ringraziato per l’ospitalità
più tardi, una volta al comando, prima
doveva tornare a casa da Andrea, dirle che andava tutto bene.
Uscì chiudendosi piano la porta alle spalle, dopo aver
lasciato il biglietto in
bella vista sul tavolo dove Ben avrebbe fatto colazione.
Poi entrò in macchina e avviò il motore.
Helen Klein Schäfer era
sempre stata una signora
distinta, ora sui settantacinque anni, amante della
tranquillità più assoluta.
L’unica cosa che amava più di una mattinata
passata a leggere un buon libro
sulla propria poltrona, era una giornata intera trascorsa con le sue
due
nipotine.
Era stata felice quando la sera prima Andrea l’aveva chiamata
dicendole che
l’indomani mattina avrebbe avuto delle commissioni importanti
da sbrigare e che
aveva bisogno di lei perché le tenesse le bambine.
Così, nonostante la figlia le avesse detto di non svegliarsi
all’alba per lei
ma di fare con calma, Helen alle sette si era ritrovata a essere
già vestita e
fuori di casa, con in mano due pacchetti di brioches fumanti per le sue
bambine. Le avrebbe svegliate con quel profumino delizioso, le avrebbe
aiutate
a prepararsi e poi avrebbe portato la piccola all’asilo e la
più grande a
scuola, per poi andarle a riprendere al termine della mattinata e
cucinare loro
qualcosa di buono per pranzo.
Non sapeva quali commissioni la figlia dovesse sbrigare, ultimamente
lei e
Andrea parlavano meno. Lei le aveva giusto accennato a qualche problema
che
aveva avuto con Semir, ma Helen confidava sia nella figlia sia
nell’ispettore
che ormai conosceva da così tanto tempo, ed era sicura che
insieme loro due
avrebbero superato qualsiasi cosa.
Con la testa affollata dai pensieri, raggiunse la casa di Andrea a
piedi in
poco più di dieci minuti.
Avvicinandosi all’ingresso udì delle voci e
pensò che la figlia si trovasse in
giardino, magari con una delle piccole già sveglia a
quell’ora.
Avanzando, tuttavia, la signora cominciò a intuire che si
trattasse di una voce
soltanto. E quando ne comprese le parole, rabbrividì.
Quella voce chiedeva aiuto.
Era la voce di sua figlia.
Semir si trovava ormai a due
minuti in macchina da
casa, quando il cellulare squillò nella tasca del giubbotto.
Pensò si trattasse di Andrea e che non ci fosse bisogno di
rispondere, sarebbe
stato a casa a momenti.
Il telefono, però, non voleva smettere di squillare.
L’ispettore lo estrasse
dalla tasca e, con sorpresa, lesse sul display il nome della suocera.
«Pronto?» fece aprendo la comunicazione, mentre con
una mano reggeva il
volante, guidando verso casa.
«Semir? Semir?» esordì la voce concitata
e tremante dall’altra parte del
telefono.
«Helen, è tutto a posto?».
«Semir, dove sei? Non sei in casa? Stanno portando via
Andrea! Semir...»
l’anziana signora era in preda al panico e a Semir
balzò il cuore in gola nel
giro di un attimo.
«Che cosa? Dove si trova?».
«Davanti a casa vostra... Semir, non sei in casa? Aiuto,
oddio, aiuto!» la voce
si era praticamente trasformata in pianto.
Il poliziotto svoltò l’angolo della via che lo
avrebbe condotto a casa, giusto
in tempo per vedere, di fronte a sé, una vettura che
sgommava al termine della
via, allontanandosi a tutta velocità.
Cercando di non perdere lucidità, frenò non
appena vide la mamma di Andrea che,
in mezzo alla strada, piangeva disperata, ma rimase pronto con il piede
sull’acceleratore per ripartire.
«Helen! Helen, mi ascolti, entri in casa dalle bambine e
chiami la polizia, mi
ha capito?» le disse, sporgendosi dal finestrino aperto,
mentre la signora
continuava a singhiozzare, pallida e in preda al panico
«Helen, si chiuda in
casa con le bambine, faccia come le ho detto. Io li seguo.».
La donna annuì, senza avere la forza di replicare, con le
lacrime che le
rigavano le guance.
«L’hanno portata via...»
sussurrò, ancora.
«Si fidi di me e faccia come le ho detto. Io la vado a
riprendere.» aggiunse
Semir, prima di sgommare all’inseguimento della monovolume
nera che aveva
appena svoltato a destra in fondo alla strada.
Mentre cambiava marcia e
accelerava cercando di recuperare
terreno e non perdere di vista la vettura, Semir provò a
ordinare al suo
cervello di calmarsi e di rimanere razionale.
Senza lasciare che le emozioni prendessero il sopravvento, compose sul
cellulare il numero del comando, senza guardare. Fosse stato nella sua
auto
avrebbe usato la radio di servizio, ma non importava. Doveva rimanere
calmo.
«Polizia autostradale, Susanne König,
buongiorno.» rispose la segretaria con tono
professionale.
Semir ringraziò il Cielo che la ragazza fosse già
in ufficio.
«Susanne, sono io.» fece, sforzandosi di non
parlare troppo velocemente «Sto
seguendo una monovolume nera in Weisser Straße, si dirige
verso l’entrata
dell’autostrada, ho bisogno di rinforzi, io sono sulla Opel
rossa di Andrea.».
«Semir, che succede? Non sei ancora in servizio, che
cosa...».
«Hanno rapito Andrea, credo sia nel bagagliaio della
monovolume. Non so quanti
sono e se sono armati, ma è probabile che lo siano. Susanne,
muoviti, ho
bisogno di rinforzi. Stiamo prendendo l’autostrada ora,
direzione Düsseldorf.».
Ci fu un attimo di silenzio, dettato dalla paura.
Ma poi la donna rispose in fretta, efficiente come al solito
«Okay, te li mando
subito, tu resta in linea.».
Semir effettuò una
serie di sorpassi a folle velocità,
tentando con fatica di stare dietro alla monovolume che, ormai
accortasi
dell’inseguimento, non accennava a rallentare.
Quando finalmente riuscì ad accostarla, ebbe appena il tempo
di notare una
donna bionda alla guida, ma dovette rallentare improvvisamente quando
questa
estrasse una pistola puntandola verso di lui.
Il poliziotto accelerò ancora, provando di nuovo ad
affiancare la vettura più
grande, nell’intento di provare a superarla e farle perdere
velocità, ma la
donna alla guida fu più veloce.
Sparò alle gomme della macchina che guidava Semir ancora
prima che lui potesse
provare a prendere la mira per fare altrettanto e la Opel
finì fuori strada,
sfondando il guard-rail e fermandosi capovolta nella cunetta a
lato
dell'autostrada
.
«Porca
miseria.» imprecò l’ispettore,
frantumando un
finestrino dall’interno nell’intento di uscire
dall’auto ormai esanime.
Sentì le sirene dei colleghi alle sue spalle farsi sempre
più vicine e rimase
disteso per terra, per metà ancora dentro alla vettura,
cercando di riprendersi
dall’impatto.
Ormai la monovolume era lontana. Non si vedeva più
all’orizzonte.
E il taglio sulla fronte di Semir aveva ricominciato a sanguinare.
Quando entrò al
comando insieme agli agenti che erano
accorsi sul posto per aiutarlo nell’inseguimento, Semir
trovò Ben che chiedeva
insistentemente informazioni a Susanne, la quale scuoteva il capo
meccanicamente, con aria preoccupata.
Quando lo vide arrivare, il ragazzo gli corse incontro con gli occhi
colmi di
apprensione.
«Semir, stai bene?» domandò,
assicurandosi che il socio fosse tutto intero. Ma
a parte qualche livido in più rispetto al giorno prima,
fisicamente non
sembrava aver riportato danni.
«Sto bene... ma mi sono lasciato sfuggire quel bastardo.
Porca miseria, se solo
fossi stato più veloce, se solo avessi estratto prima la
pistola, se solo...».
«Okay, Semir, calmati e respira. Dimmi tutto quello che sai e
la ritroviamo.»
affermò Ben con sicurezza, facendo sedere il collega sulla
prima sedia che gli
capitò sotto mano.
«Non so niente Ben, mi ha chiamato la madre di Andrea mentre
tornavo a casa
dicendomi che stavano portando via sua figlia... Io sono arrivato
mentre
ripartivano e li ho seguiti, ma non so niente, non sono riuscito a
prendere il numero
di targa e non sono riuscito a fermarli.» raccontò
il turco, tutto d’un fiato
«Quel bastardo di Keller, sapevo che non poteva essersene
andato dalla
Germania. Maledetto...».
«Siamo sicuri ci sia Keller dietro al rapimento?»
domandò la Kruger, facendo la
sua comparsa alle spalle di Ben, con aria grave.
«Chi vuole che sia, capo?».
«L’ha visto dentro alla monovolume?»
chiese ancora la donna, avvicinandosi ai
due ispettori.
«No, a guidare era una donna, l’ho vista di
sfuggita. Ma capo, mi creda, può
essere stato solo Friedrich Keller, quell’uomo mi vuole morto
e io non oso
immaginare...».
«Semir, quell’uomo non ti vuole morto.»
fece una voce inaspettata alle sue
spalle, interrompendolo e facendo sì che tutti si voltassero
verso di lei.
Ben corrucciò la
fronte «Maggie?».
La ragazza sorrise, avvicinandosi al gruppo «Ti ho visto
uscire di corsa e ti
ho sentito parlare al telefono di qualcosa che riguardava Semir, quindi
ho
pensato all’evaso di cui mi avevi parlato e sono venuta di
corsa qui.».
Poi si rivolse alla Kruger, tendendole la mano «Commissario,
io sono Margaret
Maier. Sono una psicologa, in passato ho seguito corsi di criminal
profiling
e... vorrei poter dare una mano.».
Il commissario afferrò la mano della ragazza, stringendola
con vigore.
Non pensò nemmeno al fatto che l’eventuale
collaborazione della ragazza con la
polizia non rientrasse in alcun dossier ufficiale o che prima di
decidere se
accettare o meno il suo aiuto avrebbe dovuto informarsi su di lei,
sulle sue
conoscenze e sulla sua esperienza. Aveva intuito si trattasse della
ragazza di
Jager, le sembrava una persona sincera e loro avrebbero avuto bisogno
di aiuto.
Le bastò questo.
Ben sorrise al cenno d’assenso della Kruger e
guardò la sua ragazza con un
pizzico di orgoglio.
«Come sarebbe
“non mi vuole morto”?» chiese Semir
rivolto a
Margaret, riportando tutti alla realtà e alla frase con cui
la psicologa aveva
esordito nel discorso.
«Ben mi ha raccontato la storia, Semir.»
spiegò la ragazza, mordendosi appena
le labbra. Sapeva che ciò che avrebbe detto di lì
a poco avrebbe gettato nel
panico il piccolo ispettore, ma non riusciva a trovare un modo meno
d’impatto
per spiegarsi.
«Che cosa ti ha detto Keller prima di essere arrestato,
all’epoca?».
Semir impallidì. Aveva capito perfettamente dove la ragazza
volesse arrivare.
«“Vedrai la tua vita
crollare...”» ricordò, con un filo di
fiato.
Maggie annuì.
«Lui non ti vuole morto, Semir, lui vuole che tu viva. Vuole
che tu viva e che
veda crollare tutto attorno a te. Per questo ha preso
Andrea.».
Calò il silenzio.
Ben, Margaret, Susanne e la Kruger rimasero per alcuni secondi
immobili,
scambiandosi tra loro fugaci occhiate e aspettando una reazione da
parte di
Semir, che però non arrivò.
Il turco annuì e respirò piano.
«Da dove cominciamo?» domandò poi,
guardando ognuno di loro negli occhi, con
apparente calma.
«Hartmut è già a casa sua, Gerkhan. Sta
cercando tracce insieme alla squadra
della scientifica, gli ho detto di chiamarvi non appena ha
novità.» comunicò la
Kruger «Quanto a noi... signorina Maier, venga nel mio
ufficio, lavoreremo
insieme sul profilo di Keller. Susanne, lei cerchi informazioni su di
lui e sui
suoi contatti in Germania e passi ciò che trova a Jager e
Gerkhan. Sia mai che
scoprissimo chi potrebbe essere la donna al volante. Io nel frattempo
mi occupo
di avvisare l’LKA. Dobbiamo cominciare dal poco che abbiamo,
forza.».
Gli altri annuirono e si misero al lavoro.
La giornata proseguì
senza alcuna novità.
Semir aveva chiamato la mamma di Andrea dicendole di portare le bambine
da lei
per la notte e tentando di tranquillizzarla riguardo la sorte della
figlia,
senza troppo successo.
Poi si era assicurato che due agenti non si muovessero da davanti al
portone
della casa dei suoceri e aveva scoperto che quella mattina
l’agente incaricato
della sorveglianza davanti a casa Gerkhan si era appisolato, in assenza
del
collega che non si era presentato al lavoro per malattia, e non si era
accorto in
tempo del rapimento di Andrea.
Avrebbe potuto riportarlo alla Kruger, andare a fargli una lavata di
capo
immensa, ma non fece niente di tutto ciò.
Per tutto il pomeriggio, infatti, Ben si chiese come l’amico
potesse essere
così calmo sapendo la moglie in mano all’evaso.
Non era da lui.
Erano le sei di sera passate, quando si accorse che il collega non
stava più
guardando lo schermo del computer per vagliare gli articoli su Keller
che
Susanne passava loro. Stava guardando la foto, quella foto che ritraeva
lui,
Andrea e Aida sorridenti, la stessa foto che qualche giorno prima aveva
capovolto e poi magicamente ritrovato dritta al suo posto sulla
scrivania. La
fissava.
«Socio, la troveremo.» fece Ben, scrutando
l’amico con preoccupazione.
«Dobbiamo trovarla.» fu la risposta di Semir,
appena sussurrata «L’ultima cosa
che le ho detto è stata “separiamoci”...
dobbiamo trovarla.».
N.d.A.
Un minimo di azione, poca, ma spero ve la siate goduta
perché in questa storia
di azione, come anticipato, non ce ne sarà molta...
I guai sono appena all’inizio!
Grazie a chi continua a seguirmi e grazie Reb per le recensioni,
davvero :)
Buona domenica e a presto!
Sophie
|
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Capitolo 8 *** Calma ***
Dal capitolo precedente:
«Socio,
la troveremo.» fece Ben, scrutando l’amico con
preoccupazione.
«Dobbiamo trovarla.» fu la risposta di Semir,
appena sussurrata «L’ultima cosa
che le ho detto è stata “separiamoci”...
dobbiamo trovarla.».
GIORNO 10.
Ben e Semir avevano lavorato
per tutta la notte, vagliando i
documenti che Susanne passava loro nella speranza di trovare qualcosa,
un
luogo, un nome, un qualsiasi contatto che li potesse avvicinare a
Keller.
Hartmut non aveva trovato niente di utile alle indagini sul luogo del
rapimento
e la Kruger e Margaret avevano trascorso ore e ore chiuse
nell’ufficio della
prima per provare a entrare nella mente dell’evaso, il
più precisamente
possibile.
L’LKA aveva cominciato a occuparsi del caso, invitando
caldamente
l’autostradale a starne fuori e assicurando che avrebbero
interrotto le
ricerche con il sopraggiungere della notte, per poi riprenderle
all’alba il
giorno successivo.
Erano le sette e mezza del
mattino quando Susanne entrò
trafelata nell’ufficio dei due ispettori.
Non si accorse nemmeno che nel frattempo entrambi avevano ceduto al
sonno e li
fece involontariamente sobbalzare.
«Ce l’abbiamo!».
I due poliziotti si
precipitarono verso la scrivania della
segretaria, trovando già la Kruger e Margaret davanti al
computer.
«Susanne, come ce l’abbiamo?»
domandò Semir, mente il cuore ricominciava a
battere troppo veloce.
«È comparso il segnale del suo cellulare.
È a venti minuti da qui, nell’area
industriale, dovrebbe essere Havermen Straße 25.
C’è un capannone in
quell’area, potrebbe essere lì, ma il segnale non
è così preciso.» comunicò la
donna, digitando in fetta alcuni tasti sulla tastiera.
«Andiamo.» ordinò la Kruger, afferrando
le chiavi della propria macchina «Vengo
anche io. Jager, vi seguo in macchina. Bonrath, Dörn, venite
anche voi. E
chiamate un’ambulanza, potrebbe essercene bisogno.».
Dopo poco più di un
minuto, gli agenti erano in macchina.
Ben si fiondò al posto di guida prima che il collega potesse
anche solo pensare
di dirigervisi e, non appena Semir fu salito dal lato del passeggero,
uscì
sgommando dal piazzale.
Non avevano avuto il tempo di discutere su quale potesse essere il
motivo per
cui il segnale fosse comparso all’improvviso, ma la
verità era, forse, che in
fondo ciascuno di loro preferiva non saperlo.
Immaginavano che arrivare e trovare Andrea viva e vegeta sarebbe stato
irrealistico, sicuramente troppo facile. Sicuramente non
c’era da aspettarsi
una mossa del genere da un criminale come Keller.
Eppure, quel segnale si era acceso.
Pur non avendone parlato, i due ispettori erano giunti mentalmente alla
medesima conclusione: dove essere stato attivato di proposito. E questo
poteva
portare a due sole conclusioni: o si trattava di una trappola, oppure
Keller
aveva voluto che loro la ritrovassero. E, in quel caso, Ben temeva
seriamente
per le condizioni in cui l’avrebbero trovata.
Ma non confessò le sue preoccupazioni al suo socio, non
disse nulla.
Si limitò a guidare in silenzio per almeno metà
del tragitto.
Poi però, guardando l’amico impassibile affianco a
sé, sentì fortissimo il
bisogno di parlare.
«Semir, la tua calma mi fa paura.» disse, con la
sincerità di un bambino.
Il turco staccò gli occhi dal paesaggio al di fuori del
finestrino per
rivolgersi al collega che guidava.
«La mia calma?».
«Sì, tu sei... calmo.» ribadì
il più giovane, accelerando per sorpassare una
serie di auto davanti a sé.
«Ben, io non sono calmo.» confessò
Semir, con un sospiro «Non sono affatto
calmo, sto solo provando a mantenere i nervi saldi. Perché
se comincio a
disperarmi adesso... è la fine.».
Ben annuì, comprendendo che cosa l’amico volesse
dire.
«La troveremo, andrà tutto bene.».
«È troppo facile.».
«Sì, socio, è facile. Ma magari, per
una volta, lo è perché lo deve essere.»
fece il ragazzo, chiedendosi se credere oppure no alle sue stesse
parole.
«Ci siamo detti delle cose orribili in queste settimane, in
questi mesi... non
abbiamo fatto altro che litigare, e insultarci, e gridarci addosso
l’un
l’altro... ma io ho bisogno di lei.»
sussurrò Semir, tornando a guardare fuori
dal finestrino.
Ben annuì, premendo il piede destro
sull’acceleratore «Lo so, socio. Lo so.».
Gli ultimi cinque minuti di
tragitto parvero interminabili,
ma quando finalmente Ben e Semir raggiunsero il capannone uscirono in
fretta
dalla macchina, senza attendere che la Kruger e gli altri agenti li
raggiungessero.
Con le pistole puntate di fronte a loro, cautamente, spinsero la porta
di
metallo che li separava dal luogo esatto da cui era più
plausibile provenisse
il segnale.
Un attimo dopo erano dentro al capannone.
E Andrea era lì.
Immobile, seduta e tremante in un angolo del pavimento polveroso del
capannone,
con il terrore dipinto negli occhi umidi di pianto.
Ma era lì. Ed era sola.
«Oddio, non ci
credo.» sussurrò Semir, mentre lasciava cadere
a terra la sua pistola e correva verso la moglie.
Si accovacciò accanto a lei, controllando con agitazione che
non fosse ferita e
slegandole i polsi, che una corda robusta le teneva uniti dietro la
schiena.
«Andrea, stai bene?» le domandò, con il
fiatone, mentre le toglieva dalla bocca
lo scotch che probabilmente era servito a non farla urlare durante la
notte.
La donna annuì, ma scoppiò in lacrime, tra le
braccia del marito.
Stettero così per un tempo infinito.
Era almeno un mese che non si abbracciavano.
Pochi minuti dopo erano tutti
fuori dal capannone.
Andrea era seduta su una barella all’interno
dell’ambulanza, un soccorritore
stava controllando che fosse tutto a posto e le aveva dato una coperta
per scaldarsi,
dal momento che la donna aveva passato tutta la notte al freddo. Aveva
raccontato di essere stata trasportata lì da una donna
bionda e da un uomo, dei
quali però non sarebbe stata in grado di fare un identikit.
Dopo di che, i due
rapitori l’avevano legata lì, semplicemente,
sequestrandole solo il cellulare e
senza torcerle un capello.
La Kruger, dopo aver ascoltato il breve racconto della donna, aveva
iniziato a
seguire Hartmut, che nel frattempo li aveva raggiunti con la squadra
della
scientifica, mentre faceva diversi rilievi all’interno del
capannone.
Ben, invece, raggiunse l’amico che, pallido, restava immobile
appoggiato al
cofano della Mercedes del collega, scrutando da lontano le espressioni
dei
soccorritori per assicurarsi che Andrea stesse bene.
«Semir, tutto bene?» domandò,
appoggiandosi a sua volta alla vettura.
«Sì, ma... non capisco.» fece il
poliziotto, scuotendo appena il capo «L’ha
fatta rapire, l’ha tenuta qui dentro per ventiquattro ore per
poi farla
ritrovare la mattina dopo senza neanche un graffio. Qual è
il senso di questa
cosa?».
«Credo che il senso sia quello di spaventarti.»
disse Margaret, avvicinandosi
ai due ispettori.
Aveva insistito per andare con loro e alla fine la Kruger aveva
acconsentito
che la ragazza salisse in macchina con lei, facendole giurare che non
sarebbe
scesa fino a quando non ci fosse stato più pericolo.
«Semir, quell’uomo vuole che tu viva
nell’ansia e sta riuscendo nel suo intento.»
continuò, fermandosi davanti all’ispettore, a
braccia conserte «Guardati...
sarà anche per la situazione familiare, non lo metto in
dubbio, ma la verità è
che anche se fai finta di niente tu vivi nel terrore dal momento esatto
in cui
hai saputo della sua evasione. E questa per lui è
già una vittoria. Il fatto
che tu sia stanco, che tu abbia paura... lui vuole questo.».
«E non vorrà solo questo per sempre,
giusto?» ragionò il turco, temendo la
risposta.
«Temo di no...» rispose la psicologa, in un
mormorio «Credo che voi e le
bambine dovreste stare in una casa sicura per un po’,
sicuramente ci ha già
pensato anche la Kruger.».
Semir annuì, passandosi una mano sugli occhi. Si sentiva le
palpebre pesanti,
avrebbe solo voluto dormire.
«Grazie, Maggie.» mormorò
allontanandosi, lasciando soli lei e Ben e avviandosi
verso l’ambulanza.
Il pomeriggio trascorse in
ricerche che non ebbero alcun
esito e i due ispettori andarono presto a casa, su caldo invito della
Kruger.
Quando Ben e Maggie vacarono la soglia dell’appartamento del
primo, sospirarono
insieme.
Poi si guardarono negli occhi e sorrisero: nonostante tutto, la
giornata si era
conclusa per il meglio.
«Sono così contento che tu ci stia aiutando,
Maggie.» confessò Ben, sedendosi
sul letto ancora con i vestiti e tirando la ragazza a sé.
«A me fa piacere aiutarti e aiutare Semir. Però
sono preoccupata per lui, lo
vedo così provato... e poi ho paura che questo Keller
riservi sorprese, e non
vorrei che...».
Il ragazzo le posò un dito sulle labbra, con dolcezza.
«Shhh ora rilassati.» le sussurrò,
avvicinandosi al suo viso «Che ne diresti se
staccassimo la mente per un po’?».
Lei sbuffò, ma poi sorrise. Ne aveva bisogno.
Colmando la ormai poca distanza che separava i loro volti, si
avvicinò e lo
baciò.
In un attimo, tutti i problemi della giornata sembrarono alleggerirsi e
poi,
piano piano, scomparire.
Semir scostò la
tenda del salotto per controllare che i due
agenti di guardia, che per la notte sarebbero stati Dieter e Jenny,
fossero lì
davanti a casa e che fossero ben vigili. La mattina dopo li avrebbero
trasferiti in una casa protetta, finalmente.
Sarebbe stato lì in piedi a controllare anche tutta la
notte, ma la voce di
Aida lo riportò alla realtà.
«Papà, mi vieni a dare la buonanotte?»
chiese, facendo capolino dalle scale.
«Certo cucciolo, arrivo.».
Il poliziotto seguì la bambina su per le scale, raggiungendo
la cameretta dove
Lily già dormiva sotto alle coperte.
Lui e Andrea erano passati a riprendere le bambine, che non sapevano
niente di
ciò che era successo, a casa dei nonni. Helen era stata
immensamente felice di
aver rivisto la figlia sana e salva e a Semir non era sfuggito lo
sguardo di
infinita gratitudine che la suocera gli aveva rivolto. Si fidava di lui
e
questo gli faceva piacere. Anche se, un po’, questa estrema
fiducia gli faceva
paura.
«Buonanotte Aida.» sussurrò, aspettando
che lei si sistemasse nel lettino per
poi rimboccarle le coperte.
«Papi... aspetta.» mormorò la bambina,
prima che lui si alzasse e uscisse dalla
stanza. Aveva l’aria di chi vuole dire qualcosa di importante
ma non sa da dove
cominciare.
«Perché l’altro ieri sera te ne sei
andato e hai sbattuto la porta? E perché
hai detto alla mamma “separiamoci”?»
chiese infine, con un filo di voce.
Semir si morse il labbro, sorpreso. Non si era accorto che Aida fosse
sveglia,
quella sera.
«Cucciolo, non ti preoccupare. Ero arrabbiato, ma ora va
tutto bene. Ora dormi,
okay? È tardi.».
La bambina annuì nel buio.
«Buonanotte papà.».
Semir entrò nella
propria camera, trovando la moglie già
distesa sul letto e avvolta nelle coperte.
La donna provò a fare finta di dormire non appena vide la
porta schiudersi, ma
il poliziotto notò subito, stendendosi a sua volta, che lei
stava singhiozzando
in silenzio.
«Andrea... stai piangendo?» domandò in
un sussurro, avvicinandosi a lei e
scoprendole il viso.
Lei scosse il capo, tradita dalle lacrime che le rigavano le guance
senza
fermarsi.
«No, è che io... ho avuto paura. Ho avuto
così tanta paura...».
«È tutto a posto... non piangere, ora è
tutto a posto.» la consolò l’ispettore,
accarezzandole piano la fronte e i capelli.
Continuò ad accarezzarla fino a quando non si fu
addormentata.
Poi, disteso accanto a lei, restò sveglio a guardarla per
tutta la notte.
N.d.A.
Calma...
ma si sa, difficilmente la calma porta a qualcosa di buono.
Grazie
a chi continua a seguirmi, a presto.
Sophie
|
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Capitolo 9 *** Uno splendido colpo di fortuna ***
Dal
capitolo precedente:
«Andrea...
stai piangendo?» domandò in un sussurro,
avvicinandosi a lei e scoprendole il viso.
Lei scosse il capo,
tradita dalle lacrime che le rigavano le guance senza
fermarsi.
«No,
è che io... ho avuto paura. Ho avuto così tanta
paura...».
«È
tutto a posto... non piangere, ora è tutto a
posto.» la consolò l’ispettore,
accarezzandole piano la fronte e i capelli.
Continuò ad
accarezzarla fino a quando non si fu addormentata.
Poi, disteso accanto a
lei, restò sveglio a guardarla per tutta la notte.
GIORNO
11.
La sveglia suonò,
puntuale, alle cinque del mattino.
Alle cinque e mezza una scorta sarebbe passata a prendere la famiglia
Gerkhan e
l’avrebbe portata in un luogo sicuro.
Semir aveva preparato ogni cosa la sera prima, in mezz’ora
avrebbero solo
dovuto vestirsi e prendere le bambine. Poi gli agenti li avrebbero
accompagnati
in un posto che ancora era ignoto anche a loro, dove sarebbero rimasti
fino a
quando la questione di Keller non si fosse chiarita.
La Kruger aveva insistito perché fossero gli uomini
dell’autostradale a effettuare
il trasferimento, piuttosto che quelli dell’LKA, nonostante
il caso fosse di
ufficiale competenza degli ultimi. Voleva che il numero minore di
persone
possibile fosse a conoscenza di dove si trovava la casa protetta e il
commissario le aveva garantito assoluto silenzio con i suoi sottoposti.
Andrea si rigirò nel
letto, aprendo gli occhi e trovandosi
viso a viso con il marito, che era fermo disteso su un fianco a
guardarla.
«Sei sveglio?» domandò, stringendo gli
occhi nella semioscurità e rimanendo
avvolta nella coperte, facendo fatica a svegliarsi del tutto.
Lui annuì, abbozzando un sorriso.
«Sei stato sveglio tutta la notte?» chiese ancora
la donna, preoccupata.
«Tu sei riuscita a riposarti un po’?»
ribatté l’ispettore, a bassa voce.
Lei annuì a sua volta, con un sospiro.
Semir provò l’impulso fortissimo di abbracciarla,
di darle il bacio del
buongiorno e fingere che le settimane trascorse non avessero minato per
nulla
il loro rapporto.
Ma si trattenne. Sapeva che non era così, sentiva che ormai
niente sarebbe
stato più come prima. Perché sua moglie aveva
preso una decisione, gliela aveva
confessata sere prima e lui aveva reagito male, ma non avrebbe potuto
fare
altro che rispettarla: se lei non voleva più stare con lui,
alla fine, lui non
poteva costringerla.
E non sarebbe stato un rapimento, lo spavento preso il giorno prima, a
rimettere le cose a posto tra di loro. Lo sentiva.
Rimasero a fissarsi immobili per qualche istante, poi Andrea si
allontanò,
scendendo dal letto e stringendosi nelle spalle per il freddo
«Vado a svegliare
le bambine.».
L’ispettore annuì, ma rimase ancora per qualche
minuto disteso sul letto,
chiudendo gli occhi.
Aveva bisogno che qualcosa andasse per il verso giusto. E aveva bisogno
di
dormire. Ma non c’era tempo.
Il cellulare squillò sul comodino, distogliendolo
bruscamente dai propri
pensieri.
«Sì, Semir.» rispose, mettendosi di
scatto a sedere sul letto.
«Socio, sono io.» fece un Ben assonnato
all’altro capo della comunicazione «Sei
pronto?».
«Pronto è una parola grossa, sono in pigiama nel
letto.» ironizzò il turco, nel
frattempo alzandosi e entrando in bagno.
«Ti ho proprio insegnato per bene a fare il
ritardatario!» scherzò il più
giovane «Però devi muoverti, stiamo
arrivando.».
«Sì Ben, non ti preoccupare. Dieci minuti e siamo
pronti.».
«Va bene socio, a tra poco.».
Jenny e Dieter uscirono dalla
macchina appostata davanti a
casa Gerkhan, guardandosi attorno con aria circospetta: nessuno. La via
era
totalmente deserta a quell’ora del mattino e nessuno dei due
aveva notato nulla
di strano per tutta la notte. Avevano controllato scrupolosamente tutti
gli
angoli e i luoghi semi-nascosti nei quali qualcuno avrebbe potuto
organizzarsi
per un appostamento, ma arrivarono alla conclusione che nessuno a parte
loro
stesse sorvegliando l’abitazione di Semir.
Accolsero con un sorriso gli agenti in borghese che scendevano dalle
due auto
scure che avevano appena parcheggiato vicino a loro, tra cui
c’erano Ben e la
Kruger. Poi, insieme a loro due, andarono a bussare alla porta di casa
Gerkhan.
Andrea aprì la porta
con
la piccola Lily in braccio, con un
sorriso stanco.
«Buongiorno commissario, ciao ragazzi.»
salutò, facendoli entrare.
«Come stai?» chiese premuroso Ben, raggiungendo il
salotto.
«Bene, grazie. Ieri ero spaventata, ma adesso sto meglio,
davvero.».
«Vedrai che andrà tutto bene.».
«Dove ci portate, Ben?».
Il ragazzo le fece l’occhiolino «In fondo in fondo
ti piacerà, ne sono sicuro.».
Andrea sorrise grata. L’allegria del giovane era sempre stata
contagiosa e lei
ne aveva estremamente bisogno.
Il quel momento Semir scese di corsa le scale seguito da Aida, che
aveva uno
zainetto sulle spalle e l’espressione ancora assonnata.
«Zio Ben!» esclamò, animandosi
improvvisamente e saltando in braccio al
poliziotto.
Intanto, attorno a loro, Dieter e Jenny stavano aiutando a portare i
bagagli
nelle vetture.
«Ciao principessa.» mormorò
l’ispettore, dandole un bacio sulla fronte e
scompigliandole i capelli.
«Ciao socio.» aggiunse poi rivolto a Semir.
Pochi minuti dopo erano tutti
in
macchina, pronti a partire.
Ben e la Kruger si guardarono attorno ancora una volta, assicurandosi
che
nessuno li stesse osservando.
Poi partirono, ognuno alla guida di una delle due auto.
Il cielo era grigio, avrebbe ricominciato a piovere.
Ben e Semir varcarono la soglia
del
commissariato poco dopo
le sette del mattino.
Avevano lasciato Andrea e le bambine con Jenny nella casa protetta, a
una
decina di chilometri da casa Gerkhan. Non si trovava in un quartiere
affollato,
ma allo stesso tempo era perfettamente raggiungibile. La casa era
videosorvegliata, un agente sarebbe sempre stato con loro e un altro
avrebbe
controllato l’ingresso, per maggiore sicurezza.
Semir, però, aveva insistito per tornare al comando. Non
sarebbe mai rimasto
chiuso in una gabbia con Keller a piede libero e persino la Kruger si
era
mostrata consapevole che tentare di fermarlo sarebbe stato del tutto
inutile.
Così, una volta giunti in commissariato, i due ispettori si
sedettero alle
rispettive scrivanie, sperando di riuscire a fare un po’
più di chiarezza
riguardo la storia dell’evaso.
«Andrea si è ripresa da ieri? È
riuscita a riposarsi?» domandò Ben, mentre
aspettava che il computer si avviasse.
«Direi di sì, ha dormito tutta la
notte.».
«Ciò implica che invece tu non abbia chiuso
occhio, non è così socio?».
Semir alzò le spalle «Non ti devi preoccupare per
me, io sto bene. Anzi, vuoi
sapere una cosa? Quella di ieri è stata la prima serata che
non ho trascorso a
litigare.».
«Ci voleva un rapimento per farvi smettere di
litigare?» fu la risposta del più
giovane, che abbozzò un sorriso.
Il turco intuì però che quella del collega fosse
anche una lieve critica.
«Ben, è complicato. Se serve un rapimento per
farci smettere di litigare,
purtroppo vuol dire che siamo arrivati al limite.».
«Ti stai arrendendo, Semir?».
L’ispettore emise un sospiro.
«Credo che penserò alla sorte del mio matrimonio
quando sarà finita questa
storia e Keller sarà tornato in galera.» concluse
poi.
«Friedrich,
è
tutto pronto.» sibilò la donna in vivavoce,
sistemandosi i capelli in una coda di cavallo e sorridendo leggermente
«Seguirli è stato molto più semplice di
quanto pensassi. Ora c’è un’agente
dell’autostradale con loro, una ragazza. Credo ci convenga
agire mentre c’è
lei, non potrà fare molto da sola. C’è
anche uno sbirro in borghese che
controlla il portone, ma di lui me ne occupo io.».
«Ti raggiungo.» fu la lapidaria risposta
dall’altro capo del telefono.
«Quindi Hartmut non
ha
trovato niente nemmeno nel
capannone.» ripeté Semir, sperando che la
segretaria gli desse una risposta
diversa.
Ma Susanne si limitò a scuotere il capo, con aria desolata.
«Maggie verrà al comando più tardi, lei
e la Kruger continueranno a lavorare sul
profilo di Keller.» si intromise Ben «Semir,
potresti anche andare a casa e
riposare un po’, ti chiamo se ho novità».
«Non lo so, Ben... da casa non posso fare niente, io devo
arrivare a lui...
devo sbatterlo in galera.».
Jenny sbadigliò
versando
l’acqua fumante nelle due tazze e
porgendone una ad Andrea, seduta al tavolino di fronte a lei.
Erano passate le due del pomeriggio e le bambine si erano addormentate
entrambe
sul divano, vinte dalla stanchezza per essersi svegliate
così presto quella
mattina.
«Se non altro in questa casa fa più
caldo.» commentò Andrea, stringendosi nelle
spalle.
La giovane poliziotta sorrise «Vedrai che tutto questo non
sarà per molto,
Andrea, presto troveremo quell’uomo, non ti devi
preoccupare.».
«Sì, lo so. Grazie Jenny.».
Passò ancora qualche ora, che le due donne trascorsero
chiacchierando del più e
del meno. Andrea aveva davvero bisogno di un po’ di svago e
la compagnia della
ragazza era piacevole. Era contenta che ci fosse lei e che il turno di
notte toccasse
invece a Dieter.
Stavano ridendo di un disegno buffo fatto da Lily che la bambina aveva
preteso
di portarsi dietro nella nuova casa, quando Jenny udì un
rumore dietro alla
porta e intimò immediatamente all’altra donna di
fare silenzio.
In preda a un brutto presentimento, la poliziotta si alzò
cautamente,
avvicinandosi all’ingresso, con la mano destra pronta sulla
fondina.
«Va bene socio, hai
vinto.» esclamò Semir tutt’a un tratto,
guardando l’orologio appeso al muro «Sono quasi le
sei e non abbiamo niente,
vado a casa. Ma promettimi che per qualunque novità mi
aggiornerai, va bene?».
«Certo, socio.» rispose Ben, contento che
l’amico potesse finalmente riposarsi
almeno un po’ «Ci vediamo domani
mattina.».
«Jenny...
è
tutto a posto?» domandò Andrea, in un sussurro,
raggiungendo la ragazza vicino alla porta d’ingresso.
La poliziotta non ebbe il tempo di rispondere.
La porta si spalancò davanti ai loro occhi e due figure
vestite di nero le
investirono letteralmente, piombando nella stanza con una veemenza
inaspettata.
Andrea venne imbavagliata con una pezza umida di qualcosa
dall’odore forte e si
addormentò prima di poter emettere qualunque suono.
Jenny stramazzò a terra colpita alla testa col calcio di una
pistola, senza
avere il tempo di reagire. Keller poi la ammanettò alla
maniglia del frigo, ben
lontana da qualsiasi telefono, non prima di aver pensato alle bambine.
La più
grande si era svegliata sentendoli entrare nell’appartamento,
ma fu
estremamente facile bloccarle entrambe e imbavagliarle prima che
potessero
cominciare a urlare.
Accadde tutto talmente velocemente, che nemmeno i due rapitori ebbero
il tempo
di accorgersene.
Uscirono cautamente dall’appartamento, caricando la donna e
le due bambine
sulla monovolume, assicurandosi di non essere visti e di evitare il
raggio d’azione
delle telecamere.
Poi attesero.
Semir imboccò
l’autostrada a velocità costante, diretto
verso la casa che per un po’ li avrebbe ospitati.
Quando l’aveva vista, quella mattina, era rimasto sorpreso
nel constatare che
l’abitazione non fosse poi così terribile:
estremamente piccola, ma a modo suo
accogliente.
Sperava con tutto il cuore che quelle misure di protezione sarebbero
state
sufficienti. O non se lo sarebbe mai perdonato.
Svoltando a destra, imboccò la strada sterrata su cui si
affacciava l’abitazione.
«Ci siamo.»
mormorò Kate, appiattendosi contro il muro.
«Maledetto.» sibilò Keller, vedendo
quello che era stato l’assassino della sua
famiglia scendere da un’auto a pochi metri da loro.
«Sangue freddo, Friedrich.» lo ammonì la
ragazza.
Poi uscirono allo scoperto.
Dieter imboccò la
stradina
che lo avrebbe portato alla casa
in periferia, sbadigliando.
Avrebbe evitato volentieri il turno di notte, ma Jenny aveva insistito
per
rimanere durante il giorno e per una volta il poliziotto aveva voluto
accontentarla.
Sperava che sarebbe riuscito a dormire almeno qualche ora, ma sapeva
che
sarebbe dovuto rimanere sempre e comunque in allerta per tutta la notte.
Comunque erano solo le sei del pomeriggio, Jenny sarebbe stata felice
di
vederlo prima del tempo.
Svoltò a destra e, in fondo alla strada, scorse la casa.
Davanti a essa, però, sembrava in corso una colluttazione.
Semir non ebbe il tempo di
estrarre
la pistola.
Sentì due mani forti afferrarlo alle spalle, mentre una
più sottile gli
rifilava con decisione un pugno nello stomaco e poi gli metteva dello
scotch
sulla bocca, impedendogli di gridare.
Non ebbe bisogno di guardare negli occhi i suoi assalitori per capire
di chi si
trattasse.
L’unica cosa che provò prima di perdere i sensi fu
la paura.
Una paura terribile.
«Quello è
un
altro sbirro, maledizione.» imprecò Kate,
estraendo la pistola e puntandola verso Dieter, che proprio in quel
momento
stava scendendo dalla propria auto.
«Deve essere il cambio per quella che abbiamo legato di
sopra.».
«Bene, se sono entrambi qui nessuno li cercherà
fino a domani mattina.» sibilò
la bionda, prendendo la mira «Uno splendido colpo di
fortuna.».
Poi premette il grilletto.
N.d.A
L’aggiornamento
della domenica questa settimana è
diventato del lunedì!
Grazie
grazie grazie a chi continua a seguirmi, grazie a chi recensisce
e
grazie anche a voi lettori silenziosi... a presto!
Sophie
|
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Capitolo 10 *** Tu sarai causa delle tue stesse sofferenze ***
Dal
capitolo precedente:
«Quello
è un altro sbirro, maledizione.»
imprecò Kate, estraendo la pistola e puntandola verso
Dieter, che proprio in quel momento stava scendendo dalla propria auto.
«Deve essere il cambio per quella che abbiamo legato di
sopra.».
«Bene, se sono entrambi qui nessuno li cercherà
fino a domani mattina.» sibilò la bionda,
prendendo la mira «Uno splendido colpo di fortuna.».
Poi
premette il grilletto.
GIORNO
12:
Ben scese dalla Mercedes appena
parcheggiata sotto al
commissariato e corse verso il lato del passeggero, aprendone la
portiera.
«Ma come siamo cavallereschi stamattina!» rise
Margaret, uscendo dalla vettura
e osservando divertita il poliziotto, che richiudeva la portiera
imitando le
movenze degli autisti di limousine.
Ben rise a sua volta. Era sereno.
Sapeva Semir e la sua famiglia al sicuro e questo lo rendeva
estremamente più
tranquillo. Inoltre non lo aveva più sentito da quando la
sera prima aveva
lasciato il comando, quindi era convinto che il socio fosse finalmente
riuscito
a riposare un po’. In quanto a Keller, era stranamente
positivo al riguardo: lo
avrebbero trovato, sentiva che quella giornata sarebbe iniziata con
qualche
indizio, qualcosa che avrebbe dato loro un po’ di speranza
nella ricerca
dell’evaso.
Maggie era voluta venire in commissariato con lui, aveva disdetto le
sedute con
i pazienti della mattinata. Anche lei era determinata più
che mai a trovare
Keller, l’idea di poter essere utile in qualche modo alla
polizia e di tornare
dopo tanto tempo a occuparsi di profili criminali la elettrizzava.
Insieme entrarono nel commissariato, dove l’atmosfera era
stranamente calma.
Anche la Kruger li accolse con un sorriso, ma poi corrucciò
appena la fronte.
«Gerkhan non è con lei?»
domandò, sorpresa.
«In verità pensavo fosse già
qui.» rispose Ben, alzando le spalle «Forse
dovremmo lasciarlo riposare, commissario. Gli concediamo un
po’ di ritardo per
oggi?».
Kim sorrise, complice.
«Certo. Forza, mettiamoci al lavoro.».
Semir si svegliò con
la
testa che gli sembrava potesse
esplodere da un momento all’altro.
La prima cosa che percepì fu il freddo, un freddo pungente.
Aprendo gli occhi senza ancora ricordare che cosa fosse successo,
provò a
muoversi, ma non ci riuscì.
Recuperati ormai del tutto i sensi, si accorse di essere legato. Era in
piedi,
con i polsi legati a un’asta di ferro che era sospesa circa
venti centimetri
sopra la sua testa e le caviglie, distanziate l’una
dall’altra in modo che le
gambe rimanessero semi-divaricate, legate a due ganci di metallo che
emergevano
dal pavimento grigio.
Alzò lo sguardo e solo allora si accorse che di fronte a
lui, legata vicino
alla parete, c’era Andrea, che lo guardava con gli occhi
rossi e gonfi di
pianto.
«Andrea... Andrea, stai bene?» domandò
subito, provando a tirare i propri polsi
verso il basso sperando che le corde cedessero, ma senza risultati.
La donna addossata alla parete opposta annuì, trattenendo a
stento le lacrime.
Ma non lo stava guardando, guardava in un punto alle spalle del marito,
dove
l’enorme stanza si estendeva ancora per una decina di metri.
«Sei comodo, Gerkhan?» fece una voce alle spalle
dell’ispettore.
Semir conosceva quella voce. L’aveva sentita gridare, anni
prima. Gridare dalla
disperazione e poi gridare vendetta.
Provò a voltarsi, ma la posizione in cui era immobilizzato
non glielo consentì.
«Keller...».
«Sì, Gerkhan, proprio io.»
confermò l’uomo, materializzandosi finalmente
davanti ai suoi occhi.
Sette anni. Erano passati sette anni da quando l’aveva visto
l’ultima volta e
sicuramente era cambiato. Entrambi erano cambiati. Ma gli occhi, quegli
occhi
erano rimasti gli stessi. Le stesse sfumature scure, la stessa
espressione, lo
stesso desiderio di vendetta di quando li aveva visti sette anni prima.
«Non ci vediamo da tempo.» continuò
l’uomo, come se potesse leggere nei
pensieri del suo prigioniero.
Camminava lentamente davanti agli occhi di Semir, con una calma
irritante,
rendendo la propria voce il più pacata possibile.
«Sono passati... quanti, sette anni? Qualcosa di
più? Ti eri già dimenticato di
me, Gerkhan?».
E l’uomo rise.
Lo guardò negli occhi e non smise di ridere.
Un’ora dopo, Ben
lanciò nervosamente un’occhiata
all’orologio.
Erano quasi le nove e teoricamente un agente avrebbe dovuto dare il
cambio a
Dieter per la sorveglianza della casa alle 8 e mezza. Gli sembrava
strano che,
nonostante il cambio di guardia, Semir avesse continuato a dormire.
Estrasse il cellulare, componendo il numero del collega.
«Eh socio, stai diventando davvero troppo
dormiglione.» disse tra sé e sé con
un sorriso, quando al posto dell’amico ricevette la risposta
della segreteria
telefonica.
Chiuse la comunicazione con un sospiro.
Intanto, nell’altra stanza, il telefono fisso del
commissariato cominciava a
squillare.
«Sai per quale motivo
ti
trovi qui, non hai bisogno che io te
lo ricordi, non è vero Gerkhan?»
continuò Keller, con voce melliflua «Io amo
mantenere le promesse, diciamo così. Credo che sia
finalmente giunto il mio
momento, credo che alla tua famiglia accadrà qualcosa di
molto simile a quello
che è successo alla mia... che cosa ne pensi?».
«Che cosa hai fatto alle bambine? Dove sono?»
chiese Semir, senza realmente
ascoltare che cosa l’uomo avesse da dirgli.
«Sono solo in un’altra stanza, Gerkhan, non ti
preoccupare.».
«Lasciale andare, Keller!» gridò il
poliziotto, continuando a tentare inutilmente
di far cedere le corde che lo tenevano legato in piedi come in croce
«Lasciale
andare, loro non c’entrano, lasciale andare!».
Semir sudava freddo, continuando ad agitarsi, senza smettere nemmeno
per un
istante di guardare negli occhi l’uomo che aveva di fronte.
«Fossi in te mi rilasserei, sai?» fece questi, con
calma «Non vorrei ti facessi
venire un infarto proprio adesso, più o meno
l’età è questa, ti potrebbe
capitare. Ma rovineresti la mia vendetta e io non sarei affatto
contento.».
L’ispettore sapeva che Keller parlasse esclusivamente per
tornaconto personale,
ma si impose ugualmente di calmarsi. Sentiva che il suo cuore sarebbe
potuto
esplodere da un momento all’altro, tanto il battito era
accelerato.
Gli era capitato altre volte di trovarsi in situazioni di
difficoltà, era già
stato ostaggio di criminali e aveva anche già temuto di
perdere la sua
famiglia. Ma questa volta era diverso: questa volta la paura aveva
preso il
sopravvento e lui non riusciva a controllarla.
Respirò profondamente, stringendo i pugni e ordinando, per
quanto possibile, al
suo battito cardiaco di decelerare.
«Comunque è curioso, Gerkhan.» riprese a
parlare l’evaso, continuando a
camminare monotonamente per la stanza «Mi chiedi di liberare
solo le bambine?
Di lei non ti importa?» chiese, indicando Andrea, legata alla
parete opposta.
Si avvicinò a lei, le accarezzò il viso con una
mano guantata, obbligandola poi
ad alzare il mento.
Gli occhi della donna erano colmi di terrore.
«Le bambine devono essere lasciate stare e di lei invece
posso fare ciò che
voglio?» continuò l’uomo, con un mezzo
sorriso dipinto sul viso.
«Non la toccare...» disse Semir, a denti stretti.
Keller rise.
«Ah quindi ora ti importa
anche di
lei.» disse, allontanandosi da Andrea e dirigendosi di nuovo
verso il
poliziotto «Strano, mi sembra che negli ultimi mesi tu non
abbia avuto tutto
questo interesse nei suoi confronti, o sbaglio? Insomma, prima quel
traffico di
armi, poi quell’altro traffico di ragazzine, la banda di
ragazzi che seminava
il panico in autostrada... tante belle scuse preconfezionate per
trascorrere il
minor tempo possibile a casa con lei, giusto? Immagino che lei sia
rimasta
delusa dal tuo comportamento. Delusa da te come marito e probabilmente
anche da
te come padre...».
«Tu non sai niente.» lo interruppe Semir, con un
tono carico d’odio, che
nemmeno lui riconobbe.
«Io so tutto,
Gerkhan.» puntualizzò
Keller «Ogni cosa. Conosco ogni argomento delle vostre
discussioni. Non vi ho
assistito personalmente, è chiaro, ma mi è stata
riferita ogni cosa. D’altra
parte, è stato semplice: avete quasi sempre urlato, anche
dall’altra parte
della strada si sarebbero sentite le vostre grida. So quanto poco sei
stato in
casa in questi mesi, so quanto poco hai fatto per la tua famiglia nelle
ultime
settimane, so quanto voi due insieme non siate più
felici.».
Fece una pausa, durante la quale si sentirono solo i singhiozzi di
Andrea che,
alle spalle del criminale, aveva iniziato a piangere sommessamente.
«So che tua moglie non ti ama più.»
aggiunse, beffardo.
«Bastardo.» sibilò Semir «Sei
un bastardo.».
«Ma che parole, Gerkhan.» rise Keller.
Poi, in un istante, sembrò perdere tutta la calma che aveva
mostrato fino a
quel momento e si avventò sul suo prigioniero, stringendogli
le mani attorno al
collo.
«Peccato che tra i due qui l’unico bastardo sia
tu.» disse, stringendo sempre
più la morsa intorno alla gola del poliziotto.
Semir divenne rosso in volto, cominciò a boccheggiare.
«Lascialo!» gridava Andrea, tra le lacrime, alle
spalle di Keller «Lascialo,
basta, lascialo stare!».
Ma l’uomo non si curava di quelle grida, continuava a
stringere.
Susanne rispose al telefono e
Ben
vide l’espressione sul
viso della segretaria farsi prima sorpresa, poi incredibilmente
preoccupata.
Mentre una morsa gli attanagliava lo stomaco, uscì di corsa
dal proprio ufficio
e si avviò verso di lei, che nel frattempo stava
riagganciando.
«È successo qualcosa?»
domandò, con il cuore in gola.
«Ben... era Berger, l’agente incaricato del turno
di sorveglianza a casa di
Semir che sarebbe iniziato stamattina.» la segretaria fece
una pausa, indecisa
com’era su come usare le parole «Ha trovato Jenny e
Dieter ammanettati
nell’appartamento, e Heiss, quello che controllava
l’entrata, legato ai margini
del boschetto dall’altra parte della strada. Dieter
è anche stato ferito al
braccio da un colpo d’arma da fuoco. E Semir, Andrea e le
bambine non ci sono,
sono scomparsi.».
Ben chiuse gli occhi per un attimo, poi li riaprì cercando
sostegno in quelli
di Susanne.
Non poteva essere vero...
Semir aprì la bocca
in
cerca d’aria, che ormai non riusciva
più a inspirare. Si sarebbe accasciato al suolo se non
avesse avuto i polsi
legati in alto a quella sbarra. La vista gli si cominciò ad
annebbiare.
Poi, improvvisamente, Keller lasciò la presa.
Il poliziotto iniziò a tossire spasmodicamente, cercando di
assimilare la
maggior quantità d’aria possibile, ansimando in
cerca di ossigeno.
«Hai ucciso la mia famiglia, Gerkhan.»
ricominciò l’evaso, tentando di
recuperare la calma, ma ancora rosso in viso «Tu hai ucciso
mia moglie e le mie
due bambine, me le hai strappate senza una ragione, le hai ammazzate. E
vuoi
sapere la differenza tra la mia famiglia e la tua? Noi
eravamo felici... Io amavo mia moglie, lei amava me e entrambi
avremmo dato la vita per le nostre bambine. Noi
eravamo felici.».
«È... stato un... un incidente...»
balbettò Semir, con un filo di voce,
continuando a tossire.
«Un incidente? Davvero hai la faccia tosta di chiamarlo
incidente? Hai sparato
alla carrozzeria di quell’auto senza una ragione.».
«La ragione era... era non farti fuggire. Tu mi stavi
sparando addosso.».
«E allora tu avresti dovuto sparare a me. E invece hai
ammazzato loro e osi
dire che si sia trattato di un incidente?».
«Keller, ascolta.» fece l’ispettore, dopo
aver ripreso fiato e ricominciato a
respirare a un ritmo quasi normale «Ascoltami... credi che io
abbia scoperto
che in quella macchina erano morte tre persone, tra cui due bambine, e
me ne
sia semplicemente lavato le mani? Io mi sono sentito in colpa per
mesi... per
mesi non ho chiuso occhio, per mesi ho sognato quell’auto in
fiamme e per mesi
ho pensato a quello che tu potessi provare dopo la loro morte. Te lo
posso
giurare. Ma poi... poi sono arrivato a una conclusione: non ho oscurato
io i
vetri di quella macchina; non ho coinvolto io la tua famiglia nei tuoi
traffici, non sono stato io a portare una donna e due bambine a uno
scambio a
cui, sapevo, avrebbero partecipato i più temuti criminali
francesi e tedeschi
in circolazione. Non mi sono nascosto io dietro a quella macchina,
sparando
all’impazzata contro un poliziotto, lo hai fatto tu. Non le
ho messe io in
pericolo, Keller, ma tu. Quello che è successo è
solo colpa tua. Loro... sono
morte per colpa tua.».
Semir tacque, aveva bisogno di riprendere fiato. Temeva quale sarebbe
stata la
reazione di Keller a quel discorso, ma l’uomo sembrava aver
ripreso la propria
tranquillità di partenza e ciò, se possibile, lo
spaventò ancora di più.
«Se ti sei sentito in colpa, Gerkhan, hai ammesso la tua
colpa.».
«Non è così...».
«Io posso averle messe in pericolo... ma tu le hai uccise.
Tu.» continuò
Keller, allontanandosi di qualche passo dal suo prigioniero
«E ciò che dici
vale anche per te, perché adesso, sappilo, tua moglie e le
tue figlie moriranno
per colpa tua. Perché in
fondo io e
te siamo uguali, Gerkhan. Siamo uguali. Entrambi resistiamo. Resistiamo
e
vediamo morire le persone a noi più care, e forse per noi
è così che deve
essere. Ma ricordalo Gerkhan, questo ricordalo sempre: tu sarai la
causa della
atroce morte a cui sta per andare incontro la tua famiglia, tu sarai
causa
delle tue stesse sofferenze. E dovrai convivere con questa
consapevolezza. E
sarà insopportabile.».
Keller guardò l’ispettore ancora una volta negli
occhi.
Poi, con un mezzo sorriso, uscì dall’enorme
stanza, lasciando che la porta si
chiudesse con un rumore sordo alle sue spalle.
Ben e la Kruger scesero dalla
Mercedes che il primo aveva
appena parcheggiato davanti alla residenza protetta dove la famiglia
Gerkhan
avrebbe dovuto essere al sicuro.
Hartmut, nello stesso momento, stava scendendo da una vettura ferma
poco più
avanti.
Si salutarono con un cenno del capo, nessuno dei tre aveva la minima
voglia di
conversare, e salirono nell’appartamento.
All’interno, alcuni agenti avevano già delimitato
il salotto dove era
evidentemente avvenuta una colluttazione.
Il tecnico dai capelli rossi iniziò subito a effettuare
rilievi di vario
genere, senza dire una parola.
Kim si aggirò nervosa per il piccolo appartamento, alla
ricerca di qualcosa che
nemmeno lei sapeva che cosa potesse essere.
Ben, invece, andò a sedersi sul divano accanto a Jenny che,
sola, singhiozzava.
«Ehi...» fece il ragazzo, poggiandole una mano
sulla spalla.
«Ben, li hanno presi... io ero con Andrea, le bambine
dormivano... ero armata,
ero vigile, io ero attenta, lo giuro, ma mi hanno colpito in testa e
io...
io...».
«Tranquilla, Jenny, stai tranquilla. Non è stata
colpa tua, non avresti dovuto
essere da sola qui... Keller voleva questo fin dall’inizio,
non avresti potuto
fermarlo. Non avrei potuto nemmeno io.».
«Ma non ero sola, c’era Heiss giù dal
portone e io pensavo che...».
«Sì, ma loro erano in due e hanno avuto il tempo
di sistemare prima lui e poi
di fare irruzione qui... non è stata colpa tua.».
«Ma io... e poi Dieter è in ospedale...»
mormorò la giovane poliziotta «Ben, se
fanno qualcosa alle bambine o ad Andrea...».
«Li troveremo, Jenny. Li troveremo. Dieter ha già
chiamato dall’ospedale, la
sua era solo una ferita superficiale. Andrà tutto
bene...».
Semir e Andrea erano rimasti
soli,
legati uno dalla parte
opposta rispetto all’altra nella stanza.
Il poliziotto teneva insistentemente lo sguardo fisso a terra,
nonostante la
moglie provasse a cercare con lui un qualsiasi contatto visivo.
«Semir... dimmi che Ben è sulle nostre
tracce.» disse, con un filo di voce
«Semir... guardami...».
Ma lui non la guardava.
«Dimmi che Ben ci troverà... Semir, guardami, ti
prego! Semir!» ormai la sua
voce era diventata un singhiozzo disperato.
E finalmente lui alzò lo sguardo e la donna
preferì che non l’avesse fatto, perché
servì a gettarla ancora più nel panico: Semir
aveva gli occhi colmi di
disperazione.
«Mi dispiace, Andrea... mi dispiace tanto...».
A qualche metro di distanza l’uno dall’altro,
legati e incapaci di muoversi,
per la prima volta dopo mesi si sentirono veramente vicini.
N. d. A.
E la frittata è fatta, se così si può
dire... ma, come vi ho anticipato, questa
volta sono stata davvero crudele, più crudele che mai,
quindi siamo soltanto
all’inizio.
Grazie a chi continua a seguirmi, grazie Mary, Reb e Chiara, un
abbraccio!
Sophie
|
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Capitolo 11 *** Il nostro Inferno ***
Dal
capitolo precedente:
«Mi dispiace,
Andrea... mi
dispiace tanto...».
A qualche metro di distanza l’uno dall’altro,
legati e incapaci di muoversi,
per la prima volta dopo mesi si sentirono veramente vicini.
GIORNO
13.
Ben
si passò una mano sugli
occhi, semichiusi per la stanchezza.
Andò in bagno per sciacquarsi il viso con
dell’acqua fresca, poi tornò in
fretta verso la sua scrivania. Non si era mosso dall’ufficio
per tutta la notte
e Kim e Margaret avevano fatto lo stesso.
Il giorno prima, Hartmut aveva esaminato da cima a fondo la casa dove
Andrea e
Semir avevano vissuto per nemmeno dodici ore e la via carrabile su cui
essa si
trovava. Aveva trovato alcune tracce sulla strada che lo avevano
portato a fare
ipotesi sul tipo di vettura usata dai criminali, ma niente che potesse
portarli
a qualcosa di concreto. In casa, invece, aveva rilevato
un’impronta parziale
lasciata da una suola di scarpa sporca di terriccio, di cui il tecnico
avrebbe
esaminato la composizione durante la notte. Li avrebbe chiamati non
appena
avesse avuto novità, ma ancora quella mattina non si era
fatto sentire.
Nel frattempo, loro tre avevano continuato a ragionare sulle possibili
future
mosse dell’evaso, senza però trarre alcuna
conclusione soddisfacente.
«Ben, raccontami la storia ancora una volta.» lo
pregò Margaret, con un
sospiro.
«Maggie, è inutile, te l’ho
già raccontata...».
«Ben...».
«Allora...» ricapitolò
l’ispettore, controvoglia, per l’ennesima volta
«Il
collega di Semir, Chris Ritter, che lavorava con lui da qualche mese,
si era
infiltrato nell’organizzazione criminale di cui Keller era a
capo; grazie a
questa operazione sotto copertura, l’autostradale aveva
ottenuto informazioni
sugli scambi che si sarebbero effettuati nelle settimane successive e
in
particolare su quelli a cui lo stesso Keller avrebbe presieduto.
L’autostradale
doveva passare le informazioni all’LKA, il caso era di loro
competenza, ma
all’imboscata parteciparono entrambe le squadre, dal momento
che la Engelhardt
aveva promesso completo supporto ai colleghi dell’altro
dipartimento e
l’operazione sotto copertura era stata svolta da un suo
agente. Quel giorno in
particolare lo scambio in programma era con alcuni trafficanti di droga
francesi. Appena prima che lo scambio avvenisse, però, uno
degli uomini di
Keller, che poi è rimasto ucciso durante il conflitto a
fuoco, si accorse della
presenza della polizia. Preso dal panico, Keller iniziò a
correre, dandosi alla
fuga. Corse verso la sua auto, parcheggiata a un centinaio di metri dal
luogo
esatto dello scambio, ma mentre gli altri agenti erano impegnati con i
francesi
e gli scagnozzi di Keller, Semir lo seguì e gli
intimò di fermarsi. Lui non lo
ascoltò, si nascose dietro l’auto e
iniziò a sparare. Per difendersi e per
evitare che potesse scappare, Semir rispose al fuoco, ma
mirò anche alle gomme dell’auto,
sotto la quale c’era una perdita di benzina, e la vettura
esplose. Aveva i
vetri oscurati, per cui Semir non immaginava che dentro
all’auto ci fossero una
donna e due bambine: aveva visto scendere solo Keller e il suo braccio
destro
dalla vettura giusto pochi minuti prima. Non sappiamo come mai avesse
portato
la moglie e le figlie allo scambio. Fatto sta che loro saltarono in
aria
davanti ai suoi occhi e ovviamente non ci fu assolutamente nulla da
fare per
salvarle. Semir venne sospeso dal servizio in attesa del processo, che
poi
confermò che lui non avrebbe potuto immaginare
che...».
«Ripetimi cosa ha detto Keller a Semir dopo
l’esplosione, ti ricordi le parole
esatte?» chiese ancora Maggie, annotando qualche frase su un
block notes.
«“Io ti distruggerò, vedrai la tua vita
crollare. Fosse l’ultima cosa che
faccio.”».
La ragazza annuì, piano.
«Semir mi ha anche detto di aver scoperto in seguito che
Keller dovesse essere
davvero molto legato alla moglie e alle bambine, in un modo viscerale.
Ha detto
di aver visto vera disperazione nei suoi occhi, quel giorno.»
aggiunse Ben,
ricordando le parole dell’amico.
«Bene.» si intromise la Kruger, rimasta fino a quel
momento testimone muta del
racconto «Maier, lei come si comporterebbe se fosse al posto
di Keller?».
La domanda lasciò Margaret leggermente sorpresa
«Io... io non...».
«Abbiamo bisogno che lei provi a entrare nella mente di
quest’uomo.» ribadì
Kim, con decisione «Non abbiamo tracce concrete, per cui
dobbiamo almeno
provare a intuire come abbia intenzione di muoversi. Lei che cosa
farebbe? Che
cosa vorrebbe da Gerkhan?».
La
porta della grande stanza si
aprì con un cigolio e Semir e Andrea alzarono di scatto la
testa, portando lo
sguardo verso l’entrata.
Sulla soglia apparve Keller con la piccola Lily in braccio, che aveva
un’espressione a dir poco terrorizzata.
«Oddio.» fece Andrea, sgranando gli occhi
«Lily, amore mio, va tutto bene. Stai
bene, amore?».
La bambina annuì, spaesata.
Keller non sembrò curarsi di nulla, fece sedere la bambina
per terra e la legò
vicino alla mamma, senza che la piccola provasse nemmeno a ribellarsi,
tanto
era impaurita.
Andrea sorrise alla figlia tentando di rassicurarla. Avrebbe voluto
abbracciarla, ma legata com’era sarebbe stato impossibile.
Un istante dopo, la donna bionda che Semir aveva inseguito in macchina
giorni
prima varcò la soglia della stanza, tenendo Aida per mano e
trascinandola
letteralmente vicino alla sorella. Gridava, cercava di dimenarsi dalla
presa
della donna con tutta la forza che aveva in corpo. Ma lei la
strattonò con
noncuranza e la legò accanto alla più piccola.
«Papà! Mamma!» gridò la
bambina, vedendo i suoi genitori legati, ma non ebbe il
tempo di aggiungere altro perché la donna bionda
strappò due pezzi di nastro
isolante e li attaccò sopra la bocca delle bambine,
obbligandole a tacere.
«Aida, Lily, state tranquille.» disse Semir, mentre
il cuore ricominciava a
battere all’impazzata «State
tranquille...».
«Perché le hai portate qua, che cosa vuoi
fare?» fece poi, rivolto verso
Keller, mentre la rabbia e la paura montavano in lui a livelli
incredibili.
«Non ti preoccupare di questo, Gerkhan, non ora.»
rispose l’uomo, con una certa
vena sarcastica nella voce.
Lanciò un’occhiata alla donna bionda che, tornata
accanto alla porta, stava in
piedi e osservava, a braccia conserte, con un sorriso beffardo dipinto
sul
volto. Poi tornò a rivolgersi al suo prigioniero.
«Ora voglio che tu lo ammetta. Voglio che tu ammetta che
è stata colpa tua,
voglio che tu ammetta di averle uccise.».
«Io...
forse vorrei che Semir
ammettesse di aver ucciso la mia famiglia.»
mormorò Maggie, infine «A volte le
persone hanno bisogno di sentir dire dal carnefice
che li ha privati di qualcosa ciò che effettivamente questa
persona ha fatto. Questa
confessione permette loro di
sentirsi
meno in colpa per ciò che faranno loro stessi alla persona
su cui hanno scelto
di vendicarsi.».
«Quindi Keller vorrà che Semir ammetta di aver
ucciso sua moglie e le sue
figlie.» ripeté la Kruger, pensierosa.
«Sì, è probabile...».
«Ammettilo...»
sibilò Keller,
vicino al viso del suo prigioniero.
«Dimmi perché hai portato qui le
bambine.» fu la risposta secca del poliziotto.
Non voleva rispondere alle domande di quel pazzo, voleva che fosse lui
a
rispondere alle sue. Ma Keller non lo avrebbe accettato.
Semir non vide nemmeno la mano arrivare, sentì solo il colpo
e si ritrovò il
labbro inferiore spaccato a metà e sanguinante. Chiuse un
attimo gli occhi per
riprendersi dal colpo che lo aveva sorpreso.
«Ammetti di averle uccise.» scandì
Keller, con un tono che non avrebbe ammesso
altre repliche.
«Perché poi tu
ti possa sentire meno
in colpa?» fece Semir, guardandolo negli occhi
«Scordatelo.».
Il pugno che gli arrivò dritto nello stomaco gli tolse il
respiro.
«Bambine, non guardate... non guardate...»
mormorò Andrea, con le lacrime agli
occhi, sperando con tutto il cuore che le figlie la ascoltassero.
Ma Aida non aveva alcuna intenzione di fare come aveva detto la mamma:
rimaneva
invece con gli occhi sbarrati, terrorizzata.
«Pensi... pensi che questo... cambierà le
cose?» ansimò Semir, sempre
sostenendo lo sguardo dell’uomo che aveva di fronte
«Non è stata colpa mia, ma
solo... solo tua...».
«Maledetto bugiardo.» gridò Keller,
ormai completamente fuori di sé. Era
impressionante come passasse dall’essere incredibilmente
calmo all’essere folle
nel giro di pochi istanti.
«Spero che tu non abbia il coraggio di ripeterlo,
Gerkhan.» gli intimò.
Ma Semir non aveva alcuna intenzione di cedergli.
«Te lo ripeto, Keller: è stata solo colpa
tua.».
Questa volta fu lui a scandire bene ogni sillaba in faccia al criminale.
La scarica di pugni che ne seguì, però, lo fece
pentire di aver pronunciato
quella frase.
Mentre l’uomo lo colpiva sperò solo che le bambine
non stessero guardando.
«Le hai uccise... tu le hai ammazzate! Io le amavo e tu le
hai ammazzate!»
continuò a gridare Keller, rosso in volto, ora girando per
la stanza in preda a
una specie di crisi isterica «Le mie bambine sono morte per
colpa tua,
maledetto bastardo assassino!».
La donna bionda, in disparte, guardava a braccia conserte e sorrideva.
Ad Andrea, in quelle condizioni, Keller faceva ancora più
paura.
Mentre lui continuava a gridare e a inveire, Lily era scoppiata a
piangere,
mentre Aida era sbiancata e non distoglieva mai gli occhi dal
papà, che appeso
per i polsi a quella sbarra e con i piedi legati a terra, lottava ogni
secondo
di più per mantenere la lucidità.
«Vigliacco...» mormorò lui
tutt’a un tratto, tanto piano che Keller non capì
che cosa avesse detto.
Si avvicinò scattosamente e lo costrinse ad alzare lo
sguardo.
«Ripeti.» ordinò.
«Sei... sei solo un vigliacco... solo un maledetto
vigliacco.» scandì Semir,
con il poco fiato che gli rimaneva in corpo.
Keller si trattenne solo perché pensava che se avesse
sfogato ancora la sua
rabbia su di lui l’avrebbe ucciso in quell’esatto
istante.
Per astenersi dal farlo, istintivamente, strinse i pugni fino a farsi
male e
arretrò di due passi, allontanandosi dal suo bersaglio.
Semir respirava affannosamente, le gambe non gli reggevano. Se non
fosse stato
per i polsi legati sopra alla propria testa, sarebbe crollato a terra.
Ma non smise di sostenere il suo sguardo.
Pochi
minuti dopo, Ben, Maggie e
la Kruger si trovavano in macchina.
Hartmut li aveva finalmente chiamati, dicendo di aver analizzato il
terriccio
il più velocemente possibile.
Non si era dilungato nella spiegazione di procedure scientifiche che i
poliziotti non avrebbero potuto comprendere, sapeva che la situazione
fosse
estremamente grave e che non fosse affatto il momento di scherzare.
Aveva spiegato loro di aver trovato del materiale contenente frammenti
di un
tipo particolare di ghiaia, di cui poco fuori Colonia si trovava una
cava.
Non appena ricevute le coordinate del luogo, Kim e Ben si erano
precipitati in
macchina e Margaret aveva insistito per andare con loro.
Ben aveva il cuore in gola: la possibilità di ritrovare il
suo socio lo faceva
sperare, ma non sapeva in che condizioni lo avrebbe trovato o, peggio,
in che
condizioni avrebbe trovato la sua famiglia. E questo lo terrorizzava.
Guidando altamente oltre i limiti consentiti, raggiunse la cava in poco
più di venti
minuti.
Ma quando i tre scesero dalla vettura, ebbero fin da subito la
sensazione di
essere nel posto sbagliato.
Sarebbe stato troppo facile.
Trovarono una monovolume nera abbandonata, all’interno un
paio di scarponi
sporchi di ghiaia.
Ma nessun’anima viva.
Dopo una rapida perlustrazione, richiamarono Hartmut perché
andasse ad
analizzare l’auto, poi si diressero nuovamente verso la
Mercedes di Ben con la
quale erano arrivati.
«Lo sapevo.» mormorò
l’ispettore, amareggiato «Lo sapevo, Keller non fa
questi
errori.».
Mise in moto, con sguardo cupo.
«Li troveremo, Jager.» disse la Kruger, risoluta.
«Maier.» fece poi rivolta a Margaret
«Dopo aver fatto ammettere il delitto a
Gerkhan, che cosa farebbe lei al posto di Keller?».
«Quell’uomo è ossessionato dalla
vendetta, commissario.» rispose la psicologa,
con voce flebile ma al tempo stesso con tono deciso «Non ha
mai superato la
morte della famiglia. Io credo... credo che se fossi in lui vorrei che
Semir
soffrisse tanto quanto ho sofferto io.».
«Hai
ancora il coraggio di
guardarmi negli occhi e dirmi che sono un vigliacco, quindi.»
sibilò Keller,
tentando di contenere il più possibile la propria rabbia,
che però era evidente.
Semir continuò a guardarlo, non rispose. Sentiva il gusto
metallico del sangue
in bocca e la testa gli girava. Le corde che aveva legate ai polsi, che
ormai
da sole sostenevano tutto il suo peso, gli stavano lacerando la pelle.
«Ma non temere, non ti farò più niente,
non mi sfogherò più in questo modo,
avevo solo bisogno di scaricare la tensione. Non sarà
così semplice e immediata
la tua fine.» continuò l’uomo, ora fermo
a pochi centimetri da lui «Tu
soffrirai. Mi pregherai. Desidererai morire. Ma non morirai...
perché io e te
sopravviviamo, Gerkhan, è questo il nostro
Inferno.».
Il silenzio era interrotto solo dai singhiozzi di Lily, che alle
orecchie del
poliziotto arrivavano ovattati.
Keller si avviò deciso verso la porta, ma poi si
fermò sulla soglia,
rivolgendosi ancora un’ultima volta al suo prigioniero
«Intanto ti do un
compito per la notte, Gerkhan. Comincia a pensare a chi rinunceresti
tra il tuo
migliore amico e la tua famiglia, domani sarò curioso di
conoscere la risposta.».
Poi, con una risata, lasciò la stanza.
Lo stesso fece anche la donna bionda, dopo aver strappato lo scotch
dalla bocca
di entrambe le bambine.
«Gridate quanto volete, intanto qui non può
sentirvi nessuno.» aveva sibilato,
prima di sparire e chiudersi la porta alle spalle.
«Semir...»
mormorò Andrea quando
furono soli, trattenendo a stento le lacrime.
Il poliziotto sollevò debolmente la testa, per incontrare lo
sguardo della
moglie «Non... non ti preoccupare... va tutto
bene...» sussurrò, a fatica.
«Papà!» esclamò Aida. Aveva
la voce terrorizzata, ma ferma. Non piangeva.
«Papà, stai tanto male?» chiese, temendo
la risposta.
Ma la risposta non arrivò.
Semir udì a malapena la moglie che consolava le bambine,
dicendo loro che papà
si sarebbe ripreso presto, che stava bene.
Poi il buio piombò su di lui.
Eeeh
basta, adesso giuro che non gli
farò più niente, toccherà a
qualcun altro, il che potrebbe anche spaventarvi...
Minacce
a parte, ho saltato una settimana, lo so, per questioni di
indecisione.
Sono stata indecisa per un po’ sul proseguo della storia:
è finita da mesi,
ormai, ma non sapevo se renderla un po’ più
leggerina o meno prima di
pubblicarla. Come potete immaginare, alla fine ho scelto di non farlo.
La manterrò
come la mia mente malata l’ha voluta in origine, spero che
non mi odierete
troppo troppo per ciò che accadrà.
Grazie
sempre a chi mi segue e soprattutto a chi recensisce, grazie,
grazie,
grazie!
A
presto,
Sophie
|
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Capitolo 12 *** Primi effetti ***
Dal
capitolo precedente:
«Papà!»
esclamò Aida. Aveva la
voce terrorizzata, ma ferma. Non piangeva.
«Papà, stai tanto male?» chiese, temendo
la risposta.
Ma la risposta non arrivò.
Semir udì a malapena la moglie che consolava le bambine,
dicendo loro che papà
si sarebbe ripreso presto, che stava bene.
Poi il buio piombò su di lui.
GIORNO
14.
«Papà!»
gridò Aida, notando che il
padre aveva sollevato la testa verso di loro.
In realtà aveva ripreso conoscenza già da qualche
minuto, ma era rimasto in
silenzio, valutando la situazione e osservando Andrea che, sottovoce,
continuava a consolare la bambina più grande, mentre Lily
aveva ceduto alla
stanchezza e si era addormentata.
«Semir, grazie al Cielo, stai bene?» si
preoccupò Andrea, alzando
immediatamente lo sguardo verso il marito legato dall’altra
parte della stanza.
«Sì.» fece lui, guardandosi i polsi che
avevano iniziato a sanguinare a causa
della forza con cui le corde li stringevano «Quanto tempo
è passato?».
«Non lo so...».
Il turco annuì, osservando l’enorme ambiente in
cui si trovavano. In fondo alla
stanza c’era un’apertura nel muro, grande quasi
tanto quanto una finestra,
dalla quale l’aria gelida di fine novembre penetrava
all’interno. Da
quell’apertura poteva scorgere una fetta di cielo nero, senza
stelle. Era notte
fonda.
«Andrea, dobbiamo pensare a qualcosa.».
«Sei sicuro di stare bene? Hai qualcosa di rotto?».
A Semir faceva male il torace, i pugni di Keller dovevano avergli
fratturato
una o due costole. Quando respirava, poi, il dolore diventava
più acuto e
insopportabile. Ma provò a non farci caso.
«No, sto bene. Ma dobbiamo fare qualcosa.».
Andrea provò a muovere i polsi, che però erano
saldamente tenuti insieme da
nodi che sarebbe stato impossibile sciogliere autonomamente.
«Io credo... credo che Ben ci troverà.»
mormorò, provando a concretizzare nella
propria mente quella flebile speranza.
«Sì, zio Ben ci trova, non è vero
papà?» si intromise Aida, con voce candida.
«Aida, cucciolo, prova a dormire un po’ come tua
sorella...» le disse il
poliziotto, guardandola negli occhi «Dammi retta, riposati,
intanto io e la
mamma pensiamo a una soluzione.».
«Non voglio dormire.» rispose la bambina, risoluta.
Semir sospirò, ma comprendeva appieno l’agitazione
della figlia.
Poi tornò a rivolgersi alla moglie «Andrea, Ben
non ci troverà. Keller non è
uno sprovveduto, non avrà lasciato tracce e... quella donna,
lei ha anche
sparato a Dieter dopo avermi preso, davanti a casa. Spero che stia
bene...».
«E invece tu ti devi fidare, Ben ci
troverà.» affermò la donna, con
decisione.
Ma poi, immediatamente, le tornarono in mente le parole che aveva
pronunciato
Keller appena qualche ora prima.
«Ma se... se dovrai scegliere...».
«Non dovrò scegliere, non posso
scegliere...» sussurrò Semir, scuotendo il capo
«Non posso scegliere...».
Semir
e Andrea non sapevano
quante ore fossero trascorse quando, finalmente, cominciò ad
albeggiare. Ore di
silenzio durante le quali entrambi avevano cercato una soluzione che
potesse
condurli alla fuga, senza giungere però ad alcun risultato.
Aida si era finalmente addormentata ed entrambe le bambine dormivano
quando
Keller entrò nella stanza, spalancando la porta e facendo
balzare a Semir il
cuore in gola.
«Nuovo giorno, Gerkhan, sei pronto?»
sussurrò con un ghigno, rivolto
all’ispettore, senza degnare di uno sguardo né
Andrea né le bambine, che cominciavano
ad agitarsi nel sonno.
«Ripreso da ieri? Hai riposato?»
continuò, beffardo.
L’ispettore non rispose, altrimenti lo avrebbe insultato, e
non era nelle
condizioni di poterlo fare.
«Non rispondi eh? Credevo fossi più di buona
compagnia.».
Poi l’uomo si rivolse alla donna bionda, che era entrata
appena dietro di lui,
con una bottiglia d’acqua tra le mani.
«Kate, dai da bere alle mocciose e alla donna, non mi serve
che muoiano
disidratate.».
Lei fece come le era stato ordinato, svegliando le bambine senza troppe
cortesie e facendo bere loro dalla bottiglia.
«Hai visto, Gerkhan?» fece Keller, tornando a
rivolgersi al poliziotto «Io sono
gentile con la tua famiglia, non trovi?».
«Quanto deve andare avanti questa farsa, Keller?».
L’uomo piegò le labbra in una specie di sorriso.
«Allora ti è tornata la voce. In fondo siete miei
ospiti da poco più di tre
giorni, Gerkhan. Ti sembra tanto? Eppure io avevo detto che la tua
agonia
sarebbe stata lenta, non vedo come mai tu ne sia sorpreso.».
Semir sentì l’impulso fortissimo a provare a
liberarsi da quelle corde per
mettergli le mani al collo, ma sapeva che non ci sarebbe mai riuscito.
E i
polsi ormai gli facevano troppo male, sarebbe stato inutile continuare
a
lacerarsi la pelle: quei nodi non si sarebbero sciolti comunque.
«Vediamo, Gerkhan... quali sono i primi effetti della mia
vendetta? Perché si
sentono già i primi effetti, non è
così?» domandò Keller, con voce
viscida,
girando attorno al suo prigioniero.
Nel frattempo le bambine si erano svegliate completamente, ma Kate non
aveva
dovuto sigillare loro le labbra con lo scotch: erano entrambe talmente
spaventate che non osavano piangere o proferire parola.
«Di che cosa stai parlando?» fu la stanca risposta
di Semir.
L’evaso rise.
«I primi effetti, Gerkhan. Il senso di colpa, per esempio. Il
senso di colpa
per aver messo nei guai la tua famiglia, il senso di colpa per non
essere
riuscito a proteggere le tue bambine. Magari anche quello per aver
trascorso
così poco tempo accanto a tua moglie negli ultimi mesi, dal
momento che ora sai
che non ne avrete più, di tempo... Allora, ho ragione? I
primi effetti
cominciano a farsi sentire?».
«Sei un folle.».
«Se sono un folle è perché tu mi hai
reso tale.» continuò l’uomo
«Ripensandoci
dovresti avere anche questo sulla coscienza.».
«Fino a dove vuoi arrivare, Keller?» fece Semir,
senza smettere di guardarlo
negli occhi.
«Domanda interessante.» ribatté
Friedrich, con voce tranquilla «Tu fino a dove
pensi che io possa arrivare? Rispondimi, Gerkhan... secondo te, quanto
può
arrivare a sopportare un uomo? Quanto credi di poter
sopportare?».
«Tu stai vaneggiando.».
«La mia è una domanda semplice, sbirro, ed
è la risposta a quella
che mi hai posto tu. Io arriverò fino alla
fine.».
«Non conosci il proverbio?» replicò
Semir «Prima
di cominciare una vendetta, preparati a scavare due tombe.
Non lo
conosci?».
«Per ora, Gerkhan, non credo tu sia in grado di farmi finire
dentro a una
tomba. Complimenti per lo spirito, ma ora spetta a me il coltello dalla
parte
del manico.».
L’ispettore sospirò. Sperò solo che
quell’uomo uscisse dalla stanza, che se ne
andasse, che non facesse del male ad Andrea o alle bambine.
E infatti non le toccò.
Si limitò a fissarlo negli occhi e a porgli una domanda.
«Voglio che tu mi dica chi sceglieresti di salvare tra Ben
Jager e tua moglie
se avessi una sola possibilità di scelta. Dimmelo, Gerkhan,
sono curioso.
Dimmelo ora.».
Ben
sbatté con violenza i due
pugni chiusi contro il muro, facendosi male alle nocche delle dita.
E lo fece ancora, ancora e ancora, fino a quando Margaret non lo
raggiunse e lo
obbligò a fermarsi, a voltarsi verso di lei, a guardarla.
«Ben, calmati...».
Il ragazzo si lasciò cadere seduto sulla sedia, scuotendo il
capo. I pugni
ancora serrati.
«Calmati, li troveremo.».
«Maggie, sono tre giorni che me lo ripeti!»
sbottò lui, alzando la voce senza
nemmeno rendersene conto «Sono passati tre giorni e nemmeno
l’LKA ha fatto un
minimo passo in avanti. Potrebbe averli già sterminati
tutti, potrebbero essere
tutti morti!».
La psicologa sospirò piano e si sedette sulle ginocchia del
poliziotto.
«Ben, ascoltami... perdere il controllo non serve a niente,
lo sai anche tu. E
poi io non credo che Keller li abbia uccisi, lui non vuole questo, non
subito.
Credimi...».
«Io ti credo Maggie, ma non li troveremo mai!».
Gli occhi di Ben erano colmi di apprensione.
La ragazza conosceva bene il rapporto che legava lui e il collega e
comprendeva
il suo stato d’animo. Eppure, non sapeva come aiutarlo.
«Non so da dove cominciare, non mi sono mai sentito
così... inutile...» mormorò
il giovane ispettore, cercando negli occhi di lei la speranza che in
lui si era
già dissolta «Semir sa sempre da dove cominciare e
io da solo non riesco a fare
niente.».
«Sai che non è così, Ben. Tu sei un
ottimo poliziotto.».
«Semir al mio posto mi avrebbe già
trovato.».
«Questo non puoi saperlo...».
«Sì, Maggie, è
così!» quasi gridò lui, provando invano
a contenere l’agitazione
«Lui mi ha sempre protetto, sempre. Il primo giorno che
abbiamo lavorato
insieme... lui mi ha consigliato di non aiutarlo. Era appena morto un
suo
collega e lui mi ha detto che non avrei dovuto aiutarlo, che non avrei
dovuto
buttare all’aria in partenza una carriera brillante come
quella che avrei
potuto avere io. Capisci, Maggie? Era appena morto un suo amico e lui
già si
preoccupava per me, e nemmeno mi conosceva... e gli stavo anche
antipatico...».
Ben si interruppe. Sorrise appena.
«A che cosa stai pensando?» domandò la
ragazza, sorridendo a sua volta.
«Sai qual è la prima cosa che gli ho detto,
Maggie?».
Margaret scosse il capo, invitandolo a continuare.
«La prima cosa che gli ho detto quando ci siamo conosciuti,
prima ancora di
sapere che sarebbe stato il mio collega, è stata che erano
passati un bel po’
di annetti dalla fotografia che aveva sul tesserino di
riconoscimento.».
Maggie scoppiò a ridere e anche Ben rise, ma lei
notò che il ragazzo aveva gli
occhi leggermente lucidi.
«E poi abbiamo iniziato a darci del tu senza nemmeno
accorgercene, litigando.
Non dimenticherò mai quel giorno. Ma ora lui ha bisogno di
me e io non so come
aiutarlo...».
Sul
viso di Semir si dipinse la
paura.
«Non puoi chiedermi questo.».
«Veramente l’ho appena fatto, Gerkhan. Non
è difficile, chi sceglieresti di
salvare?».
Il poliziotto non rispose.
Sentì il cuore che nuovamente accelerava i battiti e si
chiese che cosa mai
avrebbe potuto fare. Sapeva perfettamente che quella di Keller non
fosse una
banale curiosità.
«Allora?» lo incalzò l’uomo,
avvicinandosi a lui «Hai perso la tua loquacità
per caso?».
Semir continuò a non fiatare.
«Non vorrai che sia io a decidere, non è
vero?».
«Non puoi...» mormorò
l’ispettore, con voce a mala pena udibile.
«Posso, invece. E sai come?».
Keller rise, estrasse la pistola, la puntò su Andrea.
Lei lo guardò terrorizzata, sperando che le figlie avessero
chiuso gli occhi.
«Così. Posso premere il grilletto.».
«No...».
«No?».
«Lasciala stare.» lo pregò Semir,
ordinando alla propria voce di non tremare.
«Non basta questo, Gerkhan. Voglio sentirtelo dire. Abbi il
coraggio di dire
che sacrificheresti il tuo migliore amico. Che preferiresti la sua
morte a
quella di tua moglie.».
Il poliziotto ripiombò nel silenzio.
Passò un minuto, forse, prima che Keller decidesse che il
tempo fosse scaduto.
Tolse la sicura.
«Come vuoi, allora.» sibilò,
avvicinandosi ad Andrea.
Poi posò il dito sul grilletto.
«Fermo!»
gridò Semir, con forza
«Fermati...».
«Dillo, Gerkhan.» intimò ancora
l’uomo, senza accennare ad abbassare la pistola
«Dillo o la ammazzo.».
«Io...».
«Dillo.».
«Io sceglierei... sceglierei di salvare la mia famiglia.
Sempre...».
Keller annuì. Rimise a posto la pistola, si mise a ridere.
«Non avevo dubbi.» commentò.
Semir strinse i pugni talmente forte da ferirsi i palmi delle mani.
«Peccato, quel ragazzo sembrava simpatico.» disse
ancora l’evaso, con una
smorfia «Comunque sia, so dove trovarlo.» aggiunse,
dirigendosi verso la porta.
«Aspetta... Ben non ti ha fatto niente... ti
prego...» balbettò Semir, sperando
di fermarlo.
«Infatti... ma tu sì.» ribadì
l’uomo.
«Kate! Si va in centro, a Colonia.»
annunciò, ad alta voce.
Poi, seguito dalla donna, aprì la porta e uscì
dalla stanza.
«Papà...».
La voce di Aida era terrorizzata.
«Papà... che cosa fanno a Ben?».
Lo sarebbero andati a cercare. Lo avrebbero trovato. Lo avrebbero
ucciso. Tutto
per colpa sua.
Ma Semir non avrebbe mai potuto dire questo alla figlia. Avrebbe voluto
gridare, sfogarsi, disperarsi perché il suo migliore amico
era in pericolo a
causa sua e lui non avrebbe potuto avvisarlo, ma non lo fece. Non fece
niente
di tutto ciò.
«Niente cucciolo, non ti preoccupare. Lo zio Ben sta
bene.» mormorò, provando a
essere convincente agli occhi della figlia e nel frattempo cercando
aiuto nello
sguardo della moglie.
«Sì tesoro, papà ha ragione.»
replicò Andrea, rivolta alla bambina «Non ti
preoccupare per Ben, va bene?».
Aida annuì poco convinta.
Andrea le sorrise dolcemente e diresse poi uno sguardo preoccupato
verso il
marito: si chiese dove Keller volesse arrivare e fino a dove lui,
effettivamente, avrebbe retto. In quel momento, gli sembrava
l’uomo più fragile
sulla faccia della Terra.
«Io
non capisco...» continuò ad
agitarsi Ben «Davvero non comprendo quale sia il senso di
tutta questa
storia.».
«Vuole vendicarsi, lo sai.» ribadì
Margaret, provando per quanto possibile a
tenere a freno l’ira dell’ispettore.
«Sì, certo, ma non capisce che questo non
risolverà nulla? Che non riavrà la
sua famiglia in questo modo?».
«Ben... quell’uomo ha perso tutto.»
scandì lei, con calma «Gli sono morte le sue
bambine e la moglie che amava davanti agli occhi... non possiamo
nemmeno
immaginare che peso sia questo da sopportare.».
«Non lo starai giustificando, spero.».
«Non lo giustifico.» continuò Maggie
«Ma provo a immedesimarmi nel suo dolore.
Quell’uomo è rimasto solo e nessuno lo ha aiutato
a metabolizzare ciò che gli è
successo. Ha visto morire la sua famiglia e un attimo dopo si
è ritrovato in
carcere e lì è rimasto per sette anni. Pensaci,
Ben... non so quanti
uscirebbero sani di mente da questa situazione.».
«Scusa, ma come vittima proprio non riesco a
considerarlo.» commentò Ben,
lapidario. La mascella serrata, le mani aperte e appoggiate sulla
scrivania,
quasi dovessero farla sprofondare.
«Se io impazzissi, se non riuscissi a sopportare la perdita
della mia famiglia,
magari penserei al suicidio, non sterminerei le famiglie
altrui.».
«Certo, Ben, ma tu parli da persona sana ed equilibrata a cui
non è mai capitato
niente di così drammatico. Dovresti provare a spostare il
tuo punto di
vista...».
«Io me ne frego del suo punto di vista!»
sbottò il poliziotto, alzandosi di
scatto dalla sedia «Se avesse rivolto il suo squilibrio su se
stesso e si fosse
ammazzato ci avrebbe tolto tanti problemi.».
«Ben...».
«Io torno a casa di Semir, magari qualcosa è
sfuggito a quelli della
scientifica.».
«Vuoi che venga con te?» gli chiese la ragazza, in
un bisbiglio.
Ma lui era già sparito.
«Andrea...
se... se gli succede
qualcosa...» balbettò Semir, in un sussurro.
La donna dall’altra parte della stanza sospirò,
piano.
Lanciò un’occhiata a Lily che si era
riaddormentata sulla spalla di Aida,
mentre la più grande teneva gli occhi chiusi, ma Andrea non
era sicura che
dormisse.
«Semir, devi mantenere il sangue freddo.» disse,
sottovoce ma in modo che il
marito a qualche metro di distanza la potesse sentire «Keller
vuole esattamente
questo, vuole farti credere che tutto attorno a te stia crollando e che
tu sia
la causa di tutto. Non puoi credergli, okay?».
«Lo ucciderà... ucciderà
Ben...».
«Semir, ti prego...».
«Andrea, mi dispiace così tanto... Io non pensavo
che... tu avevi ragione, hai
sempre avuto ragione e io non ti ho ascoltato. Vi ho messo in pericolo
e ora
non posso fare niente... non posso fare niente...».
La voce dell’ispettore era disperata. Questa volta non
riusciva a mantenere la
calma, non riusciva a gestire la paura, sentiva che non sarebbe stato
fortunato
come sempre. Sentiva che sarebbe andato tutto storto, che avrebbe perso
tutto.
Avrebbe perso ogni cosa.
Ben
parcheggiò la Mercedes sotto
all’abitazione sicura in cui si erano trasferiti Andrea e
Semir prima di essere
rapiti. L’area era ancora transennata, ma totalmente deserta.
Scese dalla macchina, accorgendosi solo in quel momento di quanto
avesse tenuto
stretto il volante durante tutto il tragitto.
Chiuse la portiera e si diresse verso l’entrata della casa,
già intuendo che
l’ennesima sua perquisizione si sarebbe conclusa con un nulla
di fatto.
Si bloccò sulla soglia, udendo un rumore.
Un fruscio alle sue spalle. Poi un rumore ritmico che si faceva sempre
più
vicino.
Portò la mano alla fondina e si voltò.
Keller si
diverte assai e altri guai sono in vista,
mentre Ben si
dispera alla ricerca di una soluzione che non riesce a raggiungere...
Grazie
a chi segue in silenzio e... Reb, Chiara, MaryS5, non
smetterò mai di
ringraziarvi!
Sophie
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Capitolo 13 *** Spogliati ***
Dal
capitolo precedente:
Chiuse
la portiera e si diresse verso l’entrata della casa,
già intuendo
che l’ennesima sua perquisizione si sarebbe conclusa con un
nulla di fatto.
Si bloccò sulla soglia, udendo un rumore.
Un fruscio alle sue spalle. Poi un rumore ritmico che si faceva sempre
più
vicino.
Portò la mano alla fondina e si voltò.
Ben
si voltò di scatto, pronto ad
afferrare la pistola.
Ma poi corrucciò la fronte, sorpreso.
Un anziano signore si stava avvicinando lentamente alle sue spalle,
battendo
ritmicamente sul terreno con il bastone in legno di castagno sul quale
si
appoggiava.
Avanzò ancora verso di lui, sorridendo dietro ai baffi
canuti che gli
incorniciavano il viso.
«Allora,
possiamo andare?» chiese
la donna, impaziente.
Keller la guardò con una certa sufficienza, pulendo
meticolosamente con un
panno la canna della propria pistola.
«Con calma, Kate, Gerkhan deve pensare che abbiamo ucciso il
suo amichetto, non
ricordi? Ci vuole almeno un’ora per andare a Colonia e
tornare, aspettiamo
ancora un po’.».
«Stiamo veramente aspettando che passi il tempo che avremmo
impiegato per
uccidere Jager? Friedrich, Gerkhan non sa nemmeno dove ci troviamo, non
è il
caso di lasciar passare un’ora.».
L’evaso sbuffò leggermente.
«Che cosa preferivi che facessimo, che andassimo veramente ad
ammazzare Jager?
A quale scopo? Per quanto mi riguarda può vivere,
l’importante e che Gerkhan
pensi che sia morto e si senta in colpa. Per cui sta’ zitta e
aspettiamo.»
sbottò.
«Agli ordini.» replicò Kate, alzando gli
occhi al cielo.
Muoversi a comando non le piaceva. Non le piaceva per niente.
Hartmut
si sedette nervosamente
su una delle due sedie davanti alla scrivania del commissario.
Non aveva trovato niente dalle analisi compiute in laboratorio che
potesse
aiutare i colleghi a rintracciare Semir e la sua famiglia,
così aveva deciso di
raggiungere il commissariato per tentare almeno di essere
d’aiuto con il
ragionamento.
Kim e Margaret, in attesa che Ben tornasse dalla sua perquisizione, non
avevano
smesso un attimo di elaborare ipotesi sulla personalità di
Keller e su quali
sarebbero state le sue prossime mosse.
«Ricapitolando, lei avrebbe ordinato a Semir di ammettere
l’assassinio
volontario della sua famiglia, sette anni prima.»
ripeté la Kruger, rigirandosi
il tappo di una penna tra le mani.
«Esattamente.» confermò la psicologa,
appoggiandosi al muro con le spalle.
«Ma Semir non ammetterebbe mai di averlo fatto. Voglio dire,
se avesse saputo
che in macchina c’era la sua famiglia non avrebbe mai
sparato...» si intromise
il rosso, rivolgendosi direttamente a Maggie.
«Ha ragione.» confermò il commissario
«Quindi quale potrebbe essere la prossima
mossa di Keller?».
Margaret si strinse nelle spalle.
«Io... io lo torturerei psicologicamente. Credo che
quell’uomo voglia portare
Semir allo sfinimento.» sussurrò.
E temeva di avere effettivamente ragione.
Erano
passate quasi due ore
quando Keller rientrò nella stanza, seguito dalla ragazza
bionda.
Semir rivolse immediatamente lo sguardo verso di lui, provando a capire
che
cosa fosse successo prima ancora che l’uomo potesse aprire
bocca.
La donna sconosciuta chiuse la porta e addossò ad essa la
schiena, riassumendo
la propria posizione a braccia conserte, aspettando che fosse Keller a
muoversi
e parlare.
«Quel che è fatto è fatto.»
esordì infatti lui, camminando lentamente verso il
proprio prigioniero, ma rimanendo al centro della stanza, equidistante
dalle
due pareti alle quali Semir e Andrea erano legati.
«Che cosa... che cosa gli hai fatto...»
balbettò l’ispettore, sentendo una
morsa che gli afferrava lo stomaco e cominciava a stringere. Non voleva
conoscere la risposta. Lo aveva chiesto, ma in verità non lo
voleva sapere.
«Credo, Gerkhan, che i dettagli ti farebbero troppo
male.» rise l’uomo «Non
credo li sopporteresti. Non è vero, Kate?».
La donna bionda, dalla propria postazione, si limitò ad
annuire e sorridere
beffarda.
Andrea seguiva terrorizzata la conversazione, sperando che
quell’uomo stesse
bluffando e sperando che le bambine, ora entrambe in allerta, non
comprendessero appieno ciò che stava accadendo. Nessuna
delle due fiatava,
erano entrambe mute e pallidissime.
«Che cosa gli hai fatto...» ripeté
Semir, sentendo un nodo in gola e la morsa
allo stomaco sempre più stretta.
«Te l’ho detto.» fece Keller, misurando a
passi ampi e lenti la grande stanza
«Non ti fornirò i dettagli, sarò
gentile. Il tuo amico, o socio,
così vi chiamavate, giusto? Il tuo socio ha appena
intrapreso un viaggio di sola andata verso
l’Inferno.».
«Non l’hai fatto davvero...»
mormorò il poliziotto, con voce appena udibile.
«Come dici, Gerkhan? Certo che l’ho
fatto.» rise ancora l’evaso «Anzi, vuoi
proprio saperlo? L’ultima cosa che ha detto prima di andare
all’altro mondo è
stata che tu eri innocente. Pensa, stava morendo e mi ha pregato di
lasciarti
andare. Carino, no?».
Contro ogni sua volontà, Semir sentì le lacrime
salirgli agli occhi senza che
potesse fare nulla per trattenerle.
«Non l’hai fatto davvero...».
«L’ho fatto davvero.» ribadì
Keller, andandogli più vicino «L’ho
fatto davvero.
Il tuo amico non c’è più. E ora tocca
alla tua famiglia.».
«Bastardo...» mormorò
l’ispettore, a denti stretti, mentre una lacrima correva
giù lungo il viso e il nodo in gola non voleva saperne di
sciogliersi.
«O no, no, no. È colpa tua, Gerkhan. È
solo colpa tua.».
«Un
momento.» fece la Kruger,
senza smettere di attorcigliare le dita delle mani attorno al tappo
della penna
«Quindi lei pensa che Keller comincerà
effettivamente ad accanirsi sulla
famiglia di Semir?».
La psicologa annuì, mordendosi il labbro inferiore
«È la sua vendetta, la sua
famiglia è morta e secondo lui è giusto che
accada lo stesso a quella di Semir.».
«Tu credi che Keller ucciderebbe effettivamente Andrea? Che
farebbe davvero del
male alle bambine?» chiese Hartmut, con gli occhi spalancati,
in attesa di un
“no” come risposta.
Maggie scosse il capo, con indecisione «Non lo so, davvero.
Keller è un criminale
senza scrupoli, lo è sempre stato, ma si è sempre
occupato di droga. Ha sempre
lasciato il lavoro sporco ai suoi scagnozzi, non credo si sia mai
direttamente
sporcato le mani. Insomma... esistono persone che pur essendo criminali
non
sono in grado di uccidere a sangue freddo… almeno non due
bambine. Quindi non
saprei...».
«Ora
passiamo alla parte
divertente...» annunciò Keller, dirigendosi a
passo sicuro verso Andrea.
Tagliò le corde che la tenevano legata e la costrinse in
malo modo ad alzarsi.
Aida e Lily guardarono la mamma che si alzava in piedi, ma non ebbero
il
coraggio di fiatare.
Andrea sentì un brivido percorrerle tutta la schiena e il
battito cardiaco
accelerare, ma rimase in piedi, immobile, certa che avrebbe fatto
qualsiasi
cosa quell’uomo le avesse chiesto.
Semir, dall’altra parte della stanza, ordinava alle lacrime
di tornare
indietro, mentre ancora provava a riprendersi dalla notizia di Ben.
Ben morto... Ben morto per colpa sua... la figura allegra e scherzosa
del suo
socio gli si presentava e ripresentava nella mente e per quanto lui
provasse a
scacciarla, inevitabilmente questa ricompariva.
Passarono un po’ di secondi prima che il suo cervello si
accorgesse che Keller
si era diretto verso sua moglie e che l’aveva slegata, prima
che capisse che
adesso non avrebbe avuto il tempo per pensare a Ben.
«Che cosa vuoi fare?» chiese, con la voce rotta e
gli occhi lucidi.
«Che cosa voglio fare... domanda interessante.»
ripeté l’uomo, estraendo con
calma la pistola.
«Lasciala stare...».
«Taci, Gerkhan.».
Nel frattempo, la donna bionda si era spostata dalla porta e aveva
estratto a
sua volta una pistola, tenendola però con il braccio disteso
lungo il fianco,
come se si trattasse semplicemente di una precauzione. Si era
avvicinata a
Keller, e attendeva.
L’uomo, tenendo Andrea per un polso, cominciò a
sfiorarla con la canna
dell’arma.
Tra i capelli, sul viso, lungo le spalle.
Andrea rabbrividiva al contatto con l’oggetto freddo che
scorreva sulla sua
pelle, tenendo gli occhi fissi sul marito legato a pochi metri da lei,
osando a
mala pena respirare.
«Lasciala!» gridò Semir, questa volta
alzando la voce «Lasciala stare!».
Ma Keller rise, e ridendo continuò ad accarezzare Andrea con
la canna della
pistola, con calma, tracciandone il profilo.
«Keller, lasciala stare!» continuò a
gridare l’ispettore «Lasciala stare!».
«Taci, idiota.» urlò Kate, puntando la
pistola su di lui. Era la prima volta
che Semir sentiva la voce di quella donna.
«Lasciala... lasciala stare!».
«Se non taci ti sparo, sbirro.» minacciò
lei, ma Semir non la ascoltava, non la
guardava nemmeno.
Keller continuava a far scorrere la canna della pistola sulla pelle di
Andrea,
ridendo.
«Devi lasciarla, lasciala! Smettila!».
«Adesso basta...» sibilò la Kate,
togliendo la sicura.
Semir continuò a gridare a Keller di lasciare Andrea,
imperterrito.
E lei sparò.
«Non
saprei.» continuò Margaret,
scuotendo appena il capo «Da quanto mi avete raccontato,
nonostante tutto,
fatico a credere che Frederich Keller possa uccidere
un’intera famiglia a
sangue freddo.».
Kim alzò un sopracciglio, confusa «E allora per
quale motivo dovrebbe mettere
in piedi tutta questa messa in scena?».
La psicologa si strinse nelle spalle «Perché lui
non sa che si tratta di una
messa in scena, commissario. Lui crede di poterlo fare.».
Semir
fece uno sforzo immane per
trattenersi dal gridare.
Aida lo guardava pallida, con le lacrime agli occhi, e lui
sentì il dolore e il
sangue cominciare a colargli dalla spalla destra lungo il fianco, ma
non gridò.
Trattenne il fiato e strinse gli occhi, sentendo la ferita pulsare.
Rimase zitto per qualche istante, mentre Andrea gridava di fronte a lui
e
Keller le intimava di stare ferma.
La donna che gli aveva sparato lo guardò con un mezzo
sorriso dipinto sul
volto, poi tornò a guardare Friedrich, compiaciuta
«Ora magari farà meno
storie.».
Keller annuì, sempre tenendo la pistola puntata su Andrea.
«Non sarebbe stato necessario.» fece poi rivolto
all’ispettore «Ma sai, credo
che Kate si sia stancata di sentirti gridare. D’altra parte,
Gerkhan, il peggio
deve ancora venire.».
Semir lo guardò negli occhi, ma non disse niente.
Istintivamente avrebbe portato la mano alla spalla ferita, ma nella
posizione nella quale era legato ormai
da tre giorni
sarebbe stato impossibile.
Passò un interminabile secondo di silenzio, poi Keller
alzò le spalle,
sollevato forse di poter tornare alla propria occupazione.
«Bene.» disse tra sé e sé,
allontanandosi da Andrea di un passo e
contemplandola, sempre stringendo in pugno la pistola.
«Ora spogliati.» aggiunse.
Il silenzio li avvolse di nuovo.
Andrea scosse leggermente il capo, aveva il terrore dipinto negli
occhi. In
piedi, accanto a quell’uomo, non osava aprire bocca, non
muoveva un muscolo.
Istintivamente lanciò un’occhiata alle bambine,
che osservavano la scena
immobili, scioccate.
«Keller...» mormorò Semir, stringendo i
denti per il dolore alla spalla «Ti
prego, smettila...».
«Ho detto spogliati.» ribadì
l’uomo, rivolto ad Andrea, senza considerare
minimamente il poliziotto.
Ma lei non si muoveva.
Scuoteva il capo e non accennava a muoversi.
«Spogliati. O ti ammazzo, subito.».
«Keller, basta! Prenditela con me! Keller,
guardami!» gridò Semir, senza tregua
«Lasciala stare, bastardo, lasciala stare!».
«Mi sto stancando Gerkhan, fossi in te la smetterei di
urlare.» fece l’uomo con
voce piatta, senza togliere lo sguardo da Andrea e senza accennare ad
abbassare
la pistola.
«Lasciala stare.» continuò
l’ispettore «Non la devi toccare... non la devi
toccare!».
Semir non vide nemmeno la donna bionda che gli aveva sparato poco prima
andare
a passo di carica verso di lui.
Sentì solo un dolore terribile alla spalla destra e questa
volta non riuscì a
evitare di gridare: Kate gli teneva premuta una mano sulla ferita, con
forza,
spingendo violentemente la spalla del prigioniero
all’indietro e provocandogli
un dolore atroce.
«La devi piantare di gridare, sbirro, hai capito? Hai
capito?» ruggì, rossa in
volto, gli occhi scuri carichi d’odio.
«Hai capito?» ripeté sempre premendo
sulla ferita, che continuava a sanguinare.
Semir annuì, le lacrime agli occhi.
«Keller...» ansimò, rivolto
all’uomo che finalmente aveva distolto lo sguardo
da Andrea e lo stava fissando «Ti prego... le bambine...
porta solo fuori le
bambine...».
«Quindi
lei sospetta che Frederich
Keller sia meno forte di quanto creda di essere.» concluse la
Kruger, cambiando
posizione sulla sedia e sporgendosi in avanti sulla scrivania.
Margaret annuì.
«E quindi dici che non sarebbe in grado di
ucciderli?» chiese Hartmut, con un
lampo di sollievo negli occhi.
«Non da solo.» confermò la psicologa
«Certo, sarebbe diverso se si facesse
aiutare. Semir ha detto di aver visto una donna la prima volta che
Andrea è
stata rapita. Magari potrebbe portare a termine lei quello che lui non
riesce a
completare.».
«Ma a quale scopo?» domandò Kim, con un
sospiro «Keller ha una motivazione
personale per eliminare la famiglia di Gerkhan, perché una
donna qualsiasi
dovrebbe essere disposta a farlo?».
Maggie scosse il capo «Questo non lo so...».
Il
vecchietto si avvicinò
lentamente, mentre Ben toglieva la mano dalla fondina e si lasciava
andare a un
sospiro di sollievo.
«Mi ha spaventato.».
«Mi scusi, giovanotto.» bofonchiò
l’uomo. Aveva un leggero accento inglese e al
giovane ispettore venne subito da sorridere: chiunque fosse, quel
distinto e
baffuto signore ispirava simpatia.
«Lei è un poliziotto?».
«Sì, sono...».
«Perfetto.» lo interruppe lo sconosciuto
«Perché io le devo raccontare una cosa.
Non sono tranquillo di notte in questo quartiere, sa? Poi, visto quello
che è
successo tre giorni fa...».
«Guardi, in questo momento dovrei proprio esaminare
l’appartamento e...».
«No, non può liberarsi di me tanto facilmente,
giovanotto.» lo interruppe di
nuovo l’anziano signore.
Ben sospirò. Non voleva sembrare maleducato, ma non aveva
tempo per un vecchio
signore che sicuramente si sarebbe lamentato dei soliti schiamazzi
notturni,
oppure gli avrebbe manifestato semplicemente tutto il suo timore per
quello che
era accaduto nel quartiere.
«Giovanotto, la vedo in tensione. Se vuole venire a casa mia
le posso offrire
una tazza di tè, abito proprio qui di fronte.».
«No, guardi, mi dispiace, ma oggi proprio non ho
tempo.» si scusò l’ispettore,
sperando che il vecchietto comprendesse la situazione e lo lasciasse
andare.
«Voi giovani di oggi. Mai un minuto di tempo per parlare con
un anziano
signore. Ma io le posso essere utile, sa? Io ho visto una donna, tre
giorni fa,
prima del rapimento.».
«Che cosa?».
«Sì, una donna, era bionda.»
ribadì l’uomo «È rimasta per
tutto il giorno
appostata qui davanti. La polizia non mi ha chiesto niente, non pensavo
fosse
importante. Ma a quanto vedo non avete ancora ritrovato quei poveretti.
Magari
quella donna potrebbe c’entrare qualcosa.».
«Bionda ha detto?» gli occhi di Ben si
illuminarono. Ricordava ciò che gli
aveva raccontato Semir, e la stessa Jenny il giorno del rapimento gli
aveva
raccontato di aver intravisto il profilo di una donna bionda prima di
svenire.
Il vecchietto annuì, col fare di chi la sa lunga.
«Quindi lei... lei... posso accompagnarla in commissariato?
Salga in macchina,
se potesse aiutarci a ricostruire un identikit ci fornirebbe un aiuto
enorme!
Prego, salga in macchina...».
Kate
smise finalmente di fare
pressione con la mano sulla ferita e Semir riprese a respirare a un
ritmo quasi
normale.
Keller corrucciò la fronte.
E Semir lo vide. Fu solo un lampo, negli occhi grigi e freddi di
quell’uomo, ma
lui lo vide.
Era pietà. Dispiacere, forse. Qualcosa di umano.
«Kate, porta le bambine nell’altra
stanza.» ordinò l’evaso.
La donna obbedì, senza dimenticare di lanciare prima
all’ispettore uno sguardo
colmo di disprezzo.
Slegò entrambe le bambine e le trascinò in malo
modo fuori dalla stanza.
Aida provò a divincolarsi dalla stretta della donna,
chiamò il suo papà più
volte, ma non venne ascoltata. Pochi secondi dopo, la porta era di
nuovo chiusa
e Aida, Lily e la donna non erano più nella stanza con loro.
Semir sospirò piano, sollevato che le bambine fossero
dispensate dall’assistere
a quella scena, dal vedere la mamma spogliarsi tremante davanti a un
uomo che
le puntava contro una pistola, mentre papà sanguinava legato
a una barra di
metallo, senza poter fare niente.
«Ora spogliati.» sibilò Keller, con un
tono che questa volta non avrebbe
ammesso repliche.
Andrea si spogliò, lentamente.
Si tolse le scarpe, i jeans, si sfilò la maglietta.
Poi rimase immobile, mentre l’uomo tracciava il profilo del
suo corpo con la
canna fredda della pistola, mentre Semir assisteva alla scena dolorante
e senza
più osare emettere un fiato.
Andrea pianse in silenzio, mentre Keller sorrideva compiaciuto,
accarezzandole
i capelli e sfiorandole con la punta dell’arma il naso e la
bocca e gli zigomi
e il seno e le spalle.
Non guardò negli occhi quell’uomo,
continuò a guardare suo marito. Lo guardava
mentre, con i pugni serrati, lui non toglieva gli occhi dalla pistola
che
Keller aveva in mano.
Non seppe quanto tempo trascorse prima che l’evaso si fosse
stancato di quel
gioco.
Lui improvvisamente staccò la canna dell’arma
dalla sua pelle, attivò la
sicura, la rimise in tasca.
Sorrise in silenzio, compiaciuto.
«No, non mi farò tua moglie, Gerkhan, non ti
preoccupare.» disse quindi,
rivolto verso il suo prigioniero.
Raccolse da terra la maglietta di Andrea e gliela infilò
maldestramente, poi la
costrinse seduta a terra e la legò nella stessa posizione in
cui l’aveva
lasciata nei giorni precedenti.
«Volevo solo farti credere che avrei potuto farlo.»
aggiunse, beffardo,
concludendo il suo folle discorso con una risata di scherno.
Passò davanti a Semir, gli mormorò che Kate
sarebbe passata a fasciargli la
ferita, che non gli serviva che morisse dissanguato per una stupida
ferita alla
spalla.
Poi lasciò la stanza.
Andrea sentì che aveva trattenuto il respiro troppo a lungo.
Si lasciò andare alle lacrime, riempiendo il silenzio del
vano ormai semivuoto.
N.d.A.
Okay, siete liberi di insultarmi, ma accadrà di peggio. In
fondo per ora ho risparmiato Ben
(il signore dall’accento inglese vi ricorda qualcosa?) e sono
ancora tutti vivi.
In commissariato si ragiona e il mancato interrogatorio di quel signore
che ha
notato Kate tre giorni prima è solo il primo di una serie di
errori
investigativi che non aiuteranno certo la risoluzione del caso...
però, ripeto,
potrebbe andare peggio.
Grazie a chi continua a seguirmi! Questo strazio andrà
avanti ancora per
qualche capitolo, poi si cambierà stile
(speravate dicessi “poi arriveremo al finale”... ma
ancora la strada è lunga!).
Sophie
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Capitolo 14 *** Non sarà per sempre ***
Dal
capitolo precedente:
Passò
davanti a Semir, gli mormorò che Kate sarebbe passata a
fasciargli
la ferita, che non gli serviva che morisse dissanguato per una stupida
ferita
alla spalla.
Poi lasciò la stanza.
Andrea sentì che aveva trattenuto il respiro troppo a lungo.
Si lasciò andare alle lacrime, riempiendo il silenzio del
vano ormai semivuoto.
GIORNO
15:
Ben
scaraventò un portapenne a
terra e tutte le matite e i pennarelli colorati che conteneva volarono
via
dalla scrivania di Susanne, sparpagliandosi sul pavimento lucido.
La segretaria rimase immobile, come impietrita, e Kim fece
immediatamente
capolino dalla porta del suo ufficio per controllare che cosa fosse
successo.
Sospirò quando vide il giovane ispettore chinarsi a
raccogliere le penne cadute
e sbatterle poi sulla scrivania.
«Jager...» sussurrò, avvicinandosi a lui.
«Sono ottantasei ore, commissario. Ottantasei.».
La Kruger annuì, comprensiva.
Si chinò e aiutò il poliziotto a raccogliere gli
ultimi oggetti sparsi sul
pavimento.
«Io credo che lei dovrebbe prendersi una pausa, Jager.
Dormire per qualche
ora.».
«No, capo, non posso.».
La donna annuì di nuovo, senza insistere. Sapeva che il
ragazzo non l’avrebbe
mai e poi mai ascoltata.
Il signore con cui Ben era tornato in caserma la sera prima non era
riuscito a
fornire indicazioni abbastanza precise riguardo alla ragazza bionda e
l’identikit non aveva portato ad alcun risultato. Il vecchio
aveva rinunciato,
spiegando di sentirsi confuso e di aver bisogno di pensare, per
ricordare
meglio i lineamenti della donna. Così i poliziotti lo
avevano lasciato tornare
a casa e, ancora una volta, si erano trovati senza niente in mano.
«Ho ricontrollato tutte le conoscenze di Keller.»
spiegò Susanne «Niente, non ho
trovato nulla.».
«Okay... stiamo facendo il possibile, ragazzi.»
sospirò il commissario,
guardando Ben che invece scuoteva il capo, guardando per terra.
«Non è abbastanza.».
«Jager...».
«Io vado in carcere, magari qualcuno mi sa dire che genere di
visite ha
ricevuto Keller durante gli ultimi sette anni.» la interruppe
l’ispettore.
«Se ne sono già occupati i colleghi
dell’LKA, non hanno rilevato niente di
utile.».
«Nello stesso modo in cui si erano occupati di interrogare
gli abitanti del
quartiere? Guarda caso quel signore non era stato interrogato da
nessuno.».
«Jager, i colleghi non sono degli stupidi. Hanno fatto un
errore, ma le ripeto
che in carcere sono già andati e...»
«Bene, ora però ci vado io. Non abbiamo bisogno di
fare altri errori.».
Ben uscì dall’ufficio, senza che nessuno potesse
nemmeno tentare di fermarlo.
«Semir,
ho paura.» singhiozzò
Andrea, piano.
Era passata un’altra notte.
Un’altra notte nel buio, nel silenzio, nel dolore. Legati uno
da una parte e
l’altra da quella opposta della stanza, nessuno dei due aveva
chiuso occhio e
entrambi erano rimasti vigili e attenti, pronti a cogliere ogni minimo
rumore o
ogni minimo movimento che potesse indicare una salvezza. Ma niente,
nessun
suono, nessun’ombra.
Le bambine erano rimaste in un’altra stanza e se da un lato
Andrea era
sollevata che non avessero assistito alla scena del pomeriggio
precedente,
dall’altro la terrorizzava non sapere come stessero, non
poterle consolare
almeno a parole.
La sera prima, Kate aveva fasciato la ferita alla spalla di Semir per
tenere a
bada l’emorragia, ma ora le bende bianche erano ornate da una
macchia di sangue
che si era allargata lentamente, durante la notte.
Lo spiffero d’aria gelida proveniente dall’apertura
sul muro li faceva
rabbrividire. Ma entrambi sapevano che avrebbero provato freddo a
prescindere
dal tempo atmosferico.
Lo spicchio di cielo che si intravedeva cominciava a schiarirsi e la
luce
penetrava tenue nella stanza: era l’alba.
«Ho paura...» ripeté Andrea, in un
soffio.
«Hanno ucciso Ben.» fu la laconica risposta del
marito.
Lei la interpretò come un semplice “Anche io ho
paura”.
E aveva ragione.
Quando udirono la maniglia della porta abbassarsi, entrambi voltarono
automaticamente la testa verso l’entrata.
Kate e Frederich Keller, pistola alla mano, entrarono a passo di carica
nella
stanza.
«Dov’è
Ben?» domandò Maggie,
preoccupata, rientrando nell’ufficio della Kruger.
Si era allontanata un attimo per andare in bagno, lasciando il ragazzo
alla
scrivania di Susanne, ma quando era uscita non lo aveva più
trovato.
«Jager è andato al carcere da cui è
evaso Keller, vuole chiedere informazioni
sulle persone che sono andate a fargli visita negli ultimi
tempi.» rispose la
Kruger, fissando alcuni fogli sparsi sulla propria scrivania, senza in
realtà
prestare attenzione ad alcuno di essi.
«Ma non se ne erano già occupati gli uomini
dell’LKA?» osservò la psicologa,
sedendosi di fronte al commissario.
La donna annuì «Certo, ma Jager vuole controllare
personalmente. Sono
preoccupata per lui... le statistiche ci insegnano che passate un tot
di ore da
un rapimento le probabilità di ritrovare gli ostaggi vivi
calano drasticamente,
e ho paura di un’eventuale reazione di Jager se...».
Non concluse la frase. La verità era che non gliene fregava
niente delle
statistiche. Era semplicemente, costantemente preoccupata per i suoi
uomini.
«Io gli starò vicino, commissario.»
mormorò Margaret, accennando un sorriso.
E la sua stessa frase la terrorizzò. Se già
stavano ipotizzando come sarebbe
stato Ben dopo, allora stavano implicitamente ipotizzando anche che non
avrebbero trovato vivi Semir e la sua famiglia. Stavano perdendo le
speranze.
«Mi preoccupa una cosa in particolare.» disse Kim,
riscuotendo l’altra donna
dai propri pensieri «Forse non abbiamo dato il giusto peso
nella storia a
questa donna bionda. Sarebbe importante capire se si tratta di una
semplice
aiutante di Keller oppure di qualcun altro che avrebbe una motivazione
per
uccidere Gerkhan.».
Maggie si strinse nelle spalle. Non lo sapeva.
Keller
si fermò in piedi a una
distanza intermedia tra Semir e Andrea e puntò la pistola
sulla seconda, senza
emettere un fiato.
Kate, vicino a lui, osservava e lanciava sguardi d’odio verso
l’ispettore e di
ansia mista a eccitazione verso la pistola che stringeva il suo capo
tra le mani.
«Keller... che cosa vuoi fare?» domandò
Semir, pur conoscendo già la risposta
che sarebbe seguita.
«È un nuovo giorno, Gerkhan.»
cominciò l’uomo, senza guardarlo, gli occhi fissi
sulla donna che teneva sotto tiro «Ieri hai ricevuto la
notizia della morte del
tuo socio, vediamo oggi come te la cavi con la morte di tua
moglie.».
Andrea rimase immobile, il respiro tremante, fissando la canna della
pistola
puntata su di lei.
Nell’aria fredda della stanza, il suo fiato si tingeva di
grigio e come nebbia
usciva dalla sua bocca e si dissolveva davanti ai suoi occhi.
«Keller... per favore...» mormorò Semir.
Sapeva che gridare non sarebbe servito. E se l’unica
possibilità che gli
rimaneva era supplicare, lui avrebbe supplicato quell’uomo,
lo avrebbe pregato
di non premere quel grilletto. Perché non avrebbe sopportato
ciò che sarebbe
accaduto altrimenti.
«Supplicami pure, Gerkhan.» rispose lui, beffardo
«Ieri ti ho ascoltato, ho
portato le mocciose fuori dalla stanza. Non le ho riportate qua, sono
stato
gentile. Così non assisteranno alla morte della madre.
Dovresti ringraziarmi.».
«Io non so più come dirtelo, Keller. Non sapevo
che quell’auto sarebbe esplosa,
ma soprattutto non sapevo che ci fosse la tua famiglia
all’interno... avresti
fatto lo stesso al mio posto...» fece il poliziotto, provando
nonostante tutto
a mantenere la calma «Io non potevo sapere che cosa sarebbe
successo.».
Keller scosse il capo, continuando a non degnarlo di uno sguardo.
Continuando a
tenere la pistola puntata su Andrea, immobile.
Nella sua mente, le immagini di quel giorno tornarono vivide. Le
fiamme, un
grido altissimo e quell’ispettore, quel piccolo maledetto
ispettore con l’arma
puntata sulla sua auto, su quell’auto ridotta ormai a fuoco e
cenere.
L’odio che aveva provato quel giorno era stato grande tanto
quanto il suo
dolore, e finalmente adesso avrebbe avuto l’occasione di
manifestarlo. Strinse
il palmo della mano destra attorno al calcio della pistola, pronto a
sparare.
«Keller, ascoltami.» continuò Semir,
ordinando alla propria voce di non tremare
«Io non avrei mai fatto questo alla tua famiglia. Io non
avrei mai preso tua
moglie, non l’avrei mai legata in una stanza, non le avrei
mai sparato a sangue
freddo. Non lo avrei mai fatto, non avrei mai fatto quello che tu stai
facendo
a me, lo sai benissimo.».
«Tu le hai uccise.» sibilò Keller.
Ma l’ispettore scosse un fremito, un leggero fremito della
voce nel pronunciare
quelle quattro parole.
«Ma non l’ho fatto così.
Io non
volevo, Keller. Io non farei mai una cosa del genere
volontariamente.».
«Cominci a innervosirmi, sbirro.» si introdusse
Kate, voltandosi verso di lui
«Vuoi per caso un buco anche nell’altra spalla o
credi di riuscire a tacere?».
Semir la ignorò completamente e continuò a
parlare rivolto a Keller «Ascoltami...
questo non riporterà indietro tua moglie. Non
riporterà indietro Isabelle e le
bambine.».
Frederich sussultò. Quel poliziotto ricordava il nome di lei...
«Non le riporterà indietro, non servirà
a niente. Finita questa storia avrai
delle persone in più sulla coscienza, ma sarai solo. Sarai
ancora più solo di
prima.».
«Giuro che ti riduco a un colabrodo.»
ringhiò la donna bionda, estraendo anche
lei all’improvviso la pistola e puntandola
sull’ispettore.
«Taci, Kate.» sbottò Keller.
Continuava a tenere la pistola e lo sguardo fissi su Andrea, ma aveva
immaginato i movimenti della donna alle sue spalle.
Kate corrucciò la fronte, abbassò la pistola.
Sperò che Friedrich non stesse
veramente ascoltando le parole di quel poliziotto. Non avrebbero potuto
fermarsi, non arrivati a quel punto.
Ben
uscì dal cancello del carcere
e raggiunse la Mercedes. Si fermò accanto ad essa,
sferrò un calcio contro uno
pneumatico.
Niente, un buco nell’acqua. Di nuovo.
Aveva parlato con le guardie carcerarie in servizio e tutti avevano
concordato
sul fatto che Friedrich Keller nel corso di quei lunghi sette anni
avesse
ricevuto pochissime visite, quasi nessuna se si escludevano quelle di
agenti
venuti a interrogarlo o quelle, nei primi mesi, del suo avvocato.
Ben si prese la testa tra le mani in preda allo sconforto. Non sarebbe
arrivato
da nessuna parte, si sentiva bloccato e l’idea che non
avrebbero mai più
ritrovato Semir e la sua famiglia si faceva ogni secondo più
concreta e
terribile.
Ma non sapeva che cosa fare.
In carcere nessuno sapeva nulla, gli uomini che erano stati scagnozzi
di Keller
non sapevano nulla, sul luogo del rapimento non era stato trovato
nulla...
niente di niente.
Salì sulla propria auto, inserì la chiave nel
cruscotto e fece per mettere in
moto, quando un grido richiamò la sua attenzione.
Una guardia del carcere stava correndo a perdifiato verso di lui.
«Ispettore! Ispettore, aspetti!».
«Dimmi,
Gerkhan.» fece Keller,
con voce tranquilla, senza accennare ad abbassare la pistola e senza
guardare
il suo interlocutore «Credi davvero di potermi fermare? Credi
che dirmi che
questo non riporterà indietro la mia famiglia possa
distogliermi dall’idea di
distruggere la tua?».
Semir sospirò. Non aveva niente da perdere, doveva giocare
tutte le carte a sua
disposizione.
«Sì.» rispose, provando a ostentare
sicurezza «Io credo di sì.».
«E per quale strana ragione, sentiamo.».
«Perché tu sai che cosa significa,
Keller.».
L’evaso corrucciò la fronte, sentì un
brivido percorrergli la schiena. Ma
continuò a tenere la pistola puntata su Andrea.
Kate, in disparte, assisteva alla scena pronta a intervenire, con una
strana
ansia dipinta nello sguardo.
«Tu sai che cosa significa perdere tutto.»
continuò Semir «Io invece non lo so.
Ma non credo che tu possa augurare realmente a qualcuno quello che
è accaduto a
te. Credo che tu non riesca ad augurarlo nemmeno a me. Credo che tu sia
disperato, ma non credo riusciresti a uccidere mia moglie e soprattutto
le mie
figlie a sangue freddo. Non sei un mostro, Keller...».
«Allora non ti è chiaro un concetto, Gerkhan. Io
voglio vederti soffrire.»
replicò l’uomo, sillabando l’ultima
parola.
«Se lo farai, non sopravvivrai al senso di colpa.».
«Noi sopravviviamo, Gerkhan, ricordi?».
«Sì.» replicò Semir
«Ma non sarà così per
sempre.».
Keller continuò a non voltarsi, ma lentamente
abbassò la canna della pistola.
Andrea tremava davanti a lui, e lui continuava a guardarla, chiedendosi
se
effettivamente sarebbe stato in grado di ucciderla a sangue freddo.
Forse no.
Il braccio che reggeva l’arma era ormai disteso lungo il
fianco.
Non avrebbe sparato.
«Ispettore!»
ripeté la guardia,
mentre Ben abbassava il finestrino per sentire che cosa avesse da
dirgli.
Era poco più di un ragazzo, non doveva essere in servizio da
molto tempo.
Quando raggiunse la Mercedes del poliziotto era trafelato e prima di
parlare
dovette aspettare di aver ripreso fiato.
«Non ho parlato con lei, dov’era?»
domandò Ben, senza troppe cerimonie.
«Sto iniziando il mio turno adesso, ispettore.»
rispose la guardia, come se si
dovesse scusare per qualche mancanza «Ma ho sentito i miei
colleghi parlare e
ho capito che un ispettore li aveva appena interrogati sul caso Keller.
Io
posso aiutarla.».
«Può aiutarmi?».
«Sì... pochi giorni prima dell’evasione
è venuta una donna a far visita a
Keller. Non l’avevo mai vista prima.».
Ben rimase interdetto «Perché i suoi colleghi non
me ne hanno parlato?».
«Ero presente io durante il colloquio, forse i colleghi non
erano presenti in
quel momento. Sa, ispettore, qui siamo tanti e abbiamo turni
differenti. Io non
ero presente nemmeno quando sono venuti gli agenti dell’LKA a
chiedere
informazioni, me lo hanno riferito solo ora i colleghi. Sa, ancora non
mi
considerano molto... ecco... sono qui da poco.».
«Vada avanti.».
La giovane guardia annuì, facendo correre gli occhi marroni
da una parte
all’altra molto velocemente, come se dover parlare con un
ispettore lo
agitasse.
«Era una donna bionda. Ho sentito Keller dirle che non
sarebbe dovuta
passare.».
Gli occhi di Ben si illuminarono «Una donna bionda? Potrebbe
farne un identikit?».
«Io... io credo di sì.».
«Salga in macchina, la porto subito al comando.».
«Che
stai facendo Friedrich,
spara.» ringhiò Kate, con
un’aggressività nella voce ancora maggiore
rispetto a
quella che aveva dimostrato nei giorni precedenti.
Ma Keller rimase immobile, l’arma lungo il fianco.
«Spara o lo faccio io.» ribadì lei.
Se fino a un attimo prima Semir pensava che la situazione in qualche
modo si
sarebbe risolta, in quell’esatto istante ebbe la netta
sensazione che tutto
sarebbe precipitato, di nuovo.
Keller alzò nuovamente la pistola, puntandola su Andrea, che
strinse gli occhi
temendo il peggio.
«Sparale.» gli intimò Kate, con rabbia.
Lui non si mosse.
Ma l’eco di uno sparò risuonò
nell’aria.
N.d.A.
Ancora
errori investigativi imperdonabili, ancora nessuna pista, ma la
situazione si sbloccherà presto, nel bene o nel male. E poi,
lo sparo...
Grazie
a chi continua a seguirmi, a presto!
Sophie
|
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Capitolo 15 *** Sarà peggio la vita ***
Dal
capitolo precedente:
«Che stai facendo
Friedrich,
spara.» ringhiò Kate, con
un’aggressività nella voce ancora maggiore
rispetto a
quella che aveva dimostrato nei giorni precedenti.
Ma Keller rimase
immobile, l’arma lungo il fianco.
«Spara o lo
faccio io.» ribadì lei.
Se fino a un attimo
prima Semir pensava che la situazione in qualche modo si
sarebbe risolta, in quell’esatto istante ebbe la netta
sensazione che tutto
sarebbe precipitato, di nuovo.
Keller alzò
nuovamente la pistola, puntandola su Andrea, che strinse gli occhi
temendo il peggio.
«Sparale.»
gli intimò Kate, con rabbia.
Lui non si mosse.
Ma l’eco di
uno sparò risuonò nell’aria.
A
Semir parve di assistere
all’intera scena al rallentatore.
Vide Kate intimare a Keller di sparare.
Lui scuotere il capo, pur puntando la pistola su Andrea.
Vide sua moglie chiudere gli occhi.
Vide l’odio negli occhi di quella donna bionda, poi un
proiettile esplodere
dalla canna della sua pistola.
Vide il sangue.
Si allargava sotto il corpo di Andrea.
Kate che riponeva la pistola.
Impiegò una manciata di secondi per capire.
Vide Keller voltarsi verso la donna e lanciarle un’occhiata
sprezzante, poi lo
vide voltarsi verso di lui per spiare la sua reazione.
Gridò. Semir gridò il nome di sua moglie, che non
poteva sentirlo.
Si dimenò fino a farsi male, fino a quando la spalla non
riprese a sanguinare,
e continuò a dimenarsi pur non potendo muoversi a causa
delle corde che lo costringevano
a rimanere praticamente immobile.
Gridò.
Gridò fino a che ebbe fiato.
«Il
naso è... più allungato.
Esatto, così.» puntualizzò la guardia,
mentre meticolosamente ricostruiva il
volto della donna che aveva visto in visita a Keller qualche settimana
prima.
«Direi che le assomiglia. È lei.».
Susanne annuì e avviò la stampa.
«Già, proprio lei.» concordò
una voce alle loro spalle, con un leggero accento
inglese.
Ben, Maggie e la Kruger, riuniti intorno alla scrivania della
segretaria, si
voltarono, sorpresi di trovare alle loro spalle il signore che il
giorno prima
aveva fallito nel ricostruire l’identikit della donna.
«Scusate, non volevo spaventarvi.» si
scusò il vecchio, reggendosi sul proprio
bastone e passandosi una mano tra i baffi candidi «Stanotte
mi è tornato in
mente il volto di quella donna, così sono tornato. Ma noto
che avete risolto
anche senza di me.».
Ben sorrise, per la prima volta forse da ormai quattro giorni. Quel
signore gli
faceva tenerezza.
«Due conferme sono sempre meglio di una.» gli
disse, estraendo poi il foglio
dalla stampante e mostrandolo al nuovo arrivato.
«È lei?».
L’anziano signore annuì, compiaciuto, mentre la
guardia a sua volta faceva di
sì col capo. Quella donna aveva finalmente un volto.
«Ragazzi...» Susanne attirò nuovamente
l’attenzione di tutti, ma il suo tono di
voce non prometteva niente di buono.
La Kruger corrugò la fronte, allertandosi immediatamente, e
lo stesso fece Ben.
«Che cosa c’è?».
«Ho un riscontro nel database... guida in stato di ebbrezza,
niente di che,
ma...».
«Ma? Susanne, che succede?».
«Questa donna è... è Katherine
Fisher...».
«Chi sarebbe Katherine Fisher?» domandò
Ben, mentre il cuore ricominciava a
battergli all’impazzata nel petto.
Susanne prese un bel respiro.
«Lei è... è una persona che ha un
motivo per uccidere.».
«No...
no, no, no.» ripeté Semir
in preda al panico, mentre le lacrime scorrevano amare sul suo volto,
senza che
lui potesse più fermarle.
Continuava a muoversi, a dimenarsi, a cercare di slegare dei nodi che
non
sarebbe mai riuscito a sciogliere.
Keller si avvicinò a lui e lo tenne per le spalle, provando
a costringerlo a
stare fermo.
«Lasciami, bastardo, lasciami.» gridò
Semir, sicuro che se avesse avuto le mani
libere lo avrebbe massacrato «Lasciami, maledetto!».
«Gerkhan, stai calmo, per la miseria. Ti stai facendo del
male, calmati.» fece
lui, rendendo la propria presa più forte, provando a
instaurare con il suo
prigioniero un contatto visivo.
Ma Semir non lo guardava, guardava alle spalle dell’uomo,
dove Kate, un sorriso
beffardo dipinto sul viso, slegava il corpo inerme di Andrea, immerso
nel suo
stesso sangue.
«Lasciala! Tu, lasciala stare! Dove la porti... dove la
porti...» continuò a
gridare, mentre la donna bionda trascinava Andrea verso la porta e poi
spariva
dietro la soglia.
«Dove la porta?» continuò a gridare
rivolto a Keller, quando loro due furono
rimasti soli nella stanza «Dimmi dove la porta,
bastardo!».
«Gerkhan...».
«Fammi andare da lei...» le grida di Semir si
trasformarono in un singhiozzo,
poi lasciarono spazio solo alle lacrime «Ti prego... ti
prego, fammi andare da
lei...».
Keller sospirò. Nei suoi occhi non c’era vendetta
in quel momento, ma Semir era
troppo sconvolto per notarlo.
Negli occhi di quell’uomo c’era una specie di
compassione.
«Sarà peggio il dopo, Gerkhan... Ora fa male, ma
sarà peggio la vita.».
«Katherine
Fisher, sorella di
Isabelle Fisher.» comunicò Susanne, mordendosi il
labbro.
«Oh no...» mormorò Maggie, che prima di
tutti aveva intuito di chi si
trattasse.
«Chi... chi sarebbe?» domandò Ben, che
ancora non aveva capito, provando a
dominare l’ansia che improvvisamente lo aveva assalito.
«Isabelle Fisher era la moglie di Keller.»
spiegò la psicologa, con voce a mala
pena udibile.
«La donna bionda che aiuta Keller è la sorella
della donna che è morta in
quell’auto per mano di Semir? E la zia delle bambine rimaste
uccise?» fece la
Kruger, mentre anche sui suoi lineamenti si dipingeva il terrore.
«Oddio...» commentò Ben, in un sussurro
«Questo vuol dire che...».
«... Che anche lei ha un buon motivo per
vendicarsi.» concluse Margaret al suo
posto.
L’attimo di silenzio che seguì fu lunghissimo.
Tutti, intorno a quella scrivania, sembrarono per qualche secondo come
paralizzati.
«Be’, che aspettate?» fece
all’improvviso il vecchio dall’accento inglese.
I poliziotti si voltarono verso di lui: avevano totalmente dimenticato
la sua
presenza.
L’anziano signore scosse il capo, come a volerli rimproverare
«Suvvia,
muovetevi! In uno di quei telefilm polizieschi che vedo io, i
protagonisti
sarebbero quantomeno già a casa di questa Katherine. Dovrete
pur cominciare da
qualche parte, no?».
Ben annuì e guardò Susanne.
Non ci fu bisogno di parole.
«Tersen Straße, 22.» disse prontamente la
segretaria.
Un attimo dopo, Ben, Margaret e la Kruger erano già in
macchina.
Keller
rimase immobile, per
qualche attimo interminabile, a guardare la macchia di sangue fresco
sul
pavimento della stanza.
Alle sue spalle udiva i singhiozzi sommessi del suo prigioniero. Ma non
lo
guardava.
Quando guardava l’ispettore, rivedeva se stesso in quel
pomeriggio d’autunno di
sette anni prima. Quel dolore atroce negli occhi del poliziotto era lo
stesso
dolore che lui provava ormai da sette anni, che non si era mai
attenuato nel
tempo.
Al posto del sangue, lui quel giorno aveva avuto di fronte fiamme,
cenere e
puzza di gomma bruciata.
Cenere, cenere, cenere.
Non aveva visto i loro corpi.
L’unica cosa che aveva visto erano state le fiamme e la
cenere, e
quell’ispettore. E aveva giurato a lui e a se stesso che gli
avrebbe distrutto
la vita.
E lo stava facendo.
Ma non si sentiva meglio. Non era riuscito a sparare, lo aveva fatto
Kate.
La donna non era morta, ma questo l’ispettore legato alle sue
spalle non lo
sapeva. Comunque fosse, aveva perso troppo sangue, sarebbe morta di
lì a poco.
E lui non sapeva se gioirne, oppure no.
Con lentezza, si voltò e si diresse verso la porta.
Prima di uscire, però, diresse finalmente lo sguardo verso
il suo prigioniero.
Semir aveva gli occhi pieni di lacrime, ma non gridava più.
Ricambiò quello
sguardo senza riuscire a dire niente.
Poi Keller uscì e richiuse la porta, lasciandolo solo con il
suo dolore e con
quell’immensa macchia di sangue sul pavimento di fronte a lui.
La
casa di Katherine Fisher era
ordinata in modo maniacale.
Arredata in stile moderno, piuttosto asettica, non conteneva un solo
oggetto
che si trovasse in qualche modo fuori posto.
C’erano tanti libri, meticolosamente posti sugli scaffali
rispettando
sicuramente un ordine preciso.
Gli ambienti erano ampi, freddi, vuoti.
I pavimenti tirati a lucido.
Ben si era già convinto del fatto che in quella casa non
avrebbero trovato
assolutamente niente, quando un’esclamazione di Hartmut
attirò la sua
attenzione.
Il tecnico li aveva raggiunti sul posto e aveva iniziato subito le sue
analisi
insieme a un paio di altri ragazzi della scientifica.
«Ben, guarda un po’ qua!» lo
chiamò a un tratto il rosso «Questa è
terra.».
L’ispettore intravvide una piccola macchia sul tappeto, nel
punto esatto che
Hartmut gli aveva indicato.
«Ma è... arancione?».
«Sì, deve essere un terreno particolare... devo
portarne in laboratorio un
campione e analizzarlo, potrebbe portare a qualcosa. Sembra una macchia
piuttosto fresca.».
Ben annuì «Quanto tempo ti serve?».
«È molto piccola... magari entro
l’alba...».
Il poliziotto lanciò un’occhiata al cielo fuori
dalla finestra che iniziava a
scurirsi.
«Così tanto, Hartmut?».
«Ben, faccio il più in fretta
possibile.».
«Sei
un buono a nulla,
Friedrich.» sibilò Kate, mentre girava attorno
all’uomo, seduto su una sedia
nella piccola stanzetta in cui si trovavano.
Per terra, in un angolo del pavimento, Andrea giaceva immobile, sempre
più
pallida.
«Ti ho chiesto di fasciarle quella ferita.»
ribadì lui, con voce totalmente
piatta.
«Certo, adesso la vuoi anche curare?»
domandò la donna, sarcastica «Comunque
sia, non ho abbastanza bende. Morirà comunque. Vuoi che la
finisca?» aggiunse,
estraendo la pistola.
«Non ti azzardare.» tuonò Keller,
guardandola finalmente negli occhi.
«Domani tu finirai il tuo lavoro, Friedrich. Domani sarai tu
a premere il
grilletto, sono stata chiara?» continuò Kate, con
occhi che lanciavano fiamme
«Glielo devi, lo devi a Isabelle e alle bambine. Lo devi a loro. E lo farai.».
Eeeh
sì, sono ancora viva! Scusate il ritardo di due mesi nella
pubblicazione di questo capitolo, sono stata sommersa dalle cose da
fare e non
ho avuto nemmeno più il tempo per aggiornare, nonostante i
capitoli fossero già
pronti e solo da rivedere.
Ci
eravamo lasciati con uno sparo, adesso sappiamo da che pistola
è partito
e, ahimè, chi ha colpito… ma ci eravamo anche
lasciati con un vecchietto e una
guardia pronti ad aiutare la polizia come possibile ed ecco che ora
abbiamo un identikit della misteriosa
donna bionda.
Andrea
ferita, Semir disperato, la bionda accanita (vuole arivare fino in fondo) e
Keller pensieroso... ma
potrebbe andare peggio! Non serve che vi ricordi quanto io sia stata
cattiva in questa storia... giusto?
Grazie
a chi continua a seguirmi e a presto.
Sophie
|
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Capitolo 16 *** Autodistruzione ***
Dal capitolo precedente:
Per
terra,
in un angolo del
pavimento, Andrea giaceva immobile, sempre più pallida.
[...]
«Morirà comunque. Vuoi che la finisca?»
aggiunse la donna,
estraendo la pistola.
«Non ti azzardare.» tuonò Keller,
guardandola finalmente negli occhi.
«Domani tu finirai il tuo lavoro, Friedrich. Domani sarai tu
a premere il
grilletto, sono stata chiara?» continuò Kate, con
occhi che lanciavano fiamme
«Glielo devi, lo devi a Isabelle e alle bambine. Lo devi a
loro. E lo farai.»
GIORNO
16.
Hartmut
Freud amava il suo
lavoro, e questo i suoi colleghi lo avevano sempre notato. Quando si
perdeva in
spiegazioni di fenomeni che altri non potevano comprendere, o si
dilungava
nelle descrizioni di particolari materiali, non lo faceva con
l’intento di far
perdere tempo alla polizia, lo faceva semplicemente perché
amava quello che
raccontava e amava il modo in cui una sola, singola, piccolissima
traccia,
potesse racchiudere in sé un significato di importanza
sbalorditiva per le
indagini.
Ed era stato così anche questa volta. Da quel piccolissimo
pezzetto di
terriccio, lui aveva scoperto moltissime cose. Troppe cose, forse.
Perché un
po’ temeva le ripercussioni che ciò che aveva
scoperto avrebbero avuto.
Credeva di sapere dove fossero tenuti prigionieri Semir e la sua
famiglia e
stranamente questo non lo tranquillizzava. Anzi, lo terrorizzava.
Quando Ben e la Kruger varcarono la soglia del laboratorio, erano le
cinque e
mezza del mattino e lui aveva appena terminato le sue analisi.
Con un sospiro, disse loro di avvicinarsi e cominciò le sue
spiegazioni.
Semir
provò a strattonare le
corde con cui i suoi polsi e le sue caviglie erano legati, ancora.
Aveva provato per tutta la notte.
E ora i polsi gli sanguinavano.
Non aveva più lacrime. Le aveva terminate presto, ora
rimaneva solo dolore.
Avevano ucciso Ben.
Avevano ucciso Andrea.
Temeva l’alba, perché non sapeva che
cos’altro Keller e quella donna avrebbero
potuto fare. Non sapeva che cosa il quinto giorno gli riservasse, ma
ormai la
speranza lo aveva abbandonato.
Non lo avrebbero trovato. Ben non c’era più e gli
altri non lo avrebbero
trovato.
Chiuso in quella stanza, solo, si sentiva soffocare e avrebbe voluto
che
succedesse. Avrebbe voluto soltanto chiudere gli occhi e non svegliarsi
più.
Ma ogni volta che provava ad abbassare le palpebre, poi
irrimediabilmente le
riapriva, e la stanza buia e il sangue lì sul pavimento
c’erano ancora.
Non riusciva a svegliarsi da quell’incubo.
«Questo
terriccio è molto particolare,
contiene zolfo e... lasciamo perdere.» spiegò
Hartmut, con tono pacato, senza
distogliere gli occhi dallo schermo del computer che aveva di fronte
«Comunque
qui a Colonia credo si possa trovare in pochi luoghi e io so qual
è quello che
fa al caso vostro. È a quaranta minuti da qui, è
un edificio abbandonato con
diverse stanze, che un tempo era servito per...».
«Einstein, davvero, non abbiamo tempo per queste cose. Dacci
l’indirizzo.».
«No, Ben, questa volta è importante.»
rispose il tecnico, con decisione «Dovete
ascoltarmi.».
L’ispettore annuì, con un sospiro, attendendo che
l’altro continuasse.
«Questo edificio era stato ideato apposta per girare alcune
scene di un film,
anni e anni fa. È molto particolare, la struttura in sé
è molto fragile. Erano stati
costruiti al suo interno diversi meccanismi che sarebbero serviti a
riprodurre
alcuni effetti speciali, poi non sfruttati perché, appunto,
poco sicuri e...».
«Hartmut, scusa, non vedo come questo possa tornarci
utile.» lo interruppe di
nuovo Ben, pronto a uscire dal laboratorio per salire in macchina.
«Jager, lo lasci finire.» lo ammonì la
Kruger.
«Ascoltami, Ben.» continuò il rosso
«Io non so se sia vero oppure si tratti
solamente di dicerie, ma anni fa erano usciti articoli non ufficiali
che accennavano
alla probabile presenza tra quelle pareti di un certo meccanismo... un
meccanismo che, una volta attivato dall’interno, potesse far
crollare l’intero
edificio su se stesso.».
«Che cosa?».
«Sì, una sorta di meccanismo di autodistruzione.
Ovviamente tutto ciò non è a
norma. Secondo l’articolo che ho trovato questa roba doveva
essere smantellata,
ma pare che nessuno si sia debitamente occupato della faccenda e, anche
se non
si sa con certezza, girano voci che questo meccanismo sia ancora
perfettamente
funzionante. Dovete fare attenzione. Se quei pazzi vi sentissero
arrivare,
potrebbero anche...».
«Okay, ho capito.» fece Ben, in fretta.
«È in Dresda Straße, alla fine della
strada.» comunicò Hartmut «Non ci sono
comandi di polizia più vicini, dovete sbrigarvi.».
«Avviso il commissario dell’LKA e le squadre
speciali.» disse la Kruger,
afferrando in fretta il cellulare «Intanto noi cominciamo a
partire.».
«Grazie Hartmut.» mormorò Ben.
Poi lui e il commissario sparirono a bordo della Mercedes, che con una
sgommata
uscì dal piazzale.
Kate
entrò nella stanza
stringendo Aida per un polso e trascinando con l’altra mano
la piccola Lily.
Keller la seguiva, ma Semir ebbe la netta impressione che ora fosse lei
a
tenere le redini della situazione.
La donna addossò entrambe le bambine al muro, senza curarsi
di legarle, e la
prima cosa che Aida notò fu la chiazza di sangue sul
pavimento.
Alzò lo sguardo sul padre
«Dov’è la mamma?» chiese,
senza curarsi della donna
bionda che le intimava di stare zitta.
«Non ti preoccupare, cucciolo. Stai bene?» fece
l’ispettore, sollevando la
testa e scrutando negli occhi entrambe le bambine.
Aida annuì. Erano entrambe terrorizzate, ma avevano gli
occhi asciutti.
Semir studiò la donna mentre estraeva la pistola e con calma
contava il numero
di colpi che le rimanevano a disposizione, mentre Keller, poco
distante,
rimaneva passivo.
«Che cosa vuoi fare?» domandò, lanciando
uno sguardo a lei e uno alle figlie,
che rimanevano immobili.
Kate sorrise, sarcastica.
«Esattamente quello che tu hai fatto alle sue
bambine.» disse, indicando
Friedrich con lo sguardo. Poi si rivolse direttamente a Keller
«Su, fallo.
Comincia da quella che vuoi, ma fallo.».
Come un automa, l’uomo estrasse la pistola, tolse la sicura,
la puntò su Lily.
Aida sbarrò gli occhi e si parò istintivamente
davanti alla sorellina.
«Scena patetica.» constatò la donna
bionda. Quindi si avvicinò alle bambine,
prese la più grande per un braccio e la obbligò a
spostarsi.
«Scusa sai, ma due in un colpo solo sarebbe troppo poco
doloroso. Lasciamo che
il tuo papino assista ad altri due omicidi distinti, va
bene?» disse sorridendo,
come se quella situazione davvero la divertisse.
«Spara.» aggiunse, rivolta a Keller.
Lui strinse la mano destra attorno al calcio della pistola.
Lo avrebbe fatto per loro.
Ben
svoltò a destra e Kim, sul
lato del passeggero, dovette tenersi al sedile per mantenere
l’equilibrio. La
guida dell’ispettore era estremamente brusca e la donna
temette seriamente per
la loro incolumità più di una volta durante il
tragitto.
Erano passati già una decina di minuti, che lei aveva
trascorso al telefono
prima con il commissario dell’LKA, poi con il capo della
squadra speciale, poi
con altri agenti dell’autostradale.
Quando finalmente chiuse il cellulare, emise un sospiro e rimase per
alcuni
secondi a fissare il suo sottoposto, che guidava in silenzio, con le
mani
avvinghiate al volante.
«Ho avvisato tutti.» disse poi, per rompere il
silenzio «Gli agenti dell’LKA
dovrebbero essere pochi chilometri dietro di noi e così
anche i soccorsi.
Arriveranno delle ambulanze, non si sa mai.».
Ben annuì, ma non accennò ad aprire bocca.
«Ha fatto bene a dire a Margaret di rimanere in
commissariato.» continuò la donna
«Sarebbe stato troppo pericoloso.».
Seguì il silenzio, ancora.
«Jager, io sono sicura che Hartmut abbia ragione e che si
tratti del posto
giusto, perché non prova ad essere ottimista anche
lei?» domandò infine il
commissario, alzando leggermente il tono di voce.
«Perché anche io sono convinto che il luogo sia
giusto, capo.» disse finalmente
Ben «Ma non so che cosa troveremo, e questo mi fa
paura...».
La Kruger annuì.
Anche lei aveva paura.
«Keller,
non sparare!» gridò
Semir, con quanto fiato aveva in corpo «Ricorda quello che ti
ho detto ieri,
non sparare!».
«Finiscila!» urlò Kate, dirigendosi a
passo di carica verso di lui, con la
pistola puntata davanti a sé.
«Scordatelo.» fece l’ispettore.
«Non sai quanto volentieri ti spedirei all’altro
mondo, sbirro.» replicò lei,
con gli occhi carichi d’odio e la mascella serrata.
«Allora fallo. Uccidi me, uccidimi, fai quello che vuoi, ma
non toccare le
bambine.».
Keller, nel frattempo, rimaneva immobile, sempre con la pistola puntata
su
Lily, con lo sguardo fisso e i pensieri altrove.
«Uccidi me!» ripeté Semir, sperando
davvero che la donna lo prendesse in
parola.
«Mai. Non ti farò mai questo favore.»
sibilò lei, vicina al suo viso «Tu mi hai
costretto a guardare e ora guarderai.».
«Ma chi sei tu? Che cosa ti ho fatto?»
gridò l’ispettore, con la disperazione
nella voce.
«Io, sbirro, sono la sorella della donna che hai
ucciso.».
«Quanto
manca ancora?» domandò la
Kruger, con lo sguardo colmo di apprensione fisso sul panorama che
cambiava
velocemente fuori dal finestrino.
Mano a mano che si allontanavano dal centro di Colonia le case si
facevano più
rade.
Accanto a loro adesso correva un bosco scuro e la strada era
praticamente
deserta.
Erano le sei del mattino passate, e il cielo di novembre era ancora
buio.
Minacciava pioggia.
«Credo una decina di minuti.» rispose Ben,
mantenendo gli occhi puntati sulla
strada.
La sua mente viaggiava a folle velocità, provava a
immaginare la situazione che
avrebbe potuto trovare, provava a vagliare ogni ipotesi.
Semir, sto arrivando, resisti...
Semir
sgranò gli occhi, sorpreso.
Ecco dove l’aveva già vista: al funerale. Una
cascata di capelli biondi
nascosti da un velo nero e gli occhi coperti da un paio di grandi
occhiali da
sole. Ora la ricordava.
«Oddio...».
«Sorpreso, sbirro? Nemmeno ti ricordavi di me, non
è così?».
Il prigioniero scosse il capo.
«Ti prego... ti prego, non fare loro del male, sono solo
bambine...».
«Anche Sophie e Martha erano solo bambine.»
sillabò Kate.
«Non so più come dirvelo... io non lo
sapevo!» disse ancora l’ispettore, pur
sapendo che ogni parola non sarebbe comunque bastata a distogliere
quella donna
dal suo obiettivo.
Keller rimaneva immobile, ancora.
«Se non ci riesci ci penso io, Friedrich, ma vedi di prendere
una decisione in
fretta.» fece la donna, brusca, rivolgendosi a lui.
Il silenzio che ne seguì fu per lei una conferma.
Tolse la sicura dalla propria pistola, posò il dito sul
grilletto e spinse
Keller di lato per farsi spazio, imponendosi davanti alla bambina
più piccola,
tenendola sotto tiro.
«Ti prego, aspetta, ti prego!» gridò
ancora Semir.
Poi, senza dare il tempo alla donna di replicare, si rivolse ad Aida.
«Aida... cucciolo, ascoltami. Devi fare quello che ti dico io
ora, va bene?
Chiudi gli occhi, Aida... chiudili.».
Lily aveva iniziato a piangere, mentre la sorella fissava il padre in
preda al
panico, ma dai suoi occhi non sgorgava nemmeno una lacrima.
«Papà, ho paura.».
«Aida, ti prego... ti prego, chiudi gli occhi...».
E la bambina lo fece.
Chiuse gli occhi.
Kate applicò una leggera pressione sul grilletto.
Il suono di una sirena risuonò in lontananza.
Quando
sentì il suono della
sirena, a Ben balzò il cuore in gola.
«Non ci posso credere, chi è il cretino che ha
acceso la sirena?» gridò,
continuando a premere il piede sull’acceleratore.
Kim Kruger guardò la fila di macchine alle loro spalle,
notando che un’auto
degli agenti dell’LKA aveva i lampeggianti accesi.
«Ma porca miseria, che deficiente.»
mormorò.
Afferrò il cellulare per chiamare il commissario di quel
dipartimento, ma si
bloccò quando vide emergere tra gli alberi il tetto basso di
un edificio in
pietra, totalmente isolato.
Se davvero si trovavano lì, dovevano aver sentito.
Compose in fretta il numero, ma non ebbe nemmeno il tempo di aprire la
comunicazione.
«Maledetti.»
fece Kate, gettando
a terra la pistola in uno scatto d’ira.
Ma non appena ebbe ripreso lucidità, corse fuori dalla
stanza.
Piuttosto che lasciare che lo sbirro e le mocciose venissero salvati,
sarebbe
morta con loro.
Aida
aprì gli occhi, senza
capire. Lily smise di piangere.
Semir sospirò, senza credere alle proprie orecchie: li
avevano trovati.
Un debole sorriso si dipinse sul suo viso.
Ma poi accadde qualcosa. Vide Keller dirigersi in fretta verso di lui e
estrarre dalla tasca un coltello. Lo vide tagliare le corde che lo
avevano
tenuto immobile in quei cinque giorni e poi guardarlo negli occhi, con
qualcosa
di molto simile all’apprensione dipinta sul viso.
«Gerkhan, porta le bambine sotto le colonne portanti... mi
dispiace.» mormorò,
poi corse via, sparendo dietro la porta della stanza.
Semir crollò a terra, finalmente libero da quei nodi.
Corrugò la fronte, senza capire perché Keller gli
avesse detto quelle parole,
senza capire che cosa stesse accadendo.
Poi tutto iniziò a tremare.
Keller seguì la donna per i corridoi
dell’edificio. Sapeva perfettamente dove fosse
diretta, ma non glielo avrebbe permesso
La trattenne per un braccio proprio nel momento in cui lei stava per
tirare la
leva.
La tirò a sé, impedendole di raggiungere il
macchinario.
Ma lei si divincolò, gli tirò un calcio nello
stomaco, lo fece barcollare.
Riuscì a liberarsi dalla sua presa e tirò quella
leva con tutta la forza di cui
era capace.
Il
boato fu spaventoso.
Ben frenò in un violento testacoda e lo stesso fecero le
auto al suo seguito.
Una nube immensa di polvere si sollevò di fronte a loro.
N.d.A.
Una sirena, un meccanismo poco probabile... ed eccoci alla svolta.
Ancora la
fine è molto lontana, ma adesso ci sarà qualche
cambiamento. Che Ben e la
squadra questa volta siano veramente arrivati troppo tardi?
Grazie a chi continua a seguirmi e un abbraccio.
Sophie
|
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Capitolo 17 *** Lasciami andare ***
Dal
capitolo precedente:
"Il
boato fu spaventoso.
Ben frenò in un violento testacoda e lo stesso fecero le
auto al suo seguito.
Una nube immensa di polvere si sollevò di fronte a loro."
Quando
Ben scese dalla macchina,
fu letteralmente investito dalla polvere.
Fu costretto a chiudere gli occhi e aspettare che quella nebbia di
pulviscoli
si diradasse per constatare qualcosa di terribile: l’edificio
non c’era più.
Al suo posto, solo un ammasso informe di pietre e di rottami.
Mentre il cuore gli rimbalzava a mille nel petto, la sua mente
cominciò a
elaborare pensieri confusi e il suo respiro divenne quasi affannoso.
«Oddio...» sussurrò, immobile davanti
alla propria auto, senza decidersi a fare
un passo.
Fu il tocco della Kruger che lo riscosse. La donna gli mise una mano
sulla
spalla e l’ispettore si voltò verso di lei, che
era pallidissima.
«Iniziamo a cercare, Jager.» disse Kim.
Ma la sua voce aveva perso ogni nota autoritaria. Era spaventata tanto
quanto
lui.
Mentre entrambi si avvicinavano alle macerie, i soccorritori scesi
dall’ambulanza stavano già cercando tra i massi.
Il commissario dell’LKA, più indietro, chiamava
altri soccorsi.
Semir
schiuse gli occhi, piano.
La prima cosa che sentì fu il dolore. Aveva male ovunque.
Quando riuscì ad aprire gli occhi quasi del tutto, il panico
si impossessò di
lui.
Pietre, pietre, pietre.
Sopra di lui non c’era il cielo, ma un cumulo di detriti.
Aveva le braccia intorno alla testa, istintivamente doveva essersela
protetta
vedendo i massi cadere su di lui.
Ma non riusciva a muoversi.
Credeva di non aver mai provato tanto dolore tutto insieme, ma non
riusciva
nemmeno localizzarlo, a capire da che parte del corpo provenisse.
Tentò in tutti i modi di dominare la paura, provò
a concentrarsi e ad
ascoltare. Ed effettivamente udì qualcosa, dei suoni
ovattati.
Rumore di pietre spostate.
I suoni divennero secondo dopo secondo leggermente più
nitidi e lui riuscì a
distinguere delle voci.
Qualcuno cercava... qualcuno li stava cercando.
E poi udì una voce, la riconobbe, e un brivido gli percorse
tutto il corpo.
Quella voce sembrava disperata.
«Non
li troveremo mai...» disse
Ben, con la disperazione nella voce. Avrebbe voluto concludere la
frase, dire
che non li avrebbero mai trovati tutti vivi, ma non lo fece. Aveva
troppa paura
delle sue stesse parole.
«Sì, invece, continuiamo a cercare.»
fece Kim, risoluta, alle sue spalle.
Erano sopra al cumulo di macerie, alla disperata ricerca di un segno,
di un
suono, di qualsiasi cosa.
L’idea che sotto a quei massi potessero trovarsi i corpi di
Semir e della sua
famiglia li faceva rabbrividire, ma dovevano cercare.
I soccorritori avevano intimato loro di stare alla larga dalle macerie,
assicurando che a breve sarebbero arrivati altri soccorsi e che per
loro non
sarebbe stato sicuro partecipare alle ricerche.
Ma Ben e la Kruger, ovviamente, non li avevano ascoltati.
Ben.
Semir provò a gridare, ma dalla sua bocca non
uscì nemmeno un sussurro.
Continuava a provare a muoversi, ma non riusciva a distendere nemmeno
un
muscolo.
Si sentiva soffocare, forse per il panico, forse per la poca aria che
penetrava
sotto quei massi.
Riprovò a urlare, senza successo.
Non capiva come il suo socio potesse essere vivo, dal momento che
Keller gli
aveva assicurato di averlo ucciso, ma in quel momento non riusciva a
pensare ed
era sicuro di aver sentito la sua voce.
Voleva solo che qualcuno lo tirasse fuori di lì.
Doveva vedere se le bambine stavano bene.
Immagini orribili occupavano la sua mente.
Provò a muoversi, ancora, ma qualsiasi accenno di movimento
gli rimandava un
dolore terribile.
Sentì in gola il gusto metallico del sangue.
Provò a gridare, ancora e ancora, ma non ci riusciva.
«C’è
una donna qui!» il grido del
giovane soccorritore coprì quello degli altri.
Altri due uomini in tuta da soccorritori lo raggiunsero, aiutandolo ad
estrarre
un corpo inerme dalle macerie.
Ben sentì il cuore perdere un battito, mentre incespicando
tra le pietre
provava a raggiungere i soccorritori per vedere di chi si trattasse.
«Qui non c’è niente da fare,
ragazzi...» disse l’uomo che l’aveva
trovata agli
altri che lo avevano aiutato a tirarla fuori.
Scosse il capo, mentre adagiava il corpo immobile su una grande pietra
piatta.
Ben, mentre si avvicinava, riuscì a distinguere una massa
disordinata di capelli
biondi. Doveva trattarsi di Katherine Fisher.
Semir
sentiva la testa pulsare.
Smise di lottare per provare a muoversi non appena udì la
voce di un
soccorritore, in lontananza, comunicare di aver trovato una donna senza
vita.
Andrea... doveva essere Andrea...
Sentì le lacrime salirgli agli occhi.
Poteva sentire tutto, ma nessuno poteva sentire lui.
Aveva bisogno d’aria...
«Anche
qui!» gridò un altro
soccorritore, poco distante.
E questa volta, mentre estraevano il corpo femminile dai detriti, Ben
da
lontano distinse chiaramente il profilo di Andrea.
Rabbrividì. I suoi vestiti erano pieni di sangue.
«Portatemi una barella, forse c’è
polso!» gridò ancora il soccorritore, mentre
qualcun altro si dirigeva verso di lui con una valigetta di primo
soccorso e,
più lontano, un uomo arrancava tra i massi portando con
sé una barella
pieghevole.
Ben sentì la testa cominciare a girare. Non sapeva dove
cercare, non sapeva
come muoversi. Era immobile sopra a una distesa grigia di massi e non
sapeva se
potesse essere veramente utile alle ricerche oppure no.
Il cuore andava a mille, ma i pensieri se possibile correvano ancora
più
veloci.
Si prese la testa tra le mani.
A pochi metri da lui, un altro soccorritore urlò di aver
trovato qualcuno. Un
uomo.
Ben si precipitò verso di lui, convinto che si trattasse di
Semir.
In lontananza cominciarono a udirsi le sirene dei soccorsi che li
stavano
raggiungendo.
Erano
poco distanti da lui.
Semir li sentiva, sentiva passi e voci concitate sopra la sua testa, ma
a
qualche metro di distanza.
Questa volta udì chiaramente la voce di Ben pronunciare il
suo nome, e poi
gridare, imprecare su qualcuno.
Quando
Ben distinse tra i
ciottoli il profilo di Friedrich Keller, vinse a stento la tentazione
di
gettarcisi sopra per massacrarlo.
«Maledetto bastardo!» gridò, senza
riuscire a trattenersi.
Si muoveva, era ancora vivo.
Alle sue spalle, Ben sentì la voce della Kruger che gli
intimava di calmarsi,
di continuare a cercare.
Ma non fece in tempo a voltarsi, che un altro soccorritore a pochi
metri di
distanza gridò qualcosa, spostando un grosso masso a mani
nude.
«Qui c’è il corpo di una
bambina...».
Il
corpo di una bambina.
Semir pensò che sarebbe morto in quell’istante.
Il corpo di una bambina.
Provò a ordinare alla sua mente di fermarsi, di non pensare.
Il corpo di una bambina.
Sentì una strana forza prendere possesso del suo corpo.
Riuscì finalmente a
fare un movimento. Riuscì a muovere un braccio.
Un piccolo, minuscolo movimento.
La forza della disperazione.
Un
leggero movimento tra i
ciottoli.
Ben si voltò di scatto, individuando a circa due metri da
lui un cumulo di
sassolini che si muovevano, rotolando velocemente tra i massi
più grandi.
Con le lacrime agli occhi, si gettò su quei massi,
cominciò a scavare.
«Aiuto, aiutatemi!» gridò, provando ad
attirare l’attenzione dei soccorritori,
mentre non cessava di spostare pietre da quel punto.
«Semir, lo so che sei qua sotto... forza...».
Semir
sentì la terra e le pietre
sopra di lui che si muovevano. Chiuse gli occhi per evitare che la
sabbia lo
accecasse. Sentì vicinissima la voce di Ben.
E poi lo vide.
Vide un pezzo di cielo buio sopra di lui, poi nella sua visuale apparve
il viso
di Ben.
Sentì finalmente l’aria che gli entrava nei
polmoni e aprì la bocca per
ricominciare a respirare.
«Semir!
Oddio, Semir, sei vivo,
grazie al Cielo.» mormorò Ben, tra le lacrime,
mentre toglieva la terra dal
viso del suo migliore amico e lo vedeva stringere gli occhi.
«Semir... mi senti? Socio... socio, ti prego, guardami... mi
senti?».
Semir avrebbe voluto annuire, ma non riusciva a muoversi. Il dolore era
troppo
forte.
Il giovane ispettore tolse le piccole pietre che erano rimaste sulla
parte
superiore del suo corpo, ma constatò con orrore che
l’altra metà di esso era
bloccata da un enorme pezzo di pietra. Una colonna, forse. Non sarebbe
mai
riuscito a spostarla da solo.
«Aiuto!» gridò, ma i soccorritori erano
impegnati in altri due punti. Stavano
estraendo qualcun altro dalle macerie.
E quelli che arrivavano in lontananza si trovavano ancora sulle vetture
in
fondo alla strada.
«Okay, Semir, resisti. Resisti... va bene?».
Semir aprì la bocca per dire qualcosa, ma di nuovo non ne
uscì alcun suono.
All’improvviso, nel suo campo visivo comparve anche la Kruger.
«Santo Cielo...» fece la donna, accovacciandosi
accanto all’ispettore.
«Capo, non riesco a spostarlo da solo.»
gridò Ben, alludendo al grande masso
che schiacciava il bacino di Semir.
«Tra due minuti al massimo i soccorsi saranno qui, sono in
fondo alla strada.»
comunicò Kim. Ma era pallida, la voce le tremava.
Il giovane ispettore annuì.
Ma non riusciva a trattenere le lacrime nel vedere il suo amico
così.
Bloccato, immobile, il viso pieno di tagli, una spalla sanguinante, gli
occhi
gonfi e lucidi, il respiro debole...
«Semir... dimmi qualcosa...» mormorò,
inginocchiato accanto a lui.
«B... Ben...».
«Parli! Puoi parlare?» gli occhi del ragazzo si
illuminarono.
«Le... le... bambine...» balbettò Semir,
facendo uno sforzo immane per
pronunciare quelle due parole.
Ben diresse lo sguardo verso i soccorritori che lavoravano a pochi
metri da
lui, ma non ebbe il coraggio di dare una risposta all’amico.
«Socio, non ti preoccupare ora, okay? I soccorritori le
stanno tirando fuori.».
«Ben... pensavo... pensavo fossi... morto...».
«No... no, socio, sono qui. Sto bene.» rispose il
giovane ispettore, senza
capire in realtà a che cosa l’altro si riferisse.
Gli prese una mano e gliela strinse «Sono qui, socio, ma tu
devi rimanere con
me, okay? Rimani con me...».
«Non sento... non... sento... le... gambe...».
Un nuovo lampo di terrore attraversò gli occhi di Ben.
«Che cosa? Semir, ripeti, che cosa hai detto?».
«Lasciami... andare...».
«Che cosa stai dicendo, Semir?».
«Lasciami andare...».
Il ragazzo gli strinse la mano ancora più forte, mentre le
lacrime gli rigavano
il viso senza che lui potesse fare nulla per fermarle. Non poteva
chiedergli
questo, il suo migliore amico non poteva chiedergli una cosa del genere.
«Cosa dici, socio, io non ti lascio andare... non ti lascio
andare proprio da
nessuna parte, resta con me... resta con me...».
Gli occhi di Semir erano pieni di lacrime. Non ce la faceva
più. Troppo dolore,
non riusciva a respirare. Desiderò che finisse tutto, come
mai lo aveva
desiderato prima.
«Socio, guardami... guardami, io non ti lascio, hai
capito?» gridò ancora Ben,
stringendo più forte la mano dell’amico, che
però non rispondeva alla stretta
«Socio, resisti!».
«Forza...» aggiunse la Kruger, in un sussurro,
prendendo tra le sue mani
l’altra mano del suo ispettore.
Semir continuò a boccheggiare, sperando di perdere
conoscenza, sperando che
tutto quel dolore svanisse.
In quel momento, Ben venne letteralmente scaraventato su un lato da un
robusto
uomo in tuta da soccorritore, seguito da altri ragazzi che
accerchiarono il
corpo quasi immobile del poliziotto.
«Okay, ispettore, ora la tiriamo fuori di qui.
Sentirà male, è pronto?».
Semir guardò l’uomo che gli aveva parlato. No, non
era pronto, ma non sapeva
come dirglielo perché non aveva più la forza di
parlare. La vista era
annebbiata. Scorse il gruppo di soccorritori avvolgere
un’estremità della
colonna che lo schiacciava con qualcosa, poi li vide disporsi
simmetricamente
attorno ad essa e scambiarsi un’occhiata d’intesa.
Aprì la bocca per gridare loro di fermarsi, ma dalle sue
labbra non uscì alcun
suono.
Poi, tutti insieme, i soccorritori cominciarono a sollevare la colonna.
Semir provò un dolore che gli tolse il fiato.
Poi, finalmente, il buio calò su di lui.
Ben,
inginocchiato sopra a quei
pezzi di pietra, volse lo sguardo al cielo, tremando.
Cominciò a piovere.
N.d.A.
Ed
eccoci qui, arrivati alla svolta.
Vi
avevo avvertiti fin dall’inizio che si sarebbe trattato di
una
storia triste, ma sappiate che se almeno fino
a questo momento c’era stata un po’ di azione, da
qui in poi le cose da questo
punto di vista non potranno fare altro che peggiorare.
Grazie
a chi continua a seguirmi, grazie davvero.
Sophie
|
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Capitolo 18 *** Per quel che è ***
Dal
capitolo precedente:
"Il corpo di una bambina.
Semir pensò
che sarebbe morto in quell’istante.
Il corpo di una bambina.
Provò a
ordinare alla sua mente di fermarsi, di non pensare.
Il corpo di una bambina.
[...]
«Lasciami andare...».
Il ragazzo gli strinse la mano ancora più forte, mentre le
lacrime gli rigavano
il viso senza che lui potesse fare nulla per fermarle. Non poteva
chiedergli
questo, il suo migliore amico non poteva chiedergli una cosa del genere.
«Cosa dici, socio, io non ti lascio andare... non ti lascio
andare proprio da
nessuna parte, resta con me... resta con me...».
Gli occhi di Semir erano pieni di lacrime. Non ce la faceva
più. Troppo dolore,
non riusciva a respirare. Desiderò che finisse tutto, come
mai lo aveva
desiderato prima.
[...]
Poi, finalmente, il buio
calò su
di lui.
Ben, inginocchiato sopra
a quei
pezzi di pietra, volse lo sguardo al cielo, tremando.
Cominciò a
piovere."
La
pioggia batteva incessante
contro i vetri, provocando un frastuono fastidioso.
Eppure, Ben si aggrappò persino a quel frastuono,
perché non sapeva se avrebbe
sopportato il silenzio cupo di quei corridoi.
Immobile, accasciato su una sedia bianca come le pareti di quel luogo,
aspettava.
Avevano raggiunto l’ospedale in poco tempo nonostante la
distanza, a sirene
spiegate.
Era stata la Kruger a guidare fin lì, avendo notato il
precario stato
psicologico in cui sembrava caduto il suo sottoposto.
Poi la donna aveva lasciato l’ospedale, avrebbe dovuto
parlare con il commissario
dell’LKA, ma aveva assicurato che sarebbe tornata presto e
aveva fatto giurare
a Ben che l’avrebbe chiamata in caso di novità.
Il giovane ispettore aveva ancora le lacrime agli occhi, non riusciva a
credere
a quello a cui aveva assistito nelle ultime ore e continuava a sperare
che si fosse
trattato solo di un brutto, lunghissimo sogno.
«Ispettore? Ispettore, mi sente? Gli
altri soccorsi stanno arrivando,
ma nel frattempo ci servono due mani in più. Sollevi la
testa del suo amico,
piano, a uno o due centimetri da terra, non di più. Lo tenga
fermo, okay?».
«Mike, tu comincia a ventilare. È sveglio, ha
ripreso conoscenza. Ventisette atti
respiratori al minuto, non ci siamo. Frequenza cardiaca?».
«Centotrenta.».
«Va stabilizzato, tra quanto arriva l’elicottero?
In ambulanza impiegheremmo
troppo tempo.».
«Deve esserci un’emorragia interna. Signore, mi
sente? Può sentirmi?».
«Quando arriva questo dannato elicottero?».
«Mike, continua a ventilare. Va stabilizzato, altrimenti
sull’elicottero non
sale. Signore, resista, deve resistere...».
Ben
si riscosse, provando a
eliminare dalla propria mente quelle immagini. I soccorritori che
lavoravano
concitati tra le macerie, Semir agonizzante con la testa tra le sue
braccia, la
pioggia che cadeva su di loro, rendendo ancora più difficili
tutte le
operazioni di primo soccorso.
Doveva cancellare quelle immagini orribili, rimuoverle dai suoi
pensieri.
Margaret era seduta accanto a lui.
Lo aveva raggiunto in ospedale non appena aveva appreso la notizia del
ritrovamento: doveva stargli vicino.
E aspettavano, insieme, ormai da ore.
La psicologa aveva provato a far parlare Ben, ma non era riuscita e
estorcergli
nessuna spiegazione. Così, a un certo punto, aveva estratto
dalla borsa una
sottile risma di carta e una penna e aveva iniziato a scrivere.
Scriveva incessantemente da almeno un’ora, quando la voce del
poliziotto che
aveva accanto la riscosse.
«Come fai?» domandò Ben, in un mormorio.
La ragazza lo guardò, accennando un sorriso «A
fare cosa, Ben?».
«A... a scrivere. Io non riesco nemmeno a pensare.».
Lei sorrise.
«C’è chi si aggrappa al silenzio, Ben...
io mi aggrappo alle parole.».
L’ispettore annuì, stanco. Pensò
distrattamente alla sua chitarra, poi il
pensiero svanì così come era arrivato.
Erano cinque giorni che praticamente non dormiva. Erano stati quattro
giorni e
mezzo di ricerche lunghissime, snervanti, inconcludenti. Ma,
stranamente, si
ritrovò a pensare che forse avrebbe preferito prolungare lo
stato d’animo
esasperato di quei giorni, piuttosto che giungere a questo.
Era così stanco.
La pioggia batteva sui vetri, quasi nessuno attraversava i corridoi a
quell’ora
del mattino. Erano quasi le 8, ma in quel reparto non c’era
movimento.
Ben abbassò le palpebre per un secondo, solo per un secondo.
Ma cadde tra le
braccia di Morfeo prima che potesse provare a lottare per non farlo.
Non
seppe quante ore fossero
passate quando aprì gli occhi, ma
dovevano essere state parecchie, perché un medico stava
uscendo proprio in quel
momento dalla sala operatoria poco distante.
Ben si passò le mani sul viso per svegliarsi del tutto,
maledicendosi per
essersi addormentato e notando che Maggie era rimasta nella stessa
posizione di
prima, china sui suoi fogli e con la penna in mano.
Il medico, visibilmente in tensione, si diresse verso di loro, scuro in
volto.
«Dovrei parlare con i familiari dell’ispettore
Gerkhan, sapete dove posso
trovarli?».
«Può... può dire a me.»
balbettò il poliziotto, temendo quello che avrebbe
udito di lì a pochi istanti.
«Veramente avrei bisogno di parlare con un familiare, non
sono tenuto a...».
«La prego.» lo interruppe Ben, con la voce spezzata
«Deve dire a me... non ha
più nessuno...».
Il chirurgo sospirò.
Aveva grandi occhi chiari che scrutavano l’ispettore da
dietro le sottili lenti
degli occhiali.
Sulla cinquantina, i capelli ingrigiti, ma i lineamenti distesi.
Negli occhi la sintesi di tutte le brutte notizie che negli anni era
stato
costretto a comunicare.
«Ispettore... mi ascolti, la situazione è
piuttosto delicata.» cominciò,
sedendosi accanto a lui.
Il ragazzo annuì e Margaret fece lo stesso, ma erano
entrambi certi che
quell’atteggiamento non preannunciasse niente di buono.
«Io sono Christopher Schneider, il neurochirurgo, ma non
sarò solo io a
trattare il paziente nelle prossime ore.».
Ben tirò un impercettibile sospiro di sollievo: qualunque
cosa fosse accaduta,
quella frase voleva dire che Semir era ancora vivo.
«L’ispettore Gerkhan ha subìto un trauma
cranico di tipo chiuso, si è
verificata una frattura delle ossa craniche che non è
esposta, fortunatamente,
ma ha causato un grosso ematoma intracranico. Si tratta in particolare
di un
ematoma epidurale, nella parte posteriore del cranio.».
L’uomo fece una pausa, per capire se le due persone che lo
ascoltavano stessero
capendo oppure no le informazioni che lui forniva.
«E... quindi?» fu l’unico commento che
uscì dalle labbra di Maggie, mentre Ben
rimase assolutamente immobile, in ascolto.
«Si tratta di un accumulo di sangue che si forma tra
le ossa del cranio e
la dura madre, cioè il rivestimento più esterno
del cervello.» spiegò il
medico, provando a parlare in modo meno tecnico «Io ho
interrotto l’emorragia,
l’intervento è riuscito, ma fino a quando il
paziente non si sarà svegliato non
sapremo se ha subìto danni permanenti oppure no.».
«Quali potrebbero essere questi danni?»
domandò Margaret, sicura di parlare
anche a nome del ragazzo che aveva accanto.
L’uomo sospirò appena «Debolezza su un
lato del corpo, problemi di linguaggio,
convulsioni.. ma sinceramente non è il trauma cranico a
preoccuparmi in questo
momento... il paziente ha subìto anche un grave trauma da
schiacciamento al
bacino.».
Ben si morse il labbro, non si accorse nemmeno di avere gli occhi
lucidi.
Quando aveva visto l’amico, poche ore prima, schiacciato da
quell’enorme blocco
di pietra, aveva subito temuto il peggio.
«Che cosa... che cosa rischia, dottore?».
«Il chirurgo ortopedico, che è ancora in sala, ha
dovuto eseguire una
fissazione esterna del bacino. L’ispettore Gerkhan ha subito
uno shock
emorragico molto grave. Non è fuori pericolo... ma
soprattutto, nonostante la
frattura non abbia causato danni agli organi interni, non posso
escludere che
abbia causato danni neurologici o di deambulazione. E comunque
l’eventuale ripresa
sarà lunga e molto
dolorosa.».
«Eventuale?» ripeté
l’ispettore, in un soffio.
Il medico sospirò ancora, posò una mano sulla sua
spalla.
Improvvisamente, a Ben sembrò che quegli occhi di scienziato
diventassero occhi
diversi, pieni di umanità e di comprensione.
«Lei è il suo collega?».
Il ragazzo annuì lentamente.
«Mi scusi se le ho parlato schiettamente, ispettore... ma
detesto dare false
speranze. Se si riprenderà, il suo amico avrà
bisogno di lei... avrà bisogno di
tutto il sostegno possibile.».
«E... il resto?» si intromise Margaret, a bassa
voce, cercando lo sguardo deciso
del chirurgo.
«Ha due costole incrinate, ma non sono preoccupanti. Per
quanto riguarda la
ferita alla spalla, un mio collega ha fermato l’emorragia e
si occuperà
dell’operazione per rimuovere il proiettile al più
presto, ma abbiamo ritenuto
necessario dare precedenza al trauma cranico e a quello da
schiacciamento. Ha
subìto anche una frattura composta al braccio, ma direi che
quello è il minore
dei problemi. Sinceramente, mi sorprendo di come faccia a essere ancora
vivo.».
«Lei ha... è lei che si è occupato di
Andrea Schäfer?» chiese Ben, quasi
bisbigliando, dopo un attimo trascorso in silenzio.
«L’operazione è stata eseguita dal
dottor Franz, il chirurgo cardio-toracico.
Io sono passato poco fa a controllare le sue funzioni
cerebrali...».
«È sua moglie, dottore. È la moglie di
Semir.».
Il medico corrugò appena la fronte, poi un velo di
dispiacere coprì il suo
sguardo.
«Mi dispiace...».
Helen
Klein
Schäfer amava
la tranquillità.
Ma non il silenzio.
In quel momento, il silenzio lei lo detestava.
Ancor di più detestava il suono ritmico e incessante del
macchinario che aveva
affianco. Se da un lato quel suono le lasciava una minima speranza,
dall’altro
la irritava terribilmente. Le ricordava, incessantemente, di trovarsi
in una
stanza di ospedale. Le ricordava, in ogni istante, che la persona
distesa sul
letto era sua figlia.
Era così pallida.
Helen, accanto a lei, le stringeva la mano, sperando forse che Andrea
potesse
sentirla.
Il neurochirurgo che era passato a visitarla qualche ora prima le aveva
detto
che le sue condizioni erano molto critiche, che molto probabilmente non
avrebbe
superato la notte.
L’altro chirurgo, quello che l’aveva operata, le
aveva spiegato che il
proiettile che l’aveva colpita si era incastrato molto vicino
al cuore, che
rimuoverlo non era stato semplice e che, una volta arrivata in
ospedale, ormai
lei aveva già perso troppo sangue.
Fortunatamente non vi erano stati danni importanti dovuti al crollo
dell’edificio, aveva aggiunto il medico.
Fortunatamente.
Helen si chinò sul letto della figlia, sfiorandole il viso
con il suo.
Era fredda.
Ben si sfregò le mani sotto
l’acqua gelida e le coprì nuovamente di
schiuma.
Il sangue che le macchiava stentava ad andarsene.
Poi si sciacquò la faccia, sperando che i suoi occhi
tornassero di un colore
normale e che la sua espressione potesse sembrare un po’
più allegra di come
lui si sentiva in realtà.
Sospirò guardandosi allo specchio, ma non ebbe il coraggio
di sostare per molto
tempo davanti al suo stesso riflesso.
Aveva paura di trovare altre macchie di sangue sui suoi vestiti. Del
sangue di
Semir, di quello di Andrea. Non voleva più vedere quel
sangue, voleva rimuovere
dalla sua testa ogni immagine. Ma era consapevole che non ci sarebbe
riuscito.
Si asciugò con cura le mani e uscì dal bagno, con
passo insicuro.
Quindi prese l’ascensore, scese al primo piano del grande
edificio e si
sorprese quando, uscito dalla cabina, trovò ad accoglierlo
un’atmosfera
totalmente diversa da quella che lo aveva circondato fino a quel
momento al
piano di sopra.
Era più calda, più accogliente. Le pareti non
erano bianche, ma piene di stampe
colorate.
Imboccò un corridoio dominato da un cartello che recava la
scritta “Pediatria”.
Raggiunse la stanza numero 13 e, imponendosi di sorridere,
abbassò la maniglia.
«Zio Ben!».
La bambina lo accolse con un sorriso a trentadue denti.
Era sola nella piccola stanza, seduta a gambe incrociate sul lettino,
con un
libro per bambini sulle ginocchia.
«Principessa!» esclamò
l’ispettore, avvicinandosi al letto e prendendola in
braccio, lasciando che si accomodasse sulle sue gambe.
«Finalmente, mi hanno lasciato tutti qua da sola.»
disse Aida, mettendo il
broncio.
Ben le accarezzò piano i capelli.
Era vero, l’avevano lasciata da sola lì per un
po’, chiedendo alle infermiere
di turno di controllare che stesse bene e che facesse la brava.
«Scusa piccola, hai ragione. Come ti senti?».
La bambina alzò le spalle «Bene.».
Aveva un taglio sulla fronte che era stato accuratamente suturato, ma
per il
resto non aveva riportato alcun danno. Ben ancora non si capacitava di
come
fosse possibile, ma la piccola era stata estratta dalle macerie
cosciente e
senza niente di rotto. Un piccolo miracolo.
«Quando posso vedere papà e mamma?».
L’ispettore sospirò piano, pensando freneticamente
a che cosa avrebbe potuto dirle.
Suo papà era ancora in sala operatoria, sarebbe stato
trasferito da un momento
all’altro in terapia intensiva. Sua mamma era in coma e i
medici avevano detto
che non avrebbe superato la notte.
Si sentì così impotente che, semplicemente,
rimase in silenzio.
Il sorriso di Aida scomparve del tutto dal suo viso.
«Stanno tanto male, zio Ben?».
«Staranno meglio, cucciolo.» provò a
rassicurarla «Appena mi daranno il
permesso ti porterò da loro, va bene?».
La bambina annuì.
«E mia sorella?».
Ben si morse il labbro, guardò Aida negli occhi. Aveva gli
occhi identici a
quelli del padre.
«Principessa...».
Si bloccò.
Avrebbe voluto poter fuggire da quella conversazione, alzarsi e
chiudersi la
porta alle spalle, ma sapeva che non avrebbe risolto le cose. E sapeva
anche
che, in quel momento, lui era l’unica persona che potesse
spiegare ad Aida che
cosa fosse successo. Perché fosse rimasta sola.
«Quando hanno iniziato a cadere le pietre io non
l’ho più vista.» mormorò la
bambina, in attesa di una risposta.
L’ispettore sentì una morsa stringergli lo stomaco
e poi la gola. Avrebbe
voluto almeno l’aiuto di Maggie: lei aveva avuto in cura
alcuni bambini, sapeva
come parlare con loro.
Una volta, qualche mese prima, aveva seguito un corso tenuto da uno
psicologo a
Berlino e tornata a casa gli aveva raccontato ogni cosa. Lui aveva
scherzato
sul fatto che andare a seguire un corso sulla rielaborazione del lutto
non gli
era sembrato di buono auspicio e lei aveva replicato che invece il
corso si era
rivelato interessantissimo.
E quello psicologo le aveva spiegato anche come parlare della morte ai
bambini.
Ben ricordava che Maggie aveva avuto i brividi, raccontandogli
l’effetto che le
avevano provocato le parole di quell’uomo.
Lui aveva detto che l’unico modo per spiegare la morte a un
bambino era
dicendola. Così,
per
quel che è. Con parole semplici. Perchè in fondo
la morte è molto semplice, è
un concetto così assoluto e lineare da essere in
realtà più comprensibile a un
bambino che a un adulto.
Ben allora l’aveva guardata con una
smorfia
poco convinta, immaginando che comunque difficilmente gli sarebbe
tornato utile
sapere come spiegare la morte a un bambino.
E invece adesso si trovava lì, in quella stanza, con Aida
Gerkhan.
Le avrebbe dovuto spiegare la morte della sua sorellina.
E poi, forse, avrebbe dovuto spiegarle anche quella dei suoi genitori.
E non sapeva se ci sarebbe riuscito.
N.d.A.
Eh
sì, questa volta le cose le ho fatte andare storte
davvero.
Grazie
a voi che siete arrivati fino a qui e continuate a leggere, un
ringraziamento particolare a MaryS5 per le sue meravigliose recensioni,
grazie!
Sophie
|
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Capitolo 19 *** Lo so io e lo sai tu ***
Dal
capitolo precedente:
"«Mi
scusi se le ho parlato schiettamente, ispettore... ma detesto dare
false speranze. Se si riprenderà, il suo amico
avrà bisogno di lei... avrà
bisogno di tutto il sostegno possibile.».
[...]
«Lei
ha...
è lei che si è
occupato di Andrea Schäfer?» chiese Ben, quasi
bisbigliando, dopo un attimo
trascorso in silenzio.
«L’operazione
è stata eseguita dal dottor Franz, il chirurgo
cardio-toracico.
Io sono passato poco fa a controllare le sue funzioni
cerebrali...».
«È
sua moglie, dottore. È la moglie di Semir.».
Il
medico
corrugò appena la fronte, poi un velo di dispiacere
coprì il suo
sguardo.
«Mi
dispiace...»."
GIORNO
17.
Christopher
Schneider uscì a
passo svelto dalla stanza del suo paziente e disse qualcosa a
un’infermiera che
proprio in quel momento attraversava il corridoio, che entrò
in fretta nella
stanza.
Quindi, scuotendo impercettibilmente il capo, si avviò verso
un’altra
direzione, quando qualcuno alle sue spalle gridò il suo nome.
«Dottor Schneider!»
lo
chiamò Ben, seguendolo nel corridoio «Dottor
Schneider, ha novità?».
«Ispettore Jager, ha dormito qui in ospedale?» fece
l’uomo in tutta risposta,
con tono che faceva quasi pensare a un rimprovero.
«Sì... io... non potevo andare a casa. Ho convinto
la madre di Andrea ad andare
un po’ a casa, ma io non potevo... allora, ha
novità?».
Il medico squadrò il poliziotto da capo a piedi, poi scosse
il capo,
guardandolo negli occhi.
«Non buone, purtroppo.».
Ben si sentì morire, per l’ennesima volta in
quelle ultime, lunghissime,
ventiquattro ore.
«Il suo collega non si è svegliato e...
be’, non è normale. Normalmente gli
ematomi di tipo epidurale, a differenza di quelli subdurali, hanno una
buona
prognosi. Ho appena ordinato dei nuovi esami.».
«Okay...».
Il giovane ispettore annuì, provando a rimanere il
più calmo possibile.
«Non escludo sia necessaria un’altra
operazione.».
Ben sgranò gli occhi «Può
sopportarla?».
Il medico sospirò profondamente «Le
dirò, è proprio questo che mi preoccupa.
Purtroppo l’ispettore Gerkhan... Semir, giusto? È
molto debilitato. Per questo
prima di operare vorrei aspettare ancora qualche ora per vedere se ci
fossero
dei miglioramenti. Lei, però, Jager, farebbe bene a
riposarsi almeno un po’.».
«E Andrea?» continuò il poliziotto,
ignorando l’invito del dottore «Ha superato
la notte, vuol dire che se la caverà?».
Schneider alzò brevemente le spalle, scosse il capo
«Non credo, purtroppo.
Stavo andando giusto a fare un controllo. Ispettore, potrebbe essere
questione
di ore, o di qualche giorno... ma sinceramente non credo che lei abbia
qualche
concreta possibilità di migliorare.».
Ben annuì, lasciandosi cadere su una sedia.
La schiettezza di quell’uomo lo destabilizzava.
«Grazie.» mormorò, guardando a terra.
Il medico gli poggiò una mano sulla spalla, aspettando che
lui alzasse lo
sguardo.
«Jager, glielo dico da medico, vada a riposarsi. Solo qualche
ora. Non può fare
niente per loro, le prometto che se avrò novità
penserò io stesso a
contattarla.».
«Non lo posso abbandonare...» sussurrò
Ben, e Schneider si accorse che aveva
gli occhi pieni di lacrime.
«Senti... posso darti del tu?» disse, con voce
stranamente calda «Io non so che
cosa sia accaduto. Non so per quale motivo i tuoi amici si trovassero
sotto
quelle macerie, ma mi permetto di darti un consiglio: non sentirti in
colpa.
Qualsiasi cosa sia successa, non serve. E vai a riposare...».
«Se si sveglia?».
«In quel caso ti chiamerò io, promesso. Va
bene?».
L’ispettore annuì, piano.
«Grazie, dottor Schneider.».
«Chris. Chiamami Chris.».
Erano
le nove del mattino quando
la Kruger entrò nel grande edificio, lanciando una rapida
occhiata all’orologio
che portava al polso.
Sapeva che se ci fossero state novità sicuramente Jager
l’avrebbe avvisata, ma
aveva deciso di passare comunque dall’ospedale, per avere la
situazione più
sotto controllo. Anche se, lo sapeva, la verità era che non
poteva avere
assolutamente nulla sotto il suo controllo.
Attraversò i corridoi quasi di corsa, raggiungendo il
reparto di terapia
intensiva.
Chiese di Gerkhan, ma un’infermiera le rispose che
l’ispettore si trovava di
nuovo in sala operatoria.
Kim sospirò, chiedendosi che cos’altro fosse
successo.
Estrasse il telefono dalla tasca della giacca e compose il numero di
Jager,
senza però ottenere alcuna risposta.
Girò confusa per quei corridoi tutti uguali, quando
finalmente lo vide, seduto
su una sedia, accanto a un letto, all’interno di una stanza.
Osservò il suo ispettore dal vetro, ma non entrò.
Era la stanza di Andrea
Schäfer.
«E
così adesso lo hanno riportato
in sala operatoria.» concluse Ben, come se stesse conversando
normalmente con
qualcuno in grado di interagire con lui.
Ovviamente, non ricevette alcuna risposta diversa dal suono ritmico dei
macchinari che circondavano il letto.
«Sai Andrea, io credo che tu ti debba svegliare.»
disse a un tratto, come se
fosse la cosa più naturale del mondo.
«Infondo lo so io e lo sai tu... ti devi
svegliare.» continuò, sottovoce.
«Io credo che Semir si riprenderà solo se ti
sveglierai anche tu... perché
siete legati da qualcosa di indissolubile, lo siete sempre stati. E se
negli
ultimi mesi i vostri rapporti erano cambiati, se non era più
tutto come
prima... be’, non importa. Perché io sono convinto
che voi vi sareste
riavvicinati, che si trattasse solo di una crisi passeggera. Lui ti ama
e tu lo
ami, nonostante il suo lavoro, nonostante tutto. Non sbaglio,
vero?».
Fece una pausa, sistemandosi meglio sulla sedia.
«Quindi ora svegliatevi, perché Aida ha bisogno di
voi e ha bisogno di tutti e
due. Dai, Andrea... fai uno sforzo...».
Ben continuava a scrutare il volto della donna in attesa di qualcosa:
un
movimento, un cenno, la breve contrazione di un muscolo.
Ovviamente non accadde niente di tutto ciò.
Le prese una mano e gliela strinse.
«Andrea, perché non provi a dimostrare ai medici
che si sbagliano? Che non è
vero che non ti sveglierai più? Il dottor Schneider...
Chris, mi ha detto di
chiamarlo così... ecco, lui dice che Semir avrà
bisogno di sostegno per
guarire. Io posso stargli vicino, certo. Ma se ci fossi anche tu
sarebbe tutto
più semplice. Fallo per lui, Andrea... per Aida...
svegliati!».
Il ventilatore che respirava per lei emetteva rumori continui e leggeri.
Ben sospirò, chiedendosi se stesse parlando al vuoto, o se
magari la donna
potesse davvero sentire qualcosa.
Si ritrasse sulla sedia, appoggiandosi allo schienale e passando a
osservare le
piastrelle bianche del pavimento.
Si sentiva inutile, completamente inutile...
Chris
Schneider si tolse la
mascherina, ordinò a qualcuno alle sue spalle di richiudere.
Uscì dalla sala operatoria e si lasciò scivolare
lungo la parete, arrivando a
sedersi sul pavimento freddo del corridoio.
L’intervento era riuscito e il paziente sembrava averlo
superato, doveva solo
sperare che si risvegliasse.
Quella mattina, prima di raggiungere l’ospedale, aveva acceso
distrattamente la
televisione.
E allora aveva saputo tutto.
Erano giorni che i notiziari divulgavano immagini di un certo evaso e
accennavano
a una famiglia scomparsa, ma solo ascoltando il telegiornale quella
mattina
aveva saputo esattamente che cosa fosse successo e ricollegato ogni
cosa.
Dal telegiornale aveva appreso anche della morte di una donna,
probabilmente
una dei due criminali, e di una bambina. Aveva poi saputo che
l’evaso,
Frederich Keller, era stato ricoverato il giorno prima in quello stesso
ospedale.
Così, seduto in quel corridoio, la mascherina ancora appesa
al collo e gli
occhiali ben calcati sul naso, si era ritrovato a riflettere su quanto
ingiusta
fosse l’esistenza.
Perché colui che aveva causato tutte quelle sofferenze
doveva essere ancora
vivo e una bambina di cinque anni, invece, doveva rimanere seppellita
dalle
macerie di un edificio costruito apposta per autodistruggersi?
E perché lui, come medico, avrebbe avuto il dovere di salvare la vita sia a quel
poliziotto che a
quel criminale?
Per la prima volta nel corso della sua lunga carriera,
ringraziò il Cielo di
non essersi dovuto occupare di quel Keller. Sapeva che fosse sbagliato,
ma era
certo che, pur curandolo, non vi avrebbe impiegato la stessa dedizione
di cui
si stava servendo per provare a salvare quell’ispettore.
Crudeltà, o giustizia.
L’uomo alzò le spalle senza trovare una risposta
adeguata alla sua stessa,
tacita domanda.
Si rialzò, con un sospiro.
Fece roteare la testa per rilassare la muscolatura del collo, rimasta
tesa
durante tutto il tempo dell’intervento.
Poi si avviò lentamente verso la porta scorrevole.
«Lì
c’è la mia mamma?».
Kim trasalì udendo la sottile voce alle sue spalle, si
voltò di scatto.
Ma quando vide Aida Gerkhan che la guardava dal basso in alto con
un’espressione un po’ perplessa, rilassò
il viso in un sorriso.
«Aida, come mai sei qua? Pediatria non è al piano
di sotto?».
La bambina alzò le spalle. Quella donna le aveva sempre
incusso un po’ di
timore, ma non importava. Papà le aveva detto che non
avrebbe dovuto avere
paura di lei, e lei si fidava ciecamente di suo papà.
«Sì ma ero da sola e mi annoiavo.
L’infermiera è uscita e io sono venuta qui.
Mi tengono ancora oggi qui in ospedale ma io sto bene.».
«Hai un bel taglio lì, però.»
notò la Kruger, inginocchiandosi per raggiungere
la sua altezza e osservando gli strip sulla fronte della bambina.
Aida storse le labbra.
«Non è niente. Ma la mamma è
lì dentro?» ripeté, ostinata.
«Sì, piccola, ma non credo che tu adesso possa
entrare. E poi dobbiamo tornare
giù e dire all’infermiera che stai bene, si
sarà preoccupata non vedendoti.».
Kim le porse la mano, ma la bambina sbuffò e non la prese.
Incrociò invece le braccia
al petto.
«Io voglio vedere la mamma.» comunicò,
irremovibile.
La donna sospirò e sorrise.
La testardaggine di quella bambina era straordinaria.
Stranamente si ritrovò a pensare che, se fosse stata
più grande, avrebbe potuto
intraprendere con lei le stesse identiche discussioni che si ritrovava
a fare
con Gerkhan e Jager quando loro non erano convinti di qualcosa, o
quando la
pensavano diversamente da lei su un particolare metodo di indagine.
Testarda, tale e quale a suo padre.
«Dai, Aida, andiamo giù. Tra poco Jager... Ben, ti
raggiungerà. Va bene?».
La bambina alzò gli occhi al cielo, ma poi, finalmente,
afferrò la mano del
commissario, e insieme si diressero verso l’ascensore.
N.d.A.
Ma
potrebbe andare peggio...
A
presto!
Sophie
|
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Capitolo 20 *** Non va tutto bene ***
Dal
capitolo precedente:
"Ben
sospirò, chiedendosi se stesse
parlando al vuoto, o se magari la donna potesse davvero sentire
qualcosa.
Si
ritrasse sulla sedia, appoggiandosi allo schienale e passando a
osservare le
piastrelle bianche del pavimento.
Si
sentiva inutile, completamente inutile..."
GIORNO
18.
Ben
entrò nella stanza con un po’
di timore.
Dopo l’intervento del giorno precedente, il terzo giorno
dall’arrivo in
ospedale, aveva finalmente ottenuto da parte del dottor Schneider di
vedere
Semir.
C’era silenzio, fatta eccezione per i suoni prodotti dai
macchinari, che erano pressoché
gli stessi che aveva udito il giorno prima nella stanza di Andrea.
E Semir era lì, immobile, steso sul letto.
Sembrava non stesse nemmeno respirando.
Il giovane ispettore si avvicinò alla sedia con passo
titubante e si sedette
accanto all’amico disteso, stando attento a non produrre il
minimo rumore.
Era strana la differenza di atmosfera che c’era tra le due
stanze. Nonostante i
medici avessero detto e ripetuto che per Andrea ci sarebbe stato poco
da fare e
sarebbe stata solo questione di ore, il luogo dove si trovava lei
sembrava
molto più tranquillo. O forse era proprio per quel motivo.
Ben, andando a
trovare Andrea, aveva provato nonostante tutto uno strano senso di pace.
Vicino al letto dell’amico, invece, si sentiva in allerta.
Semir aveva la testa totalmente fasciata, la spalla destra bendata e il
braccio
sinistro ingessato.
Le gambe erano coperte da un sottile lenzuolo, ma sotto di esso si
intravvedevano dei ferri che fuoriuscivano dalle ossa del bacino. Ben
non era
sicuro di aver capito a che cosa servissero, ma gli incutevano comunque
uno
strano timore.
Guardò il suo socio e non seppe esattamente che cosa sperare.
Poteva solo immaginare il dolore sia fisico che psicologico che avrebbe
provato
se si fosse svegliato. Sicuramente, pensò, lui in quel
momento avrebbe
preferito non svegliarsi affatto.
Eppure, Ben pregava perché il suo migliore amico aprisse gli
occhi. Per Aida,
per Andrea, ma anche per se stesso.
Aveva bisogno che lui aprisse gli occhi...
Rimase a fissarlo, immobile, per almeno mezz’ora.
Non parlò come aveva fatto ad Andrea, lo guardò e
basta.
Quando decise che avrebbe lasciato la stanza, però, accadde
qualcosa. Un
movimento, un impercettibile movimento delle palpebre.
L’ispettore si entusiasmò improvvisamente,
sperando che l’amico si stesse
svegliando, che magari un piccolo miracolo stesse per accadere.
Ma poi, nel giro di un attimo, capì che quello che stava
accadendo non era un
miracolo. Che non andava tutto bene.
Helen
teneva stretta stretta la
mano di Aida.
Si diresse verso la stanza di Andrea, ma quando fu a pochi metri dalla
porta
guardò la bambina e si fermò.
«Aida, tesoro, perché non vai un attimo dal tuo
amico poliziotto? Deve essere
proprio lì, in fondo al corridoio.» le disse, con
tono dolce e pacato.
La nipote, però, la guardò sospettosa
«Perché devo andare da zio Ben? Perché
non volete che io veda la mamma?».
L’anziana signora sorrise, ma la verità era che
non aveva una risposta precisa
a quella domanda. Continuava a sperare che Andrea sarebbe stata meglio
e
continuava a dire alla bambina che ci sarebbe stato tempo per vedere la
mamma.
Voleva che non la vedesse così, voleva che non pensasse che
fosse la fine.
Perché quella non era la fine, non poteva esserlo. Lei non
si sarebbe mai
rassegnata a questa convinzione.
«Tra qualche giorno vedrai la mamma e starà
meglio, te lo prometto.» le disse,
con un sorriso.
Aida annuì e si diresse sconsolata verso il punto del
corridoio che le aveva
indicato la nonna, alla ricerca di zio Ben.
Tra qualche giorno vedrai la mamma e
starà meglio, te lo prometto.
Mentre guardava la bambina allontanarsi, Helen
sperò con tutto il cuore di
poter mantenere quella promessa, sia a lei che a se stessa.
Mentre
i muscoli di Semir si
contraevano insieme, senza un’evidente ragione, Ben rimaneva
immobile.
Trascorse un secondo interminabile durante il quale la schiena
dell’ispettore
steso a letto, sempre incosciente, si inarcò e il suo
colorito divenne
bluastro.
Poi, il corpo di Semir fu scosso improvvisamente da una serie di
contrazioni
ritmiche, che sembravano del tutto incontrollate.
Ben finalmente si riscosse, schiacciò il tasto per le
emergenze con tutta la
forza che aveva e poi si precipitò verso il corridoio, in
cerca di aiuto.
Prima ancora che potesse provare a spiegare che cosa stesse succedendo,
due
infermiere erano già entrate nella stanza e Christopher
Schneider le stava
raggiungendo.
In men che non si dica il giovane poliziotto si ritrovò
fuori, nel corridoio
bianco, con una porta chiusa in faccia e il respiro affannoso.
Dall’interno sentiva il medico dire qualcosa, ordinare
concitatamente a
un’infermiera di iniettare qualcosa al paziente.
Nel panico più totale, si diresse verso il muro bianco e lo
prese a pugni, con
violenza, fino a farsi male.
Quando si staccò dal muro, un rivolo di sudore gli colava
lungo la fronte.
Alzò la testa e diresse lo sguardo verso la fine del
corridoio: Aida lo stava
osservando.
N.d.A.
Brevissimo capitolo e le cose non sembrano migliorare...
Grazie a chi continua a leggere, a presto!
Sophie
|
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Capitolo 21 *** Numero 201 ***
Dal
capitolo precedente:
"Nel
panico più totale, [Ben] si diresse verso il muro bianco e
lo prese a
pugni, con violenza, fino a farsi male.
Quando si staccò dal muro, un rivolo di sudore gli colava
lungo la fronte.
Alzò la testa e diresse lo sguardo verso la fine del
corridoio: Aida lo stava
osservando."
DUE
GIORNI DOPO - GIORNO 20.
«Come
fai a dirmi che non mi devo
preoccupare, Chris? Come fai?».
Il medico sospirò, sedendosi accanto al ragazzo nel
corridoio di fronte alla
stanza di Semir.
Si tolse gli occhiali e cominciò a pulirne le lenti, con
calma, cercando un
pretesto per non dover fissare il suo interlocutore negli occhi.
«Ben, non ti ho detto questo. Capisco che tu sia preoccupato,
ma non...».
«Non sai che cosa fare, non è
così?» lo interruppe l’ispettore, con
rabbia.
«Ben... ascoltami.» cominciò Schneider
«La medicina non è una scienza esatta.
Questo ce lo dobbiamo ricordare, tutti, sempre. Non so
perché Andrea sia ancora
viva perché avrei giurato che il suo cuore avrebbe smesso di
battere il giorno
stesso in cui è arrivata. E non so perché Semir
non si sia ancora svegliato,
perché invece credevo che lui lo avrebbe fatto dopo
l’intervento, o almeno dopo
la crisi convulsiva di due giorni fa. Ma non è accaduto.
L’ematoma è stato
drenato completamente, per cui l’unica cosa che possiamo fare
è aspettare... lo
capisci, Ben?».
Il poliziotto scosse il capo, appoggiandosi allo schienale della sedia
e
mutando tono. La rabbia lascò velocemente spazio alla paura.
«Sei stato tu a dirmi che più tempo impiega a
svegliarsi più c’è il rischio di
danni permanenti...».
«Certo, Ben, ed è così. Io e te abbiamo
fatto un patto, ho giurato di dirti
sempre le cose così come stanno, ricordi? Sempre. E lo sto
facendo. Ma tu devi
sperare, Ben, perché se pensi che si verificheranno sempre
le possibilità
peggiori che io ti mostro, allora finirai per stare male anche tu,
credimi.».
Ben annuì leggermente.
«Ma il fatto che Andrea non sia ancora... voglio dire... che
sia ancora viva,
non lascia qualche speranza in più?».
Il medico alzò le spalle, rimettendo i sottili occhiali sul
naso dopo essersi
passato una mano sui grandi occhi chiari.
«Non credo. Nonostante siano passati quattro giorni, continuo
a credere che sia
solo questione di tempo, non noto alcun cambiamento nelle sue
condizioni.».
«Va bene...» mormorò
l’ispettore, a voce a mala pena udibile.
«Ben, devi essere forte.» disse Schneider,
alzandosi e posando al ragazzo una
mano sulla spalla.
«Se non si sveglieranno... la mamma di Andrea sarà
distrutta e Aida... chi si
prenderà cura di Aida?».
«Aida è la figlia del tuo collega?».
Ben annuì e Chris sorrise appena.
«L’ho vista nei corridoi, sai? È una
bella bambina. Se la caverà.».
«Non è giusto...».
«Non è giusto, no.» replicò
il medico «Ma il mondo non è mai giusto, Ben.
Però
noi dobbiamo saper resistere. Esiste sempre una soluzione,
c’è sempre un modo
per andare avanti, anche quando proprio non sembra possibile. Io lo so,
credimi.».
Quindi, stringendo le spalle nel suo camice bianco, si
allontanò dal ragazzo, a
passo veloce, per andare a occuparsi di altri pazienti.
Ben si alzò a sua volta, girando su se stesso e cominciando
poi a camminare,
senza una meta, per quei bianchi corridoi.
Non era sicuro di aver capito ancora bene come fosse suddiviso il
reparto.
Svoltò a sinistra e poi ancora a sinistra, sempre fissando
le piastrelle bianche
sul pavimento, fino a quando qualcosa
dentro di sé gli intimò di fermarsi.
Notò di trovarsi esattamente davanti alla porta di una
stanza, con le tendine
tirate giù a coprire i vetri e il numero 201 inciso vicino
all’entrata.
Fissò quella maniglia per qualche attimo, si
guardò intorno e vi posò sopra la
mano.
Sentiva che sarebbe dovuto entrare, e non ne comprendeva la ragione.
Tuttavia, seguendo l’istinto, abbassò la maniglia.
«Maggie,
secondo te perché la
nonna non vuole farmi andare dalla mamma?».
La vocina sottile di Aida risvegliò la psicologa dai suoi
pensieri.
Si trovavano entrambe al bar dell’ospedale, la signora
Schäfer le aveva chiesto
di tenerle la bambina per un po’, mentre lei andava dalla
figlia. Margaret
aveva accettato volentieri, anche perché Ben era impegnato a
parlare con il
dottor Schneider, e aveva offerto ad Aida una grande colazione.
«Perché vuole che tu la veda quando
starà meglio, tesoro.» le spiegò, con
sincerità.
«Ma quando starà meglio?».
«Non lo so, piccola. Ma non arrabbiarti con la nonna, lei si
preoccupa per
te.».
«Sì ma io vorrei vedere la mamma.»
replicò la bambina, con tono sconsolato «E
anche papà. Mi avete detto che dormono, ma non capisco
proprio perché non posso
vederli.».
Maggie sospirò, piano.
Effettivamente lei avrebbe fatto entrare la bambina in entrambe le
stanze.
Certo, magari si sarebbe spaventata inizialmente nel vedere entrambi i
genitori
incoscienti e circondati da tubi e macchinari, ma forse in parte
l’avrebbe
confortata poter stare un po’ con loro.
Ovviamente, però, la decisione non stava a lei.
«Sono passati quattro giorni, non ho più visto
nessuno.» continuò Aida.
Poi addentò il muffin al cioccolato che aveva di fronte,
sporcandosi tutto il
viso, e Margaret si mise a ridere.
Le offrì un fazzoletto e, osservandola mentre si puliva alla
bell’è meglio, non
poté fare a meno di pensare a che cosa sarebbe successo se
fosse rimasta sola.
«Maggie, ma tu sei una scrittrice?»
domandò a un tratto la bambina.
«Mi piacerebbe esserlo... scrivo, ogni tanto. Ora sto
scrivendo un libro.».
Gli occhi di Aida si illuminarono.
«Davvero? E di che cosa parla? Posso leggerlo?».
La ragazza fece una smorfia indecisa. Non le avrebbe detto di che cosa
trattava
ciò che stava scrivendo, non in quel momento.
«È una sorpresa, tesoro. Quando lo avrò
finito te lo dirò!».
«Va bene.» rispose soddisfatta la bambina,
addentando di nuovo il suo dolce.
Nonostante tutto, si ritrovò a pensare Margaret, lei se la
sarebbe cavata.
Nell’ufficio
c’era un silenzio
assordante.
Kim sospirò, appoggiandosi allo schienale della sedia, ma
cambiando posizione
subito dopo.
Intrecciò le mani sulla scrivania, assorta.
Non era abituata a quella calma, e vedere al di fuori del proprio
ufficio i
colleghi che si aggiravano tristemente per i corridoi o lavoravano
silenziosamente al computer le dava quasi fastidio.
Jager non metteva piede in commissariato da quattro giorni.
Gerkhan, forse, non vi avrebbe più fatto ritorno.
E a lei già mancava quella coppia che la faceva arrabbiare,
gridare e
preoccupare, ma che poi costituiva la vera anima dell’intero
commissariato.
Si era affezionata ai suoi ispettori fin dall’inizio,
nonostante non l’avesse
praticamente mai dato a vedere, ma ora che nessuno dei due era presente
si
rendeva ancora più conto di quanto si fosse legata a loro.
Erano diventati una squadra.
Il pensiero che non la sarebbero più stata la infastidiva.
E la consapevolezza di non poter fare niente per cambiare la
situazione, la
turbava ancora di più.
Si chiese, in silenzio, se quell’orrenda storia iniziata
più di due settimane
prima avrebbe mai avuto fine.
Quando
Ben fu entrato nella
stanza, il suo cuore ebbe un sussulto e sentì
improvvisamente la necessità di
scappare e correre il più lontano possibile.
A pochi metri da lui, disteso nel letto, a occhi chiusi,
c’era Frederich
Keller.
Dopo essere rimasto sulla soglia per qualche secondo interminabile
senza
sapersi decidere su cosa fare, inspiegabilmente l’ispettore
si richiuse la
porta alle spalle e si avvicinò al letto.
Si diresse lentamente e senza fare rumore verso la sedia che vi era
sistemata
accanto e vi si sedette, piano, effettuando ogni movimento in modo
quasi
impercettibile.
Frederich Keller.
Quando lo aveva visto per la prima volta, mentre i soccorritori lo
estraevano
dalle macerie, quattro giorni prima, aveva provato il forte impulso di
gettarsi
su di lui e di strangolarlo.
Ora, invece, seduto accanto al suo corpo disteso, era talmente confuso
da non
riuscire a provare niente di definito nei suoi confronti.
Rimase lì seduto per qualche minuto, ma non lo
guardò.
Guardava per terra e pensava, pensava che quell’uomo era la
causa di tutto. E
che ora si trovava in ospedale, anche lui. Pensò che magari
stava male, anche
lui.
Però il suo letto non era attorniato da tutti i tubi che
circondavano quello di
Semir e questo dettaglio lo fece innervosire, almeno in un primo
momento.
Quando
sollevò la testa, deciso
ad andarsene, notò che due occhi grigi lo stavano
osservando: Keller era
vigile.
Ben lo guardò per un secondo lunghissimo, senza muovere un
muscolo, fino a che
lui non si decise a parlare.
«Ispettore Jager, giusto?».
La sua voce era leggermente roca e il suo tono bassissimo, ma non
sembrava
avere gradi difficoltà a parlare.
L’ispettore non rispose a quella domanda così
ovvia, né fece alcun cenno di assenso.
«Sa, lei... lei è la prima visita che
ricevo.» continuò Keller, sempre a bassa
voce.
«Si meraviglia?» fu la secca, veloce risposta di
Ben.
L’uomo disteso scosse il capo, non senza fatica
«No... ma mi meraviglia che...
che lei sia qui.».
Il poliziotto si morse il labbro. Meravigliava anche lui.
«Che cosa vuole, Jager? Uccidermi? Potrebbe... potrebbe
farlo... non opporrei
resistenza.».
«Non sono tutti come lei, Keller. Non tutti sono alla ricerca
di vendetta.».
L’uomo annuì lentamente, e nei suoi occhi
sembrò passare un’ombra scura.
Ben corrucciò leggermente la fronte, domandandosi che cosa
stesse succedendo.
Domandandosi come mai, nonostante si rivolgesse a lui in modo
aggressivo, non
riuscisse a provare esclusivamente odio per quell’uomo.
Non riusciva a spiegarselo. Aveva immaginato più volte, in
quei quattro giorni,
di averlo tra le mani. Lo aveva maledetto, si era anche augurato che
fosse
morto dopo essere arrivato in ospedale.
Eppure, ora, seduto accanto a quel corpo quasi immobile, non riusciva a
odiarlo.
«“Prima di cominciare una vendetta, preparati a
scavare due tombe.”» sussurrò
Keller, tra sé e sé.
«Che cosa ha detto, Keller?».
«È un proverbio, Jager... me lo ha ripetuto
Gerkhan mentre... mentre era mio
prigioniero... ma lui non aveva capito...».
«Che cosa non aveva capito?» domandò
Ben, visibilmente infastidito.
«Che noi sopravviviamo.».
L’uomo pronunciò quelle parole con calma,
scandendo ogni lettera, dotando
quella frase di un certo grado di gravità.
«È questo che voleva testare, Keller? Voleva
vedere se sarebbe sopravvissuto?».
Friedrich sospirò, scuotendo leggermente il capo sul cuscino.
«Sono stanco, Jager, gradirei riposare.».
L’ispettore non se lo fece ripetere due volte e
uscì dalla stanza, senza
voltarsi indietro e senza degnarsi di salutarlo.
Noi sopravviviamo.
Quelle parole gli rimasero in testa per tutta la giornata.
N.d.A.
Chi
non muore si rivede e Keller a quanto pare è vivo e
vegeto... che possa
riservare sorprese?
A
presto,
Sophie
|
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Capitolo 22 *** Vittima e carnefice ***
Dal
capitolo precedente:
"«È
questo che voleva testare,
Keller? Voleva vedere se sarebbe sopravvissuto?».
Friedrich sospirò, scuotendo leggermente il capo sul cuscino.
«Sono stanco, Jager, gradirei riposare.».
L’ispettore non se lo fece ripetere due volte e
uscì dalla stanza, senza
voltarsi indietro e senza degnarsi di salutarlo.
Noi sopravviviamo.
Quelle parole gli rimasero in testa per tutta la giornata."
GIORNO 21.
Aida
si avvicinò al letto con un
misto di eccitazione e preoccupazione dipinto sul volto.
La sera prima Margaret aveva raccontato a Ben del desiderio della
piccola di
vedere la mamma e la mattina seguente il poliziotto aveva raggiunto in
ospedale
la madre di Andrea per metterla al corrente.
Helen si era mostrata molto preoccupata, aveva detto che avrebbe
preferito che
la bambina vedesse la mamma una volta sveglia. Non riusciva per nulla
al mondo
ad accettare che, probabilmente, quel momento non sarebbe mai
più arrivato.
Alla fine, però, aveva detto che andava bene, che avrebbe
potuto vederla.
Helen si fidava di quel giovane poliziotto. Lo aveva visto in poche
occasioni,
ma sapeva quanto fosse legato a Semir e anche ad Aida. Andrea le
raccontava
spesso di lui, della sua chitarra e dei giochi che si inventava ogni
volta per
far divertire le bambine. Così, alla fine, aveva deciso di
seguire il suo
consiglio.
Ben era allora entrato nella stanza con Aida, che non appena aveva
saputo di
poter finalmente vedere la mamma, si era aperta in un grande sorriso.
Ora però, accanto a quel letto, vicino a quei macchinari
ingombranti che non
tacevano mai, aveva un po’ di timore.
Guardò la mamma distesa, immobile e pallida, poi volse lo
sguardo
sull’ispettore alle sue spalle.
«Zio Ben, ma le posso parlare?».
«Certo che puoi, principessa. Vuoi che esca?».
La bambina scosse il capo, poi tornò a guardare Andrea e le
sfiorò una mano con
la sua manina sottile.
«Ciao mamma, sono io. Secondo me mi puoi sentire, non
è vero?».
Fece una pausa, avvicinandosi di più al viso della mamma e
appoggiandosi sul
letto con i gomiti.
«I medici mi hanno detto che tu dormi e che dorme anche
papà. Poi Ben mi ha
detto di Lily... ma non ti devi preoccupare, mamma, perché
Ben mi ha detto
anche che adesso lei sta bene.».
Ben, alle sue spalle, ebbe un sussulto. Sorrise, guardando con
tenerezza la sua
piccola principessa. Come poteva una bambina di appena nove anni farsi
carico
di una situazione del genere e provare anche a tranquillizzare sua
madre, senza
nemmeno perdere il sorriso?
Ancora una volta, l’immagine di Semir che si era preoccupato
per lui fin dal
primo giorno che lo aveva conosciuto gli attraversò la mente.
Più la guardava, più gli sembrava evidente che la
bambina fosse in tutto e per
tutto l’esatta copia del padre.
«Io non mi sono fatta nemmeno un graffio.»
continuò Aida, come se davvero sua
mamma potesse interagire con lei «Quell’uomo e
quella donna sono stati cattivi
con noi, però adesso è passato. Papà
mi ha sempre detto che sono una bambina
forte... però mamma, anche tu devi esserlo. Non puoi dormire
così tanto...
svegliati!».
La bambina si fermò, come aspettandosi una qualche reazione
da parte di quel
corpo disteso, che ovviamente, però, non arrivò.
«Dai, mamma... dovresti svegliarti. La nonna piange, ha paura
che tu non ti
svegli più. Io però non ho paura,
perché secondo me tu ti sveglierai. Ti va
bene se passo domani e ti parlo ancora un po’?».
Fece un’altra pausa prima di continuare.
«Va bene, allora ci vediamo domani.» concluse poi.
Si sporse per dare un bacio sulla guancia ad Andrea, poi si
voltò verso Ben per
dirigersi verso l’uscita.
«Zio Ben, ma che cosa fai? Piangi?».
L’ispettore le sorrise, passandosi fugacemente una mano sugli
occhi.
«Io? Ma no principessa, è solo un po’ di
polvere. Hai finito? Ti riporto dalla
nonna?».
Aida annuì, soddisfatta.
Lo prese per mano e uscirono insieme dalla stanza.
Ben
si diresse ancora una volta
verso la stanza numero 201.
Aveva appena lasciato Aida con la mamma di Andrea, ma non aveva alcuna
intenzione di lasciare l’ospedale. Sorrise amaramente,
pensando a come ormai quel
luogo per lui fosse diventato, da cinque giorni a quella parte,
praticamente
una seconda casa. I medici e le infermiere erano stati molto gentili
sia con
lui sia con Helen Schäfer e molto spesso avevano permesso loro
di rimanere
oltre gli orari di visita, viste le situazioni delicate in cui si
trovavano i
pazienti.
Camminando per i bianchi corridoi che ormai conosceva quasi a memoria,
l’ispettore pensò che sarebbe passato da Semir
più tardi.
Prima voleva parlare con Keller.
Abbassò la maniglia della porta cautamente, come aveva fatto
il giorno prima,
anche se questa volta sapeva chi lo avrebbe aspettato
all’interno della stanza.
E Friedrich Keller era lì, perfettamente vigile, questa
volta semi-seduto sul
letto, con la schiena sorretta da due cuscini.
«Jager.» lo apostrofò, vedendolo
«Mi mancheranno le sue visite quando sarò
fuori di qui.».
Ben strinse involontariamente i pugni e serrò la mascella,
mentre prendeva
posto sulla sedia accanto al letto senza nemmeno capirne il motivo.
«Che cosa la porta da me oltre al suo odio nei miei
confronti?».
Il silenzio che ne seguì parve già da solo una
risposta eloquente.
«Perché?» domandò il
poliziotto, semplicemente.
L’uomo alzò un sopracciglio «Credevo
fosse chiaro.».
«Non lo è, invece. Che cosa volevate fare?
Perché avete sparato ad Andrea?».
«Volevo togliergli tutto, Jager.» spiegò
Keller, con un impercettibile sospiro
«Volevo vederlo crollare pezzo per pezzo. Volevo che
soffrisse tanto quanto
avevo sofferto io.».
Ben continuò a tenere le unghie conficcate dentro ai palmi
delle proprie mani.
Ma non disse niente, fu l’evaso a proseguire.
«Volevo che sua moglie morisse davanti ai suoi occhi e che
davanti a lui
morissero anche le sue figlie, una alla volta. E, prima, gli ho fatto
anche
credere di aver ammazzato lei, Jager.».
«Maledetto bastardo.» mormorò il
ragazzo, sicuro che l’altro lo avesse sentito.
Ora capiva perché la prima cosa che gli aveva detto Semir
quando lo aveva
trovato sotto le macerie era stata “credevo fossi
morto”.
«Non dica così, Jager. L’ha voluto
lui.».
«Semir non sapeva che ci fosse la sua famiglia dentro a
quell’auto.» replicò
Ben, ora rosso in volto.
«Non intendevo questo.» fece Keller, con voce
melliflua «Intendo la sua “morte”.
Ho fatto scegliere a Gerkhan chi sacrificare tra lei, Jager, e sua
moglie. È
stato il suo caro collega a scegliere che lei morisse. Così
io ho finto di
prenderlo in parola e poco dopo gli ho comunicato di averla
uccisa.».
L’ispettore rimase in silenzio.
Immaginava quanto Semir avesse sofferto nel prendere una decisione del
genere,
immaginava che fosse stato costretto e che avesse opposto resistenza.
Ma
pensarci, nonostante tutto, gli tolse un po’ il respiro.
«Già, immagino sia difficile da
digerire.» commentò l’uomo, con un certo
compiacimento
dipinto in viso.
Ben vinse ragionevolmente l’impulso di prenderlo a pugni.
«Immagino come lei gli abbia chiesto
di
scegliere.».
Keller sorrise, stringendosi appena nelle spalle.
«Ora come sta Gerkhan?» chiese poi. E lo chiese con
una voce diversa, che poteva
tradire, addirittura, una lieve nota di preoccupazione.
Ben rimase nuovamente in silenzio qualche secondo, prima di riuscire a
rispondere: quell’uomo lo confondeva. Un attimo prima rideva
beffardo parlando
delle sofferenze che aveva provocato e un attimo dopo appariva quasi
preoccupato per la sorte della sua vittima. Prima sembrava criminale,
poi uomo.
Prima carnefice, poi vittima.
«Le interessa davvero, Keller?».
L’uomo annuì, senza aggiungere altro.
«Dopo avergli fatto quello che ha fatto, davvero ha il
coraggio di chiedere
come sta?».
«Se non vuole dirmelo non posso certo obbligarla,
ispettore.».
«Senta...» fece Ben, alzando suo malgrado il tono
della voce «Non c’è un pezzo
del suo corpo che sia tutto intero, sua moglie è in coma e
molto probabilmente
non si sveglierà, sua figlia... Semir non si è
ancora svegliato, ma come pensa
che si sentirà quando lo farà?».
«A pezzi.» rispose Friedrich, con fermezza
«Totalmente a pezzi, distrutto,
esattamente come mi sono sentito io. Ma concluda la frase. Sua
figlia...?».
Il poliziotto scosse lievemente il capo.
Non ci riusciva, non lo aveva ancora mai detto ad alta voce, a parte
quando
aveva dovuto spiegarlo ad Aida.
Keller corrugò la fronte davanti al silenzio del suo
interlocutore.
«Non abbiamo toccato le bambine.» disse, in un
sussurro «Ho fermato Kate prima
che lo facesse.».
Ben continuò a tacere, e negli occhi dell’uomo
semi-seduto si dipinse qualcosa
di molto simile alla paura. E al senso di colpa.
«Jager... mi risponda.».
«È morta.» sillabò il
ragazzo, finalmente «Sua figlia, la più piccola,
è
morta.».
Rimase stranamente impassibile mentre pronunciava quelle parole,
studiando la
reazione di Keller. Una reazione che non si sarebbe mai aspettato.
L’uomo sbiancò, e parve cominciare a tremare
all’istante.
«Io... io l’avevo risparmiata.»
balbettò, in un filo di voce.
«È successo per il crollo
dell’edificio.» continuò Ben, con voce
piatta e
ferma.
«Oddio... oddio...» cominciò a mormorare
Friedrich «No... non l’avrei fatto...
non sarei arrivato a uccidere due bambine a sangue freddo... non sarei
arrivato
a farlo... Kate sì, ma io... io no... io no...».
«Sta provando a scaricare su qualcun altro la colpa,
Keller?» fece Ben, con
stizza.
Ma l’uomo non lo stava ascoltando.
Keller continuava a farfugliare tra sé parole senza senso.
Fino a quando accadde l’imprevedibile: l’evaso
roteò gli occhi all’indietro e
reclinò la testa su un lato.
Ben rimase per un secondo interdetto, immobile e sorpreso, ma poi
schiacciò con
forza il pulsante per le emergenze, catapultandosi un attimo dopo fuori
dalla
porta.
Poi, mentre le infermiere entravano nella stanza per assistere
Friedrich
Keller, lui si sedette nel corridoio e scoppiò in lacrime.
Non
seppe quanti minuti
passarono.
Un’infermiera corpulenta gli disse che lo avevano ripreso,
che il paziente si
era sentito male ma che ora stava meglio e doveva riposare. Ma Ben non
prestò
alcuna attenzione alle sue parole.
Fece per alzarsi, asciugandosi gli occhi, quando una figura sottile in
camice
bianco gli si parò davanti.
Lisa
Crawford aveva iniziato da
soli due mesi la specialistica di medicina in anestesia e rianimazione.
Adorava l’ambiente ospedaliero e fin da bambina aveva sognato
di poter
diventare un medico, ma fin dal primo giorno si era trovata davanti a
una
realtà che era ben diversa rispetto a quella che si era
limitata fino a quel
momento a sognare o a vedere nei film. Adesso che aveva ventisei anni e
una
laurea in Medicina nel cassetto, era arrivato il momento di capire
quanto la
realtà fosse molto più complessa dei sogni, molto
più dura.
Seguendo i medici da una parte all’altra
dell’ospedale, aveva capito nel giro
di pochi giorni quante responsabilità avessero i dottori che
lavoravano in
determinati reparti e quanto le situazioni dei pazienti fossero
delicate e
ciascuna diversa da tutte le altre.
Per le successive due settimane sarebbe stata assegnata al reparto di
terapia
intensiva. L’idea la eccitava e affascinava, ma al tempo
stesso le incuteva un
po’ di paura.
I pazienti in quel reparto spesso non erano in buone condizioni, i
familiari
erano disperati e facevano migliaia di domande ed era necessaria
un’attenzione
enorme a qualsiasi particolare.
Il primo caso che le era capitato tra le mani appena entrata in quel
reparto,
riguardava un ispettore della polizia autostradale di Colonia.
Lisa aveva seguito tramite i notiziari alla televisione il caso di
quell’evaso
che aveva rapito un’intera famiglia e il fatto che in quel
momento vittime e
carnefice si trovassero tutti in quell’ospedale, insieme a
lei, l’aveva in
qualche modo colpita.
Quando il dottor Schneider le aveva consegnato la cartella clinica di
Semir
Gerkhan e le aveva detto di eseguire controlli ogni due ore e di
avvisarlo in
caso ci fosse stato anche solo un minimo cambiamento nelle sue
condizioni, lei
ne era stata felice, ma anche intimorita.
Sentiva che una parte di responsabilità su quel paziente
adesso sarebbe stata
anche sua e, dal momento che aveva saputo che cosa fosse successo alla
sua
famiglia, aveva il terrore di poter in qualche modo creare altri danni
anche
solo con il proprio respiro.
Ora si trovava lì, davanti a quell’ispettore che
avrà avuto una decina d’anni
in più di lei e che sembrava completamente disperato, e non
aveva idea di come
approcciare un discorso.
Controllare i parametri di un uomo addormentato era relativamente
semplice, ma
parlare con i parenti dei malati o con i conoscenti stretti degli
stessi non lo
era affatto. E nessuno glielo aveva mai insegnato, avrebbe dovuto
cavarsela da
sola.
«Lei
è l’ispettore Jager?» esordì
la ragazza, attorcigliandosi timidamente una ciocca di capelli biondi
attorno
all’indice della mano destra.
Ben annuì, corrugando la fronte.
Quella ragazza avrà avuto più o meno venticinque
anni, il poliziotto immaginò
che si trattasse di una specializzanda. Era carina, esile, il viso
allungato e
coperto di lentiggini, ornato dai folti capelli biondi raccolti
disordinatamente con una pinza.
«Sì... sono io.».
«Io sono Lisa, Lisa Crawford. Il dottor Schneider mi ha detto
di venirla a
chiamare... si tratta dell’ispettore Gerkhan. Si è
svegliato.».
Ben
seguì la ragazza a passi
svelti, percorrendo quel corridoio di cui ormai conosceva a memoria
ogni
piastrella senza riuscire a togliersi dalla mente l’immagine
di Keller che
roteava gli occhi e perdeva conoscenza.
Quando raggiunse la porta della stanza di Semir, la giovane
specializzanda si
fermò e lui fece altrettanto, notando Chris Schneider che
usciva dalla stanza,
chiudendosi la porta alle spalle.
«Allora?» domandò Ben, agitato,
accostandosi al medico «Davvero si è svegliato?
Come sta? Posso vederlo?».
«Ben, eccoti.» lo accolse il medico, con un mezzo
sorriso «Dunque... si è
svegliato, ma...».
«Ma? Chris, ti prego, dimmi che sta bene...».
«Non puoi entrare ora, Ben.».
All’ispettore gelò il sangue nelle vene.
Immaginò volesse dire che qualcosa non
andava e sentì il cuore cominciare a battergli nel petto
all’impazzata «Cosa...
che cosa...?».
«L’ho dovuto sedare.» spiegò
il dottor Schneider, sedendosi su un sedile di
plastica nel corridoio antistante la porta chiusa della stanza e
invitando con
lo sguardo Ben a fare altrettanto.
La ragazza, intanto, stava in disparte ad ascoltare.
«Si è appena svegliato e tu lo hai sedato?
Perché?».
«Era molto agitato, Ben, davvero troppo agitato.»
spiegò il medico, con calma
«Ha cominciato a chiedere di sua moglie, delle bambine, di
te, ma era davvero
troppo agitato e avrebbe rischiato di farsi del male, ho dovuto
sedarlo.
Dovrebbe dormire fino a domani mattina e spero che il risveglio a quel
punto
sia un po’ più tranquillo.».
«Okay...» mormorò il poliziotto,
valutando la gravità di ogni singola parola
pronunciata dal dottore «Ma come sta? Sta bene?».
«Farò dei controlli più accurati domani
mattina. Per ora posso dirti che il
fatto che finalmente abbia aperto gli occhi e abbia parlato
è sicuramente un
buon segno.».
«Okay...».
«Ora però devi ascoltarmi, Ben.»
cominciò il medico, guardandolo fisso negli
occhi e parlando sempre con estrema calma «Vai a casa. Con la
dose di sedativo
che gli ho somministrato, è escluso che si svegli prima di
domani mattina. Vai
a casa e riposati, dormi. Domani il tuo amico avrà bisogno
di te. Quindi dammi
retta, Ben...».
Contro ogni aspettativa, il giovane poliziotto si limitò ad
annuire.
Era così stanco...
«Se ci sono novità, però, mi
chiami?».
«Certo, abbiamo fatto un patto.» rispose Schneider,
con un sorriso.
Ben annuì, ricambiando il sorriso.
«Grazie, Chris... grazie davvero.».
N.d.A.
E forse, dico forse, finalmente
accade qualcosa di positivo. Intanto conosciamo un altro personaggio...
Grazie Mary, grazie Reb e grazie a tutti voi che state leggendo, a
presto!
Sophie
|
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Capitolo 23 *** Sopportazione ***
Dal
capitolo precedente:
"«Ma
come sta? Sta bene?».
«Farò dei controlli più accurati domani
mattina. Per ora posso dirti che il
fatto che finalmente abbia aperto gli occhi e abbia parlato
è sicuramente un
buon segno.».
«Okay...».
«Ora però devi ascoltarmi, Ben.»
cominciò il medico, guardandolo fisso negli
occhi e parlando sempre con estrema calma «Vai a casa. Con la
dose di sedativo
che gli ho somministrato, è escluso che si svegli prima di
domani mattina. Vai
a casa e riposati, dormi. Domani il tuo amico avrà bisogno
di te.»."
GIORNO
22.
Ben
aveva dormito per tutta la
notte.
Non
ricordava più quando fosse successo l’ultima
volta, ma finalmente era
riuscito a dormire un sonno profondo e senza incubi, del tutto
ininterrotto.
Complice forse l’atmosfera della propria casa piuttosto che
quella vuota e
triste dell’ospedale, oppure la notizia che aveva ricevuto la
sera prima
riguardo il fatto che Semir si fosse svegliato, era finalmente riuscito
a
riposarsi sul serio.
Quando si svegliò, Maggie era distesa accanto a lui, ancora
addormentata.
Ben scese dal letto, si preparò in fretta, bevve una tazza
fumante di caffè e
si guardò allo specchio.
Aveva i lineamenti un po’ più distesi, la notte di
sonno gli aveva fatto bene.
Scarabocchiò velocemente un biglietto che adagiò
sul comodino di Margaret, le
lasciò un leggero bacio tra i capelli e uscì
dall’appartamento senza fare
rumore.
Erano le sette del mattino quando, a bordo della sua moto,
partì da casa alla
volta dell’ospedale centrale di Colonia.
Quando
giunse davanti alla porta
della stanza di Semir, vi trovò davanti il dottor Schneider,
intento a scrivere
qualcosa su una cartellina.
«Oh Ben!» esclamò, vedendolo arrivare
«Come stai? Sei riuscito a riposare un
po’?».
L’ispettore annuì con un sorriso
«Sì e ti ringrazio di aver insistito,
perché
ne avevo decisamente bisogno. Posso entrare?».
Chris annuì.
«Gli farò qualche controllo, poi se va tutto bene
vi lascerò soli. Mi
raccomando però, Ben, non farlo stancare e soprattutto fai
in modo che non si
agiti troppo. Va bene?».
«Va bene.» assicurò il ragazzo,
abbassando la maniglia e richiudendo la porta
una volta che entrambi furono entrati.
Li
accolsero i soliti suoni
intermittenti che facevano parte integrante di quello scenario ormai da
giorni.
Ben esitò, ma il medico lo invitò con lo sguardo
ad avvicinarsi al letto.
Quindi il poliziotto si diresse verso la sedia e prese posizione.
Rimase per qualche secondo a fissare il collega disteso sul letto,
prima di
decidersi a svegliarlo.
Poi cominciò a chiamarlo, piano.
«Semir... Semir, so che puoi sentirmi... apri gli
occhi...».
Per un minuto lunghissimo non accadde niente.
Poi, sul viso di Semir si dipinse una smorfia di dolore.
Schiuse
gli occhi, lentamente.
La luce gli dava fastidio.
Sarebbe rimasto nel buio confortante che lo aveva circondato fino a
quel
momento, ma una voce lo stava chiamando e lui conosceva perfettamente
quella
voce.
Fece uno sforzo immane per sollevare del tutto le palpebre e
impiegò qualche
secondo a trovare con lo sguardo la fonte di provenienza di quella voce
che lo chiamava.
Ma poi lo vide, alla sua destra, sorridente.
Semir richiuse in fretta gli occhi, provando una fitta acuta di dolore
all’altezza del bacino, che si irradiò poi per
tutta la schiena.
Poi li riaprì, ma il dolore non era passato.
Gli faceva male anche la spalla. E il torace. E la testa.
Prima che potesse provare a dire qualsiasi cosa, un’altra
figura maschile entrò
nel suo campo visivo. L’aveva già vista, forse il
giorno prima.
La figura in camice bianco parlava, ma Semir sentiva tutto ovattato.
Solo dopo
un po’ i suoni divennero più nitidi e lui
riuscì a comprendere che cosa il
dottore gli stesse dicendo.
«Ispettore? Ispettore, mi sente?».
Semir avrebbe voluto annuire, ma fece una fatica enorme per provare a
muovere
la testa.
«Ispettore... ha male? Sente dolore?».
Il turco provò di nuovo ad annuire, ma la verità
era che la smorfia sul suo
viso rispondeva già da sola a quella domanda.
Con la coda dell’occhio vide il medico selezionare qualcosa
su un macchinario
alla sua sinistra e, poco dopo, il dolore era un po’
diminuito.
«Così andrà meglio... riesce a parlare,
ispettore Gerkhan?» gli chiese ancora
la figura in camice bianco.
Semir aprì la bocca e
non ne uscì alcun
suono.
«Okay, non si preoccupi...» cominciò il
dottore, ma lui si sforzò e lo
interruppe.
«Ci... ci riesco...» mormorò, con un
filo sottilissimo di voce.
«Bene, molto bene.» commentò ancora il
medico.
Ora la vista era diventata più nitida e Semir
poté distinguere chiaramente il
profilo di quell’uomo. Sulla cinquantina, ingrigito, grandi
occhi azzurri e un
sottile paio di occhiali sul naso triangolare. Sulla tessera appesa al
taschino
del camice spiccava il nome Christopher
Schneider.
«Io sono il Christopher Schneider, ci siamo visti
già ieri sera. Vorrei farle
qualche veloce controllo prima di lasciarla solo con il suo collega, va
bene?»
fece l’uomo, estraendo una piccolissima torcia dal taschino.
Controllò la reazione pupillare, poi gli fece qualche
domanda su chi fosse per
constatare che non avesse alcun problema di amnesia.
Gli chiese poi di stringere le sue mani e di spingere con i piedi
contro i
palmi delle sue mani aperte, con tutta la forza che aveva.
Terminati questi rapidi controlli, annuì e scrisse qualcosa
sulla cartellina
che reggeva tra le mani.
«Bene, ora vi lascio soli. Qualche minuto, Ben.»
concluse velocemente.
Quindi lasciò la stanza, tirandosi la porta alle spalle.
Ben
non parlò subito.
Guardò il suo socio per almeno un minuto senza proferire
parola.
Semir, invece, non lo guardava neanche. Ruotare la testa verso la sua
direzione
gli comportava troppa fatica.
Il più giovane lo intuì, quindi dopo quel minuto
di totale silenzio si alzò
dalla sedia e si sporse per rientrare nel suo campo visivo.
«Semir... socio, sono contento che tu sia sveglio.»
disse, semplicemente.
«Ben... pensavo... pensavo...».
«Sì, lo so.» lo interruppe Ben,
evitandogli la fatica di continuare «So che
Keller ti aveva detto di avermi ucciso, ma ti assicuro che fino a due
giorni fa
io non lo avevo neanche mai visto personalmente. Non è mai
venuto a cercarmi,
voleva solo che tu credessi che io fossi morto.».
Semir annuì debolmente.
Non riusciva a muovere un muscolo senza che fitte di dolore si
irradiassero da
ogni parte del corpo e quella condizione gli creava uno strano senso di
ansia.
«Le... le bambine...» mormorò, senza
terminare la domanda.
Non ci riusciva.
Ben trasalì. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato.
Percorrendo in moto la
strada che separava casa sua dall’ospedale aveva pensato e
ripensato a quella
domanda, che l’amico gli avrebbe sicuramente posto appena
sveglio. Aveva
provato a immaginare che cosa sarebbe stato meglio rispondere, ma non
era
giunto a nessuna conclusione. Aveva preparato persino un abbozzo di
discorso,
ma entrando in quella stanza se lo era immediatamente dimenticato.
E ora, non sapeva che cosa dire.
Ma, nell’indecisione, fece la cosa peggiore che avrebbe
potuto fare: esitò.
E Semir se ne accorse.
L’elettrocardiografo cominciò a inviare suoni
sempre più ravvicinati tra loro e
Ben si allarmò subito.
«Semir... Semir, no, ascolta, calmati...».
Ma lui non lo ascoltava. Annaspava per dire qualcosa e i suoi occhi
erano colmi
di terrore.
«Dimmi... dimmi come stanno... le bambine... Ben...
dimmelo.» balbettò, a
fatica.
«Sì, ma tu calmati, Semir, ti prego!»
quasi gridò il più giovane, mentre i
battiti cardiaci dell’amico acceleravano ancora.
«Ascolta, Aida sta bene. Non si è fatta nemmeno un
graffio, hai capito Semir?
È... è un miracolo, non si è fatta
niente e sta bene.» spiegò, sperando che
cominciare con una buona notizia lo avrebbe calmato.
Invece, inaspettatamente, quelle parole gettarono Semir ancora
più nella paura.
Se il collega gli parlava solo di Aida, se premeva sul fatto che lei
stesse
bene, allora Lily...
«Hai capito, Semir? Aida sta bene.».
Ma Semir non lo ascoltava. Improvvisamente, gli sembrò di
non riuscire più a
respirare bene e si sentì come se un macigno gli fosse
piombato sul torace e
premesse con forza per farlo soffocare.
«Mi... mi sento...» bisbigliò, in preda
al panico.
Ma non riuscì a terminare la frase.
I macchinari cominciarono a lanciare veri e propri segnali di allarme e
le
palpebre di Semir lentamente si abbassarono.
Ben andò in panico, esitò persino a premere il
tasto per le emergenze. Ma prima
che potesse fare qualsiasi cosa, il dottor Schneider si
catapultò nella stanza,
intimandogli di uscire.
«Dannazione Ben, ti avevo detto di non farlo
agitare!» disse a denti stretti
prima di chiudersi la porta alle spalle.
Evidentemente era rimasto dietro la porta tutto il tempo e aveva
immediatamente
sentito i segnali acustici che indicavano che fosse successo qualcosa.
Accadde tutto a una velocità incredibile.
Ben uscì, ma rimase a guardare dal vetro Chris che
armeggiava sul letto del
paziente insieme a un’infermiera.
Li vide mentre spostavano Semir su una barella e poi li vide uscire
dalla
stanza di corsa, trascinando la barella con loro.
Dovette spostarsi per farli passare e li seguì con lo
sguardo mentre si
dirigevano velocemente verso la sala operatoria.
Era
passata solo un’ora quando
Chris Schneider uscì dalla sala operatoria e gli
andò incontro.
Lui lo attendeva lì, immobile, accasciato su una di quelle
scomode sedie che lo
avevano ospitato così spesso negli ultimi giorni.
Si protese verso il medico per chiedergli che cosa fosse accaduto, ma
questi
preferì sedersi accanto a lui.
Si tolse gli occhiali con un gesto nervoso e lo fissò negli
occhi. Sembrava
turbato, e questo mandò Ben ancora più in
confusione.
«Chris, perché quell’espressione?
È... lui è...».
«Vivo.» concluse l’uomo al suo posto
«Ma non sta bene, Ben.».
Il giovane ispettore si prese la testa tra le mani, spostando lo
sguardo a
terra, con un sospiro.
«Ha avuto un’ischemia miocardica acuta.»
continuò Schneider, con un lieve
sospiro «Il dottor Franz, il chirurgo cardiotoracico, ha
dovuto eseguire
un’angioplastica coronarica d’emergenza. Sono qui
io a parlarti perché lui sta
terminando i controlli post-operatori. In realtà si tratta
di un intervento di
routine, poco invasivo. Ma Semir era già davvero molto
debilitato e si tratta
comunque di un altro intervento, per cui...».
«Chris.» lo interruppe Ben, tornando a guardarlo
negli occhi. Era la prima
volta da quando lo aveva conosciuto che il medico non andava dritto al
punto.
«Avevamo detto niente giri di parole.».
Il chirurgo annuì, con un altro sospiro.
«Sono rimasto in sala a seguire l’intervento.
È andato in arresto due volte,
Ben. Franz l’ha ripreso, ma non ho idea di come
sarà il decorso
post-operatorio. Normalmente il giorno dopo i pazienti tornano a casa
se hanno
subìto un intervento del genere, ma il dottor Franz teme che
Semir possa non svegliarsi.».
«Che cosa?».
«Ha subìto troppi interventi... ha
subìto troppo stress. La sopportazione ha un
limite, Ben, il fisico non può resistere a tutto. Io spero
che si svegli e che
stia bene, ma non è detto che questo accada, purtroppo sono
d’accordo con il
dottor Franz.».
Ben scosse il capo, aveva i pensieri confusi.
«Ma come... come è successo? Semir non ha... non
ha mai avuto problemi di cuore
e...».
«Ben, Semir e il suo cuore ultimamente hanno avuto un bel
peso da sopportare.
Lo shock emorragico e i due interventi al cervello dei giorni scorsi
hanno
sicuramente provato il cuore ulteriormente e un cuore provato
è più sensibile
allo stress, cronico o acuto che sia. In caso di stress psicologici
acuti possono
verificarsi aritmie anche improvvise, o vasocostrizione, che a loro
volta
possono portare all’innesco di un’ischemia
miocardica acuta. Poteva succedere
ed è successo...».
Ben scosse ancora la testa. Quelle parole terribilmente razionali,
scientifiche
e vere, lo destabilizzavano.
«E non ho finito...» aggiunse il dottore, con una
certa timidezza nella voce.
«Che cos’altro è successo?»
domandò il poliziotto, in un sussurro. Non sapeva
più che cosa aspettarsi.
«Ecco... quando Semir era vigile, io gli ho fatto qualche
controllo, prima di
lasciarvi soli, ricordi?».
Il ragazzo annuì, invitando il medico a continuare.
«Gli ho chiesto di stringermi la mano e lo ha fatto. Poi
però gli ho chiesto di
spingere con i piedi verso i palmi delle mie mani...».
«Ti prego, Chris, non dirmi che...».
«Non ho sentito niente, Ben.» lo interruppe
Schneider, a bassa voce «Nemmeno una
forza leggerissima, niente. L’ho già detto al
chirurgo ortopedico, ci
lavoreremo insieme. Potrebbe essere stato un problema momentaneo, ma
fino a
quando Semir non si sveglierà non posso escludere
nulla.».
Ben annuì.
Se all’alba una speranza aveva illuminato la giornata, ora
quella speranza era
scivolata via, lasciando dietro di sé un baratro peggiore
del precedente.
«Comunque sia, Semir verrà monitorato in
continuazione, Lisa controllerà le
funzioni vitali ogni ora e riferirà ogni cosa sia a me sia
al dottor Franz.
Devi stare tranquillo.».
«Lisa?».
«La ragazza che hai visto ieri, è una
specializzanda. Mi piace, molto
responsabile.» assicurò Schneider, con un lieve
sorriso. Poi si alzò dalla
sedia.
«Mi dispiace per quello che ti ho detto prima, Ben, che non
avresti dovuto
farlo agitare. Cancella quella frase, okay? Quello che è
successo non è in
alcun modo colpa tua. Ricordalo, Ben.» aggiunse poi, prima di
allontanarsi.
N.d.A.
Sembrava stesse accadendo qualcosa di positivo, invece...
È una storia interminabile, ne sono consapevole, spero solo
di non annoiarvi troppo!
Grazie e a presto,
Sophie
|
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Capitolo 24 *** Equilibrio ***
Dal capitolo pecedente:
"«Avevamo detto niente
giri di parole.».
Il chirurgo
annuì, con un altro sospiro.
«Sono rimasto
in sala a seguire l’intervento. È andato in
arresto due volte,
Ben. Franz l’ha ripreso, ma non ho idea di come
sarà il decorso
post-operatorio. Normalmente il giorno dopo i pazienti tornano a casa
se hanno
subìto un intervento del genere, ma il dottor Franz teme che
Semir possa non svegliarsi.»."
GIORNO 23.
Ben
uscì dall’ospedale correndo.
Saltò in sella alla propria moto, allacciò la
cerniera della giacca e
si strinse nelle spalle, provando a non
pensare al freddo di dicembre che gli penetrava nelle ossa e che lungo
il
tragitto si sarebbe rivelato ancora più pungente.
Partì, con un sospiro.
Parcheggiò
a pochi minuti dal centro, si tolse il casco e lo ripose nel
portaoggetti con
un gesto meccanico.
Quindi, iniziò a camminare.
Non sapeva esattamente dove si sarebbe diretto, ma non importava: aveva
bisogno
di distrarsi, di vedere un pezzo di mondo che non fosse
l’ospedale o il
commissariato.
In realtà in ospedale c’era stato poco, quel
giorno.
Semir non si era svegliato, il dottor Schneider non gli aveva dato
ulteriori
spiegazioni e rimanere a ciondolare ancora per quei corridoi gli era
parso
inutile.
Per
le strade di Colonia, in quel tardo pomeriggio, lasciò che
fosse la folla a
trasportarlo, folla che sembrava ancora più grigia di quella
giornata invernale.
Giunse di fronte al duomo in meno tempo di quanto si aspettasse, quindi
lo
aggirò sulla sinistra, senza degnare di uno sguardo la sua
imponenza, e si
avviò verso il ponte.
Sopra di esso la folla era più rada, ma sapeva che di
lì a poco i turisti
sarebbero accorsi a riempire tutto lo spazio pedonale, come sempre, per
scattare una foto del panorama al tramonto.
Lo stava attraversando a passo svelto ma, giunto al centro della
struttura, esitò
un attimo.
Quell’esile profilo di ferro costruito su una sbarra sottile,
posta oltre la
balaustra del ponte, lo aveva sempre incuriosito: era una scultura
grigia,
insignificante, a molti sconosciuta perché non in grado di
attirare più di
tanto l’attenzione. Ritraeva il profilo mal fatto di un uomo,
un alieno o
qualsiasi essere che potesse essere rappresentato con due braccia, due
mani,
una cassa toracica, retto su una gamba sola a fuggire il vuoto. Il
protagonista
della scultura era un individuo assolutamente anonimo, un filo di ferro
che
sostava in bilico su quella sbarra grigia, incurvato alla ricerca di un
equilibrio che gli mancava sotto i piedi, irrigidito dallo sforzo,
concentrato
nel tentare di non cadere giù, nel fiume.
Ben sospirò, appoggiandosi con i gomiti alla ringhiera,
osservando
quell’umanoide e sentendosi tanto come lui, alla ricerca di
un equilibrio che
pareva essersi spezzato.
La mattina stessa aveva parlato con Aida, che gli era scoppiata a
piangere tra
le braccia.
Quando lui le aveva chiesto che cosa fosse successo, dopo aver fatto
sì che i
suoi singhiozzi si calmassero, la bambina aveva risposto di avere solo
un po’
di mal di testa, e all’ispettore questa risposta aveva fatto
una tenerezza
infinita.
La verità era che da una settimana la sua vita era stata
totalmente sconvolta.
Che le mancava Lily. Che le mancavano papà e mamma. Che non
capiva.
Eppure diceva di avere mal di testa e, Ben ne era sicuro, lo faceva per
evitare
di farlo preoccupare, perché sapeva quanto anche lui stesse
male.
Scosse il capo, provando a pensare a come sarebbe stata la vita di Aida
se
Andrea e Semir non si fossero più svegliati. Ma
cacciò via quel pensiero prima
ancora di poter ragionarvi su, perché non poteva accettarlo.
Non poteva
finire così.
Pensò alla piccola Lily. Alla paura che doveva aver avuto
durante la prigionia,
alla paura che doveva aver avuto sotto quei massi. Sperò che
non avesse provato
dolore.
Ben strinse gli occhi, continuando a fissare l’acqua scura
sotto di sé, tentando
di fermare le lacrime.
Se anche Semir si fosse svegliato, quella notizia lo avrebbe distrutto.
E se non si fosse svegliato, la colpa sarebbe stata sua,
perché lo aveva fatto
agitare. Lo aveva fatto agitare, aveva dovuto subire un’altra
operazione per
colpa sua. Aveva quasi ucciso il suo migliore amico.
La testa cominciò a girargli, senza sapere più
come contenere e organizzare
quei miliardi di pensieri.
Avrebbe voluto premere un tasto, tornare indietro, risolvere tutto.
Trovare
Semir prima e sbattere Keller in galera. Ma non poteva.
Un
raggio di sole gli baciò il viso all’improvviso,
filtrando attraverso una
nuvola scura.
L’Hohenzollernbrücke era decisamente più
affollato, adesso.
Ben si passò una mano sugli occhi, si allontanò
dalla balaustra e tornò sui
suoi passi, di nuovo verso il duomo.
Alla sua sinistra un treno sfrecciò silenzioso verso la
stazione centrale,
riportandolo alla realtà.
La facciata laterale del duomo adesso aveva una strana sfumatura dorata
che lo
rendeva ancora più maestoso ai suoi occhi.
Sorrise, notando una ragazza che inquadrava proprio quella parte della
chiesa
con la propria macchina fotografica, senza escludere dalla foto
l’acero dalle
sfumature rossastre che sorgeva sulla parte iniziale del ponte.
Fermandosi nuovamente, si voltò, lanciando
un’occhiata al panorama che sorgeva
sull’altra sponda del Reno, al parco, alla torre della
televisione e al Köln
Triangle.
Poi
proseguì per la propria strada. Finì di
attraversare il ponte a passo svelto,
aggirò la chiesa fino a raggiungerne il portone principale
e, spinto da chissà
quale volontà, varcò la soglia.
L’interno era buio, silenzioso, solenne, le pareti alte e
incredibilmente
spoglie.
Si chiese quanto tempo fosse che non vi metteva piede, ma non si
curò di
trovare la risposta.
Si sedette su una panca, in fondo, solo.
E pregò.
N.d.A.
Capitolo
che ai fini della trama serve poco, piccolo stacco, a cui
tengo perché
è stato inserito in seguito, a storia già
terminata... perché quasi esattamente
un anno fa ho trascorso due giorni a Colonia, ho camminato su quel
ponte, sono
entrata nel duomo, ho assistito a quel tramonto, ho visto
quell’esile scultura
di ferro in bilico sul Reno e ho scattato questa foto, e non avrei mai
potuto non inserire tutto
ciò in
qualche modo nella mia storia.
A
presto!
Sophie
|
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Capitolo 25 *** Non è servito a niente ***
Dal capitolo precedente:
"Finì
di attraversare il ponte a passo svelto, aggirò la chiesa
fino a raggiungerne
il portone principale e, spinto da chissà quale
volontà, varcò la soglia.
L’interno era buio, silenzioso, solenne, le pareti alte e
incredibilmente
spoglie.
Si chiese quanto tempo fosse che non vi metteva piede, ma non si
curò di
trovare la risposta.
Si sedette su una panca, in fondo, solo.
E pregò."
QUATTRO
GIORNI DOPO – GIORNO 27.
«Come
sarebbe non lo sai?»
quasi gridò Ben, facendo
voltare due infermiere che camminavano lungo il corridoio. Era rosso in
volto e
si percepiva chiaramente la tensione che emergeva da ogni cellula del
suo
corpo.
«Ben, per favore...» provò a spiegare il
dottor Schneider, ma l’ispettore lo
interruppe immediatamente.
«Chris, ti rendi conto di quello che mi dici? Semir
è in coma da cinque giorni!
Cinque giorni e non siete stati in grado nemmeno di capirne il
motivo.».
«Te l’ho già detto, ha subìto
troppi stress. È questa la motivazione. Due
interventi al cervello e uno al cuore su un paziente già
debilitato come lo era
lui, Ben, era impensabile che non ci fossero conseguenze.»
riprovò a spiegare
il medico, mantenendo tuttavia la calma, parlando a un volume quasi
basso.
«Mi stai dicendo che Semir era già spacciato in
partenza?» gridò ancora Ben,
guardandolo negli occhi e pretendendo da quegli occhi chiari almeno un
po’ di
speranza.
Christopher scosse stancamente il capo «Ben... non sto
dicendo questo. Nel
pomeriggio chiederò un nuovo consulto del neurologo. Il
chirurgo che ha
eseguito l’angioplastica lo ha visitato di nuovo ieri
pomeriggio e continua a
credere che l’intervento sia stato solo la goccia che ha
fatto traboccare il
vaso, per così dire.».
Il ragazzo annuì, lasciandosi cadere su una sedia,
riprendendo finalmente
fiato.
«E... Andrea?».
«Stazionaria...».
«Chris, sinceramente... credi che...».
«No, Ben.» fece il medico, assertivo, scuotendo il
capo «Sono passati undici
giorni e non si è svegliata. Ogni tanto i miracoli accadono,
ma io non voglio
darti false speranze, lo sai. E poi, se anche si svegliasse, dubito che
non
riporterebbe danni permanenti, a questo punto.».
Ben annuì lentamente.
«Chris, ancora una cosa... Semir... tu credi che non abbia
più possibilità?
Davvero nemmeno un po’?».
L’uomo si strinse appena nelle spalle. Si tolse gli occhiali
e cominciò a
pulirli meccanicamente con un lembo del camice, come faceva spesso
quando era
nervoso o imbarazzato.
«Vuoi una risposta da medico, Ben?».
«Voglio una risposta sincera.».
«Io credo che il tuo collega non
voglia
svegliarsi.» disse Schneider, infine «Credo che
Semir non voglia vivere, Ben.
Credo che abbia sopportato troppo. Mi sono informato su quello che
è successo
in quell’edificio, sai? Io credo... credo che quel pazzo,
quell’evaso abbia
raggiunto esattamente il suo obiettivo.».
Quando,
poco dopo, Ben entrò
nella stanza del suo migliore amico, solo, fece appena in tempo a
chiudersi la
porta alle spalle che le lacrime cominciarono, calde, a rigargli il
viso.
Si lasciò andare a un pianto disperato.
Era stanco, terribilmente stanco.
Andrea non si sarebbe svegliata, Lily era morta, Semir era
lì davanti a lui ed
era immobile. Quella che aveva sempre considerato la sua seconda e
più vera
famiglia era stata disintegrata e lui si sentiva perso. E solo.
Si sedette accanto al letto dell’amico senza riuscire a
frenare le lacrime e
una rabbia indescrivibile cominciò a montare dentro di lui.
Verso Keller, verso
se stesso, verso il mondo intero.
«Non è giusto...» cominciò a
mormorare, tra i singhiozzi, per poi alzare sempre
più la voce «Non è giusto! Semir, ti
devi svegliare, maledizione! Non ci credo
che tu non voglia vivere, vivi! Vivi, porca miseria, svegliati...
svegliati!»
gridò, rosso in volto, girando scattosamente per la stanza.
«Svegliati...» ripeté, in un sussurro,
sedendosi di nuovo accanto al letto, con
la testa stretta tra le mani.
Quando risollevò la testa, però, il cuore per
poco non gli si fermò nel petto.
Con le lacrime che ancora gli rigavano le guance, rimase immobile, a
bocca
aperta.
Due occhi stanchi lo stavano osservando.
«Semir...
Semir... non ci posso
credere, Semir, sei sveglio?» fece Ben, incredulo, senza
sapere più se ridere o
piangere «Sei sveglio?».
Semir si sforzò di sorridere.
«S-socio...».
«Oddio, Semir, sei sveglio. Non posso crederci...»
continuò il più giovane, in preda
a un’eccitazione incontrollata «Non ci posso
credere.».
«Socio...» mormorò l’ispettore
disteso, facendo una fatica immane per parlare.
Aveva male ovunque, la luce gli dava fastidio e la testa gli pulsava.
«Semir, non parlare, okay? Non ti sforzare.» fece
Ben, sporgendosi verso di lui
e stringendogli una mano, per fargli capire di essergli vicino
«Non parlare...
ora chiamo il medico, va bene?».
Semir aprì la bocca per controbattere, ma una smorfia di
dolore gli si dipinse
in viso e lui non riuscì a proferire parola.
«Non ti sforzare.» ripeté Ben, prima di
allontanarsi dal letto per sporgersi
nel corridoio a chiamare qualcuno.
Un
quarto d’ora dopo, Christopher
Schneider aveva effettuato sul paziente ogni genere di controllo.
Ben aveva assistito alla visita e aveva visto
l’incredulità negli occhi del
medico farsi sempre più grande alla fine di ogni piccolo
test, il che gli aveva
fatto sperare che, nonostante tutto, il collega stesse effettivamente
meglio.
«Molto bene.» commentò infatti il
neurochirurgo, controllando gli ultimi
riflessi di Semir «Davvero molto bene. Ovviamente
è ancora molto debole, ma
direi che siamo sulla buona strada.».
«Ben...» mormorò Semir, con un filo di
voce, senza considerare le parole del
medico «Le... le bambine... dimmi... delle
bambine...».
Negli occhi dell’ispettore più giovane si dipinse
il terrore.
Guardò Chris e vide nel suo sguardo un tacito rimprovero.
Quindi tornò a rivolgersi all’amico
«Semir, devi riposarti adesso, va bene?
Domani ti racconterò tutto, non ti preoccupare.».
«Ma... Ben...».
«Fidati di me, Semir... fidati.» concluse Ben, con
un mezzo sorriso, mentre
Schneider annuiva, scrivendo qualcosa sulla cartella del paziente.
«Ispettore Gerkhan, ripeterò ogni controllo
domani.» fece il medico,
interrompendo volutamente la conversazione tra i due «Nel
frattempo, però, le
somministrerò una lieve dose di sedativo. Voglio che
stanotte dorma, ha bisogno
di recuperare energie.».
Semir si limitò a guardarlo. Parlare era troppo faticoso e
comunque sapeva che
difficilmente avrebbe potuto dissentire.
«Lisa si occuperà del sedativo.»
aggiunse il dottor Schneider, mentre una
ragazza dai lunghi capelli biondi si materializzava nel campo visivo di
Semir e
selezionava qualcosa su un macchinario.
Semir la vide premere un tasto con decisione, poi guardare il medico in
cerca
di una conferma.
Udì ancora il dottore dire qualcosa a Ben, forse di seguirlo
fuori, ma i suoni
si fecero lontani, le voci confuse e le palpebre terribilmente pesanti.
Cedette al sonno quasi subito. Era stanco, davvero tanto stanco.
«Hai
fatto bene a non dirgli
niente riguardo alle bambine, Ben.» disse Chris, non appena
furono usciti dalla
stanza.
«Ma come farò a evitare ancora
l’argomento?» domandò il ragazzo,
preoccupato.
Il medico lo guardò negli occhi.
«Non potrai evitarlo, ma dovrai affrontarlo con calma. Domani
sarà già più in
forze, non volevo gliene parlassi ora. Dobbiamo evitare altre
complicazioni,
Ben, non credo il suo fisico possa sopportare un pelo di
più».
L’ispettore annuì. Avrebbe fatto qualunque cosa
purché Semir si riprendesse e
di Schneider si fidava ciecamente, ormai.
«Comunque, Ben.» aggiunse il medico, scrutandolo
«Non so che cosa sia successo
là dentro poco fa... ma tu sei la dimostrazione vivente che
l’amicizia può
superare ogni cosa. Lo credo davvero.».
Ben
abbassò la maniglia e entrò
cautamente nella stanza numero 201.
Non vi metteva piede da ormai sei giorni, da quando Keller si era
sentito male
mentre parlava con lui.
Ad attenderlo, tuttavia, trovò l’uomo in posizione
semi-seduta e con una cera
decisamente migliore rispetto a quella della settimana precedente.
«Jager, qual buon vento.» disse, con
un’energia nuova nella voce. Non respirava
più affannosamente, non aveva più bisogno di
parlare a bassa voce o
interrompersi di tanto in tanto.
L’ispettore si sedette accanto al suo letto, senza fiatare.
I macchinari intorno al paziente erano spenti.
«Sto molto meglio, come vede. Domani mi dimettono.»
continuò l’uomo, tenendo
quelle fessure grigie ben fisse sul giovane.
«Andrà in carcere.» constatò
Ben, sostenendo il suo sguardo.
«Ormai dovrei chiamarla casa,
non è
così?» continuò lui, con un sorriso
beffardo.
«Keller... ora vorrei che mi spiegasse a cosa pensa che sia
servito quello che
ha fatto.».
Friedrich sorrise ancora, poi portò lo sguardo sopra al
lenzuolo bianco che gli
ricopriva le gambe, interrompendo il contatto visivo con il suo
interlocutore.
«Non capirebbe, Jager.».
Seguì un attimo infinito di silenzio.
«Mi sforzerò.» fece poi il poliziotto,
con un sospiro.
Keller scosse il capo, piano, fissando ora un punto indefinito lontano
da
entrambi.
«Credono tutti che io sia un mostro, non vedo
perché lei dovrebbe essere
interessato al mio lato umano.».
«Crede che io non la consideri un mostro?».
«Credo che lei, Jager, in fondo provi per me una certa
pietà.» affermò l’uomo,
con sicurezza «Altrimenti non sarebbe qui,
immagino.».
Ben si morse il labbro. Era vero. E non sapeva se sentirsi in colpa per
questo
oppure no. Vi erano momenti, come quello di qualche ora prima nella
stanza di
Semir quando ancora non si era svegliato, in cui odiava Friedrich
Keller con
tutto se stesso. Ma ve ne erano altri in cui sentiva
l’impulso di andarlo a
trovare, per capire, per provare a comprendere la sua mente.
Perché aveva
bisogno di trovare una ragione per tutto ciò che era
successo.
«Perché non mi risponde e basta?» gli
domandò stancamente, appoggiando i gomiti
sulle ginocchia, in attesa.
«Non è servito a niente, Jager.» disse
Keller, finalmente, continuando a
evitare il suo sguardo «Ma a volte l’uomo si
aggrappa alla vendetta quando non
ha più niente. Io volevo che Gerkhan avesse la vita
distrutta. Volevo che
desiderasse morire. Poi... poi ho visto quella donna e quelle bambine
fissarmi
negli occhi, terrorizzate, e non ho avuto il coraggio di sparare.
Perché erano
uguali a loro, Jager. Sparare a quelle piccole sarebbe stato come...
come
uccidere di nuovo le mie bambine. Loro non avrebbero voluto. E sparare
a quella
donna sarebbe stato come veder morire Isabelle, un’altra
volta.».
Fece una pausa, prendendo un respiro, prima di continuare.
«Kate questo non lo capiva. Lei era assetata di sangue, aveva
la mente
offuscata dalla vendetta molto più di me. Sa, Jager, io ho
capito che il suo
collega aveva ragione. Quando ha sparato, quel giorno di sette anni fa,
la mia
anima è morta ma il mio cuore ha continuato a battere:
questo non gli ho mai
perdonato. Avrei preferito che avesse ucciso me, quel giorno. Ma
Gerkhan aveva
ragione... non è stata colpa sua. Io gli stavo sparando
addosso e lui non
poteva sapere che l’auto sarebbe esplosa e soprattutto che
dentro di essa ci
fosse la mia famiglia. Ma io ho impiegato più di sette anni
per capirlo.».
Ben stava ad ascoltare, incredulo. Aveva notato molti segni di
cedimento in
quell’uomo da quando lo aveva conosciuto, ma non credeva che
davvero Friedrich
Keller si sarebbe aperto con lui a tal punto. Era un criminale temuto
in tutta
la Germania, lo era sempre stato, e stava conversando con lui. La nota
beffarda
permaneva nella sua voce, ma era più lieve, più
stanca, travolta da una marea
di altre emozioni che, tuttavia, quell’uomo ancora si
sforzava di mantenere
celate.
«Sa perché erano lì, Jager?»
continuò «Sa perché le mie bambine e
mia moglie
erano vicine al luogo dello scambio?».
Ben non rispose, aspettò che il criminale continuasse. Semir
gli aveva detto di
non aver mai capito perché la famiglia di Keller si trovasse
lì e nemmeno lui
aveva avuto idea di quale potesse esserne la ragione.
«Perché sarebbe stata l’ultima volta.
Perché avevo comprato quattro biglietti
per l’America, saremmo partiti subito dopo lo scambio. Avrei
cambiato vita,
Jager. L’avrei fatto davvero. E Gerkhan me lo ha impedito...
E io sono morto
quel giorno.».
La voce di Keller si incrinò leggermente.
«Come sta Gerkhan?» chiese poi, in un sussurro.
«Si è svegliato oggi.» rispose Ben,
cercando un contatto visivo con l’uomo
«Spero... che si riprenderà.».
«E la moglie?».
L’ispettore sospirò, alzando appena le spalle
«Non si è ancora svegliata. I
medici non sono positivi.».
Keller annuì.
«Gli dovrà stare vicino, Jager. Io non ho avuto
nessuno. Gli stia vicino...».
Ben annuì, anche se quella raccomandazione fatta da un uomo
come Keller gli
suonava bizzarra.
Senza nemmeno rendersene conto, gli rivolse un mezzo sorriso.
Poi, con un breve cenno di saluto, uscì dalla stanza,
diretto verso casa.
N.d.A.
Qualcosa
di positivo, forse, e un altro incontro con il nostro
carnefice.
Ma,
ma, ma...
Grazie
a chi è arrivato fino a qui, di cuore!
Sophie
|
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Capitolo 26 *** Pezzi di carta ***
Dal
capitolo 22:
"«E non ho
finito...» aggiunse il dottore, con una certa timidezza nella
voce.
«Che
cos’altro è successo?»
domandò il poliziotto, in un sussurro. Non sapeva
più che cosa aspettarsi.
«Ecco...
quando Semir era vigile, io gli ho fatto qualche controllo, prima di
lasciarvi soli, ricordi?».
Il ragazzo
annuì, invitando il medico a continuare.
«Gli ho
chiesto di stringermi la mano e lo ha fatto. Poi però gli ho
chiesto di
spingere con i piedi verso i palmi delle mie mani...».
«Ti prego,
Chris, non dirmi che...».
«Non ho
sentito niente, Ben.» lo interruppe Schneider, a bassa voce
«Nemmeno
una forza leggerissima, niente. L’ho già detto al
chirurgo ortopedico, ci
lavoreremo insieme. Potrebbe essere stato un problema momentaneo, ma
fino a
quando Semir non si sveglierà non posso escludere
nulla.»."
GIORNO
28.
Quella
mattina, Ben si svegliò
decisamente più riposato.
Arrivò in ospedale molto presto, passò da Andrea
per salutarla, sempre convinto
che lei lo potesse sentire, e imboccò poi il lungo corridoio
che lo avrebbe
portato verso la stanza di Semir.
Davanti a lui, però, a qualche metro di distanza, il
corridoio era ingombrato
da un gruppo di persone che avanzavano velocemente.
Ben corrucciò la fronte, poi distinse la Kruger e il
commissario dell’LKA e
immediatamente si ricordò le parole che gli aveva detto
Keller il giorno prima:
sarebbe stato trasferito in carcere.
Raggiunse il gruppetto di corsa.
Keller, in piedi sulle sue gambe, era ammanettato e trattenuto da due
agenti in
divisa dell’LKA, mentre i due commissari guidavano il gruppo
lungo il
corridoio, verso l’ascensore.
Vedendolo avanzare, Friedrich si arrestò, obbligando tutto
il gruppo a
fermarsi.
«Jager, vediamo se almeno lei riesce a esaudire le preghiere
di un povero
condannato a rimanere in un buco a vita.» disse non appena
l’ispettore fu
abbastanza vicino, in modo che tutti potessero sentirlo.
«Buongiorno, Jager.» fece Kim, ignorando le parole
dell’uomo.
Ben la salutò velocemente, soffermando però la
sua attenzione sul criminale.
«Che cosa sta dicendo?».
«Ha chiesto di poter passare dalla stanza di Gerkhan prima di
essere portato
via.» rispose la Kruger al suo posto «Ovviamente
non si può fare.».
«Jager...» provò a intromettersi ancora
Keller, piantando le sue iridi grigie
in quelle scure dell’ispettore.
«Non credo proprio che sia una buona idea.»
ribadì il commissario, senza
lasciare a Ben il tempo di esprimersi.
Quindi il gruppo ricominciò a camminare, ma Keller si
fermò un’altra volta.
Nonostante avesse le manette ai polsi, riuscì a sporgersi in
avanti e a tendere
la mano destra verso Ben.
Il giovane poliziotto rimase per un attimo immobile, a guardarla
interdetto.
«Insomma, Jager, almeno un saluto crede di potermelo
concedere?» fece l’evaso.
E Ben, senza capire, gli strinse la mano.
Il gruppo, per la seconda volta, ricominciò a camminare.
Quando raggiunsero la stanza di Semir, Ben si fermò, mentre
gli altri
proseguivano verso l’uscita.
Sentì Keller sussurrare qualcosa, passando davanti a quella
porta, e per un
attimo un brivido gli percorse inspiegabilmente la schiena.
«Noi sopravviviamo, Gerkhan.».
Poi Keller sparì in fondo al corridoio, insieme ai
poliziotti che lo
scortavano.
Finalmente solo, Ben aprì il palmo della mano destra,
contemplando interdetto
il foglio piegato che l’uomo gli aveva lasciato scivolare tra
le mani con la
scusa del saluto.
Corrugò la fronte e decise di aprirlo, ma un suono ovattato
di passi lo
distolse dai suoi pensieri: vide Schneider percorrere il corridoio a
grandi
falcate, andando verso di lui.
In fretta, ripiegò il foglio in modo che occupasse ancora
meno spazio e lo
lasciò cadere nella tasca della giacca.
«Pronto?»
esclamò Schneider,
sorridente, non appena lo ebbe raggiunto.
Ben annuì ricambiando il sorriso, sperando che il medico non
avesse notato il
foglio, o avrebbe sicuramente fatto domande.
«Allora entriamo.» continuò Chris,
abbassando con decisione la maniglia e
facendo ingresso nella stanza, seguito dall’ispettore.
Il
sole nitido di dicembre
penetrava dalla piccola finestra quadrata ritagliata nel muro e la
stanza era
più illuminata rispetto alle precedenti mattine.
Semir, disteso, aveva già gli occhi aperti.
«Buongiorno, ispettore!» esordì il
dottor Schneider, avvicinandosi al letto del
paziente «Come si sente oggi?».
Semir si limitò ad annuire leggermente, ad indicare che
stava meglio.
In realtà aveva difficoltà persino a respirare,
ma immaginava che questo il
medico lo avrebbe notato da sé.
Il dottore cominciò a girargli intorno, controllò
i monitor dei macchinari che
lo circondavano e iniziò i suoi scrupolosi controlli, mentre
Ben se ne stava in
disparte, lo sguardo perso nel vuoto.
Dopo aver controllato le varie reazioni, Chris scrisse qualcosa sulla
cartella,
come suo solito, poi annuì.
«Ben, ti aspetto qui fuori.» disse infine, con un
sorriso, lasciando la stanza.
Allora Ben sembrò riscuotersi e finalmente si
avvicinò all’amico, sedendosi
sulla sedia al suo capezzale.
«Ehi socio... come stai?».
Semir girò la testa sul cuscino in modo da poterlo guardare
negli occhi.
«Meglio...» mormorò «Ma...
le... le...».
«No, Semir, ascolta.» lo interruppe Ben,
immaginando dove il collega volesse
andare a parare «Domani parliamo di tutto, va bene? Ora devi
riposare ancora un
po’... okay?».
Il turco annuì debolmente, senza insistere.
«Tu come stai?» chiese ancora il più
giovane, sporgendosi verso di lui «Hai
ancora tanto dolore?».
«Un... un po’...».
«Starai meglio, Semir, fidati. Ce la farai.».
«Ben, ti prego...» riprovò Semir, con un
filo di voce «Dimmi... le bambine...».
Ben sospirò, lanciando un’occhiata
all’amico e una all’elettrocardiografo.
«Semir, domani ti racconterò tutto, ma non ti devi
preoccupare. Ti fidi di me,
socio?».
L’altro annuì, piano.
«Ecco, fidati. Ora ti devi riposare, va bene? Torno tra un
po’, Semir, non ti
preoccupare.» aggiunse il ragazzo, alzandosi dalla sedia.
Rivolse all’amico un ultimo sorriso e uscì quasi
di corsa dalla stanza,
fuggendo da quegli occhi che chiedevano solo di sapere.
Semir
guardò il collega uscire in
fretta dalla stanza e chiudersi la porta alle spalle.
Dal vetro coperto solo in parte dalle tendine, spiò quello
che accadeva
all’esterno.
Il dottore, quello che lo aveva visitato poco prima, attendeva a
braccia
conserte Ben appena fuori dalla porta e non appena lo vide uscire
accennò a un
sorriso. Poi però cominciò a parlare.
Lo vide scuotere la testa e vide l’amico fare altrettanto,
poi chiedergli
qualcosa, a cui il dottore rispose con un nuovo movimento negativo del
capo.
Semir vide quindi Ben sferrare un pugno contro il muro.
Sentì il cuore fermarsi per un attimo. Immaginava che cosa
il dottore potesse
avergli detto, ma averne la conferma gli posò un nuovo
macigno sull’anima.
Chiuse gli occhi.
Era stanco, aveva mal di testa e un dolore continuo e lancinante
all’altezza
del bacino e alla schiena, nonostante gli antidolorifici che il medico
gli
aveva somministrato.
E poi, non sentiva più le gambe. Non sentiva i piedi, niente.
Riaprì gli occhi, constatando stancamente di essere ancora
vivo.
Voleva sapere delle sue bambine, nessuno gli diceva niente e lui voleva
solo
sapere come stessero le sue bambine...
Ben,
uscendo, trovò Schneider ad
aspettarlo in corridoio a braccia conserte.
Lo accolse con un mezzo sorriso.
«Sei stato poco, Ben.».
«Sì, Chris, perché ho visto la tua
espressione quando sei uscito. Che cosa mi
devi dire? Che cosa hai notato dai controlli?».
Il medico scosse piano la testa «Le gambe, Ben.
Farò un esame specifico e
consulterò ancora il neurologo e l’ortopedico, ma
il tuo collega ha perso
sensibilità alle gambe. Credo sia a causa del trauma da
schiacciamento, abbiamo
rimesso insieme i pezzi del bacino, ma alcuni nervi sono rimasti
inevitabilmente danneggiati a causa dell’altra lesione,
quella vertebrale.».
«Mi stai dicendo che... che non potrà
più camminare? Mai più?»
domandò ancora
Ben, con la voce leggermente tremante.
Chris scosse nuovamente il capo.
E il giovane ispettore non ci vide più dalla rabbia.
Prima che Schneider potesse fare qualunque cosa, aveva già
scagliato un pugno
violentissimo contro il muro, e pezzetti bianchi di vernice erano
caduti a
terra.
«Ben, calmati.» fece il medico, trascinandolo a
forza lontano dal muro e
facendolo sedere «Per favore, Ben.».
«Ma che cos’altro deve succedere, Chris?»
quasi gridò il ragazzo, con gli occhi
asciutti ma la disperazione nella voce «Che
cos’altro gli deve succedere?».
«Ben, capisco come ti senti e sono d’accordo con
te, tutto questo fa schifo. Il
mondo, a volte, fa schifo. Ma tu ora ti devi calmare... fare
così purtroppo non
serve a niente.».
«Mi spieghi come faccio io, Chris?»
continuò Ben, implacabile «Come faccio a
dirgli tutto questo? Come farò a spiegargli che sua moglie
sta morendo, che sua
figlia è morta e che lui non camminerà mai
più? Come faccio!»
Il medico stava per replicare qualcosa, ma una voce alle sue spalle lo
precedette.
«Posso farlo io.» fece Margaret, con voce sottile
«Stavo cercando te, Ben, e ho
sentito tutto. Ti aiuterò io, se vuoi parlerò io
con Semir... però ti devi
calmare, non abbiamo bisogno che ti faccia del male anche
tu.».
La ragazza aveva gli occhi spaventati, ma parlava con decisione.
«Posso farlo io.» ripeté, avvicinandosi
all’ispettore, poggiandogli una mano
sulla spalla, mentre Schneider annuiva lentamente.
«No...» mormorò Ben, guardandola negli
occhi e ritrovando improvvisamente la
calma «Ti ringrazio Maggie, davvero. Ma devo farlo
io...».
N.d.A.
Ho
saltato una settimana causa problemi con il computer, ma eccomi qui,
e
sempre a portare buone notizie devo dire...
Grazie
sempre a chi continua a seguirmi e a presto!
Sophie
|
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Capitolo 27 *** Dolore ***
Dal capitolo precedente:
"«Ben, ti
prego...» riprovò Semir, con un
filo di voce «Dimmi... le bambine...».
Ben sospirò, lanciando un’occhiata
all’amico e una all’elettrocardiografo.
«Semir, domani ti racconterò tutto, ma non ti devi
preoccupare. Ti fidi di me,
socio?».
L’altro annuì, piano.
«Ecco, fidati. Ora ti devi riposare, va bene? Torno tra un
po’, Semir, non ti
preoccupare.» aggiunse il ragazzo, alzandosi dalla sedia.
Rivolse all’amico un ultimo sorriso e uscì quasi
di corsa dalla stanza,
fuggendo da quegli occhi che chiedevano solo di sapere."
Dolore
GIORNO
29.
Come
ormai ogni mattina, Ben
arrivò in ospedale trafelato.
Margaret gli aveva detto che sarebbe andata con lui, ma
l’ispettore non aveva
voluto aspettare e si era precipitato fuori di casa, mentre la ragazza
gli
gridava alle spalle che lo avrebbe raggiunto il prima possibile.
Quando imboccò il corridoio deserto, vide la figura di
Schneider allontanarsi a
passo svelto nella direzione opposta e accelerò per fermarlo.
«Ben, santo Cielo, mi hai spaventato!»
esclamò il medico, voltandosi, non
appena l’altro lo ebbe raggiunto.
«Scusa.» fece Ben, ansimando per riprendersi dalla
corsa che aveva fatto, senza
nemmeno avere un motivo per cui correre.
«Sei arrivato di corsa? Va tutto bene?».
«Sì, volevo solo sapere se ci sono
novità.».
Chris sorrise. Quel ragazzo gli faceva tenerezza. Da quando era
accaduto ciò
che era accaduto, non era trascorso un solo giorno senza che lui
passasse
dall’ospedale a chiedere come stesse l’amico o per
andarlo a trovare. Pensò che
il suo paziente fosse decisamente fortunato ad avere un amico come lui.
«In realtà sì, il tuo amico sta molto
meglio. Reagisce più prontamente agli
stimoli, parla senza troppa fatica. Ha dolore ovunque, è
normale, ma per il
resto non mi sarei mai aspettato una ripresa così
rapida.».
Ben sospirò e finalmente un sorriso si dipinse anche sul suo
viso.
«Allora ogni tanto qualcosa funziona.»
commentò, ringraziando il medico con lo
sguardo.
«Ora nella stanza ci sono la bambina e la nonna.»
lo informò Schneider e gli
occhi del poliziotto si illuminarono.
«Davvero? Ma è meraviglioso! Sono così
contento che Aida finalmente veda suo
papà... e farà bene anche a lui,
sicuramente.».
Seguì un attimo di silenzio, poi Ben si rabbuiò
di nuovo e il dottore se ne
accorse immediatamente.
«Che cosa c’è, Ben?»
domandò, in apprensione.
«Chris, io oggi dovrò spiegare a Semir come stanno
le cose, non credo che
accetterà ancora il mio silenzio.».
Il medico annuì «Fallo, Ben. Capisco che tu non
possa tenerlo all’oscuro di
quello che è successo. Solo, assicurati prima che lo possa
sopportare. Se vedi
che va in tachicardia o manifesta qualsiasi anomalia fisica, per
favore,
fermati e chiamami. Va bene?».
«Sì... sì, Chris, grazie. A
dopo.» lo salutò Ben.
Schneider gli sorrise e si allontanò, dirigendosi verso la
sala operatoria.
Quando
la porta si era aperta e
Aida aveva fatto il suo ingresso sorridente nella stanza, a Semir era
sembrato
che l’atmosfera grigia dell’ospedale diventasse
immediatamente luminosa e
serena.
Aida, la sua bambina. Era davanti a lui e stava bene.
«Papà!» esclamò lei,
catapultandosi verso il letto del padre a braccia aperte.
Poi, però, vedendo tutti i macchinari che lo circondavano,
si fermò
improvvisamente.
«Papà, ma se ti abbraccio ti faccio
male?».
Semir sorrise.
«Cucciolo... vieni qui...».
Aida si avvicinò piano, sporgendosi appena oltre il bordo
del letto per dare
almeno un bacio sulla guancia al papà.
Lui avrebbe voluto abbracciarla, prenderla e stringerla forte, ma non
poté fare
nulla di tutto ciò. Era disteso, riusciva a muovere giusto
la testa e le mani,
anche se ogni movimento era un dolore continuo.
«Come stai, cucciolo?» mormorò, con voce
bassissima.
«Io bene papi, ma tu? Hai dormito così tanto...
ora come stai?».
«Bene... meglio, non ti preoccupare...».
Solo in quel momento Semir si accorse che nella stanza c’era
qualcun altro.
Helen, la mamma di Andrea. Doveva aver accompagnato la nipotina e ora
assisteva
alla scena un po’ in disparte, addossata al muro, senza
parlare.
Sembrava invecchiata di dieci anni.
E mentre Aida gli parlava, imperterrita, di che cosa aveva fatto
aspettando che
lui si svegliasse, l’ispettore non poté fare a
meno di continuare a fissare
quegli occhi tristi, che lo guardavano senza sapere che cosa dire.
Quegli occhi
chiari e sbiaditi manifestavano dolore, troppo dolore. E il sorriso
debole che
la signora aveva dipinto sul viso era finto, terribilmente tirato, come
se
ormai da giorni lei si fosse abituata a mostrarlo pur senza avere
niente per
cui sorridere.
«Papi... papà, ma mi stai ascoltando?».
La voce squillante di Aida lo riscosse dai suoi pensieri e Semir
tornò a
guardare la figlia, distogliendo lo sguardo dalla suocera, che ancora
non aveva
proferito parola.
«Sì... Sì, Aida, ti ascolto.».
La bambina mostrò una smorfia indecisa. Il taglio sulla sua
fronte era ormai
guarito, ma ancora era coperto da un cerotto colorato.
Semir non sapeva come avesse fatto a non farsi del male con il crollo
di
quell’edificio, ma vederla sorridere e chiacchierare a
macchinetta lo aveva
decisamente sollevato.
Però era sola. Si trattenne a fatica dal chiederle dove
fosse sua sorella. Ma doveva
sapere...
«Aida, ora dovremmo lasciar riposare il tuo papà,
sai?» intervenne Helen,
parlando per la prima volta da quando era entrata nella stanza.
La bambina sbuffò.
«Però posso andare a salutare la mamma?».
Semir perse un battito. Aveva visto Kate sparare ad Andrea. Aveva visto
quel
lago di sangue. Era stato convinto che sua moglie fosse morta. E
adesso...
«A... Andrea sta... sta...» balbettò,
con gli occhi spalancati.
In risposta, da parte della suocera, ottenne soltanto un profondo
sospiro e un
cenno impercettibile del capo, che lo mandarono ancora più
in confusione.
«Helen... per favore...» mormorò Semir,
guardandola negli occhi, sperando che
almeno lei gli spiegasse qualcosa.
Ma l’anziana signora scosse solo il capo e non rispose.
«Riposati, Semir.» disse poi, piano, uscendo dalla
stanza.
La bambina lo salutò con un sorriso, poi seguì la
nonna oltre la soglia della
camera.
Ben
entrò cautamente, quasi
temesse di disturbare l’amico che, invece, era perfettamente
vigile e lo stava
aspettando.
«Ehi socio.» esordì, occupando la sedia
accanto al letto su cui l’altro era
disteso «Come stai oggi?».
«Meglio...».
«Hai visto Aida? Era contentissima di poterti venire a
trovare, finalmente.»
continuò il più giovane.
Ma Semir non lo ascoltava, seguiva il filo dei propri pensieri, senza
occuparsi
di che cosa l’amico stesse dicendo.
«Ben... Andrea... io pensavo fosse... fosse
morta...».
Ben sospirò. Aveva sperato per un attimo di poter evitare
quel discorso, di
poterlo rimandare ancora almeno per un giorno, ma in cuor suo sapeva
bene che
il collega avrebbe voluto subito sapere tutto.
«Semir... tu hai subìto tanti interventi e
l’ultima volta che ti sei svegliato
e abbiamo parlato poi ti sei sentito male... hai rischiato di non
risvegliarti
più.».
«Ben, ti prego... io devo... devo sapere...».
Il ragazzo sospirò ancora.
«Semir, io...».
«Per favore.» lo interruppe Semir «Per
favore, voglio... voglio sapere tutto.
Tutto. Posso sopportarlo... davvero… sono
pronto.».
Ben tacque per un istante lunghissimo.
Pronunciare quelle parole avrebbe fatto male a lui, nemmeno poteva
immaginare
quindi che cosa avrebbe provato l’amico ascoltandole.
Eppure, doveva dirglielo. Doveva dirgli tutto, per quanto fosse
orribile, per
quanto facesse male... lui aveva il diritto di sapere ogni cosa.
Prese un bel respiro, ben conscio del fatto che non esistessero le
parole
giuste.
Poi parlò, e sperò che quella conversazione
finisse in fretta, perché l’avrebbe
certamente detestata.
«Semir... allora, Andrea non è morta, ma
è arrivata in ospedale che aveva perso
davvero molto sangue ed era gravemente debilitata. È stata
operata, ma poi non
si è più svegliata.».
Semir annuì, sforzandosi con tutto se stesso di mantenere la
calma «Quanto...
quanto tempo è passato?».
«Tredici giorni... è in coma da tredici
giorni.» rispose Ben, provando a
mantenere un tono calmo e convincente, nonostante ciò che
aveva da dire non
fosse assolutamente tranquillizzante «I medici non sono
positivi. Loro dicono
che... pensavano che il suo cuore avrebbe smesso di battere
già il giorno
dell’intervento, pensavano che non avrebbe superato la notte.
Continuano a
ripetere che è solo questione di giorni. Però lei
è ancora viva, Semir, e
combatte. Quindi magari dovremmo sperare che...».
«Vai avanti, Ben.» lo interruppe il turco.
Ben si morse il labbro, lanciando un’occhiata fugace ai
monitor posizionati
attorno al letto dell’amico.
«Lily è... Lily è...».
Si bloccò.
Non riusciva a continuare.
L’elettrocardiografo accelerò appena il suo ritmo
e Ben lanciò uno sguardo
terrorizzato verso il collega, che però continuava a
fissarlo, in attesa.
«Ben, ti prego... vai avanti.».
«Lily è rimasta... lei è rimasta
schiacciata dalle pietre... cioè, quando i
soccorsi l’hanno tirata fuori lei era... era...».
Ben si bloccò di nuovo, senza trovare la forza di andare
avanti.
Vide Semir stringere le mani a pugno, sforzarsi di continuare a
respirare in
modo regolare, nonostante il suo battito cardiaco stesse accelerando
inevitabilmente.
«Ben... dillo...».
Il più giovane annuì per farsi forza da solo.
Prese un respiro.
Attese ancora qualche attimo.
«Non ce l’ha fatta, Semir. Lei è morta
prima che i soccorsi potessero fare
qualsiasi cosa e... Semir, mi dispiace così
tanto...».
Il silenzio si fece spesso, ingombrante.
Ma se Ben non era riuscito ad evitare che i suoi occhi diventassero
lucidi,
quelli di Semir erano ancora perfettamente asciutti.
L’elettrocardiografo decelerò, i battiti si
regolarizzarono, nonostante Ben non
comprendesse come ciò fosse possibile.
Semir continuò a stringere i pugni, senza dire niente.
Senza reagire.
Poi, rilassò appena le mani e puntò gli occhi
negli occhi dell’amico.
«Vai avanti, Ben.».
Il ragazzo scosse il capo, indicando di non avere niente da aggiungere.
«Ben, non... non sono stupido... non sento... non sento
più le gambe...» fece
Semir, continuando a guardarlo.
Ben annuì. Avrebbe preferito comunicargli almeno quella
notizia il giorno
successivo. Ma sapeva che ormai non avrebbe potuto scappare.
«È a causa della colonna sotto cui eri bloccato
quando ti abbiamo trovato. Ha
causato un trauma grave e il medico ha detto che... che probabilmente
non
potrai più camminare.».
L’amico annuì piano, ma rimase impassibile.
I suoi occhi erano ancora asciutti.
Il suo petto si alzava e si abbassava a un ritmo forzatamente normale.
«Socio...» disse Ben, dopo un altro attimo
interminabile di silenzio
«Ascoltami, io vorrei che tu...».
«Ben, per favore.» lo interruppe Semir, riuscendo a
evitare ancora per qualche
breve istante che la voce gli si incrinasse «Lasciami...
lasciami solo...».
«Semir, io credo che...».
«Ben, ti prego. Vai... lasciami solo.».
Il ragazzo sospirò piano.
Poi, senza aggiungere altro, uscì dalla stanza,
richiudendosi piano la porta
alle spalle.
Quando
fu uscito, Ben rimase in
piedi di fronte al vetro divisorio, spiando tra le pieghe della tendina
che lo
ricopriva le reazioni di Semir.
Lo vide stringere il lenzuolo tra le mani, stringere i pugni in modo
talmente
forte da far diventare le nocche completamente bianche.
Lo vide chiudere gli occhi e poi voltarsi dalla parte opposta, verso il
muro.
Così Ben non poteva guardarlo negli occhi. Ma vedeva ogni
singolo muscolo del
suo corpo in tensione.
Vedeva quei pugni chiusi che si stringevano ancora e ancora.
Poi lo vide sbattere i pugni sul letto con violenza, una, due, tre
volte.
E poi aprirli, finalmente, rilassando le mani, rimanendo immobile, con
il
torace che sussultava appena.
Solo dopo qualche istante si accorse che stava tremando.
Sussultava e tremava, ma continuava a rimanere girato e il collega dai
vetri
non poteva scorgergli il viso.
Con le lacrime agli occhi, Ben si avvicinò nuovamente alla
porta, pronto ad
abbassare la maniglia e rientrare nella stanza, ma qualcuno lo
fermò.
Un tocco delicato sulla sua spalla lo costrinse a voltarsi e il giovane
ispettore si trovò davanti agli occhi verdi di Margaret, che
lo fissavano
preoccupati.
«Devo tornare da lui... devo stargli vicino.»
balbettò Ben, allontanando
nonostante ciò la mano dalla maniglia.
Maggie scosse il capo, lentamente.
«Lascialo solo... da domani gli starai vicino, ma ora
lascialo solo, Ben.».
Ben la guardò negli occhi.
Annuì con un sospiro.
E poi l’abbracciò.
Stettero così, abbracciati in quel corridoio, per un tempo
infinito.
N.d.A.
Per me è stato il capitolo più difficile da
scrivere, spero risulti comunque
leggibile.
Purtroppo il mio computer mi ha abbandonato, ho salvato la storia, per
fortuna,
ma non i banner che avevo preparato... persi, tutti. Mi dispiace,
tenevo anche
a quelli, facevano in qualche modo parte della storia, ma purtroppo in
questo
periodo non ho proprio il tempo per ricrearli, quindi da ora in poi
niente più immagini,
a meno che il mio computer non esca dal letargo (eventualità
piuttosto
improbabile).
Grazie a chi continua a seguirmi, a presto!
Sophie
|
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Capitolo 28 *** Mai sola ***
Dal
capitolo precedente:
"«Devo tornare da lui... devo stargli vicino.»
balbettò Ben, allontanando
nonostante ciò la mano dalla maniglia.
Maggie
scosse il capo, lentamente.
«Lascialo
solo... da domani gli starai vicino, ma ora lascialo solo,
Ben.».
Ben
la guardò negli occhi.
Annuì
con un sospiro."
Mai
sola
GIORNO
30.
Aida
Gerkhan sbuffò rumorosamente.
La casa della nonna era vuota, terribilmente vuota.
Dopo aver fatto colazione, andò in camera a vestirsi, ma poi
si fermò udendo
qualcuno singhiozzare.
Cautamente, aprì la porta, avvicinandosi alla soglia della
cucina e notando la
nonna seduta al tavolo, con la testa stretta tra le mani e le guance
rigate
dalle lacrime.
Sospirò, piano, senza farsi vedere. Quindi tornò
in camera, finì di vestirsi e
estrasse dall’armadio lo zainetto che usava normalmente per
la scuola.
Lo riempì con l’ombrellino, la giacca che si era
tolta entrando la sera prima,
e il suo pupazzo preferito, quello che le aveva regalato zio Ben e che
aveva
sempre dormito con lei.
Chiuse lo zaino, attraversò il salotto in punta di piedi
stando bene attenta
che la nonna non si accorgesse di niente e abbassò piano la
maniglia della
porta di casa.
Poi uscì chiudendosi la porta alle spalle, senza guardarsi
indietro.
La
Kruger si strinse nelle spalle
e incrociò le mani sopra al ripiano della propria scrivania,
guardando il suo
ispettore con preoccupazione.
«Allora, novità
dall’ospedale?».
Ben, seduto di fronte a lei, sospirò scuotendo il capo.
«Jager, mi dica come sta Gerkhan. So che si è
svegliato tre giorni fa, mi è
stato detto che non poteva ricevere visite e quindi le ho chiesto di
tenermi
aggiornata, ma vedo che non...».
«Commissario, come vuole che stia?» la interruppe
il poliziotto, bruscamente
«Ieri gli ho dovuto dire tutto... gli ho dovuto dire di
Andrea, di sua figlia,
delle gambe...».
La donna abbassò lo sguardo.
«Come l’ha presa?» gli chiese, dopo
qualche attimo di silenzio.
«Ha voluto che lo lasciassi solo.»
ricordò Ben, con un sospiro «È troppo
da
sopportare, capo. Io non so davvero se ce la
farà.».
La Kruger annuì «Io so che Semir ce la
farà. E anche lei dovrebbe crederci. E
poi, Jager... dovrebbe tornare un po’ a lavorare, ormai sono
passate due
settimane da quando li abbiamo trovati e...».
«Certo, e magari dovrei anche trovarmi un nuovo collega, non
è così?» sbottò
l’ispettore, alzando la voce.
«Non ho detto questo, Jager.» ribadì
Kim, con un sospiro «Cerchi di capire, lo
sto dicendo per lei.».
Ben aprì la bocca per ribattere, ma venne interrotto da un
leggero picchiettio
sul vetro alle sue spalle: qualcuno stava bussando alla porta
dell’ufficio.
«Principessa,
che cosa ci fai
qui?» fece Ben, sorpreso, aprendo la porta a vetri e
trovandosi davanti la
piccola Gerkhan.
Aida sorrise e alzò le spalle «Cercavo te, zio
Ben.».
Il ragazzo la prese in braccio, mentre la Kruger, sempre seduta dietro
alla
propria scrivania, assisteva divertita alla scena.
«E sei venuta fino a qui da sola? Dov’è
la nonna?» domandò il poliziotto,
portandola dentro all’ufficio e facendola sedere
sull’altra sedia di fronte
alla scrivania.
La bambina si sistemò sul cuscino, lanciò una
breve occhiata intimorita alla
Kruger e poi tornò a rivolgersi a Ben, alzando gli occhi al
cielo.
«La nonna è a casa e piange.»
sentenziò.
Il poliziotto corrugò la fronte, ma Kim si
allertò subito.
«Tua nonna non sa che sei qua?».
Aida scosse il capo, risoluta.
«Jager, la chiami subito, sarà
preoccupata.».
Ben fece come il commissario gli aveva ordinato. Fortunatamente, la
bambina
conosceva a memoria il numero di telefono della nonna e lui
riuscì a contattare
Helen senza problemi.
L’anziana signora si era appena accorta della scomparsa della
nipote ed era già
stata presa dal panico, ma Ben la tranquillizzò e le disse
che l’avrebbe tenuta
lui per un po’.
Helen acconsentì, sollevata. Sapeva di potersi fidare di
quel giovane
poliziotto ed era contenta che la sua bambina fosse al sicuro e
soprattutto con
qualcuno che, in quel momento, sarebbe sicuramente stato più
in grado di badare
alla piccola rispetto a lei.
Terminata la telefonata, Ben tornò a rivolgersi ad Aida.
«Allora, principessa? Vuoi che ti porti a fare un
giro?».
La bambina scosse il capo, seria.
«Mi porti da papà?».
L’ispettore le sorrise «Certo che ti porto da
papà, andiamo. Capo, non ha
bisogno di me?» aggiunse, rivolto alla Kruger.
Lei scosse il capo e li salutò con un sorriso, mentre Ben e
Aida si
allontanavano mano nella mano.
Ben
guidò fino all’ospedale con
estrema calma e dal momento che in macchina la bambina sembrava non
avere
intenzione di proferir parola, fu lui a parlare per primo.
«Aida, come mai sei scappata da casa della nonna?»
domandò, con il tono più
accomodante possibile.
«La nonna piangeva, di nuovo.» rispose lei,
guardando fuori dal finestrino «A
casa la nonna piange sempre e io non ne potevo
più.».
Ben sospirò, svoltando a destra e immettendosi nel
parcheggio del grosso
edificio.
«La nonna sarà molto stanca, Aida, e
triste...».
«Sì, ma anche io sono stanca. E mi manca
Lily.» disse la bambina, tutto d’un
fiato.
Ben finì la manovra di parcheggio, poi si voltò a
guardarla.
Lei aveva gli occhi asciutti e sosteneva il suo sguardo, ma era ovvio
che
soffrisse. Era solo una bambina e si trovava in una situazione che lui
non
avrebbe mai e poi mai augurato a nessuno.
«E poi mi mancano anche mamma e papà... e la mamma
non si sveglia.» aggiunse
Aida, in un sussurro.
«Lo so, principessa, capisco come ti senti. Ma sono sicuro
che le cose
miglioreranno, e tu devi essere forte.».
La bambina annuì, poco convinta.
«Comunque ora andiamo da papà?» fece
poi, aprendo lo sportello per scendere
dalla Mercedes parcheggiata.
Ben
e Aida entrarono nella
stanza, trovando Semir disteso sul letto nella stessa identica
posizione in cui
Ben lo aveva lasciato il giorno prima.
Aveva gli occhi chiusi, ma li aprì non appena
sentì la maniglia abbassarsi.
Quando vide sua figlia correre verso di lui, accennò a un
sorriso.
«Cucciolo... ciao.».
«Come stai papi?» domandò la bambina,
subito dopo avergli dato un bacio sulla
guancia.
«Bene cucciolo... e tu?».
«Bene.» esclamò lei, di nuovo
improvvisamente allegra «Zio Ben mi ha portato
qui appena gliel’ho chiesto.».
Semir lanciò un occhiata al collega, rimasto fermo poco
distante dal letto.
«Grazie Ben.».
«Dovere, socio.» rispose il più giovane,
con un sorriso.
Poi iniziò a fingersi interessato ai vari apparecchi che
monitoravano le
funzioni vitali dell’amico, lasciando così Aida e
il padre alla loro
conversazione.
Aida gli raccontò di cosa avesse sognato quella notte, del
fatto che il giorno
prima con la nonna aveva cucinato una torta buonissima e di avere un
po’ di
disegni da portare a fargli vedere.
Parlò a ruota libera per quasi un quarto d’ora,
poi improvvisamente si fermò e
nella stanza calò il silenzio.
«Perché ti sei fermata, cucciolo?»
domandò Semir, dopo qualche secondo.
La bambina alzò le spalle, con un’espressione
buffa dipinta sul viso «Mi sa che
ho parlato un po’ troppo velocemente, papi.».
Poi entrambi sorrisero e anche a Ben, vedendoli, venne da sorridere.
Poteva solo immaginare quanto stesse male Semir, e vederlo sorridere
nonostante
tutto gli faceva immensamente piacere. La potenza di quella bambina era
incredibile.
«Ora vorrei andare dalla mamma, posso zio Ben?».
Il giovane ispettore la guardò con tenerezza «Ma
certo che puoi. Sai dov’è, in
fondo al corridoio, se inizi ad andare io ti raggiungo tra cinque
minuti e
prima dico una cosa al tuo papà.».
«Va bene. Ciao papi, vado dalla mamma.» disse
allora lei, rivolta al padre.
Semir annuì leggermente «Aida... dai un bacio alla
mamma da parte mia, va
bene?».
La bambina annuì e uscì sorridente dalla stanza.
Percorse con decisione il corridoio ed entrò nella stanza
della mamma facendo
bene attenzione a non far rumore.
La prima cosa che fece, fu avvicinarsi al letto e darle un bacio.
«Ciao mamma, questo è da parte di
papà.» le disse, come se Andrea potesse
sentirla e risponderle.
Poi, cominciò a parlarle.
Quando
furono rimasti soli, Ben
prese posto sulla sedia accanto al letto su cui era disteso
l’amico, a cui il
sorriso era scomparso dal volto nell’esatto istante in cui la
figlia aveva
messo piede fuori dalla stanza.
«Ehi socio... sai che la tua bambina è
un’eroina?» esordì il giovane ispettore
«È scappata di casa stamattina, questa
furbetta.».
Semir strinse gli occhi e corrugò la fronte
«Scappata di casa? Come... come
scappata?».
«Eh sì, voleva venire a trovarmi ed è
venuta da sola fino in commissariato. È
stata bravissima. Poi ho avvertito io la mamma di Andrea, non ti
preoccupare.».
«Si sarà spaventata...».
«Sì socio, ma sinceramente non me la sono sentita
di rimproverare Aida. È fin
troppo brava...».
Nessuno dei due parlò per un po’, poi fu di nuovo
Ben a riprendere in mano la
conversazione.
«Come stai, socio?».
«Meglio...».
«Non intendevo fisicamente.».
Semir lo guardò senza rispondere.
«Socio, forse parlare ti aiuterebbe.».
«Che cosa vuoi sentirti dire, Ben?».
Il ragazzo sospirò «Niente, Semir, vorrei solo
poterti aiutare.».
«Allora... pensa ad Aida, Ben.» rispose
l’altro, in un sussurro «Pensa ad Aida
perché... non voglio che si senta sola e io... io non posso
aiutarla. Quindi
pensa ad Aida...».
Ben annuì, piano.
«Non ti preoccupare, socio. La tua principessa non
sarà mai sola.».
N.d.A.
Piccolo e di passaggio... se non riuscissi ad aggiornare prima, buone
feste a
tutti!
Sophie
|
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Capitolo 29 *** Incubi ***
Dal
capitolo precedente:
"«Che
cosa vuoi sentirti dire, Ben?».
Il ragazzo sospirò «Niente, Semir, vorrei solo
poterti aiutare.».
«Allora... pensa ad Aida, Ben.» rispose
l’altro, in un sussurro «Pensa ad Aida
perché... non voglio che si senta sola e io... io non posso
aiutarla. Quindi
pensa ad Aida...».
Ben annuì, piano.
«Non ti preoccupare, socio. La tua principessa non
sarà mai sola.»."
Incubi
GIORNO
31.
Sopravviviamo. Noi sopravviviamo.
Una risata amara, un pianto femminile in sottofondo.
Una bambina, era una bambina che piangeva.
E poi quegli occhi grigi, sempre più vicini, sempre
più assetati di vendetta.
Noi sopravviviamo.
Sangue. C’era sangue sul pavimento polveroso, c’era
sangue sulle pareti, sangue
su quei corpi distesi, sangue su di lei...
E poi pietre, una pioggia di pietre che cadevano dall’alto.
Il pianto continuava, sempre più forte, ma la voce tagliente
non voleva saperne
di smettere di parlare. Quegli occhi grigi non smettevano di
avvicinarsi.
Sopravviviamo.
Il pianto si trasformava in grida, di dolore, di paura.
Grida terribili.
E lacrime.
Semir
spalancò le palpebre
all’improvviso, gridando.
Due mani salde lo tenevano immobile per le spalle.
«Ispettore, ispettore si calmi!».
Ma lui continuò a gridare, il terrore negli occhi, provando
a divincolarsi da
quella stretta nonostante il dolore a ogni parte del corpo. Sudava
freddo.
«Ispettore, la prego, si calmi. Era solo un incubo... solo un
brutto sogno.».
Lentamente, la visione gli si fece nitida.
Semir si zittì e smise di muoversi, provando a far tornare
il proprio respiro
regolare.
Chris Schneider allentò la presa su di lui e lo
guardò con preoccupazione.
«Era solo un incubo.» ripeté, mentre
lasciava le sue spalle e si sistemava gli
occhiali sul naso «Mi sente?».
Il paziente annuì, muovendo appena il capo, il respiro
ancora affannoso.
«Bene, okay, ora provi a calmarsi, per favore...».
Semir chiuse gli occhi, ma li riaprì immediatamente per
evitare che le immagini
del sogno tornassero prepotenti alla sua mente.
«Allora, come si sente stamattina?»
domandò il medico, mentre selezionava
qualcosa sui monitor accanto al letto.
«Vorrei... io vorrei vedere mia moglie...»
sussurrò Semir, cercando con il
dottore un contatto visivo.
L’uomo lo scrutò da dietro le lenti sottili, poi
sospirò leggermente.
«Non può alzarsi dal letto ispettore, mi
dispiace.».
«La prego... io vorrei...».
Schneider lo interruppe ancora prima che lui potesse finire la frase
«Deve
rimanere completamente immobile per ora.» spiegò,
assertivo «Tra qualche giorno
ne riparleremo, va bene?».
Semir scosse il capo, con l’ansia dipinta sul viso
«E se... se tra qualche
giorno lei sarà... se morirà?».
Il medico annuì, comprensivo «Ispettore, comprendo
la sua preoccupazione, ma mi
creda, ora non è fattibile che lei metta piede fuori da
questo letto. Sua
moglie ha dimostrato una forza non comune, è ancora viva
nonostante ogni medico
che abbia preso parte al suo caso avesse scommesso il contrario. Per
cui ora mi
dia retta, si riposi...».
Il poliziotto spostò lo sguardo da un’altra parte,
non replicò.
Sapeva che non sarebbe servito e sapeva perfettamente che da solo non
sarebbe
mai riuscito a muoversi.
Guardò per un po’ l’uomo in camice
bianco che si accingeva a fare altri
controlli su di lui, poi si sforzò ancora di parlare.
«Senta... non potrò camminare mai
più?».
Chris Schneider esitò parecchi secondi prima di rispondere.
«Ispettore...».
«Vorrei la verità.».
Il medico annuì, pur facendo una certa fatica a guardare il
suo paziente negli
occhi. Dopo tanti anni, ancora non si era abituato a comunicare
determinate
notizie. Non ci si sarebbe abituato mai.
«Oltre alla frattura del bacino, lei ha subìto una
lesione a carico delle
vertebre lombari, a causa di quella colonna sotto la quale è
rimasto
schiacciato... il chirurgo ortopedico ha dovuto prima occuparsi del
bacino
perché lei stava andando in shock emorragico e altrimenti
sarebbe morto, ma
quando ha potuto occuparsi della lesione vertebrale...».
«Dottore...».
«La lesione ha portato alla perdita della
funzionalità motoria delle gambe e
del bacino, ispettore. Nel momento in cui era chiaro che fossero
coinvolti
anche i nervi sono subentrato io, ho provato a intervenire, ma
purtroppo...
nemmeno io ero sicuro di quale sarebbe stato l’esito
dell’intervento prima che
lei si svegliasse. Ora sappiamo che la lesione è incompleta,
quindi recupererà
la sensibilità, ma non la funzionalità motoria,
appunto.».
«Quindi non... non camminerò mai
più?».
Il dottor Schneider scosse il capo, senza avere il coraggio di
aggiungere
altro.
Semir spostò lo sguardo sulla parete spoglia, allontanandolo
da quello del
medico.
Avrebbe voluto gridare finché avesse avuto fiato.
Avrebbe voluto solo gridare.
E poi chiudere gli occhi e, come per magia, non svegliarsi
più.
Quando
Schneider uscì dalla
stanza del suo paziente, si sentì improvvisamente esausto ed
ebbe bisogno di
sedersi. Si lasciò cadere su una sedia nel corridoio,
sentendosi come se tutte
le forze lo avessero abbandonato da un momento all’altro.
Quell’uomo gli ricordava tanto se stesso, solo qualche anno
prima.
Sospirò, passandosi una mano sugli occhi stanchi e
togliendosi gli occhiali,
per poi pulirne maniacalmente le lenti con un lembo del camice.
Vide Lisa, la specializzanda, percorrere il corridoio verso di lui, e
si alzò
per aggiornarla sulle condizioni del paziente.
Andandole incontro urtò contro un uomo, di cui
notò soltanto i ricci capelli
color carota.
Margaret
si rannicchiò di più sul
divano, tirando a sé le ginocchia, senza smettere di
scrivere.
Di tanto in tanto si fermava, assorta, davanti alla pagina virtuale
aperta
sullo schermo del piccolo portatile, rimaneva immobile a pensare e poi
riprendeva a battere veloce le dita sulla tastiera.
Trasalì non appena sentì il tocco dietro di
sé, ma si rilassò immediatamente
non appena Ben cominciò a massaggiarle delicatamente le
spalle, rimanendo in
piedi dietro alla spalliera del divano.
«Scrivi già?» domandò, con
uno sbadiglio.
Maggie lanciò un’occhiata all’orologio e
sorrise.
Era la prima volta da quando Semir era finito in ospedale, che il
ragazzo si
concedeva qualche ora di sonno in più. Erano le nove del
mattino.
«Diciamo che ho parecchia ispirazione.» rispose
lei, salvando e chiudendo il
foglio di Word su cui stava lavorando «E ho anche stabilito
quale sarà il
finale del romanzo. Però non puoi leggere fino a che non ho
finito.» ribadì,
voltandosi verso di lui e lasciandogli un leggero bacio sulle labbra.
Ben sorrise. Solo con lei riusciva a sorridere.
«Dovrei prepararmi e andare in ospedale da Semir.»
disse, rabbuiandosi
immediatamente.
La psicologa annuì, alzandosi dal divano e avvicinandosi al
piano della cucina
per preparare il caffè.
«Prendiamo un caffè prima, ti va?».
«Certo.» rispose il poliziotto, togliendo da una
delle sedie della cucina la
giacca che aveva indossato nei giorni precedenti e che aveva lasciato
lì la
sera prima.
La appese nell’ingresso e poi si diresse nuovamente in
cucina, ma quando
rientrò nella stanza trovò Margaret ferma sulla
soglia, con un biglietto
piegato in quattro tra le mani.
«Ti è caduto dalla tasca della giacca.»
disse lei, porgendoglielo e
domandandogli tacitamente di che cosa si trattasse.
Ben sospirò, rabbuiandosi ancora di più e
sedendosi al tavolo, rigirandosi il
biglietto tra le mani senza accennare ad aprirlo.
«Niente... non è niente.»
mormorò poi, posandolo al centro del ripiano.
Maggie lo guardò corrucciando la fronte, poi
versò il caffè fumante e gliene
porse una tazza.
«Niente sarebbe?».
Il giovane poliziotto esitò qualche attimo ancora.
«Me lo ha dato Keller, tre giorni fa, prima che lo
riportassero in carcere.»
confessò infine.
«E che c’è scritto?» chiese
subito la ragazza, incuriosita.
Ma rimase stupita davanti all’occhiata eloquente che le
lanciò Ben.
«Non l’hai letto?» intuì
«Perché?».
L’ispettore scrollò le spalle «Non
potremmo... aspettare un po’ prima di
leggerlo?».
Lei annuì, poco convinta, sorseggiando piano la propria
bevanda calda.
«Sai Maggie...» aggiunse Ben, in un sussurro
«Non voglio leggerlo adesso
perché... io non ho idea di che cosa quell’uomo
possa avervi scritto, ma potrei
aspettarmi di tutto da uno come Friedrich Keller. E io... io ora non
voglio
correre il rischio di poter provare pietà per lui. Non lo
sopporterei.».
Il
ragazzo dai capelli rossi entrò cautamente nella stanza,
guardandosi intorno
come se mostri inferociti potessero saltare fuori e aggredirlo da un
momento
all’altro.
Semir, spostando lo sguardo nella sua direzione, si stupì.
Era la prima visita
che riceveva al di fuori di quelle di Ben e di Aida. E non seppe
neanche se
esserne felice o meno.
«Hartmut?» mormorò, stringendo gli
occhi. La testa gli martellava.
Il tecnico della scientifica sorrise, andando a prendere posto sulla
sedia
accanto al letto.
«Ehi Semir... spero di non disturbarti, volevo solo farti un
salutino. Sai,
entrando in ospedale mi sono imbattuto in un paio di medici che
trasportavano
un nuovo ecografo... Sai come funziona? La frequenza degli ultrasuoni
utilizzati dovrebbe sempre essere maggiore di 20 KHz, ma è
scelta tenendo in
considerazione che frequenze maggiori hanno maggiore potere risolutivo
dell'immagine, ma penetrano meno in profondità nel soggetto.
Le onde sono
generate da un cristallo piezoelettrico inserito in una sonda che
permette agli
ultrasuoni di penetrare nel segmento anatomico esaminato e poi anche di
raccogliere il segnale di ritorno, che poi...».
«Hartmut...» lo interruppe Semir, con un filo di
voce «Perché... perché mi stai
spiegando come funziona un ecografo?».
Hartmut si bloccò, rimanendo per qualche istante in
silenzio, a pensare.
«In realtà... non lo so. È che, sai, mi
mancavano un po’ le tue interruzioni.».
L’ispettore sorrise: quel ragazzo era un vero disastro. Un
genio, ma pur sempre
un disastro.
«La verità, Semir, è che io non sono
bravo con le parole se non si tratta di
parole tecniche.» continuò Hartmut, spostando lo
sguardo sul pavimento sotto di
sé «Però volevo dirti che ci sono, se
hai bisogno. Voglio dire, non sarò bravo
a parlare ma posso sempre ascoltare.».
«Grazie, Einstein.».
«Stai male, Semir?» chiese il tecnico, vedendo che
l’altro stringeva gli occhi
e faceva fatica a tenerli aperti.
«Ho solo... mal di testa.».
«Okay, ti lascio riposare. Passerò nei prossimi
giorni. Mi raccomando, sbrigati
a guarire...».
Semir annuì, accompagnando con lo sguardo Hartmut mentre
usciva dalla stanza.
Poi, finalmente, chiuse gli occhi.
Aveva bisogno di dormire, anche se aveva una paura terribile che gli
incubi lo
assalissero ancora.
N.d.A.
Sarà l’aria natalizia a farmi aggiornare
così velocemente, con una storia che
di natalizio ha ben poco?
Sono capitoli lenti, lo so, spero non li troviate noiosi, ma non volevo
tralasciare nulla del “dopo”...
Un abbraccio e ufficialmente buon Natale!
Sophie
|
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Capitolo 30 *** Reazioni ***
Dal capitolo 9:
"Ben
andò a sedersi sul divano accanto a Jenny che, sola,
singhiozzava.
«Ehi...» fece il ragazzo, poggiandole una mano
sulla spalla.
«Ben, li hanno presi... io ero con Andrea, le bambine
dormivano... ero armata,
ero vigile, io ero attenta, lo giuro, ma mi hanno colpito in testa e
io...
io...».
«Tranquilla, Jenny, stai tranquilla. Non è stata
colpa tua, non avresti dovuto
essere da sola qui... Keller voleva questo fin dall’inizio,
non avresti potuto
fermarlo. Non avrei potuto nemmeno io.».
[...]
«Ben, se fanno
qualcosa alle bambine o ad Andrea...».
«Li troveremo,
Jenny. Li troveremo. [...] Andrà tutto bene...».
"
Reazioni
GIORNO
32.
Semir
aprì gli occhi, infastidito
dalla luce.
Aveva dormito e rispetto al giorno prima il mal di testa andava molto
meglio.
In compenso, però, i dolori a tutto il resto del corpo
sembravano aumentati. La
schiena e il bacino bruciavano terribilmente, ogni tanto qualche fitta
gli
toglieva il respiro.
«Buongiorno, ispettore.» esordì una voce
giovane, a pochi metri di distanza da
lui.
Semir sollevò del tutto le palpebre e notò una
ragazza bionda nella stanza. Non
si era nemmeno accorto che fosse entrata.
Era la stessa ragazza che nei giorni precedenti gli aveva controllato
scrupolosamente i parametri vitali, ma si era sempre rivolta al dottor
Schneider, chiedendo conferma del proprio lavoro. A lui aveva sempre
solo
rivolto qualche timido cenno di saluto.
Avrà avuto più o meno venticinque anni, Semir
immaginava si trattasse di una
tirocinante o una specializzanda.
«Buongiorno.».
La ragazza sorrise timidamente, avvicinandosi al letto. Non aveva
ancora
imparato a parlare ai pazienti senza farsi prendere
dall’imbarazzo e,
soprattutto, avendo intuito dai notiziari e dai giornali che cosa fosse
successo a quell’uomo, aveva il terrore di poter dire o fare
qualcosa di
assolutamente sbagliato anche solo respirando.
«Come si sente oggi?» domandò, con voce
gentile.
Semir sospirò piano. Detestava quella domanda.
«Vorrei vedere mia moglie...» disse, in un soffio.
L’aveva chiesto già il
giorno prima al dottor Schneider, ma non si sarebbe arreso alla prima
risposta
negativa ricevuta.
Lisa sorrise, dispiaciuta, scuotendo leggermente il capo «Mi
dispiace, ma temo
che per ora sia impossibile. Non può ancora alzarsi, il
dottor Schneider è
stato chiaro... non appena sarà possibile la
porterò io stessa da sua moglie,
glielo prometto.».
«Grazie. Mi dispiace insistere, ma io... io ho bisogno di
vederla.».
La specializzanda annuì, sforzandosi di non lasciarsi
sopraffare dall’emozione
davanti a quella richiesta, una palese e semplice richiesta
d’aiuto.
Dopo un attimo di silenzio, si avvicinò a un monitor e lesse
qualcosa,
corrucciando appena la fronte.
«Ispettore, il dottor Schneider ha deciso di diminuire le
dosi di
antidolorifici. Lei è già sotto diversi farmaci e
il dottore dice che
preferirebbe almeno diminuire un po’ le
quantità... ce la fa a sopportare il
dolore? Altrimenti posso chiedergli di...».
«No, ce la faccio.» la interruppe Semir.
Non voleva correre il rischio che lo intontissero ancora di
più. Voleva
rimanere lucido.
Lisa annuì ancora, digitando qualcosa sul monitor e poi
scrivendo a mano
qualcos’altro su un post-it, che si sistemò nella
tasca del camice.
«Allora io vado, se ha bisogno di qualunque cosa chiami. In
mattinata passerà
il dottor Schneider.» disse, dirigendosi verso la porta
«Ah, ispettore! Se ha
anche solo bisogno di parlare... mi chiami,
d’accordo?».
Semir annuì e sorrise debolmente, mentre la ragazza si
chiudeva la porta alle
spalle e si allontanava.
Ben
percorse il corridoio in
fretta, come faceva ormai sempre, anche quando non aveva alcun motivo
per cui
correre.
Sorpreso, vide un profilo conosciuto che lo precedeva di qualche metro
e andava
nella sua stessa direzione.
«Jenny!» chiamò, accelerando il passo
per raggiungerla.
La poliziotta si voltò e si fermò ad aspettarlo.
«Ben, ciao. Volevo vedere come sta Semir... non ero ancora
riuscita a
passare.».
«Anche io sto andando da Semir... credo che la Kruger prima o
poi mi caccerà
per sempre dal commissariato, non ci sono mai.» sorrise lui,
continuando a
camminare.
La ragazza alzò le spalle «Penso che la Kruger
capisca la situazione, Ben.».
«Sì, lo credo anche io.».
Si fermarono entrambi davanti alla porta della stanza di Semir,
trafelati senza
nemmeno conoscerne la ragione.
«Senti, che ne dici se vai tu da Semir, mentre io cerco il
medico e parlo un
attimo con lui? Poi arrivo.» propose Ben, allontanandosi.
Jenny annuì rivolgendogli un breve cenno di saluto, poi
posò la mano sulla
maniglia della porta.
Ma non la abbassò.
Ben
trovò Schneider davanti alla
porta della stanza di Andrea, poco distante da quella di Semir ma
dietro
l’angolo del corridoio, intento a scrivere qualcosa sulla
cartellina.
«Ehi Chris, ti disturbo?» domandò,
avvicinandosi a lui.
Il medico trasalì. Ma non appena riconobbe il ragazzo, si
rilassò e finì di
scrivere, per poi chiudere la penna
e
tornare a guardarlo.
«Ben, non ti avevo sentito arrivare.».
«Ci sono novità?».
Il medico scosse il capo con un sospiro «Né
miglioramenti né peggioramenti, che
in altri casi potrebbe anche essere una cosa positiva. Però
in questo caso...
Ben, ogni giorno sono sempre più convinto che Andrea non
abbia possibilità di
svegliarsi.».
L’ispettore annuì. Si aspettava esattamente quel
tipo di risposta.
«E Semir?».
«Non l’ho ancora visitato stamattina.»
rispose il dottor Schneider,
allontanandosi di qualche passo dalla stanza di Andrea
«Però ieri mi ha chiesto
se non potrà camminare mai più e io... io gli ho
detto che è così. E poi
continua a chiedere di vedere la moglie, ma ancora non me la sento di
farlo
alzare dal letto, è troppo debole.».
Ben annuì ancora «E non vuole parlare... non parla
di Lily...».
«Ben, queste cose richiedono tempo per essere
metabolizzate.» affermò il
medico, sistemandosi gli occhiali sul naso e guardando il suo
interlocutore
dritto negli occhi.
«Lo so, ma... insomma, mi aspettavo qualche reazione, invece
quando gliel’ho
detto Semir mi ha chiesto di lasciarlo solo, ma non... non ha reagito.
Almeno,
non come mi aspettavo. E non credo sia un bene.»
replicò il ragazzo, mordendosi
il labbro nervosamente.
«Infatti non è un bene.» fece Chris, con
un sospiro «Ma il dolore si può
manifestare in tanti modi, Ben. Io per esempio...».
L’uomo si bloccò all’improvviso. Non
aveva programmato questo. Non aveva
immaginato di parlargliene.
Ben corrugò la fronte, cercando con lo sguardo gli occhi del
medico, che ora
però erano rivolti a terra.
«Chris, tutto bene?».
«Ben, ho dei pazienti da controllare ora. Scusami.»
replicò lui. Poi lo salutò
frettolosamente e si allontanò, lasciandolo solo nel
corridoio deserto.
Quando
Ben imboccò nuovamente il
corridoio in cui si trovava la stanza di Semir, rimase sorpreso nel
trovare
Jenny ancora fuori dalla stanza, in piedi davanti al vetro che lasciava
intravedere l’interno, immobile.
«Jenny? Jenny, tutto bene?».
La ragazza trasalì e si voltò di scatto verso di
lui.
«Ehi, Jenny, non ti volevo spaventare. Stai bene?»
chiese l’ispettore,
avvicinandosi a lei con cautela.
La poliziotta annuì, tornando a fissare l’interno
della stanza attraverso le
tendine che coprivano il vetro.
«Sei entrata?» domandò ancora Ben, a
bassa voce.
La ragazza si limitò a scuotere il capo, senza guardarlo.
«Jenny...».
«Non ce la faccio, Ben.» mormorò poi,
guardandolo finalmente negli occhi. Una
lacrima le rigava la guancia sinistra «Non ce la faccio.
È colpa mia, non sono
riuscita a impedirlo... hanno preso Andrea e le bambine per colpa
mia!».
«Non è vero, non ci pensare nemmeno. Non
è stata colpa tua...».
«Io ero in casa con loro, avrei dovuto proteggerle! Avrei
dovuto...» Jenny si
bloccò, ormai in preda al pianto «Avrei dovuto
proteggerle...».
Ben la abbracciò.
La verità era che anche lui si sentiva in colpa.
Terribilmente.
La abbracciò e la tenne stretta a sé per un
istante lunghissimo.
N.d.A.
E con calma, con moltissima calma, ci avviciniamo a un’altra
piccola svolta.
Grazie sempre, buon anno!
Sophie
|
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Capitolo 31 *** Vivi! ***
Dal
capitolo precedente:
"«Io
ero in casa con loro, avrei dovuto proteggerle! Avrei
dovuto...»
Jenny si bloccò, ormai in preda al pianto «Avrei
dovuto proteggerle...».
Ben la abbracciò.
La verità era che anche lui si sentiva in colpa.
Terribilmente.
La abbracciò e la tenne stretta a sé per un
istante lunghissimo."
Vivi!
TRE
GIORNI DOPO – GIORNO 35.
Jenny
percorse il corridoio con
passo deciso, nascondendo al mondo i suoi timori: sarebbe entrata nella
stanza,
questa volta ce l’avrebbe fatta.
Raggiunse la stanza dove era ricoverato il collega e posò la
mano sulla
maniglia, con una sicurezza nuova nei movimenti. Non avrebbe mai smesso
di
sentirsi in colpa, probabilmente. Ma questo non era un buon motivo per
lasciare
solo un amico in un momento del genere, e Ben glielo aveva fatto capire
qualche
giorno prima.
Le aveva detto che la colpa era di tutti e di nessuno allo stesso tempo
e lei,
ascoltando quelle parole, aveva semplicemente deciso che ci avrebbe
creduto.
Abbassò la maniglia ed entrò, richiudendosi poi
la porta alle spalle.
Il silenzio la avvolse immediatamente, e la luce del sole che filtrava
dalla
piccola finestra di fronte all’entrata le ferì lo
sguardo.
Armandosi di sorriso, avanzò lentamente verso il letto e si
sedette accanto ad
esso, con cautela.
«Ciao, Semir.» mormorò poi, guardandolo
negli occhi.
«Jenny, ciao.» salutò lui, sorpreso di
vedere la giovane collega.
Lei sorrise, ma evitò di chiedergli come stesse, come tutti
facevano ogni
giorno, e questo a Semir fece molto piacere.
«Volevo solo passare a salutarti, poi torno al
comando.» disse la ragazza,
stringendosi nelle spalle «Sai, la Kruger è
piuttosto severa per quanto
riguarda gli orari, ultimamente. Senza te e Ben a tempo pieno, il
distretto
lavora a rilento.».
Semir accennò a un sorriso.
Aveva immaginato che Ben trascorresse poco tempo al comando e gli
dispiaceva.
Il ragazzo veniva a trovarlo in ospedale ogni giorno, poi andava a
trovare
Andrea e trascorreva anche intere ore con Aida. Ma sapeva che dirgli di
pensare
al lavoro sarebbe stato inutile.
«Semir, senti, ti devo dire una cosa.»
continuò Jenny, mentre il sorriso le
scompariva dalle labbra.
Prima di andare avanti, si sistemò sulla sedia e
sospirò profondamente «Mi
dispiace... mi dispiace tanto, tutto quello che è successo
è anche colpa mia.».
Il turco corrucciò lo sguardo «Non è
colpa tua...».
«Sì, invece. Io ero con Andrea e le bambine nella
casa protetta e io avrei
dovuto difenderle, proteggerle. Invece non ne sono stata capace e quei
due le
hanno prese perché io non sono stata in grado di oppormi. Mi
dispiace così
tanto...».
La ragazza si bloccò, la voce rotta dall’emozione.
«Non è colpa tua, Jenny.»
ribadì Semir, a bassa voce «Lui avrebbe... ci
avrebbe
preso comunque.».
Lui.
Da diciannove giorni a quella parte, non aveva più
pronunciato il suo nome.
La poliziotta annuì, sapeva che avrebbe dovuto accettare
quella spiegazione.
Avrebbe voluto chiedere al collega come stesse, ma non lo fece. Non se
la
sentì.
E quando aprì bocca per parlare, lo scatto della porta che
si apriva alle sue
spalle la interruppe.
Lisa
si affacciò alla porta, con
un sorriso a trentadue denti stampato in viso.
Guardò il suo paziente, ma poi lo sguardo le cadde sulla
giovane donna che era
seduta accanto a lui.
«Buongiorno, ispettore! Mi dispiace interrompervi... passo
dopo.» disse
velocemente, arretrando per richiudere la porta, ma Jenny la
bloccò, alzandosi
in piedi.
«Aspetti, non si preoccupi! Me ne stavo andando.»
disse, afferrando la borsa
che aveva lasciato sulla sedia e rivolgendo poi un cenno di saluto al
collega
«Ciao, Semir.».
Quindi uscì veloce dalla stanza.
Al
suo posto, Lisa si fece avanti
sempre con il sorriso.
Semir la guardò quasi sorpreso, chiedendosi come una ragazza
così giovane
potesse avere sempre il sorriso lavorando in un ambiente dove la morte
sembrava
incombere su tutto e su tutti.
«Ispettore, ho una notizia per lei.»
esordì, avvicinandosi al letto «Qualche
giorno fa le avevo fatto una promessa, ricorda?».
Gli occhi di Semir si illuminarono. Aveva capito dove la specializzanda
volesse
andare a parare. Aveva capito l’origine di quel sorriso, o
almeno lo sperava.
«Posso...».
«Sì!» lo interruppe lei, con
l’entusiasmo negli occhi «Oggi la porto da sua
moglie!».
Semir sorrise.
Era la prima volta, da quando si era svegliato, che Lisa vedeva il suo
paziente
sorridere davvero.
Ricambiando il sorriso, afferrò la sedia a rotelle che era
rimasta per tutti i
giorni precedenti immobile in un angolo della stanza e la
avvicinò al letto.
«Tra poco arriverà il dottor Schneider per
aiutarmi a farla alzare.» spiegò la
ragazza, fissando la sedia in modo che non si muovesse «Nel
frattempo io la
aiuterò a mettersi a sedere sul letto, va bene?».
L’ispettore annuì senza proferire parola e lei
continuò, imperterrita
«Convincere il dottor Schneider a fare questa cosa non
è stato affatto
semplice, ispettore, mi creda. Lui avrebbe preferito
attendere.».
«Grazie per avere insistito.» disse Semir.
Le era grato sul serio. Andare da sua moglie era stata
l’unica cosa che aveva
desiderato da quando si era svegliato. L’unica cosa che gli
era rimasta da
desiderare.
«Glielo avevo promesso.» ricordò Lisa,
guardandolo con dolcezza «Ora proviamo a
metterci seduti.» aggiunse poi, avvicinandosi al letto.
Reclinò leggermente il letto per rendere
l’operazione più semplice, quindi
prese il suo paziente per le spalle, provando a tirarlo su con la
maggiore
cautela possibile. Semir si sforzò di sollevare la schiena,
ma dopo un breve tentativo
ricadde disteso sul letto, con il respiro affannoso.
Non ci riusciva. Aveva male ovunque e non ci riusciva.
Lisa si morse il labbro, ma poi lo guardò negli occhi e
tornò a sorridere.
«Okay, non si preoccupi. Ora riproviamo, va bene?».
Riprovarono, ma il risultato fu se possibile peggiore del precedente.
Il dolore era insopportabile.
A Semir gli occhi diventarono appena lucidi «Non ce la
faccio...».
«Non lo dica nemmeno per scherzo.»
replicò lei, decisa «Lei oggi andrà da
sua
moglie, quindi ora riproviamo. Pronto, ispettore?».
Il poliziotto annuì debolmente.
«Okay... si tenga a me.» mormorò la
ragazza, prendendolo di nuovo per le
spalle.
Semir puntò il braccio non ingessato sul sottile materasso,
per darsi la
spinta. Poi, aiutato dalla specializzanda, lentamente e con una fatica
immane,
riuscì finalmente a raddrizzarsi e si ritrovò
seduto sul letto. Per la prima
volta dopo quasi venti giorni, non si trovava disteso.
Gli venne quasi da sorridere. Ansimante, cercò gli occhi
della ragazza per
ringraziarla.
«Ha visto, ispettore?» fece lei, aprendosi in un
nuovo sorriso «È stato
bravissimo.».
Poi, senza che nemmeno Semir se ne accorgesse, Lisa gli prese le gambe
e gliele
spostò, in modo che rimanessero a penzoloni fuori dal letto.
Fatto ciò, sorrise di nuovo, appoggiandosi le mani sui
fianchi e contemplando
il suo operato.
«Siamo stati bravi.» ripeté, con la luce
negli occhi.
In quell’esatto istante, il dottor Christopher Schneider fece
ingresso nella
stanza senza bussare.
La sua espressione cambiò non appena vide il suo paziente
seduto sul letto,
dipingendosi di preoccupazione, mentre lanciava uno sguardo di
rimprovero alla
giovane specializzanda.
«Mi sembrava di essere stato chiaro.»
tuonò, fulminandola.
«L’ho solo aiutato a mettersi seduto,
dottore.» spiegò la ragazza, abbassando
suo malgrado lo sguardo «L’avrei aspettata per
farlo scendere dal letto, non si
preoccupi.».
Il medico la squadrò con poca convinzione, poi si
sistemò gli occhiali sul naso
e decise di crederle, rilassando appena i suoi lineamenti.
«Come si sente?» domandò quindi, rivolto
al paziente «Le gira la testa?».
«Un po’.» confermò Semir,
ancora con il fiatone per lo sforzo di prima.
La verità era che la testa gli girava vorticosamente, non
solo un po’.
«È normale.» aggiunse Schneider
«Sicuro di voler andare oggi, ispettore?».
«La prego... lei stesso dice che potrebbe morire da un
momento all’altro. Io
voglio solo vederla.».
Il dottore annuì, con un sospiro.
«Bene, allora facciamo così: Lisa, tu tienilo da
quella parte. Prima avvicina
ancora la sedia.» ordinò, con un tono autoritario
che a Semir ricordò molto
quello della Kruger «Ecco, così. Ora, lo
solleviamo insieme e lo trasferiamo
sulla sedia, va bene? Ispettore, credo che non sarà
piacevole.».
Detto ciò, entrambi si avvicinarono al paziente e lo
afferrarono uno alla sua
destra e l’altra alla sua sinistra. Dopo essersi scambiati
un’unica occhiata,
lo sollevarono con forza.
Semir dovette sforzarsi per non gridare, ma in men che non si dica si
ritrovò
sulla sedia a rotelle e poté smettere di trattenere il
respiro come aveva fatto
durante il passaggio dal letto a lì.
La testa continuò a girargli senza sosta, almeno fino a
quando non chiuse gli
occhi. Poi li riaprì e gli sembrò che le pareti
della stanza e il pavimento
avessero smesso di barcollare e fossero tornate un po’
più dritte.
«Okay, bene.» fece il dottor Schneider, togliendo
il fermo alla sedia e
guardando il suo paziente negli occhi «Ce la fa a rimanere in
questa
posizione?».
Semir ricambiò lo sguardo, ma evitò di rispondere.
Si sentiva come se gli fossero state spezzate le ossa tutte insieme. La
schiena, stando seduto, faceva più male e persino la ferita
alla spalla aveva
ricominciato a bruciare.
Il medico sospirò, scuotendo appena il capo «Spero
di non pentirmi di averla
fatta alzare, ispettore. Lisa, lo accompagni nella stanza 301, in fondo
al
corridoio. Tra dieci minuti voglio che siate di ritorno, lo rimetteremo
a letto
insieme. Chiaro?».
La specializzanda annuì prontamente, spostandosi dietro alla
sedia e
spingendola in fretta fuori dalla stanza.
Il
breve tragitto che lo separava
dalla stanza della moglie, a Semir parve infinito.
Quelle piastrelle bianche si susseguivano senza tregua, tutte
terribilmente
uguali, e stare seduto gli costava una fatica inimmaginabile.
Sapeva che a qualsiasi cenno di sofferenza la ragazza lo avrebbe
riportato
indietro, quindi si sforzò di continuare a respirare
normalmente. Ma sudava
freddo dal dolore.
Lisa, alle sue spalle, lo immaginava. Ma lo avrebbe portato da sua
moglie,
convinta che comunque sarebbe stata la scelta migliore.
Raggiunta la stanza numero 301, si fermò, abbassò
la maniglia e spinse all’interno
la sedia, con calma.
Gli
bastò vederla da lontano,
perché il dolore fisico passasse completamente in secondo
piano.
Semir scorse il profilo di sua moglie non appena ebbero oltrepassato la
soglia
della stanza e una morsa strettissima gli attanagliò lo
stomaco, togliendogli
il respiro.
Lisa, alle sue spalle, se ne accorse e si fermò.
«Tutto bene, ispettore? Posso portarla accanto al
letto?» domandò,
pazientemente.
Lui annuì e la ragazza riprese a spingerlo fino a che non
ebbero raggiunto il
fianco del letto.
La specializzanda si fermò e bloccò con il fermo
la sedia a rotelle.
«Ora vi lascio, ma rimango qui fuori.» disse poi,
abbassando nettamente il tono
di voce «Se ha bisogno mi chiami, per favore. Va
bene?».
Semir annuì.
«Grazie.» mormorò.
Pochi secondi dopo, la ragazza era uscita fuori dalla stanza e si era
richiusa
la porta alle spalle, lasciandolo solo.
Semir
si sporse sulla sedia per
quanto gli fu possibile, avvicinandosi alla moglie distesa immobile su
quel
letto.
Era pallida. E terribilmente ferma.
Il bip continuo dei macchinari che
la
circondavano era l’unico suono udibile in quella stanza
dall’atmosfera
ovattata.
E lei era immobile.
Semir avrebbe voluto accarezzarla, ma non riusciva ad allungare il
braccio
ingessato. Così si limitò a posare la mano destra
sul letto e ad afferrare la
mano immobile di Andrea appoggiata sopra al lenzuolo.
Era fredda.
«Andrea...» mormorò, finalmente,
chiedendosi a chi o a che cosa effettivamente
stesse parlando «Andrea, sono io.».
Rimase in silenzio per qualche istante, quasi si attendesse una
risposta da
quel corpo immobile.
«Sono qua... svegliati, Andrea. Ti prego... mi dispiace per
tutto quello che ci
siamo detti, mi dispiace così tanto. Mi dispiace per tutto.
Ma ora, ti prego,
svegliati. I medici dicono che non puoi, ma io... io non posso
crederlo.».
Sussurrava e la sua voce era rotta dall’emozione, ma i suoi
occhi rimanevano
asciutti.
«Aida ti viene a trovare tutti i giorni e io so che puoi
sentirla. Ti avrà
raccontato anche di Lily... ma tu ti devi svegliare. Lo puoi fare, ne
sono
sicuro. Non mi abbandonare... non lasciarmi adesso, ti prego. Ti
prego...».
I suoni intermittenti continuavano senza sosta e gli occhi della donna
rimanevano chiusi, sigillati. «Ci siamo detti delle cose
terribili... non può
finire tutto così, noi non siamo quello che siamo stati
negli ultimi mesi,
siamo molto di più. Non ho mai smesso di amarti,
Andrea...».
La mano di lei era inerme nella mano di Semir.
«E poi, guarda.» aggiunse, con un sorriso amaro
«Non posso camminare... non
posso più camminare... e Lily... Andrea, se non ti svegli
tu, questa volta io
non ce la faccio, davvero. Ho bisogno di te, almeno di te. Ti prego,
svegliati.».
Uno scatto proveniente dalla porta interruppe il suo discorso. Forse la
ragazza
era già venuta a riprenderlo.
Semir sospirò piano, consapevole che il suo tempo
lì dentro fosse già scaduto.
Ma strinse ancora una volta la mano di sua moglie, con tutta la forza
che
aveva.
«Io volevo morire, Andrea. Volevo morire, lo desideravo, e
invece sono qui. Ma
tu vuoi vivere, e allora vivi! Vivi...».
N.d.A.
Ogni tanto salto una settimana causa esami, ma poi ritorno. Finalmente
Semir è
riuscito a farsi portare da sua moglie, che però ovviamente
rimane ad occhi
chiusi...
Grazie a voi che continuate a leggere, a presto!
Sophie
|
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Capitolo 32 *** Miracoli ***
Dal capitolo precedente:
"Uno scatto proveniente dalla
porta interruppe il suo discorso. Forse la ragazza era già
venuta a
riprenderlo.
Semir sospirò piano, consapevole che il suo tempo
lì dentro fosse già scaduto.
Ma strinse ancora una volta la mano di sua moglie, con tutta la forza
che
aveva.
«Io volevo morire, Andrea. Volevo morire, lo desideravo, e
invece sono qui. Ma
tu vuoi vivere, e allora vivi! Vivi...»."
Miracoli
GIORNO
36.
«E
con oggi siamo a venti. È in
coma da venti giorni.» sillabò il medico, con
decisione «Ci vorrebbe un
miracolo.».
Lisa guardò il dottore con l’ansia dipinta negli
occhi.
«Ma perché non è morta subito
allora?» replicò «Le avevate dato una
prognosi di
qualche ora. Avevate detto che non avrebbe superato la notte e lo avete
detto
venti giorni fa. Se è ancora viva vuol dire che è
attaccata alla vita.».
«È attaccata alla vita
non vale come
spiegazione scientifica, Lisa.» fece Schneider, con un
sospiro «E i
sentimentalismi in questa professione purtroppo servono a poco, voi
ragazzi dovreste
impararlo in fretta.».
La specializzanda distolse lo sguardo, abbassando la voce.
«Ho scelto di diventare medico per salvare delle vite,
dottore.».
Il medico guardò la ragazza e nei suoi occhi vide se stesso
trent’anni prima.
Ma prima o poi tutti si rendevano conto che diventare medici non
significava
diventare dèi.
«Devi essere disposta a perdere, ogni tanto. Altrimenti non
saresti un buon
medico, credimi.».
La ragazza sollevò di nuovo lo sguardo, fissandolo negli
occhi.
«Quando è stata la prima volta che lei ha perso,
dottore?».
Schneider sospirò.
«Devo controllare altri pazienti.» disse, senza
considerare la domanda
«Continua a monitorarla, a più tardi.».
«Lui come sta?».
La domanda arrivò inaspettata e Ben rimase per qualche
attimo con la bocca
semi-chiusa e gli occhi spalancati, senza sapere bene che cosa
rispondere.
Sapeva perfettamente chi fosse il lui
al quale l’amico si riferiva.
Semir, sul letto ma in posizione semi-seduta, lo fissava in attesa di
una
risposta.
«Ben, dimmi la verità. Che non è morto
lo so. Noi sopravviviamo, non è così?»
aggiunse, con un sorriso amaro.
Il più giovane sospirò, intrecciando tra loro le
dita delle mani «No, non è
morto. Anzi, è stato dimesso già la settimana
scorsa ed è in carcere.».
«Non me lo avevi detto.» constatò Semir,
guardandolo negli occhi «E quella
donna?».
Ben impiegò di nuovo qualche istante prima di rispondere.
Fisicamente l’amico stava decisamente meglio, e lui ne era
felice. Ma le visite
erano diventate sempre più complesse: Semir era quasi ostile
nei suoi confronti
e lui non era ancora mai riuscito a estorcergli nemmeno mezzo sorriso.
Anche quando Aida andava a trovarlo sembrava quasi che lui volesse che
la
visita finisse in fretta.
«Lei è morta sotto alle macerie.» disse
il giovane ispettore, stringendosi
nelle spalle «Semir, perché non parliamo di te,
invece?».
Il turco continuò a guardarlo, ma non rispose.
«Io credo che tu dovresti parlare, socio... dirmi come stai,
che cosa provi,
forse ti aiuterebbe a...».
«Ben, se vuoi puoi anche andare.» lo interruppe
Semir, all’improvviso.
«Guarda, Semir, che questo rifiuto totale di parlare di te
non ti fa bene.
Potresti dirmi quello che senti... possiamo parlare di
Lily...» tentò Ben,
abbassando leggermente la voce.
L’amico non ne aveva mai parlato da quando lui gli aveva
riferito che cosa
fosse successo. Mai.
«Vattene, Ben.».
«Socio, ti puoi fidare di me e lo sai. Io ti voglio solo
aiutare e sono
convinto che parlare ti farebbe stare meglio...».
«Ben, vattene.» ripeté Semir, alzando
leggermente la voce «Non voglio parlare,
voglio stare da solo. Non ho bisogno che stiate tutti sempre qua,
lasciatemi in
pace.».
Ben ammutolì all’istante.
Con un sospiro, si alzò dalla sedia e si avviò
verso l’uscita, chiudendosi la
porta alle spalle.
Semir lo seguì con lo sguardo.
Quando fu uscito, sospirò e chiuse gli occhi, sperando per
l’ennesima volta di
non riaprirli mai più.
Ben entrò nel bar dell’ospedale a passo di carica
e raggiunse Maggie che,
seduta in un angolo a digitare velocemente sulla tastiera del computer,
nemmeno
si accorse del suo arrivo.
«Ben!» esclamò sobbalzando quando lui si
sedette al tavolo «Che cosa c’è?
Perché quella faccia?».
«Non ho nessuna faccia.» mormorò lui,
evitando di guardarla negli occhi.
Lei sorrise, abbassò lo schermo del computer e si sporse in
avanti, sollevando
con una mano il mento del poliziotto perché lui la guardasse.
«Dimmi che cosa è successo, Ben.».
Il ragazzo alzò le spalle.
«Sono preoccupato per Semir.».
«Volevo giusto andare a trovarlo.» disse la
psicologa, con un sorriso.
«Ecco, magari non oggi. Vuole stare da solo. Praticamente mi
ha detto che gli
do fastidio.».
«Ben, sai che non lo pensa davvero.» gli
ricordò Margaret.
Poi si alzò velocemente, raggiunse il bancone e
tornò al tavolo con due piccole
brioches, delle quali ne porse una al poliziotto.
«Sì, lo so, ma comunque sono preoccupato. Vorrei
solo che parlasse... che si
sfogasse... Maggie, non l’ho mai visto piangere o gridare da
quando gliel’ho
detto. Non una lacrima, niente. Se continua così prima o poi
esploderà...».
Lei annuì con calma.
«Infatti prima o poi accadrà e tu non potrai
evitare che accada.».
«Ma non credi che parlare gli farebbe bene?».
La ragazza si strinse nelle spalle «Io penso che se vuole
stare da solo gli
faccia bene anche stare da solo. Ben, la verità è
che noi non possiamo nemmeno
lontanamente immaginare come si senta lui in questo momento.
È un dolore troppo
grande e ogni persona ha un proprio modo per affrontarlo.
L’importante è che lo
affronti...».
Ben annuì e addentò la sua brioche, ma aveva il
pensiero altrove.
«Se si potesse solo premere un tasto e tornare
indietro...».
Maggie scosse lentamente il capo, allungando una mano sul tavolino e
stringendo
quella di Ben «Credi che cambierebbe qualcosa?».
Il poliziotto fece spallucce. Non lo sapeva. Forse semplicemente si
sarebbero
verificate le stesse identiche situazioni.
«Era solo una bambina.».
«Infatti è terribile.»
replicò la psicologa «Ma Semir è vivo,
Andrea è viva e
Aida è viva e sta bene. E questo è già
un miracolo, Ben.».
Il giovane ispettore scosse la testa e ritrasse la mano.
«E noi dobbiamo credere nei miracoli?».
N.d.A.
Altro capitolo abbastanza di passaggio, ma ci avviciniamo lentamente
all’ultima
parte della storia...
A presto,
Sophie
|
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Capitolo 33 *** Così si sopravvive ***
Dal
capitolo precedente:
"«Era
solo una bambina.».
«Infatti è terribile.»
replicò la psicologa «Ma Semir è vivo,
Andrea è viva e
Aida è viva e sta bene. E questo è già
un miracolo, Ben.».
Il giovane ispettore scosse la testa e ritrasse la mano.
«E noi dobbiamo credere nei miracoli?»."
Così
si sopravvive
GIORNO
37.
Kim
Kruger sistemò la pila di
fogli che aveva sulla la scrivania, sbuffando.
Le pratiche si stavano accumulando e accumulando, inesorabilmente.
Sembrava che tutto in quel commissariato funzionasse a rallentatore.
Sembrava
che i volti di tutti gli agenti fossero diventati grigi, che
l’aria fosse
diventata spessa, che i suoni fossero ovattati.
Ed era così ormai da troppo tempo.
Quella mattina Kim era arrivata presto, con l’intento di
sbrigare le pratiche
burocratiche per liberarsene il più in fretta possibile, ma
nemmeno lei
riusciva a lavorare con l’efficienza di sempre.
Era tutto terribilmente lento.
Un
picchiettio sul vetro della
porta la distolse dai propri pensieri.
Ben varcò la soglia dell’ufficio senza aspettare
una risposta e si sedette
davanti alla scrivania della Kruger, salutando a mala pena.
«Jager, come si sente?» domandò la
donna, mantenendo un tono che apparisse il
meno autoritario possibile, ben conscia di quale sarebbe stata la
risposta.
Ma l’ispettore ignorò direttamente la domanda.
«Commissario, perché mi ha chiamato? Stavo andando
in ospedale da Semir.».
«È il 21 dicembre, Jager.».
Ben corrugò la fronte. Il 21 dicembre. Aveva smesso di
contare i giorni tempo
prima, aveva perso la cognizione del tempo in quel susseguirsi di
eventi. Era
iniziato dicembre e nemmeno se ne era reso conto. Questo pensiero lo
fece
rabbrividire.
Era passato più di un mese da quando quell’assurda
storia era iniziata e lui non
se ne era accorto.
«E io ho bisogno di lei.» continuò la
Kruger, sforzandosi di non apparire
eccessivamente fredda, dovendo parlare di lavoro in quella situazione
«Da
quando abbiamo ritrovato la famiglia Gerkhan, io praticamente
l’ho persa,
Jager. Non ha fatto più di uno o due giri in autostrada
negli ultimi venti
giorni. Ho capito perfettamente la situazione e non ho detto nulla,
ritenevo
normale che lei volesse trascorrere il maggior tempo possibile in
ospedale, ma
è arrivata l’ora di andare avanti. E io qui ho
bisogno di lei.».
«Capo, io non...».
«Aspetti, Jager.» lo interruppe lei «Non
le sto dicendo che dovrà lavorare
ventiquattro ore su ventiquattro, ma almeno torni a fare degli orari
normali.
Siamo sotto Natale, tutte le strade sono intasate, gli incidenti
aumentano. Io
ho perso non un ispettore ma due, e non due agenti qualunque ma i miei
due
uomini migliori in assoluto. Quindi, per favore...».
Ben sospirò, guardandola negli occhi. Aveva ragione.
«Commissario, io non posso abbandonare Semir. È
completamente solo.».
«Infatti non le sto chiedendo questo, Jager,
però...».
«Senta, Semir esploderà. Accadrà presto
e quando accadrà io dovrò essere lì,
perché altrimenti...».
«Ben, Semir ha perso una figlia.» lo interruppe di
nuovo la Kruger «Ha perso
una figlia, sta perdendo sua moglie, ha perso la possibilità
di camminare.
Certo che esploderà, è naturale. E lei
potrà aiutarlo, consolarlo, stargli
vicino... ma non pretenda di raccogliere da terra tutti i cocci e
rimetterli
insieme perché, mi creda, non può farlo. Nessuno
può.».
L’ispettore annuì, evitando di guardarla negli
occhi. Aveva ragione da vendere
e lui ne era perfettamente consapevole. Non avrebbe potuto aggiustare
tutto,
non avrebbe potuto rimediare a tutto ciò che era successo,
sarebbe stato
impensabile.
Eppure...
«Commissario, Semir non ha più nessuno.»
ripeté Ben, in un sussurro «Se non
riesco ad accettare io, che sono una persona esterna alla sua famiglia,
quello
che è successo, come potrà farlo lui?».
«Non lo so.» replicò la donna, con un
sospiro «Mi creda, Jager, non lo so e
vorrei poterla aiutare, ma...».
«Mi dia ancora qualche giorno, commissario. Poi
tornerò in pieno servizio,
glielo prometto.».
Quando
pochi minuti dopo Ben uscì
dall’ufficio, camminò a testa bassa e in fretta
verso l’uscita del
commissariato, fino a quando non scontrò qualcuno che si
stava dirigendo nella
direzione opposta, facendogli cadere il bastone con cui
l’uomo si aiutava per
camminare.
Il giovane ispettore si chinò a raccoglierlo. Solo quando
sollevò lo sguardo
per porgere il bastone al suo proprietario si accorse di conoscere quel
viso.
«Grazie, giovanotto.» fece il signore, cordiale.
Quei baffi bianchi, quell’accento inglese e quel
“giovanotto” erano decisamente
inconfondibili.
«Signor Smith, che cosa ci fa qui in
commissariato?».
Quello che aveva davanti era l’anziano signore che per primo
aveva asserito di
aver notato una donna bionda vicino alla casa dove era stata rapita la
famiglia
Gerkhan, venti giorni prima, e Ben era sorpreso di incontrarlo di nuovo.
Tuttavia, sorrise. Quel vecchietto possedeva lo strano potere di farlo
sorridere.
«Cercavo lei in verità, giovanotto. Ha tempo per
una tazza di tè?».
Ben
portò il signore nel piccolo
locale che da qualche settimana aveva aperto a pochi passi dal
commissariato e
gli offrì un tè caldo.
Lo ordinò anche per sé. Non sapeva esattamente
come mai quell’uomo lo fosse
venuto a cercare, ma vederlo gli aveva fatto stranamente piacere e,
nonostante
tutto, una tazza di tè non gli avrebbe portato via molto
tempo.
«Che cosa succede signor Smith? Problemi nel suo
quartiere?» domandò, con un
sorriso gentile, dopo che si furono sistemati attorno a un tavolino in
legno scuro,
accanto alla vetrata.
Faceva freddo e il cielo bianco minacciava neve.
L’anziano signore non sembrò nemmeno ascoltarlo,
in un primo momento. Guardò
con un folto sopracciglio alzato la tazza di acqua calda che aveva
davanti e vi
immerse con una certa diffidenza una bustina di tè
aromatizzato alla mela
verde.
«Tè inglese, c’è scritto.
Strani, voi tedeschi.» bofonchiò tra i baffi,
scuotendo
la bustina dentro alla tazza, con l’incomprensione dipinta
sul viso.
Ben sorrise, schiacciando con un cucchiaino la propria bustina dentro
all’acqua
bollente perché questa si colorasse più in fretta.
«Non le piace?».
«Oh no giovanotto, va bene. Sono una persona moderna, cosa
crede. Mi abituo a
tutto, io.».
Questa volta il poliziotto non riuscì a trattenersi e si
mise a ridere.
I folti baffi bianchi, il naso arrossato e l’enorme sciarpa
di lana a quadri
avvolta attorno al collo e alle spalle, l’ultima impressione
che quell’uomo
potesse dare era quella di essere moderno.
«Lei ride, giovanotto, ma sappia che il sottoscritto possiede
un esemplare
senso di adattamento.» commentò il vecchio,
fingendosi offeso «Comunque, le
dicevo, volevo trovare proprio lei.».
«È successo qualcosa nel suo quartiere?»
ripeté Ben, ricordando che l’uomo si
fosse lamentato delle frequentazioni della sua via.
Il signore scosse il capo, poi si prese il tempo per sorseggiare
lentamente il
proprio tè.
«No, giovanotto, no. Volevo sapere come sta lei.».
Il ragazzo lo guardò senza capire.
«Sa, ormai sono vecchio e solo, i miei parenti sono sparsi
per il mondo. Ma
quando avevo accanto i miei nipoti capivo immediatamente quando
qualcosa non
andava. Lei assomiglia proprio a mio nipote Jonathan.».
Ben sorrise. Avrà avuto una settantina d’anni, o
forse poco più, ed era solo.
Quell’uomo gli fece un’immensa tenerezza,
nonostante sostanzialmente non lo
conoscesse affatto.
«Venti giorni fa l’ho vista molto preoccupato,
giovanotto.» continuò lui, con
voce pacata, passando le mani sopra alla tazza fumante
perché si scaldassero «Ora
come sta?».
E Ben gli raccontò tutto.
Senza nemmeno comprenderne bene il motivo, gli raccontò ogni
cosa.
Di Keller, di Semir e della sua famiglia, di Lily. Di lui e di
Margaret. Della
Kruger. Del suo lavoro.
Qualunque cosa.
Si sorprese addirittura nel rendersi conto di avere così
tanto da dire.
L’anziano signore si limitò ad ascoltarlo,
annuendo e scuotendo il capo ogni
tanto, commentando con qualche semplice “Oh”
esclamativo, lasciando che fosse
lui a condurre il discorso.
Ben sapeva perfettamente che quell’uomo non potesse conoscere
tutto ciò che lo
riguardava e che gli era capitato in quelle ultime settimane, ma
parlare con
lui gli sembrò straordinariamente normale, come se da tempo
aspettasse di poter
raccontare a qualcuno ogni cosa. Aveva semplicemente bisogno che
qualcuno lo
ascoltasse, ma non se ne era reso conto fino a quando non aveva
cominciato a
parlare.
Era passata più di mezz’ora quando si accorse di
non aver mai chiuso bocca e si
interruppe improvvisamente.
«Oddio... non mi ero reso conto di aver parlato
così tanto, mi scusi signor
Smith.».
«Santo Cielo, giovanotto.» commentò
l’uomo, leggermente sbigottito «Per quanto
tempo ancora aveva intenzione di tenere per sé tutto questo?
Sarebbe esploso
prima o poi, mi creda. Boom.» fece, facendo schioccare tra
loro i palmi delle
mani per dare maggiore enfasi a quella frase.
Ben rise divertito «Ha ragione, ma non pensavo...».
«Non pensava di avere così tanto da dire?
Giovanotto, è proprio quando stiamo
troppo in silenzio che abbiamo più cose da dire.».
L’ispettore annuì, chiedendosi da dove
quell’uomo gli fosse stato mandato e se
fosse stato mandato da qualcuno apposta per lui.
«Comunque, sono contento di averla ascoltata.»
continuò l’uomo, con una flemma
decisamente inglese, sistemando la tazza ormai vuota sopra al piattino
che
aveva di fronte «Chissà perché,
immaginavo che venendo qua oggi avrei avuto
tanto da ascoltare. Amo ascoltare, sa giovanotto?».
«Mi dica che ama anche dare consigli, la prego...»
supplicò Ben, sperando
davvero che quell’uomo piovuto dal cielo o spedito nel
ventunesimo secolo
direttamente da un’altra epoca potesse aiutarlo.
«Solo uno, giovanotto.» disse il vecchio, dopo
essere rimasto soprappensiero
appena qualche secondo «Impari a danzare sotto alla
pioggia.».
Il ragazzo corrugò la fronte, sorpreso.
«Che cosa?».
«Impari a danzare sotto la pioggia, ragazzo. È
così che si sopravvive. Non
cercando di superare una tempesta, ma imparando a danzarvi in mezzo.
Non glielo
hanno mai detto, giovanotto?».
Ben distese la fronte.
Sorrise.
«Dovrebbe dirlo anche al suo amico.» aggiunse
l’uomo, alzandosi e avvolgendosi
meticolosamente nella propria sciarpa a quadri «Grazie per il
tè, giovanotto. E
buona fortuna.».
Il giovane poliziotto non ebbe il tempo di replicare che
l’anziano signore,
lentamente, picchiettando con il proprio bastone sul pavimento in
legno, aveva
già iniziato ad avviarsi verso l’uscita.
Lo seguì con lo sguardo fino a quando non ebbe superato la
soglia del locale e
continuò a osservarlo da dietro la vetrata, mentre il
vecchio, sempre
lentamente, attraversava la strada e poi spariva
all’orizzonte, come
inghiottito da quella massa bianca di nubi che si distendeva sopra di
lui.
Un angelo custode, si
ritrovò a
pensare Ben, ancora seduto al tavolino del bar.
Un angelo custode con i baffi, questo doveva essere
quell’uomo.
Sorrise, e dopo aver pagato si diresse a sua volta verso
l’uscita.
Margaret puntò il cursore alla sinistra del foglio virtuale
e ricominciò a
scrivere.
Era nel suo studio, in attesa del paziente successivo, che
però sarebbe
arrivato con mezz’ora di ritardo. Avrebbe occupato quel tempo
scrivendo, come
sempre.
Non aveva raccontato a nessuno di che cosa trattasse il suo libro,
nemmeno a
Ben. Un po’ per vergogna, un po’ perché
temeva che lui non avrebbe approvato.
D’altra parte, sapeva che non avrebbe mai e poi mai
pubblicato quel libro. Lo
scriveva semplicemente perché sentiva di doverlo fare.
Sentiva di dover
raccontare quella storia. Anche se
nessuno l’avesse mai letta, avrebbe dovuto scriverla.
Se non altro, per il finale. Perché avrebbe potuto
sceglierlo, ed era questo
che le era sempre piaciuto delle storie.
Avrebbe scelto un finale felice, nonostante tutto.
Avrebbe scelto quel finale,
perché
sentiva che dovesse andare così, almeno nella finzione della
sua pagina bianca.
Perché la realtà, quella era imprevedibile.
Continuò a digitare freneticamente le dita sulla tastiera,
mentre quei
personaggi che conosceva così bene prendevano forma sotto
alle proprie mani e
si muovevano diligentemente ad ogni suo comando.
Era semplice ottenere un finale felice, così. Bastava
imprimere i propri
desideri su carta.
Freddo.
Qualche rumore ovattato, ritmico, poi silenzio, ancora. E freddo, tanto
freddo.
Non c’era nessuno.
Spesso era venuto qualcuno, spesso qualcuno aveva parlato.
Ma ora non c’era nessuno e faceva freddo.
E quel buio, quel buio non si diradava.
Stava cercando la fine di un tunnel senza sapere se effettivamente quel
tunnel
avesse una fine.
Un’uscita, una luce.
Odore di disinfettante?
Buio, di nuovo, sempre buio...
N.d.A.
Spero
vi ricordiate chi è il signore che ha incontrato Ben, lo
stesso signore
che aveva provato a fare l’identikit della complice di
Keller, lo stesso
presente anche nel prologo... un angelo custode?
Grazie
sempre, a presto,
Sophie
|
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Capitolo 34 *** Vivere o morire ***
Dal capitolo
precedente:
"E quel buio,
quel buio
non si diradava.
Stava cercando la fine di un tunnel senza sapere se effettivamente quel
tunnel
avesse una fine.
Un’uscita, una luce.
Odore di disinfettante?
Buio, di nuovo, sempre buio..."
Vivere
o morire
GIORNO
38.
«Sai
mamma, papà è triste.»
esordì Aida, con un leggero sospiro, solo dopo essersi
assicurata che la nonna
fosse uscita e che l’avesse lasciata sola con la sua mamma,
distesa come sempre
immobile sul letto, a occhi chiusi.
«O forse è arrabbiato, non lo so. Spero non sia
arrabbiato con me.» continuò,
accarezzando la mano fredda e inerme di Andrea.
«Quando lo vado a trovare parla poco, forse non mi vuole
proprio vedere. Io ho
paura che sia arrabbiato con me, ma non so perché dovrebbe
esserlo... tu che cosa
ne dici, mamma?».
A risponderle furono solo i suoni intermittenti delle macchine, che
funzionavano ormai incessantemente da ventidue lunghissimi giorni.
«Dici che papà mi vuole sempre bene,
mamma?».
La bambina continuava ad accarezzarle la mano, imperterrita.
Sia nonna Helen, sia Ben avevano provato ad affrontare
l’argomento del
risveglio della mamma, cominciando a prepararla al fatto che
probabilmente
Andrea avrebbe continuato a dormire per sempre. Ma lei non ci credeva.
Non ne
voleva sapere.
«Se tu ti svegliassi, mamma, sarebbe tutto più
facile...».
«Danzare sotto la pioggia...» mormorò
Ben, assorto.
La piccola finestra rimandava come una televisione un paesaggio quasi
spettrale. Il cielo era grigio chiaro e una pioggia sottilissima
batteva
incessantemente contro il vetro, decorandolo di tante minuscole
goccioline
argentate.
Osservando un paesaggio del genere, le parole dell’anziano
signore inglese con
cui aveva parlato il giorno prima gli tornarono alla mente in modo
spontaneo.
Il suo angelo custode, così lo aveva soprannominato.
«Danzare sotto la pioggia...».
«Che cosa stai dicendo, Ben?».
La voce alle sue spalle lo fece sobbalzare. Quasi si era dimenticato di
trovarsi nella stanza di Semir, assorto come era rimasto, a un tratto,
tra i
suoi pensieri.
Il più giovane sorrise, avviandosi nuovamente verso il letto
dell’amico, che
era semi-seduto nonostante quella posizione ancora per lui non fosse
affatto
comoda.
«Nulla, niente di importante. Ieri ho rivisto un amico, sai
Semir?».
Il turco aggrottò la fronte.
«Sarebbe?»
«Un signore... è una storia lunga. Però
sai, parlare con lui mi ha fatto bene.»
Semir alzò gli occhi al cielo, immaginando dove
l’altro volesse andare a
parare.
«Mi ha detto che è proprio quando rimaniamo in
silenzio che in realtà avremmo
più bisogno di parlare.» concluse Ben, sedendosi
accanto al letto e guardando
l’amico negli occhi.
«Ben, piantala.» fece Semir, distogliendo lo
sguardo.
Se pensava a tutto ciò che avrebbe voluto dire, a tutto
ciò che avrebbe voluto
gridare, la testa cominciava a girargli e un nodo strettissimo
cominciava ad
attanagliargli la gola. Non voleva, non voleva parlare. Non voleva
pensare.
«Semir, guardami. Puoi guardarmi un momento?»
replicò Ben, con decisione,
scuotendo leggermente il braccio dell’amico per attirare la
sua attenzione.
Il turco si voltò verso di lui, riluttante, attendendo che
il più giovane
continuasse.
«Sono passati trentotto giorni, Semir. Da quando mi hai
parlato per la prima
volta dei tuoi problemi con Andrea. Li ho contati. Trentotto
giorni.».
«E quindi?» fece Semir, nonostante sentisse il nodo
in gola stringersi e
stringersi sempre di più.
«Trentotto giorni da quando mi hai parlato di voi, trentasei
da quando è
riemerso Keller dal passato. Ventisette da quando siete stati rapiti.
Ventidue
da quando... da quando...».
«Ben, ti prego.» lo interruppe l’altro,
sforzandosi di non lasciarsi sopraffare
dall’emozione «Lasciami in pace,
smettila.».
Ma Ben non aveva alcuna intenzione di lasciar perdere. Voleva aiutare
il suo
migliore amico, e se sbattergli in faccia ciò che era
successo, nonostante
fosse doloroso, fosse servito, avrebbe fatto anche quello.
«Quando eravate in quell’edificio, dopo averti
rapito, Keller ti ha fatto
scegliere tra me e Andrea. Me l’ha raccontato, Semir. E prima
ancora di fare
questo ti ha fatto sentire in colpa per tutto quello che sarebbe
accaduto. Ti
ha rinfacciato che se le cose tra te e Andrea non andavano
più era stata solo
colpa tua, non è così? E poi ti ha detto
anche...».
«Basta... Ben...» lo interruppe Semir.
La voce gli tremava.
«Semir, voglio solo che tu capisca che hai bisogno di
parlare. Che hai bisogno
di sfogarti, altrimenti...».
Il turco lo interruppe di nuovo. Il nodo in gola era stretto, si
sentiva
soffocare.
«Vattene, Ben. Vattene.».
«E
poi, mamma, mi manca un po’ Lily.»
continuò Aida, china sul letto di Andrea
«In realtà mi manca tanto... zio Ben dice che lei
sta bene e che mi guarda da
lontano... però io non potrò più
giocare con lei e aiutarla a fare i compiti. E
anche se mi dava fastidio io le volevo bene... secondo te, mamma, Lily
lo sa
che le voglio bene?».
La bambina si passò una mano sugli occhi, asciugandosi una
lacrima silenziosa
che si preparava a percorrerle la guancia.
«Io spero che lo sappia. Mamma, ma tu non ti svegli
perché vuoi raggiungere
Lily?» domandò ancora, come se effettivamente la
donna potesse darle una
risposta.
Ma a risponderle era sempre e soltanto il silenzio.
«Se è vero che Lily sta bene, tu non potresti
rimanere con noi? Papà non sta
bene senza di te...».
Ben
sospirò e, con calma, voltò
le spalle all’amico, avviandosi verso la porta. Forse aveva
esagerato. Forse,
per cercare di aiutarlo, aveva fatto peggio. Avrebbe solo voluto che
lui si sfogasse,
ma forse era sbagliato, forse semplicemente avrebbe dovuto aspettare
che il
dolore facesse il suo corso.
Posò la mano sulla maniglia e la abbassò.
Ma, improvvisamente, la voce del collega alle sue spalle lo
fermò.
«Ben...» lo richiamò Semir, in un
sussurro.
Il giovane si voltò, sorpreso che l’altro lo
stesse fermando. Ma non appena
vide i suoi occhi pieni di lacrime, mollò la maniglia e
tornò di corsa a
sedersi accanto al suo letto.
«Socio, che cosa succede?».
«Scusami... non ce l’ho con te,
scusami...» mormorò il turco, mentre una
lacrima silenziosa gli rigava il viso.
«Lo so, Semir, non ti preoccupare.».
«Ben... Lily è morta.».
Il ragazzo annuì, piano. Gli prese la mano.
Sapeva che quel momento sarebbe arrivato. Sapeva che prima o poi
l’amico avrebbe
realizzato tutto ciò che era effettivamente accaduto e da un
certo punto di
vista aveva addirittura sperato che quel momento arrivasse il
più presto
possibile.
«Lily è morta.» ripeté Semir,
in un sussurro.
Ben continuò ad annuire, guardandolo negli occhi e
stringendogli la mano,
sperando solo che lo sentisse vicino.
«Lily è morta
e Andrea sta morendo.»
continuò lui «E io... io non potrò
più camminare.».
«Ma Aida sta bene.» disse il giovane ispettore di
rimando, tutt’a un tratto
«Aida sta bene e ha bisogno di te. Devi essere forte,
socio.».
Semir scosse il capo con forza «Ma Ben, non mi posso muovere!
E Lily...».
«Sì, Semir, ma tu devi essere forte e so che puoi
esserlo, che lo sei. Aida sta
bene, quindi devi farlo per lei.».
«Dovevo morire io...».
«Ehi, socio, non dire così. Non è
vero.».
«Lily è morta...» ripeté lui,
mentre le lacrime bagnavano il cuscino.
Ben continuava a stringergli la mano, mentre gli occhi anche a lui
diventavano
lucidi.
Ma l’amico non rispondeva alla stretta. Non ne aveva la forza.
«Ben, è tutta colpa mia. È solo colpa
mia.».
«No, socio, non è così. Non
è così, devi credermi.».
Semir scosse il capo, distolse lo sguardo dagli occhi
dell’altro ispettore.
Aveva resistito a lungo perché voleva che lui non lo vedesse
così, voleva che
nessuno lo vedesse così. Non voleva parlare con nessuno. Ma
non ce la faceva
più a tenere tutto dentro, non ci sarebbe più
riuscito.
«Ben, non voglio vivere così.» disse,
piano, mentre i singhiozzi lentamente si
calmavano, ma gli occhi rimanevano lucidi.
Ben si morse il labbro.
Nonostante tutta la sua buona volontà, una lacrima fece
capolino anche sulla
sua guancia.
«Socio, non dire così... ti prego...».
«Non voglio vivere così, non ce la
faccio.» ripeté il turco. La disperazione
nella sua voce era tangibile, ma la sicurezza con cui aveva pronunciato
quella
frase gettò il più giovane nel panico.
«Ce la fai, ce la farai. Ti aiuterò io. Ma devi
volerlo, Semir, e so che in
fondo lo vuoi, perché non lasceresti sola Aida. Non la
lasceresti mai.».
Semir scosse il capo, stringendo i pugni, senza provare più
a impedire che le
lacrime scendessero.
«Non ce la faccio...».
«Semir...».
«Dovevate lasciarmi andare, Ben, ti avevo chiesto di
lasciarmi andare. Perché
non mi avete lasciato morire?».
«Papà
senza di te sta male.» ripeté Aida, con gli occhi
lucidi e la mano ancora
stretta attorno a quella immobile della madre.
«Comunque io ora vado, vado a trovare papà. Gli
porto un bacino da parte tua,
va bene mamma?» fece la bambina dopo un attimo di silenzio,
baciando la donna
sulla guancia.
Poi fece per ritrarre la mano dal letto per allontanarsi e avviarsi
verso
l’uscita, ma qualcosa la trattenne.
La piccola inizialmente non capì che cosa fosse. Si
voltò di nuovo verso la
mamma distesa, che era sempre immobile e a occhi chiusi.
Eppure, qualcosa l’aveva trattenuta.
La mano.
Con il cuore che cominciava a battere a mille, Aida si
riavvicinò al letto,
sempre tenendo la sua manina attorno alla mano di Andrea.
Perché quella mano si era mossa.
Sua mamma si era mossa, ne era sicura.
Ben
non rispose a quella domanda.
Perché non mi avete lasciato morire?
Il giovane ispettore sentì una morsa strettissima
allo stomaco e non seppe
che cosa rispondere.
Infatti rimase in silenzio, immobile, a guardare con gli occhi sbarrati
l’amico
che a sua volta lo guardava negli occhi.
«Ero sotto una colonna, Ben. Potevate lasciarmi
morire.» ripeté Semir, in un
sussurro.
«Non dire così...» bisbigliò
il più giovane «Non puoi dire così,
socio. Tu
sei...».
Ben si bloccò, interrotto da un rumore.
Corrucciò la fronte e si voltò verso la porta
della stanza, che proprio in quel
momento si aprì di scatto.
Chris Schneider comparve trafelato sulla soglia.
Non lo guardò nemmeno, si rivolse direttamente a Semir.
Ma prima di parlare dovette respirare e riprendere fiato.
Si aggiustò gli occhiali sul naso poi, tratto un profondo
respiro, si appoggiò
allo stipite della porta, fissando i propri occhi chiari in quelli del
suo
paziente.
«Ispettore... Ispettore, è appena accaduto un
miracolo.».
N.d.A.
Non sono molto soddisfatta di questo capitolo, ma eccomi qua.
Ancora quattro o cinque capitoli e siamo alla fine, grazie a chi ancora
resiste!
A presto,
Sophie
|
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Capitolo 35 *** Vivere ***
Dal
capitolo precedente:
"«Ero
sotto una colonna, Ben. Potevate lasciarmi morire.»
ripeté Semir, in
un sussurro.
«Non dire così...» bisbigliò
il più giovane «Non puoi dire così,
socio. Tu
sei...».
Ben si bloccò, interrotto da un rumore.
Corrucciò la fronte e si voltò verso la porta
della stanza, che proprio in quel
momento si aprì di scatto.
Chris Schneider comparve trafelato sulla soglia.
Non lo guardò nemmeno, si rivolse direttamente a Semir.
Ma prima di parlare dovette respirare e riprendere fiato.
Si aggiustò gli occhiali sul naso poi, tratto un profondo
respiro, si appoggiò
allo stipite della porta, fissando i propri occhi chiari in quelli del
suo
paziente.
«Ispettore... Ispettore, è appena accaduto un
miracolo.»."
Vivere
«È
appena accaduto un miracolo.»
ripeté il dottor Schneider, trafelato, rimanendo immobile
sulla soglia.
Ben in un primo momento, nonostante le parole del dottore, credette che
fosse
successo qualcosa di terribilmente grave.
Non lo aveva mai visto così: Christopher Schneider, dal
momento stesso in cui
lo aveva conosciuto, gli era sembrato la persona più
razionale che potesse
esistere sulla faccia della terra e vederlo così, di punto
in bianco, agitato e
tremante, gli incuteva timore.
Non captando alcuna reazione da parte dei due uomini
all’interno della stanza,
il medico si staccò dallo stipite della porta e si
avvicinò al letto del suo
paziente, guardando insistentemente sia l’uno che
l’altro.
«Mi avete sentito? Un miracolo!»
esclamò, concitato.
Mentre l’amico rimaneva immobile, senza trovare la forza di
parlare, fu Ben ad
avere per primo il coraggio di chiedere.
«Che cosa è successo, Chris?»
domandò, titubante, in un sussurro.
Schneider sorrise.
Impiegò qualche secondo prima di decidersi a rispondere,
forse perché anche lui
stentava a credere alle sue stesse parole.
«La signora Schäfer si è
svegliata.» disse poi, in un soffio.
«Che... che cosa?» balbettò Semir,
ancora sconvolto dalla conversazione che
stava avendo con il collega fino a qualche secondo prima.
Gli sembrò che i battiti del suo cuore accelerassero a una
velocità
inestimabile e che le pareti della stanza cominciassero a girare
vorticosamente
attorno a lui.
Il dottor Schneider sorrise, si avvicinò a lui e gli prese
la mano. Non era mai
successo prima.
«Sua moglie si è svegliata.»
ripeté, con l’emozione tangibile nella voce
«È
sveglia.».
«Lei è... è...».
«Sveglia, sì.» concluse il medico, con
gli occhi che brillavano.
Semir aprì la bocca per dire qualcosa, ma non ne
uscì alcun suono. Rimase a
guardare l’uomo che aveva davanti senza dire niente per
almeno un minuto,
cercando una tacita conferma che avesse sentito bene.
Le lacrime fecero nuovamente capolino dai suoi occhi senza che lui
potesse
fermarle.
«Andrea è sveglia?» mormorò
poi, con un filo di voce, senza credere a ciò che
stava accadendo.
Schneider annuì, dando loro un’ennesima conferma,
mentre Ben si alzava e gli
sfiorava una spalla, come a cercare un ulteriore cenno di assenso.
«Credetemi, questa volta la scienza non basta nemmeno a me
come spiegazione...
è un miracolo.» disse il medico, con un sorriso
sincero dipinto in viso.
Semir non ce la fece più.
Sentì le lacrime calde rigargli il viso e
cominciò a singhiozzare, in silenzio.
E sorrise tra le lacrime.
Non ci credeva, non riusciva a crederci.
Lo avevano preparato al peggio, gli avevano detto tutti che sarebbe
morta, che
sarebbe stata solo questione di tempo. E invece...
«Posso vederla?» riuscì a domandare, con
la voce rotta dall’emozione.
«Domani, ispettore.» accordò Schneider,
poggiandogli una mano sulla spalla
«Domani...».
Un quarto d’ora prima.
Aida corse fuori dalla stanza più
veloce che poteva, in preda al panico e al tempo stesso a una strana
eccitazione.
Senza nemmeno rendersene conto, a pochi passi dalla soglia che aveva
appena
varcato scontrò qualcuno che camminava nella direzione
opposta alla sua.
Fece per cambiare traiettoria e continuare a correre senza nemmeno
guardare di
chi si trattasse, ma l’uomo la trattenne delicatamente per un
braccio.
«Ehi, piccola, che cosa succede?» le chiese il
dottor Schneider, con gli occhi
colmi di apprensione.
La bambina lo guardò, confusa.
Stava correndo a chiamare Ben, ma il dottore sarebbe stato ancora
meglio.
«La mamma...» mormorò, con la voce che
le tremava.
Il medico spalancò gli occhi, temendo il peggio.
Meno di un secondo più tardi, era nella stanza con la
bambina.
E quello che vide lo lasciò senza parole.
Andrea
Schäfer, quella donna che
lui stesso per primo aveva praticamente dato per morta già
ventidue giorni
prima, era lì distesa sul letto che lo guardava.
Gli occhi appena schiusi per la fatica, il respiro affannoso e
l’incarnato
pallidissimo, ma era sveglia e lo guardava.
Chris Schneider si avvicinò al letto, quasi con titubanza,
mentre Aida, alle
sue spalle, stava immobile addossata alla parete, felice e al tempo
stesso
tremendamente spaventata.
«Signora Schäfer... signora, mi sente?
Può sentirmi?» le chiese.
E quando la donna distesa gli disse di sì con un movimento
della testa appena
accennato, quasi non ci credette. Si trovava davanti a un miracolo.
«Va bene... si ricorda chi è? E che cosa
è successo? Se lo ricorda?» continuò
il medico, impaziente come un bambino, estraendo nel frattempo dal
taschino del
camice la piccola luce che usava per controllare i riflessi pupillari
«Sa dove
si trova?».
Andrea annuì di nuovo, sforzandosi di rimanere sveglia.
Le sembrava di trovarsi dentro a una bolla.
Capiva a stento ciò che quell’uomo in camice
bianco le diceva, ma si stava
sforzando con tutta se stessa di recuperare almeno un minimo di
lucidità.
Aveva visto Aida, l’aveva vista e stava bene. Andava tutto
bene.
Aprì la bocca per parlare, stringendo gli occhi per lo
sforzo.
«No, non si sforzi signora Schäfer, non si preoccupi
di parlare adesso.» fece
il medico, con più calma rispetto a come le aveva parlato
prima
Le controllò la reazione pupillare, poi selezionò
qualcosa su un monitor e
annotò qualcos’altro su una cartella.
«Semir...» riuscì a mormorare Andrea,
con un filo di voce «Devo... devo
vedere...».
Ma poi le palpebre le si abbassarono e il buio si chiuse precipitoso su
di lei.
N.d.A.
In
ritardissimo, non sapete quanto mi dispiaccia, ma sono stata
risucchiata dagli esami e non ho avuto un secondo di tempo libero. Ora,
però,
dovrei finalmente riuscire ad aggiornare in modo regolare fino alla
fine.
Capitolo breve che si riallaccia al precedente, e finalmente qualcosa
di
positivo sembra essere accaduto...
Grazie a voi che continuate a seguirmi, a presto!
Sophie
|
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Capitolo 36 *** Mondo Beffardo ***
Dal
capitolo precedente:
"Semir non ce la
fece più.
Sentì le lacrime calde rigargli il viso e
cominciò a singhiozzare, in silenzio.
E sorrise tra le lacrime.
Non ci credeva, non riusciva a crederci.
Lo avevano preparato al peggio, gli avevano detto tutti che sarebbe
morta, che
sarebbe stata solo questione di tempo. E invece...
«Posso vederla?» riuscì a domandare, con
la voce rotta dall’emozione.
«Domani, ispettore.» accordò Schneider,
poggiandogli una mano sulla spalla
«Domani...»."
Mondo
beffardo
GIORNO 39.
Ben
rimase addossato alla parete,
immobile e muto, per tutta la durata dei controlli.
Osservava Schneider eseguire il suo lavoro in modo meticoloso e si
chiedeva a
che cosa di preciso stesse assistendo: davvero a un miracolo?
Andrea, stesa sul letto, seguiva con lo sguardo il dottore, rispondendo
a ciò
che egli le chiedeva, sforzandosi di rimanere lucida e cosciente.
Guardandola, Ben si sentiva terribilmente spaesato.
Ogni giorno era passato a salutarla e ogni giorno l’aveva
trovata immobile
nella stessa identica posizione in cui l’aveva lasciata il
giorno prima, con il
respiro a mala pena udibile e gli occhi sigillati. Ma adesso, la moglie
del suo
migliore amico era sveglia, reagiva agli stimoli e rispondeva alle
domande del
medico, seppur a fatica, in modo impeccabile.
«Okay,
perfetto.» esclamò Chris
Schneider all’improvviso, facendo sobbalzare il giovane
ispettore «Per adesso
ho finito. È... sorprendente, davvero. Ovviamente
avrà bisogno di molto riposo
e di rimanere monitorata, ma sembra... sembra che non vi siano danni
permanenti
dovuti al coma.».
Andrea accennò ad un sorriso, poi spostò lo
sguardo su Ben, che però tornò a
fissare le piastrelle del pavimento, colto all’improvviso da
una specie di
strano imbarazzo.
«Ben, se vuoi puoi rimanere qualche minuto.»
continuò Schneider, poggiando
all’ispettore una mano sulla spalla, con un sorriso.
«Dottore...» lo chiamò Andrea, con un
filo di voce «Vorrei... io vorrei vedere
mio marito.».
Il medico annuì, avviandosi verso la porta «Vado a
vedere come sta, signora
Schäfer. Nel frattempo la lascio con Ben,
d’accordo?».
Poi l’uomo, sistemandosi gli occhiali sul naso,
lasciò la stanza e si richiuse
la porta alle spalle.
Ben
si avvicinò al letto,
titubante, e si sedette sulla sedia posta accanto alla donna distesa.
Impiegò qualche lungo secondo ad alzare lo sguardo su di
lei. Era come se
pensasse che qualsiasi brusco movimento avrebbe potuto da un momento
all’altro
capovolgere di nuovo la situazione, rompere l’incantesimo. E
lui non voleva che
accadesse.
Fu Andrea a parlare per prima, e lo fece con un tono di voce talmente
basso che
l’ispettore dovette avvicinarsi per riuscire a udirla.
«Ben... tutto bene?» domandò,
sforzandosi di mantenere gli occhi ben aperti.
«Sì, certo, sì.»
balbettò il giovane poliziotto, guardandola negli occhi
«Scusa
Andrea, è che io sono... sono... insomma, ci avevano detto
che non ti saresti
svegliata. Noi eravamo preparati al peggio.».
La donna annuì, piano.
Era contenta che il ragazzo fosse lì. Sapeva che non avrebbe
mai abbandonato né
lei né tantomeno il marito, e questo la faceva sentire
sicura.
«Ben... dimmi che cosa... è successo...»
mormorò, con un filo di voce.
Ben sbiancò all’istante. Di nuovo. Lo aveva
già fatto con Semir e la prima
volta non era andata bene. Non se la sentiva di farlo ancora, di dare
ancora le
stesse cattive notizie. Non ne aveva la forza.
Senza nemmeno accorgersene, stava già scuotendo il capo,
terrorizzato.
«Ben... per favore.».
«Andrea, senti, io credo che tu prima dovresti riposare e
poi...».
«Ben.» lo interruppe lei, con voce a mala pena
udibile, eppure decisa «So già
tutto... ho alcuni ricordi... mentre ero in coma Aida mi parlava e
anche tu, e
io ricordo quello che mi avete detto. Io so
già...».
«Allora non farmelo ripetere... per favore.»
controbatté Ben, quasi
supplicando.
Non voleva dirlo. Non voleva dire a una madre che sua figlia era
rimasta
uccisa, non l’avrebbe fatto, non più.
«Io... io l’ho sentito, Ben.» fece
Andrea, sempre sussurrando.
I suoi occhi chiari erano lucidi.
Il silenzio occupò la stanza per parecchi secondi.
Lo sapeva, Ben immaginava che Andrea sapesse tutto. E, a maggior
ragione, non
avrebbe pronunciato quelle parole.
Si limitò a seguire con lo sguardo la lacrima che silenziosa
scendeva dagli
occhi della donna, senza dire niente. Aspettò qualche
minuto, in cui non
accadde nulla, in cui lei piangeva in silenzio e il silenzio era sempre
più
immenso.
«L’ultima cosa che Lily ha visto, prima che ci
rapissero... siamo stati io e
Semir che litigavamo.» disse lei, a un tratto, con la voce
rotta dall’emozione
«L’ultima cosa che ha visto...».
«Andrea, non dire così...».
«Almeno...» aggiunse poi, con una lacrima ancora
ferma sul viso «Almeno, se non
vuoi parlarmi di Lily, dimmi come sta Semir.».
Parlava piano, faceva ancora troppa fatica a parlare.
Ben rispose nuovamente con il silenzio.
Le immagini del giorno prima, quando finalmente l’amico si
era sfogato almeno
in parte, gli tornarono prepotenti alla memoria. E poi quella frase,
quella
domanda che più di tutte lo aveva lasciato senza parole. Perché non mi avete lasciato morire?
Il giovane ispettore sospirò, continuando a non
rispondere.
«Io voglio vederlo.» replicò Andrea, in
un sussurro «Devo vedere mio
marito...».
«Devo
vedere Andrea.» fece Semir, non appena vide il dottor
Schneider
oltrepassare la soglia della sua stanza.
Chris si avvicinò al letto su cui era steso il suo paziente
e un mezzo sorriso
gli spuntò sulle labbra. Quell’uomo continuava a
ricordargli tanto se stesso e
il fatto che lui e la moglie continuassero a chiedere l’uno
dell’altra gli
faceva stranamente tenerezza.
«Con calma, ispettore, ora la porto da lei. Sua moglie ha una
forza
straordinaria, lo sa? Sembra non aver riportato danni e dopo
più di venti
giorni di coma questa è una notizia sorprendente, mi
creda.».
Semir accennò un sorriso.
«Mi porti da lei, dottore, per favore.».
Schneider annuì, con calma. Si avvicinò al suo
paziente e reclinò lo schienale
de letto in modo che sollevarsi fosse più semplice, quindi
aiutò Semir a
mettersi seduto sul letto.
Poi sistemò la sedia a rotelle il più vicino
possibile al letto e la fissò al
pavimento.
«Pronto, ispettore?» domandò, con
decisione «Se la sente?».
L’altro annuì, anche se la testa, come ogni volta
che da sdraiato si metteva
seduto, cominciava a girargli.
«Bene.» commentò il medico, pronto a
sorreggere il suo paziente.
In men che non si dica, Semir si ritrovò seduto sulla sedia
a rotelle, che ora
Schneider stava dirigendo fuori dalla stanza. Provò a
ordinare alla sua testa
di fermarsi, mentre spinto dal dottore percorreva il bianco corridoio
che lo
avrebbe portato da sua moglie.
Ma la testa continuava a girare e il cuore aveva cominciato a battere a
mille.
Chissà se Andrea sapeva. Chissà se sapeva di
Lily. Chissà se sapeva delle sue
gambe. Chissà se avrebbero mai potuto, davvero, ricominciare.
Ben uscì dalla stanza e aspettò che il medico,
dopo aver sistemato la sedia a
rotelle di Semir accanto al letto di Andrea, facesse altrettanto.
Quando vide
Schneider uscire in corridoio, gli sorrise e si diresse verso di lui,
che si
sistemava nervosamente gli occhiali sul naso.
«Ecco fatto.» esordì il dottore,
indicando con lo sguardo la porta chiusa della
stanza di Andrea «Finalmente possono parlare. Spero non ci
siano altre
complicazioni.».
«Lo spero anche io.» replicò Ben, con un
sospiro, lasciandosi cadere seduto su
una delle scomode sedie di plastica che occupavano parte del corridoio
di
fronte alle stanze.
«Chris, non credi che sarebbe possibile metterli nella stessa
stanza, da ora in
poi?» chiese poi, cercando con il medico un contatto visivo
«Immagino dovranno
stare ancora entrambi in ospedale e credo che... che stare insieme
potrebbe
aiutarli.».
«Vedrò quello che posso fare, Ben.»
rispose Schneider con un mezzo sorriso,
facendo poi per voltarsi e tornare al proprio lavoro.
Ma Ben lo fermò prima che l’uomo potesse
allontanarsi anche solo di pochi
passi.
«Chris, aspetta... ti devo chiedere una cosa.»
disse, attirando nuovamente la
sua attenzione.
Il dottore tornò a guardarlo, rimanendo però in
piedi di fronte a lui.
«Ben, ho dei pazienti da controllare e...».
«Che cosa è successo a tua figlia,
Chris?».
La domanda giunse talmente inaspettata che il medico non ebbe il tempo
di
prepararsi una risposta, un’espressione, oppure di sviare il
discorso. Non ebbe
il tempo di fare nulla, rimase semplicemente immobile, spalancando gli
occhi e
fissando l’ispettore che aveva di fronte come se si trattasse
di un veggente.
«Che cosa... come...» balbettò,
incredulo.
Mai una volta Ben lo aveva visto in quello stato. Mai una volta, fino a
quell’istante, lo aveva trovato impreparato davanti a una
domanda, senza parole
come era in quel momento.
«Ben, come... di... di che cosa stai parlando?».
«Chris... ho visto come ti sei dedicato a Semir, sai? Ho
visto quanto sei stato
disponibile, ben oltre ogni aspettativa. Me ne sono accorto.
Inizialmente
pensavo che il caso ti stesse a cuore per qualche ragione che io non
avrei mai
compreso, ma poi...» Ben fece una breve pausa, scuotendo
appena il capo e
fissando il suo interlocutore negli occhi, senza lasciargli alcuna via
di fuga
«Poi, una settimana fa, ti ho chiesto come mai Semir non
affrontasse
l’argomento di Lily. E tu mi hai risposto che ognuno affronta
un dolore del
genere in modo diverso, e poi mi stavi per raccontare qualcosa, ma
immediatamente ti sei bloccato e te ne sei andato, dicendo di avere dei
pazienti da visitare. Quindi, Chris, se posso saperlo... che cosa
è successo a
tua figlia?».
Schneider sospirò.
Improvvisamente si sentì nudo, scoperto. Scacco matto.
Si sedette accanto al giovane ispettore, togliendosi gli occhiali e
cominciando
a pulirne le lenti ossessivamente, con un lembo del camice, come se
quel gesto
potesse in qualche modo aiutarlo a rilasciare la tensione.
«Ben, è una storia di molto tempo fa.».
«E sei sicuro di non avere bisogno di parlarne?»
replicò Ben, con decisione.
Il medico scosse appena il capo, senza alzare lo sguardo sul ragazzo.
«Avevo una figlia, è vero. E l’ho persa,
per questo immagino come possa
sentirsi il tuo collega. Ma è successo tanto tempo
fa.».
«Che cosa è successo, Chris?».
Schneider sospirò piano. Non lo aveva previsto. Non aveva
pianificato di
parlarne, in dieci anni non lo aveva mai fatto quasi con nessuno.
Eppure,
contro ogni aspettativa, cominciò a raccontare.
«Un incidente. Dieci anni fa... Io guidavo, ero in macchina
con mia moglie e la
mia bambina, Laila... aveva cinque anni. Io non... non ho visto un
camion, non
l’ho visto arrivare. E la cosa buffa è che non mi
è successo niente, Ben. Mia
moglie era ridotta in fin di vita, la mia bambina era morta sul colpo e
io non
mi ero fatto nulla.».
L’uomo si interruppe, prese un respiro.
Era passato tanto tempo, ma ancora quella ferita faceva male, troppo
male.
«Lei poi si riprese. Mia moglie, intendo. E poi... poi mi
lasciò. Lei non mi ha
mai perdonato, io credo che... credo che ancora pensi che sia stata
solo colpa
mia. E anche io l’ho creduto, per tantissimo tempo. Sapessi
quante volte ho
sperato di morire, Ben. Sapessi quante volte sono tornato a
quell’incrocio,
fermandomici in mezzo, sperando che un furgone sbucasse dal nulla e mi
travolgesse. Sapessi quante volte...».
Ben ascoltava senza fiatare, immobile e attento. Ora capiva ogni cosa.
«E poi?».
«Poi cosa, Ben?».
«Come hai fatto a...» l’ispettore si
interruppe, senza nemmeno sapere bene che
cosa volesse chiedere.
«Come ho fatto a ricominciare a vivere?» concluse
Schneider, al suo posto «Ci
sono voluti mesi, mesi interminabili. Non so che cosa sia stato, Ben.
So che un
giorno mi sono guardato allo specchio... e ho capito. Ho capito che la
mia
Laila non avrebbe mai voluto che io smettessi di vivere, che io mi
trasformassi
in un fantasma senza anima e senza uno scopo. Così,
semplicemente, ho
ricominciato. E non è stato semplice, Ben, non lo
è stato per niente. Ma ce
l’ho fatta e ora sto bene, e salvo vite umane. E lo faccio
ancora meglio di
quanto non facessi prima, perché ora so quanto vale ogni
vita che mi capita tra
le mani. Ora so che la mia vita ha uno scopo.».
«Io non... non sapevo tutto questo...»
balbettò Ben, immaginando che forse
avrebbe fatto meglio a stare zitto, a non intromettersi in ricordi
così
privati, che indubbiamente ancora facevano male.
«Non ti preoccupare.» fece il medico, tornando
finalmente a guardarlo negli
occhi.
«Chris, io ho paura che Semir...».
«Ce la farà, Ben.» lo interruppe
Schneider, con un sorriso «Ha sua moglie, ha
un’altra meravigliosa bambina e ha te, che sei il migliore
amico che potesse
desiderare. Ce la farà.».
Il giovane ispettore ricambiò il sorriso, chiedendosi quanti
angeli custodi
fossero scesi sul suo cammino nel giro di pochi giorni. Prima il
signore
baffuto dall’accento inglese, poi il dottor Schneider.
Persone che erano
entrate nella sua vita per caso e che gli stavano facendo bene.
«Comunque il mondo è beffardo, sai Ben?»
continuò il medico, con uno strano
sorriso «Il giorno in cui il tuo amico è arrivato
in ospedale, il giorno in cui
la bambina è morta e in cui noi ci siamo conosciuti, era il
30 di Novembre.
Dieci anni esatti dall’incidente in cui era morta Laila.
Dieci anni esatti... e
io mi sono ritrovato a vivere una situazione simile, ma in terza
persona. Per
questo tenevo e tengo alla sorte dell’ispettore Gerkhan, come
e più che a
quella di altri pazienti.».
«Il mondo è proprio beffardo.» concluse
Ben, con un sospiro.
«Comunque, ho davvero altri pazienti da
controllare.» fece a un tratto
Schneider, alzandosi dalla sedia e interrompendo il silenzio che si era
appena
venuto a creare «Devo andare.».
«Certo, Chris. Grazie, non eri tenuto a raccontarmi questa
storia.» rispose
l’ispettore, sorridendogli con gratitudine.
Il medico riposizionò con cura gli occhiali davanti ai
propri grandi occhi
azzurri, poi gli fece l’occhiolino «Non ti
preoccupare, l’ho fatto volentieri.»
disse voltandosi.
«Ora vado, vedrò di far sistemare
l’ispettore Gerkhan e la moglie in un’unica
stanza, te lo prometto.» aggiunse, prima di allontanarsi e
sparire in fondo al
corridoio, avvolto nel suo ampio camice bianco.
N.d.A.
E anche il passato del medico è stato svelato.
Ci avviciniamo alla fine, tengo molto ai prossimi capitoli, spero
davvero
possano lasciarvi qualcosa.
Grazie a chi continua a leggere, a presto!
Sophie
|
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Capitolo 37 *** Ho scelto il silenzio ***
Dal capitolo 4:
"«Bene.
Ora lasciami solo.».
La
donna alzò un sopracciglio, contrariata.
«Per
favore.» aggiunse l’uomo, sforzandosi di essere
gentile.
Lei
annuì e uscì, senza emettere un fiato e
richiudendosi piano la porta alle
spalle.
Keller
ascoltò i suoi passi allontanarsi e sospirò,
immergendosi nel silenzio
che finalmente regnava sovrano nella piccola e umida stanza. Dopo
qualche
minuto passato a contemplare il vuoto, si decise a muoversi e estrasse
dal
cassetto nascosto sotto al tavolo alcuni fogli di carta ingiallita e
una
vecchia penna.
Era
una stilografica, l’uomo si sorprese chiedendosi per quanto
tempo fosse rimasta
abbandonata lì dentro.
Poi
si chinò sul foglio, cominciando a scrivere.
“Cara
Isabelle...”."
Ho
scelto il silenzio
GIORNO
40 – 24 Dicembre.
Frederich
Keller rientrò nella
propria cella lentamente, tanto che una guardia non mancò di
dargli una spinta
poco gentile per intimargli di sbrigarsi.
Una
volta solo, sedette sulla scomoda panca che sporgeva dal muro ed
estrasse
dalla tasca ciò che era riuscito a rubare dalla mensa.
Sapeva che non sarebbe
stato complicato ottenerla, ma vi aveva comunque pensato a lungo prima
di
rubarla.
Ormai
era in carcere da quasi due settimane, ma prima non ne aveva avuto il
coraggio.
Sistemò
l’oggetto sulla panca, alle sue spalle, estraendo dalla tasca
qualcos’altro: la foto della sua famiglia.
Era
riuscito a tenerla con sé, sempre, nonostante tutto. Anche
sotto le
macerie, quel giorno, agonizzante in mezzo ai massi, era stato attento
a non
perderla.
La
spiegò e, con calma, cominciò a studiarla. Come
sempre, come se la guardasse
per la prima volta.
Sophie
e Martha, le sue due bambine: la prima, sette anni, aveva i capelli
scuri e ricci e gli occhi grigi del padre, taglienti ma al tempo stesso
incredibilmente profondi. Era così carina nel suo vestitino
a quadretti gialli,
così allegra e solare. Accanto a lei, Martha, catturata
nella foto mentre
faceva una buffa smorfia rivolta alla sorella. Capelli biondi, occhi
azzurri,
la copia perfetta della madre. Aveva solo quattro anni. Poi, tra le
bambine,
Isabelle. L’amore della sua vita. La donna a suo avviso
più bella che avesse
mai incontrato, la più dolce, la più comprensiva.
Keller
sorrise alla foto, come sorrideva ogni volta che le vedeva: la sua
ragione di vita.
Una
musichetta conosciuta arrivò alle sue orecchie da un
corridoio lontano. Le
guardie provavano a distrarsi, ad accontentarsi di dover essere in
servizio
anche quella sera, forse sperando di poter essere a casa prima della
mezzanotte.
Era
la vigilia di Natale.
Ben
si sedette sul divano, esausto. Chiuse gli occhi per un momento, solo
per
un momento, e quando li riaprì Margaret era davanti a lui,
con un sorriso
dipinto sulle labbra e un maglione rosso attorno alle spalle.
Il
giovane poliziotto le fece cenno con la mano e lei si sedette accanto a
lui,
accoccolandosi sul divano tra le sue braccia.
L’atmosfera
attorno a loro era quasi perfetta.
Le
luci soffuse, il piccolo albero di Natale addobbato alla perfezione,
fuori
il buio della sera e dentro il calore emanato dalla piccola stufa
sistemata
nell’angolo del salotto. Quasi
perfetta.
Perché
a Ben, quella vigilia di Natale sembrava strana.
Durante
gli ultimi anni aveva trascorso il Natale con la famiglia Gerkhan,
piuttosto che con la sua famiglia, attorniato dalle risate scherzose
delle
bambine, suonando la chitarra e spacchettando regali al posto di Lily,
divertendosi come un bambino.
Ora
le cose erano cambiate, ora c’era Margaret, e per questo
probabilmente non
avrebbe trascorso il Natale con la famiglia Gerkhan a prescindere da
ciò che
era successo. Tuttavia, sapere Semir e Andrea soli in un letto
d’ospedale lo
angosciava terribilmente.
«Dovresti
rilassarti, Ben.» disse Maggie a un tratto, come se gli
avesse letto
nel pensiero «Sei stato con loro fino a poco fa, tornerai
domani a vedere come
stanno. Ma ora, per un momento, prova a non pensare.».
«Non
riesco a non pensare.» mormorò Ben, guardandola
negli occhi «Loro sono...
è come se fossero la mia famiglia, come faccio a non
pensare?».
La
ragazza sospirò, annuendo comprensiva, ma estrasse qualcosa
dalla tasca dei
jeans che indossava: un foglio piegato in quattro e leggermente
ingiallito.
Con
un mezzo sorriso, lo spiegò e lo mise davanti agli occhi di
Ben,
mostrandoglielo.
«La
lettera di Keller?» chiese il poliziotto, con il timore negli
occhi.
«Non
credi sia giunto il momento di leggerla, Ben?» fece lei,
stringendosi di
più al poliziotto e mettendogli il foglio tra le mani.
«Non
so se voglio farlo, Maggie...».
«Dai...»
sussurrò lei, stringendogli la mano.
Poi,
cominciarono a leggere.
Keller
ripiegò la foto e la mise in tasca, dove era sempre stata.
Ripensò
a Semir Gerkhan e a tutto quello che gli aveva fatto.
Ripensò
a quegli occhi colmi di terrore e rivide per l’ennesima volta
se
stesso, sette anni prima.
Ripensò
alle grida della moglie e delle bambine, legate in
quell’edificio
predisposto all’autodistruzione e alle parole piene di odio
di Kate.
Ripensò
a Ben Jager, a quel ragazzo che gli aveva parlato, lo aveva ascoltato,
nonostante tutto.
Aveva
ottenuto quello che voleva, aveva rovinato la vita a Gerkhan,
esattamente
come aveva previsto.
Immerso
nei propri pensieri, si alzò, prese la corda che aveva
rubato dalla
mensa e rimase fermo a guardarla: era una corda sottile, gli addetti la
usavano
per chiudere i sacchi delle patate. Ma era abbastanza resistente.
Spostò
lo sguardo sulle inferriate della piccola finestra che si apriva nel
muro grigio e uniforme.
Poi
tornò a guardare la corda e, con un mezzo sorriso, la
legò a cappio.
Sapeva
perfettamente quello che stava facendo.
Cara Isabelle,
lo so, non sarai tu a leggere questa lettera, ma
voglio comunque indirizzarla a
te. Perché a leggerla sarà qualcuno che si prende
il diritto di scavare nella
mia vita... e la mia vita sei tu, sei sempre stata tu.
È il 17 Novembre e ti scrivo da una
sudicia cantina nella periferia di Colonia.
Sto preparando la mia vendetta, Isabelle, sto
preparando la vostra vendetta. Tu
e le bambine sarete vendicate, finalmente, dopo sette lunghi anni.
Lo so, non approveresti. E, probabilmente, non
approverei nemmeno io se non
fossi accecato dall’odio.
Ma io vedo solo questo, Isabelle, vedo solo odio.
Ho trascorso sette anni in
una cella di cui qualcuno aveva già buttato via la chiave e
l’unica cosa che mi
ha tenuto in vita, oltre al vostro ricordo, è stato
l’odio per quell’uomo.
Quell’uomo che vi ha portate via da me. Che vi ha ridotto in
cenere.
Lui vedrà la sua vita crollare, fosse
l’ultima cosa che faccio.
Semir Gerkhan desidererà di morire,
esattamente come l’ho desiderato io. Ma
sopravvivrà, così come io sono sopravvissuto.
Lo so, Isabelle. Lo so che non approveresti. Ma non
riesco a darmi pace in
nessun altro modo.
Erano per l’America, sai? Quei quattro
biglietti che ti ho consegnato in una
busta chiusa, sette anni fa, e che ti ho chiesto di custodire in borsa
fino a
che non fossi tornato alla macchina.
Erano per l’America.
Avrei concluso lo scambio, saremmo fuggiti insieme.
Io, te, le nostre bambine.
Avremmo cambiato vita, avrei cambiato
vita. Sarei diventato il padre che loro meritavano, perché
loro meritavano di
più. Lo volevo davvero.
Ma poi quell’ispettore si è
messo in mezzo, Isabelle.
E mi ha tolto tutto.
Tu mi aspettavi in macchina, non avrai capito che
cosa stesse succedendo. Avrai
udito gli spari, magari avrai provato a farti notare, ma i vetri erano
oscurati. Magari avrai provato a scendere, ma le portiere erano
bloccate.
E Gerkhan ha continuato a sparare.
Tu avrai visto le fiamme, Isabelle. O forse non hai
avuto nemmeno il tempo per
vederle, per sentire il loro calore.
Siete diventate cenere sotto i miei occhi, e io ho
cessato di vivere e
cominciato a sopravvivere, in quel preciso istante.
Chiunque tu sia, lettore, probabilmente la mia
vendetta ora che leggi è già
stata compiuta. Ebbene, tu sappi che io avrei voluto cambiare vita, che
quell’uomo me l’ha impedito e mi ha tolto tutto
ciò che amavo, e che io avevo
bisogno di far provare a lui le stesse cose, per ricominciare a vivere.
Chiunque tu sia, sappi che sono stato un uomo, non
solo un mostro. E ciò che mi
rendeva uomo, erano mia moglie e le mie figlie. E lui me le ha
strappate.
Chiunque tu sia, non è pietà
quella che ti chiedo. Non chiedo niente. Ho
scritto perché sento il bisogno che qualcuno legga, che
qualcuno ascolti. Che
qualcuno sappia perché.
Isabelle, perdonami. Se puoi vedermi, se puoi
osservarmi dall’alto, ti prego,
perdonami.
Ti amo tanto quanto sette anni fa, amo le nostre
figlie e le sento ogni giorno,
sento le loro voci nella mia testa. E gridano, Isabelle, loro non
smettono mai
di gridare.
Forse dopo che avrò fatto quello che
devo fare, forse loro smetteranno di
gridare e ci sarà silenzio.
Voglio solo silenzio.
Ti amo, Isabelle. Ti amerò sempre.
Ben
e Margaret staccarono
contemporaneamente gli occhi dal foglio e incrociarono tra di loro gli
sguardi.
Entrambi
avevano gli occhi lucidi.
«Voleva
davvero cambiare vita.» mormorò Maggie, in quella
che sembrò una via di
mezzo tra una domanda e una semplice affermazione.
«Maledetto
bastardo.» fu l’unica cosa che riuscì a
sussurrare Ben, trattenendo
a stento le lacrime e allontanando da sé il foglio, per
vincere l’impulso di
strapparlo «Maledetto bastardo...».
Non
gridavano più.
Keller
non le sentiva più.
Per
la prima volta, dopo sette anni, appeso a quelle inferriate con un
cappio
stretto attorno al collo, non sentiva più le grida di dolore
delle sue bambine.
Solo
silenzio.
Per
la prima volta.
Stava
scegliendo di non sopravvivere.
Ora
le bambine gli correvano incontro, allegre. Martha, sorridente, seguita
da
Sophie nel suo vestito giallo a quadretti. E poi lei, Isabelle, con gli
occhi
blu scintillanti e pieni di speranze.
Per
una nuova vita, insieme.
Le
guardie lo trovarono lì, nella
sua cella, la mattina seguente, con uno strano sorriso disegnato sul
volto
ormai immobile.
Margaret
si alzò dal divano, per poi tornare a sedersi accanto a Ben
con un
plico di fogli rilegati alla bell’è meglio, che
mostrò al poliziotto. La prima
pagina era di cartoncino nero e non vi era scritta nemmeno una parola.
Lui
la guardò con fare interrogativo, ancora sconvolto dalle
parole di Keller
che aveva appena finito di leggere.
«Che
cosa...».
«Ho
finito il libro, Ben.» spiegò lei, posandogli il
plico sulle ginocchia
«L’ho finito e vorrei che lo leggessi. Non lo
pubblicherò. Ma vorrei che tu lo
leggessi.».
L’ispettore
guardò il cartoncino nero, senza capire.
«Questo
è il romanzo a cui stavi lavorando?».
La
ragazza annuì, guardandolo negli occhi.
«Ci
tengo molto che tu lo legga.».
Ben
annuì, ma non lo sfogliò. Rimase immobile a
osservare la copertina nera,
senza trovare la forza di aprirlo, pur non conoscendone il motivo.
Spostò
lo sguardo su Margaret e incatenò i suoi occhi scuri a
quelli verdi di
lei.
Lei
gli prese il viso tra le mani e gli accarezzò i capelli,
dolcemente.
«Ben,
fammi un sorriso. È mezzanotte. È
Natale.».
Ben
distolse lo sguardo, senza rispondere.
Tornò
a guardare il plico di fogli che aveva sulle ginocchia e finalmente
sollevò il cartoncino nero, scoprendo un foglio bianco sul
quale troneggiava,
al centro, una scritta in corsivo.
Il
titolo.
Leggendolo,
Ben sorrise.
“Sopravviviamo.”.
N.d.A.
E qui si conclude la storia di Keller.
Anche il contenuto della lettera
è stato svelato, piano piano tutti i pezzi si
risistemano, più o meno.
Grazie sempre, a presto!
Sophie
|
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Capitolo 38 *** Per Lily ***
Dal
capitolo precedente:
"Lei gli prese il viso tra le
mani e gli accarezzò i capelli, dolcemente.
«Ben, fammi un
sorriso. È mezzanotte. È Natale.».
Ben distolse lo sguardo,
senza rispondere.
Tornò a
guardare il plico di fogli che aveva sulle ginocchia e finalmente
sollevò il cartoncino nero, scoprendo un foglio bianco sul
quale troneggiava,
al centro, una scritta in corsivo.
Il titolo.
Leggendolo, Ben sorrise.
“Sopravviviamo.”."
Per
Lily
VENTI
GIORNI DOPO – GIORNO 60.
Andrea
oltrepassò la soglia
dell’ospedale sulle proprie gambe e respirò
l’aria fredda di Gennaio a pieni
polmoni.
Era finita, finalmente.
Poi però i pensieri tornarono a scorrere nella sua mente e
il suo volto si
rabbuiò, di nuovo.
Non era vero, non era finita. Non sarebbe mai
finita, mai più.
Guardò poco distante da lei sua madre che controllava Aida,
seduta
sull’altalena nel giardinetto che sorgeva di fronte al grande
edificio: la
stavano aspettando.
Armandosi nuovamente di sorriso, raggiunse la sua bambina e la
abbracciò forte.
«Okay,
direi che siamo a posto.»
disse Ben tra sé e sé, controllando
l’interno di un cassetto del comodino in
quella stanza di ospedale.
Guardò il letto vuoto e le pareti bianche che lo
circondavano e come sempre
provò l’impulso irrefrenabile di scappare, di
allontanarsi da quel posto per
non rimetterci piede mai più.
Questa volta, però, sarebbe stato effettivamente
così.
Era finita, non avrebbe più trascorso intere ore in quelle
stanze asettiche,
Semir e Andrea andavano a casa e lui ne era enormemente sollevato.
Uscendo nel corridoio, vide Semir sulla sua sedia a rotelle che parlava
con
Christopher Schneider e, vedendolo, il sollievo lo abbandonò
del tutto.
Come sempre.
Li raggiunse con un sorriso stampato in volto, rivolgendo al medico un
veloce cenno
di saluto.
«Ben, ciao.» lo apostrofò Chris, con un
sorriso «Ho già spiegato tutto
all’ispettore Gerkhan, direi che dovete solo andare e tornare
a casa al più
presto.».
«Può anche non chiamarmi più
“ispettore Gerkhan”, dottore.»
puntualizzò Semir,
con un sorriso amaro.
Il medico rimase in silenzio, visibilmente a disagio. Errori del genere
con i
pazienti non poteva permetterseli, non più.
Aprì la bocca per scusarsi, ma Ben lo precedette, facendo
finta che quella
frase non fosse stata mai pronunciata.
«Non ti preoccupare, Chris, andiamo dritti dritti a casa.
Andrea è già giù con
sua mamma e Aida.».
Schneider annuì, guardando il ragazzo ed evitando invece lo
sguardo del suo
paziente.
«Bene... ecco, lei...» balbettò,
rivolgendosi nuovamente a Semir «Lei... lei e
sua moglie dovrete assolutamente continuare a prendere i farmaci che vi
ho
prescritto e... e le visite, venite alle visite di controllo, va
bene?».
Il turco annuì «Certo, va bene. Grazie di
tutto.» fece, porgendogli la mano.
Il medico la strinse con vigore, guardandolo finalmente negli occhi.
«Ho fatto solo il mio lavoro. Buona fortuna.».
Semir accennò a un sorriso, poi distolse lo sguardo e
cominciò a spingere la
propria sedia verso l’ascensore, senza aspettare Ben, che
invece rimase fermo
ancora per qualche istante accanto al chirurgo.
Ben
guardò l’amico avviarsi lungo
il corridoio silenzioso e gli occhi gli divennero lucidi.
«Ehi, Ben, guardami.» fece Schneider, prendendogli
le spalle e costringendolo a
guardarlo negli occhi «Ben, non fare così,
okay?».
Il giovane ispettore scosse leggermente il capo, si passò
una mano sugli occhi.
«Guardalo, Chris. La sua vita è distrutta.
È su una sedia a rotelle. Io... io
sto male a vederlo così.».
«Lo so, Ben, lo so. Perché gli vuoi bene. Ma lui
ha bisogno che tu sia forte,
lo sai.».
Ben annuì, con un sospiro.
«Io non so come ringraziarti. Non sei stato solo il suo
medico, tu hai aiutato
tantissimo anche me, davvero.».
Schneider sorrise, guardando il ragazzo con un affetto quasi paterno
«Lo ripeto
anche a te, ho fatto solo il mio lavoro. Se avessi bisogno di qualcosa,
di
qualunque cosa, chiamami. Va bene?».
«Okay, grazie.».
«Ora raggiungi il tuo amico e uscite da questo dannato
ospedale.».
Ben rise, rivolgendo un ultimo cenno di saluto al medico e avviandosi
verso
l’ascensore, ma l’uomo lo richiamò
ancora una volta.
«Ben, aspetta, dimenticavo...» disse, estraendo
dalla tasca un biglietto da
visita e porgendoglielo «È di uno psicoterapeuta.
Ora è anziano, ma è bravo,
molto, lui mi ha... mi ha aiutato molto dopo quello che è
successo, dieci anni
fa. E credo che Semir e Andrea avranno bisogno di aiuto.».
Ben prese il biglietto e lo mise in tasca, senza leggere il nome che vi
era
scritto sopra.
«Vedi, Chris? Tu fai molto più del tuo lavoro.
Grazie.» mormorò, allontanandosi
e raggiungendo Semir davanti alle porte dell’ascensore.
Sarebbe rimasto grato a quell’uomo per sempre.
Ben
fece scattare la serratura e
aprì la porta di casa Gerkhan senza lasciare nemmeno per un
attimo che il
sorriso che si era stampato sul volto uscendo dall’ospedale
potesse sparire dal
proprio viso.
Tenne la porta aperta mentre Andrea varcava la soglia di casa, seguita
da Aida
che teneva stretta la mano della nonna.
Semir, invece, rimase indietro.
Ben corrugò appena la fronte non vedendolo entrare, ma poi
lo notò fermo a
pochi passi dalla soglia, sulla propria sedia a rotelle, girato verso
il
giardino antistante la villetta.
«Ehi socio... non entri?» gli domandò,
appoggiandogli una mano sulla spalla e
facendolo quasi sobbalzare.
«Arrivo.» mormorò il turco, con un
sospiro.
Quindi girò la sedia e
varcò la soglia,
senza degnarlo di uno sguardo.
«Finalmente,
mi mancava la mia
casa.» esclamò Aida, sprofondando sul divano e
annusando l’aria come se non
tornasse in quel luogo da anni «A te non mancava,
mamma?».
«Ma certo che mi mancava, tesoro.» rispose Andrea,
scompigliandole i capelli e
poi lasciandole un tenero bacio sulla fronte «Ben, vuoi un
caffè?».
Ben annuì, accettando volentieri.
Mentre Andrea faceva gli onori di casa, quasi come se
dall’ultima volta che
aveva preparato un caffè a Ben non fosse accaduto nulla di
terribile, Helen Schäfer
si dileguò, salutando la figlia con un bacio sulla guancia e
scusandosi,
dicendo che sarebbe andata a casa e che per qualsiasi problema sarebbe
tornata
immediatamente.
Ben guardò con tenerezza l’anziana signora,
pensando a quanto anche lei avesse
dovuto sopportare. La accompagnò alla porta, salutandola con
affetto e
aspettando che sparisse in fondo alla via prima di tornare in casa.
Quando richiuse la porta, Andrea era in cucina con Aida ad aspettare
che il
caffè fosse pronto, mentre Semir era rimasto immobile
nell’ingresso, assorto
nei propri pensieri.
La voce squillante della bambina arrivava dall’altra stanza e
al ragazzo,
nonostante tutto, metteva allegria.
Si avvicinò all’amico, con un sorriso.
«Socio...».
«Quando la pianterai di chiamarmi così,
Ben?» lo interruppe Semir, bruscamente.
Il più giovane rimase di pietra, in silenzio.
«Non esiste più nessun socio, non lo
capisci?» continuò l’altro, alzando la
voce.
«Semir, dai, non dire così...».
«Non dire così, certo, che cosa dovrei
dire?».
Ben non rispose.
Pensò ansiosamente a che cosa avrebbe potuto dire per
tranquillizzare l’amico,
per aiutarlo, ma la verità era che non sapeva come fare. E,
peggio, lui non
voleva essere aiutato.
«Non sarò mai più il tuo socio,
Ben.» continuò Semir, con più calma,
abbassando
la voce «È tutto finito, non posso più
fare niente. Vorresti sentirmi dire che
sono felice di essere tornato a casa? Non lo sono... io non sono
felice.».
«Lo so, socio. Ma io continuerò sempre a chiamarti
così, perché per me socio
non significa solo compagno di
pattuglia.» fece Ben, sedendosi sul divano a pochi passi
dall’amico «Il fatto
che tu sia su una sedia a rotelle non significa che tu non possa
più fare
niente... devi reagire.».
«Non voglio reagire.» sillabò il turco,
ora sottovoce.
«Ma devi farlo, Semir! Fallo per Andrea, per Aida... fallo
per Lily...».
«Lascia perdere Lily.».
«Non lascio perdere Lily.» insistette il
più giovane, guardando l’altro negli
occhi «Non lascio perdere Lily, perché so che lei,
una volta cresciuta, avrebbe
desiderato che tu andassi avanti. Che tu continuassi a
vivere!».
«Lily non crescerà mai perché
è morta ed è morta per colpa mia.»
sbottò Semir,
alzando nuovamente la voce «E non dirmi di non sentirmi in
colpa, Ben, perché è
così, è stata colpa mia. E il fatto che io sia
una sedia a rotelle è... io
sarei dovuto morire.».
«Hai mai pensato che c’è un motivo se
non sei morto, Semir? Lo hai mai
pensato?» gridò a sua volta Ben, protendendosi in
avanti.
«Perché evidentemente la mia condanna è
quella di sopravvivere e lui lo
aveva capito fin dall’inizio. Lui
ha sempre avuto ragione.» replicò il
turco, senza distogliere lo sguardo.
«Lui? Forza, pronuncialo il suo nome, Semir. Pronuncia quel
nome, dannazione! È
morto, è finita ormai, lui non c’è e
non ci sarà mai più.».
«Quel vigliacco diceva di essere condannato a sopravvivere
tanto quanto me, ma
poi si è suicidato. Dimmi perché lui
si è potuto arrogare questo diritto. Dimmi perché
lui è morto e io invece
devo essere ancora qui!».
«Perché lui non aveva altre ragioni per
vivere.» esclamò Ben, accorgendosi solo
in quel momento di quanto i loro toni si fossero accesi. Sicuramente,
dall’altra stanza, Andrea aveva potuto udire tutta la
conversazione.
«Lui non aveva altre ragioni per vivere.»
ribadì l’ispettore, abbassando la
voce «Tu le hai, Semir. Devi vivere per Lily.».
Semir aprì la bocca per ribattere, ma vide Andrea comparire
sulla soglia della
stanza e lasciò perdere.
La donna rimase ferma a fissarlo un momento, leggendo negli occhi del
marito
una disperazione che era anche la sua disperazione.
Poi abbozzò un sorriso e si rivolse a Ben «Il
caffè è pronto, venite in
cucina?».
Il giovane ispettore annuì, alzandosi dal divano.
Fece per raggiungere la sedia di Semir per spingerla fino alla stanza
accanto,
ma l’amico si era già mosso da solo.
Sospirò, lanciando ad Andrea un’occhiata
preoccupata, ma lei diresse lo sguardo
direttamente a terra.
N.d.A.
Eccoci qui, la famiglia Gerkhan finalmente a casa e noi a due capitoli
dalla
fine...
Grazie sempre, a presto!
Sophie
|
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Capitolo 39 *** Sopravviviamo ***
Dal
capitolo precedente:
"«Hai
mai pensato che c’è un motivo se non sei morto,
Semir? Lo hai mai
pensato?» gridò a sua volta Ben, protendendosi in
avanti.
«Perché evidentemente la mia condanna è
quella di sopravvivere e lui lo aveva capito fin dall’inizio.
Lui ha sempre avuto ragione.» replicò il
turco, senza distogliere lo sguardo.
«Lui? Forza, pronuncialo il suo nome, Semir. Pronuncia quel
nome, dannazione! È
morto, è finita ormai, lui non c’è e
non ci sarà mai più.».
«Quel vigliacco diceva di essere condannato a sopravvivere
tanto quanto me, ma
poi si è suicidato. Dimmi perché lui
si è potuto arrogare questo diritto. Dimmi perché
lui è morto e io invece devo essere ancora qui!».
«Perché lui non aveva altre ragioni per
vivere.» esclamò Ben, accorgendosi solo
in quel momento di quanto i loro toni si fossero accesi. Sicuramente,
dall’altra stanza, Andrea aveva potuto udire tutta la
conversazione.
«Lui non aveva altre ragioni per vivere.»
ribadì l’ispettore, abbassando la
voce «Tu le hai, Semir. Devi vivere per Lily.»."
Sopravviviamo
UN
MESE DOPO – GIORNO 90.
Sopravviviamo.
La voce era tagliente ma calda allo stesso tempo, il suo tono incuteva
terrore.
Era una costante.
Poi una casa, la sua casa. Le grida. La voce di Andrea, fredda e
distante.
Io non ti amo più.
Un pezzo di carta. Una ricerca, la ricerca di storia per Aida.
Tu l’hai delusa.
E poi un turbinio di immagini orribili e confuse, ancora e ancora.
Vedrai la tua vita crollare.
Andrea, ancora la voce di Andrea.
Sappi, Semir, che se dovesse succederci
qualcosa... qualunque cosa... sarà solo colpa tua.
Litigi, urla.
Non è certo un mio problema se tu ti distrai mentre guidi...
E nemmeno se
abbiamo due agenti davanti alla porta è un mio problema. Di
certo non ne
avremmo bisogno, se tu non ci fossi.
Separiamoci. Separiamoci...
Margaret e Ben. Il comando, l’ufficio. I mobili grigi
sembrano aver preso improvvisamente
a volargli intorno, roteando su se stessi fino a farlo impazzire.
Lui non ti vuole morto, Semir, lui vuole
che tu viva. Vuole che tu viva e che veda crollare tutto attorno a te.
Movimento, ancora, grida, il pianto di Lily. La voce flebile
e spaesata di
Aida.
Perché l’altro ieri sera
te ne sei andato
e hai sbattuto la porta? E perché hai detto alla mamma
“separiamoci”?
Poi l’edificio. Quegli occhi grigi, quello sguardo
profondo e malvagio,
quella risata terrificante.
Credo che alla tua famiglia accadrà
qualcosa di molto simile a quello che è successo alla mia...
che cosa ne pensi?
Basta... quella risata...
Io so tutto. Conosco ogni argomento delle
vostre discussioni. So quanto poco sei stato in casa in questi mesi, so
quanto
poco hai fatto per la tua famiglia nelle ultime settimane, so quanto
voi due
insieme non siate più felici. So che tua moglie non ti ama
più.
Il pianto femminile in sottofondo a quella voce maledetta.
Io posso averle messe in pericolo... ma
tu le hai uccise. Tu. E adesso tua moglie e le tue figlie moriranno per
colpa
tua. Perché in fondo io e te siamo uguali, Gerkhan. Entrambi
resistiamo.
Resistiamo e vediamo morire le persone a noi più care, e
forse per noi è così
che deve essere. Ma ricordalo Gerkhan, questo ricordalo sempre: tu
sarai la
causa della atroce morte a cui sta per andare incontro la tua famiglia,
tu
sarai causa delle tue stesse sofferenze. E dovrai convivere con questa
consapevolezza.
E sarà insopportabile.
Lacrime.
Dimmi che Ben ci troverà!
Lui...
Io le amavo e tu le hai ammazzate! Le mie bambine sono morte per colpa
tua,
maledetto bastardo assassino!
Soffocamento.
Tu soffrirai. Mi pregherai. Desidererai
morire. Ma non morirai... perché io e te sopravviviamo,
Gerkhan, è questo il
nostro Inferno.
Quella risata, quella risata non vuole saperne di smettere.
Quella voce
continua a prendersi gioco di lui.
Non mi serve che muoiano disidratate.
Basta, basta, basta. Confusione, dolore, ancora una
confusione alienante.
Se sono un folle è
perché tu mi hai reso
tale.
Fino a dove vuoi arrivare, Keller?
Tu fino a dove pensi che io possa
arrivare? Quanto credi di poter sopportare? Io arriverò fino
alla fine.
Scegliere? No, no, no...
Abbi il coraggio di dire che
sacrificheresti il tuo migliore amico. Che preferiresti la sua morte a
quella
di tua moglie.
Caos, rumori. Il pianto della bambina, le grida di Andrea.
Quel che è fatto è
fatto. È colpa tua, è solo
colpa tua.
Sarà peggio il dopo. Ora fa male, ma sarà peggio
la vita.
Rumore assordante, la terra, le pareti, l’edificio che trema.
Polvere.
Qui c’è il corpo di una
bambina...
Buio, poi il bianco asettico dei corridoi. E confusione, di nuovo. Poi
un
silenzio assordante.
Andrea è in coma da tredici giorni.
Ben... Ben parla, piano, a bassa voce. Ma i rumori attorno a
lui sono
troppo forti. Tutto sembra girare.
Lily è rimasta... lei è
rimasta
schiacciata dalle pietre... Non ce l’ha fatta, lei
è morta prima che i soccorsi
potessero fare qualsiasi cosa...
Prigionia.
Non potrai più camminare.
Quella risata, ancora, sempre. Gli occhi rimangono sigillati.
Le palpebre
non hanno intenzione di sollevarsi, non ancora.
Hai mai pensato che c’è un motivo se non sei
morto, Semir?
Sopravviviamo. Noi sopravviviamo.
Semir
aprì finalmente gli occhi,
gridando, provando a inspirare aria rimanendo sdraiato nel letto.
Aveva freddo, la fronte imperlata di sudore e il cuore che gli batteva
nel
petto a un ritmo spaventoso.
Con il fiatone, si guardò attorno, tentando di calmarsi.
Al suo fianco, Andrea dormiva tranquilla, non si era svegliata
sentendolo
gridare.
Semir si trattenne dalla tentazione di accendere la luce e svegliarla e
affondò
meglio la testa sul cuscino, fissando il soffitto, con
l’intenzione di
riprendere fiato e lasciare che il suo battito cardiaco tornasse
regolare.
Ancora ansimando, chiuse gli occhi per un momento, ma immediatamente
l’immagine
del lettino vuoto e spoglio di Lily si impadronì della sua
mente e per
scacciarla l’ex ispettore fu costretto a sollevare nuovamente
le palpebre.
In preda al panico, tese una mano oltre la sponda del letto, ma con
ansia
crescente si accorse che la sua sedia a rotelle non c’era.
Doveva averla
spostata Andrea la sera prima e ora si trovava troppo lontana dal
letto. Non
l’avrebbe raggiunta da solo.
All’improvviso gli parve di trovarsi dentro a una fornace.
Aveva caldo, troppo
caldo.
I suoi battiti accelerarono nuovamente.
Individuò il profilo immobile della sedia
nell’oscurità, ma era troppo lontana.
Non l’avrebbe mai raggiunta.
Chiuse gli occhi e questa volta fu l’immagine di lui a tornare a tormentarlo.
Li riaprì, ansimando, in cerca d’aria.
Aveva nausea, gli girava la testa.
Tremava.
Allungò ancora una volta la mano oltre la sponda del letto,
verso la sedia che
non avrebbe mai raggiunto.
Ebbe netta la sensazione che da un momento all’altro tutto
sarebbe finito, che
lui stesso avrebbe semplicemente cessato di esistere.
La tachicardia era sempre più forte, gli sembrava di
soffocare...
Andrea
accese l’abatjour sul suo
comodino, mettendosi seduta sul letto e guardando il marito disteso con
aria
preoccupata.
«Semir, che cosa succede? Non ti senti bene?».
Semir la guardò.
Gradualmente, i suoi battiti cardiaci cominciarono a regolarizzarsi.
Il respiro decelerò, lentamente.
«No... no, sto bene... è stato solo un
incubo.».
La donna alzò un sopracciglio, tornando distesa ma lasciando
la luce accesa
«Solo un incubo? Semir, hai avuto un altro attacco
d’ansia, non è così?».
Lui sospirò, distogliendo lo sguardo.
«Ho solo avuto un incubo e... e poi avevo bisogno
d’aria, tutto qua. E la sedia
era lontana.».
«L’ho spostata io per passare ieri sera,
scusami.» mormorò Andrea, continuando
a guardare il marito con preoccupazione «Semir, sospendere i
colloqui con lo
psicoterapeuta è stato un errore enorme, lo sai. Quattro
sedute non servono a
niente, devi riprendere a parlare con lui.».
Semir non rispose.
Non voleva tornare in quello studio, non voleva vedere nessuno. Lo
psicologo lo
obbligava ogni volta a rivangare il passato e lui non voleva. Non
voleva ogni
volta ritrovarsi dentro a quell’edificio, sotto a quella
colonna, in quella stanza
di ospedale. Voleva dimenticare, solo fare finta che nessuno di quei
fatti
fosse mai accaduto.
L’orologio affisso alla parete della camera segnava le tre e
quarantacinque del
mattino.
«Che cosa hai sognato questa volta?»
domandò la donna, rimanendo distesa su un
fianco a guardarlo.
«Ho sognato... lui... e poi quell’edificio, te,
Lily, tutto quanto. Ogni volta
che chiudo gli occhi io... io...».
«Anche io la sogno spesso.» concluse Andrea al suo
posto, accennando a un
sorriso.
Semir girò il viso di lato, trovandosi faccia a faccia con
la moglie.
La guardò negli occhi, poi discese con lo sguardo fino alla
cicatrice della
sternotomia che si intravvedeva da sopra la scollatura della camicia da
notte
che indossava.
Allungò una mano e tracciò la linea della
cicatrice con un dito.
«Come fai a dormire, Andrea?».
Lei si strinse nelle spalle, scuotendo il capo. Aveva gli occhi lucidi.
«Non lo so. Ma penso a lei in ogni momento. In ogni istante.
Prima di
addormentarmi e non appena mi sveglio. Penso a lei
continuamente.» rispose, in
un sussurro.
Semir annuì, tornando a guardarla negli occhi, ma non
proferì parola.
Fu Andrea a continuare «Dai, ora spengo la luce e dormiamo...
buonanotte.»
disse, lasciandogli un bacio a fior di labbra all’improvviso.
Poi spense la luce.
Dormirono entrambi fino al suono della sveglia.
«Forza,
mamma! Dai, presto, o
facciamo tardi a scuola!» gridò Aida con quanto
fiato aveva in gola, per
richiamare Andrea che, ancora al piano di sopra, si stava vestendo il
più in
fretta possibile.
«Sono pronta, tesoro.» fece la donna, scendendo le
scale in fretta e afferrando
al volo lo zaino della figlia appoggiato vicino alla porta, per
porgerglielo.
«Dai, oggi la maestra spiega scienze.» disse ancora
la bambina, saltellando
impaziente.
«Sì, eccomi, eccomi.» ripeté
Andrea, cercando nella borsa le chiavi della
macchina, pronta a uscire.
«Aida, la merenda.» fece Semir, sbucando dalla
cucina sulla sua sedia a rotelle
e porgendo alla figlia un pacchettino fasciato con la carta di
alluminio «La
stavi dimenticando.».
«Grazie papi.» esclamò Aida, con un
sorriso, afferrando la merenda e dando in
cambio al padre un sonoro bacio sulla guancia.
«Ciao!» aggiunse poi, mentre in fretta usciva con
Andrea e si avviava
di corsa alla macchina.
«Ciao cucciolo.» mormorò Semir, mentre
fermo sulla soglia le guardava
allontanarsi, con un sospiro.
Aida
sarebbe rimasta a scuola
fino alle quattro quel giorno.
Tornata a casa, Andrea aveva cominciato a sbrigare alcuni lavori, in
silenzio.
Ormai in quella casa c’era silenzio, troppo silenzio. A parte
quando a cena
Aida parlava a ruota libera raccontando che cosa avesse fatto a scuola
o quando
Ben li andava a trovare, durante il resto delle giornate il silenzio
regnava
sovrano su ogni cosa.
Aida non aveva mai perso la sua innocente allegria, ma sempre
più spesso
chiedeva di andare a fare i compiti da un’amica piuttosto che
da un’altra e
Andrea aveva capito perfettamente che anche questa fosse manifestazione
di un
disagio, ma non sapeva come prendere in mano la situazione.
Sia lei che la bambina andavano settimanalmente dallo psicoterapeuta
che il
dottor Schneider aveva indicato loro.
Aida non ne capiva appieno l’utilità, ma
continuava a ripetere che parlare con
quel signore le faceva piacere. I suo accento inglese la faceva ridere,
diceva,
e poi le piaceva poter parlare di sua sorella ogni tanto,
perché in casa non se
ne parlava mai.
Quanto ad Andrea, anche a lei parlare con quell’uomo, ormai
piuttosto anziano
ma molto capace, faceva bene. La aiutava a vivere, nonostante tutto. Ad
andare
avanti e a concentrarsi sulla figlia più grande, anche se il
pensiero di Lily
nella sua mente era sempre presente.
Ma Semir non ne aveva voluto sapere. Era andato dallo psicologo qualche
volta,
all’inizio, ma poi aveva deciso che non vi avrebbe
più messo piede e da quel
momento era stato irremovibile.
È proprio quando stiamo troppo in
silenzio che abbiamo più cose da dire.
Così diceva sempre lo psicoterapeuta, ma Semir non ci
credeva. Non gli aveva
mai creduto.
Svuotando la cesta dei panni da lavare, Andrea sospirò,
pensando a quanto per
lei, invece, quell’anziano signore fosse stato più
un angelo custode che un
semplice strizzacervelli.
Il suono del campanello la riscosse dai suo pensieri e la donna corse
ad
aprire.
Trovando Ben sulla soglia della porta, sorrise.
In quel lungo periodo grigio che sembrava senza fine, quel ragazzo era
capace
di portare sempre almeno un po’ di colore. Passava spesso a
trovarli, anche per
pochi minuti, quando non era in servizio. Non li aveva mai lasciati
soli.
«Aida mi ha detto ieri al telefono di aver cucinato dei
biscotti e io le ho
promesso che sarei venuto ad assaggiarli. Ho finito il turno,
così...» esordì
il giovane ispettore, con un sorriso allegro.
«La tua principessa non c’è.»
rispose la padrona di casa, spostandosi per far
entrare Ben «Esce alle quattro oggi, ma i biscotti te li
faccio assaggiare
comunque, entra.».
Ben respirò a pieni polmoni il profumo di pulito che lo
aveva accolto entrando
nell’ingresso e si diresse, seguendo Andrea, verso la cucina.
«Semir dov’è?».
«Fuori, in giardino.» rispose la donna, senza
guardarlo, preparando la
caffettiera.
Il minuto di silenzio che ne seguì fu più che
eloquente.
«Come va?» domandò il poliziotto, a
bruciapelo.
«Sempre peggio, Ben... la notte non dorme, fa incubi in
continuazione, spesso
ha dei veri e propri attacchi di panico. E durante il giorno non fa
praticamente niente, ogni tanto aiuta Aida con i compiti o sta in
giardino,
solo, al freddo...».
Il ragazzo annuì. Ormai il sorriso gli era completamente
scomparso dalle
labbra.
«Ben, tu non devi passare sempre... Hai il lavoro, hai
Margaret, non hai
bisogno anche dei nostri problemi.» mormorò
Andrea, andando verso la porta a
vetri, dalla quale poteva scorgere il marito in giardino, sulla sua
sedia a
rotelle, che dava loro le spalle.
Ben la raggiunse accanto alla finestra «Lo sai che vengo
volentieri. Voi siete
anche la mia famiglia.».
Lei accennò a un sorriso. Poi, sempre guardando fuori dalla
finestra, posò una
mano sul vetro, osservando la figura immobile di Semir in giardino.
«Questa volta non penso davvero che ce la
farà.» sillabò poi, in un sussurro.
«Non dire così, Andrea, non è
vero...».
«Sono passati quasi tre mesi e la situazione non migliora,
non migliora per
niente. Se penso che prima che questa storia cominciasse io ero
lì lì per
lasciarlo...».
«E adesso?» domandò Ben, a un tratto.
La donna rimase un attimo in silenzio, fissando sempre il giardino.
«Non lo lascerei mai, guardalo...».
«Non credo lui voglia che tu rimanga con lui per
pena.».
Questa volta Andrea distolse lo sguardo dal marito oltre i vetri per
portarlo
negli occhi del suo interlocutore «Non rimango con lui per
pena, Ben. Rimango
con lui perché è mio marito e io ho bisogno di
lui almeno tanto quanto lui ha
bisogno di me.».
L’ispettore sospirò, piano.
«Sai... tre mesi fa, quando Semir mi ha raccontato che tu gli
avevi detto di
non amarlo più... lui era distrutto. Era già
distrutto allora, quando Keller
ancora non era entrato per la seconda volta nella vostra vita.
Perché lui non
ha mai smesso di amarti, e credo che nemmeno tu lo abbia fatto, Andrea.
Credo... io crederò per sempre che la vostra fosse solo una
crisi temporanea,
perché io non riesco a immaginare te senza di lui
né lui senza di te. Davvero.
Voi siete la famiglia per
eccellenza... tornate a esserlo.».
«Non è facile.» mormorò la
donna, distogliendo lo sguardo.
Poi abbassò la maniglia e uscì in giardino,
lasciando Ben sulla soglia a
guardare.
«Non
hai freddo, Semir?» domandò
Andrea, raggiungendo il marito, che stava immobile stretto nelle spalle.
Lui si limitò a scuotere il capo.
«C’è Ben, è venuto a
salutarci... Dai, vieni dentro.» aggiunse, sfiorandogli
una spalla.
«Che cosa è venuto a fare?».
«È venuto per te, Semir, per noi. Come
sempre.».
«Dovrei sentirmi responsabile anche per questo? Per la sua
perdita di tempo?»
sbottò il turco, guardandola finalmente negli occhi.
«Ehi... calmati, non ho detto questo...».
«Io non ci riesco a sentirmi in colpa anche per questo,
Andrea, hai capito? Non
ce la faccio.» continuò lui, alzando la voce.
«Non ti devi sentire in colpa proprio per niente,
non...».
«Ah no? Certo. Ora la colpa non è più
mia. È solo perché mi trovo su una sedia
a rotelle? Eh?».
Andrea non rispose, rimase a guardare il marito negli occhi, come
pietrificata.
Sentì gli occhi cominciare a bruciare e un nodo stringerle
la gola.
«Non lo capite proprio che io non ce la faccio a vivere
così?» proseguì Semir,
urlando contro la moglie.
«Semir, io...».
«Tu... sei stata proprio tu la prima a dirmi che se fosse
successo qualcosa
sarebbe stata solo colpa mia. Non te lo ricordi ora?».
«Semir, smettila...» mormorò la donna,
sentendo le lacrime salirle agli occhi e
il freddo gelido di febbraio penetrarle nelle ossa.
Ma lui non aveva alcuna intenzione di smetterla. Le parole uscivano
dalla sua
bocca senza che nemmeno se ne rendesse conto. Non ce la faceva
più, non ce la
faceva semplicemente più.
«Ti ricordi quello che mi hai gridato? Che sarebbe stata solo
colpa mia? Che se
io non ci fossi stato non avreste mai avuto problemi? Te lo ricordi,
maledizione?».
«Semir... Smettila...».
«Lo sai come mi hai fatto sentire? Te ne rendi conto? Lo sai
che cosa sto
passando io?».
«Smettila, Semir, devi smetterla!» gridò
Andrea a un tratto, smettendo di
trattenere le lacrime «Ma che cosa credi? Che io non stia
passando quello che stai
passando tu? Credi che io non abbia sensi di colpa? Ho perso anche io
una
figlia, lo capisci?».
«Mi hai detto che sarebbe stata colpa mia.».
«Perché ero arrabbiata, Semir!»
ribatté la donna, alzando sempre più la voce a
sovrastare quella del marito «Ero arrabbiata, basta, togliti
queste parole
dalla testa! Non è stata colpa tua. E io sto male tanto
quanto te, ma come fai
a non accorgertene? Come fai a non rendertene conto? Era mia figlia,
Semir, ed
è morta. Lily è morta.»
sottolineò, con le lacrime che le rigavano il viso
«Però mi faccio forza perché penso ad
Aida e se mi alzo ogni giorno dal letto è
per lei. Ma io e te stiamo passando lo stesso Inferno...
perché non lo capisci?».
Semir non ebbe il tempo per ribattere.
Ben, che dalla porta a vetri aveva assistito a tutta la discussione e
aveva
visto i due coniugi urlare e poi Andrea scoppiare in lacrime, era
appena
accorso in giardino.
Lanciò un’occhiata all’ex collega,
quindi cinse con un braccio le spalle della
donna e la invitò a rientrare in casa.
La vide oltrepassare la soglia e sedersi su una sedia in cucina, ancora
singhiozzando, lasciandosi alle spalle la porta a vetri semi chiusa.
Poi tornò da Semir, si sedette accanto a lui in giardino.
Non ancora ripresosi dalla discussione, l’amico fissava il
vuoto con la
mascella serrata e i pugni chiusi.
«Socio, ha ragione Andrea, devi calmarti. E non potete
litigare, lei sta male
quanto te, sai che è la verità.».
«Tu non capisci.».
A questa risposta, Ben si sporse in avanti per cercare lo sguardo
sfuggente dell’ex
collega. Fissò i propri occhi ai suoi, senza lasciargli
alcuna via di fuga.
«Semir, forse hai ragione, anzi sicuramente: io non capisco.
Non capisco
nemmeno lontanamente che cosa voi stiate passando, ma di una cosa sono
sicuro:
questa situazione la state vivendo insieme. Perché entrambi
siete a pezzi, non
solo tu. È così.».
Il turco scosse il capo, senza nemmeno provare a distogliere lo sguardo
«No,
Ben. Lei non si deve sentire in colpa per quello che è
successo. Lei può
camminare. Lei non ha dovuto scegliere... io
ho dovuto scegliere tra te e lei, io
ho dovuto vedere mentre le sparavano, io
sono rimasto sveglio sotto alle macerie, io
sono su una sedia a rotelle. E io
mi
devo sentire in colpa se nostra figlia è morta, solo
io.» quasi gridò, tutto
d’un fiato, con una voce che tradiva solo disperazione.
«Piantala di dire che ti senti in colpa, Semir, è
stato Keller a farvi questo,
non tu.».
«Lui è
diventato un folle perché io
l’ho reso tale. Me lo ha detto lui
stesso
e aveva ragione.».
«Pronuncialo quel dannato nome, Semir.».
«Keller ha fatto tutto questo solo per colpa mia!»
gridò l’altro, senza nemmeno
rendersene conto.
Era la prima volta che lo pronunciava. Era la prima volta che Frederich
Keller
cessava di essere lui e assumeva il
proprio nome.
Ben accennò un sorriso e solo allora Semir comprese di
averlo detto.
Finalmente.
Rimasero entrambi in silenzio per un istante lunghissimo.
«Keller ha fatto tutto questo, ma non lo ha fatto per colpa
tua.» riprese poi
il più giovane, con un tono di voce decisamente
più calmo «Devi capirlo,
socio.».
«Ben io... io non riesco a respirare...» fece
Semir, cessando di urlare e
parlando invece a bassissima voce «Mi sveglio ogni mattina
e... non respiro.
Provo a convincermi che sia stato tutto un incubo, ma poi accanto al
letto vedo
la sedia a rotelle e crolla tutto, ogni giorno.».
Ben posò all’amico una mano sulla spalla,
invitandolo a continuare. Avrebbe
così tanto voluto aiutarlo davvero.
«Io non riesco a entrare nella camera delle bambine. Non
riesco a vedere quel
letto vuoto e a pensare che... che...».
Si interruppe. Aveva gli occhi asciutti, ma la disperazione nel volto e
nella
voce.
Ben, seduto accanto a lui, sospirò piano.
«Devi ricominciare a vivere, Semir...».
«Mi dispiace.
L’ultima cosa che
Keller mi ha detto è stata mi
dispiace...»
N.d.A.
Passano i mesi, ma rimangono i vuoti e rimane anche
la disperazione che
questi vuoti si portano dietro.
Siamo arrivati alla fine, il prossimo capitolo
sarà quello conclusivo. È
stata una storia infinitamente lunga, per me non è stata
facile da scrivere ma
sono contenta di averla conclusa e condivisa qui. Mi sembra incredibile
che sia
passato quasi un anno e mezzo da quando ho pubblicato il prologo
(prologo che
tra l’altro ritroverete nel prossimo capitolo), eppure...
Grazie a
chi mi ha seguito fino a qua, grazie davvero di cuore, per me
vuol dire tanto.
A presto, un bacio,
Sophie
|
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Capitolo 40 *** Il momento giusto ***
Dal
capitolo precedente:
"«Ben
io... io non riesco a respirare...» fece Semir, cessando di
urlare
e parlando invece a bassissima voce «Mi sveglio ogni mattina
e... non respiro.
Provo a convincermi che sia stato tutto un incubo, ma poi accanto al
letto vedo
la sedia a rotelle e crolla tutto, ogni giorno.».
Ben posò all’amico una mano sulla spalla,
invitandolo a continuare. Avrebbe
così tanto voluto aiutarlo davvero.
«Io non riesco a entrare nella camera delle bambine. Non
riesco a vedere quel
letto vuoto e a pensare che... che...».
Si interruppe. Aveva gli occhi asciutti, ma la disperazione nel volto e
nella
voce.
Ben, seduto accanto a lui, sospirò piano.
«Devi ricominciare a vivere, Semir...».
«Mi dispiace. L’ultima cosa che
Keller mi ha detto è stata mi dispiace...»"
Il
momento giusto
10
GIORNI DOPO – GIORNO 100.
Il giovane ispettore scese
dalla Mercedes che aveva appena
parcheggiato e chiuse la portiera con forza, selezionando poi sul
telecomando
l’opzione di chiusura. L’ondata di vento gelido che
lo investì non appena fu
uscito dalla vettura, lo lasciò come sempre interdetto: non
era mai abbastanza
pronto ad affrontare quel freddo.
La strada era deserta a quell’ora e il buio cominciava a
incombere attorno a
lui, mentre qualche fiocco di neve, cautamente, scendeva a terra.
Stringendosi
nelle spalle e infilandosi le mani in tasca perché si
riscaldassero, si diresse
verso il muretto dall’altra parte della strada e vi si
sedette, senza nemmeno
comprendere bene la ragione del proprio gesto.
Il suo fiato provocava una nuvola di fumo leggero che si dissolveva in
un
attimo nell’aria della sera.
Non sapeva che cosa esattamente stesse aspettando, ma il silenzio che
lo circondava,
dopo un’intera giornata trascorsa tra le caotiche autostrade
di Colonia, lo
indusse a rimanere lì seduto per un po’.
Cento giorni.
Ben sospirò piano, appoggiato a quel muretto, fissando come
in trance la
villetta che sorgeva dall’altra parte della strada.
Cento giorni, gli sembrava impossibile. Per la prima volta, cento
giorni prima,
il collega gli aveva raccontato che cosa stesse succedendo tra lui e la
moglie.
E poi, solo due giorni dopo, come se tra le due situazioni ci fosse
stato un
filo diretto, ecco che il notiziario aveva annunciato la fuga di quell’uomo. E tutto,
lentamente, era
andato precipitando.
Cento giorni, più di tre mesi, e ancora l’aria non
aveva smesso di essere
spessa, pesante, irrespirabile.
Era il 12 febbraio, e a Colonia il freddo era ancora pungente.
Ben tirò su col naso e si strinse più nelle
spalle, chiedendosi quando si
sarebbe deciso a entrare.
Stava quasi per alzarsi, quando qualcuno da dietro lo sfiorò.
Ma l’ispettore era talmente immerso nei propri pensieri che
nemmeno vi fece
caso.
«Che cosa fa qui tutto solo, giovanotto?»
esordì la voce alle sue spalle, in
tono bonario.
«Vado a trovare un amico.» rispose Ben, in un
sussurro, più rivolto a se stesso
che al suo nuovo interlocutore, mentre sentiva che l’uomo che
gli aveva parlato
stava aggirando il muretto per avvicinarsi a lui. Non si
curò di voltarsi,
aspettò che il signore gli si sedette accanto.
«Lei che cosa ci fa qua?» domandò poi,
non appena scorse il profilo familiare a
pochi centimetri da lui.
L’anziano signore alzò le spalle, iniziando
meccanicamente ad accarezzarsi gli
ordinati baffi bianchi e passandosi poi la mano destra sulla folta
barba,
anch’essa candida come la neve.
«Passavo, giovanotto. Il suo amico vive qui? È il
suo collega, non è vero?».
Ben guardò quell’uomo negli occhi, sorridendo per
un attimo al suo accento
inglese.
«Lo era.» commentò poi, distogliendo lo
sguardo.
Il vecchio poggiò una mano sulla sua spalla, rifilandogli
qualche leggero
colpetto di incoraggiamento.
«Fossi in lei sorriderei un po’ più
spesso, giovanotto. Da quando l’ho
conosciuta lo ha fatto sempre troppo poco. Solo alla mia età
si comprende
quanto sorridere sia importante... forza, ragazzo.».
«Non è facile sorridere sempre. Non quando davanti
agli occhi hai la vita
rovinata di una persona a cui vuoi bene.».
L’anziano signore annuì teatralmente. Poi,
appoggiandosi al proprio bastone, si
alzò, staccandosi dal muretto e rimanendo per qualche
istante fermo, in piedi
di fronte al poliziotto.
«Ti do un compito, giovanotto. Oggi sorridi. Va
bene?».
Ben alzò lo sguardo su di lui.
L’uomo indossava un berretto di lana decorato a quadri rosso
e verdone e
un’ingombrante sciarpa dello stesso colore. Non un
abbigliamento troppo comune,
per quello che lui aveva definito un angelo custode.
Il sorriso, osservandolo, gli spuntò spontaneo sulle labbra.
«Bravissimo, così.» fece compiaciuto il
vecchio.
Poi si voltò per andarsene, ma tornò a guardare
Ben dopo aver fatto solo
qualche passo.
«Dimenticavo, giovanotto.» aggiunse, sorridendo
sotto ai baffi curati, prima di
allontanarsi «Usi quella scatolina che ha in tasca.
L’ho vista, sa? Vedrà, la renderà
felice.».
L’ispettore strinse la piccola scatola di velluto
all’interno della tasca della
giacca, chiedendosi come quell’uomo avesse potuto notarla, ma
quando risollevò
lo sguardo per rispondere, lui era già sparito.
Volatilizzato.
Con un sospiro, Ben attraversò la strada e suonò
alla porta di casa Gerkhan.
Ad aprire giunse Margaret.
Stretta nel suo maglione a collo alto, sorridente e con gli occhi verdi
che le
scintillavano sul viso, lo accolse con un abbraccio.
«Amore, sei arrivato presto!» esclamò,
facendolo entrare, senza smettere di
guardarlo.
«Ciao amore mio.» sussurrò lui,
guardandola a sua volta, inebriandosi
dell’odore dei capelli di lei «Da quanto sei
qua?».
«Poco, ho finito mezz’ora fa con l’ultimo
paziente, ho pensato di venire a
trovare Andrea e Semir e di aspettarti qui. Immaginavo che saresti
passato.» rispose
la ragazza, richiudendo la porta di casa e avviandosi con il nuovo
arrivato
verso il salotto.
L’atmosfera era calda, nonostante tutto. Nella sala il clima
faceva dimenticare
in fretta il freddo pungente dell’inverno che soffiava fuori
dalla porta e in
una rientranza nel muro il caminetto acceso che i padroni di casa
avevano fatto
installare l’inverno precedente donava alla stanza un pizzico
di magia.
Eppure, dalla cucina provenivano voci concitate. Una discussione,
ancora.
«Stanno litigando?» chiese stancamente Ben,
sedendosi sul divano.
Maggie annuì, sedendosi di fronte a lui «Stavano
litigando già prima che
arrivassi.».
«Finirà mai questa storia?».
La ragazza rimase in silenzio. Non lo sapeva.
«Non si sono nemmeno accorti che sono entrato.»
mormorò l’ispettore,
accorgendosi in quell’esatto istante che le voci si erano
spente e che Semir
era appena apparso sulla soglia.
«In realtà ce ne siamo accorti.» fece il
turco, accostandosi con la sedia al
divano, vicino al caminetto acceso «Ma stavamo finendo di
parlare di una cosa,
adesso Andrea arriva. Ben, non devi passare da qui sempre.».
«Un semplice ciao sarebbe
bastato,
socio.».
«Sì, hai ragione, scusami.» rispose
semplicemente Semir, abbassando lo sguardo
«Mi dispiace soltanto che tu e Maggie perdiate tempo per
noi.».
«Sono passata perché mi faceva piacere, non siete
affatto una perdita di
tempo.» si intromise Margaret, con un sorriso «Aida
c’è?».
«Sì, è su in camera sua, sta finendo i
compiti.».
«Allora vado a salutarla dopo, altrimenti mi dite che diventa
una pessima
studentessa a causa mia.» rise Ben, lasciando che la tensione
iniziale si
sciogliesse almeno un po’.
In quell’istante Maggie si alzò, allontanandosi
dal divano «Vado a dare una
mano ad Andrea, aveva dei biscotti in forno.» disse,
dirigendosi verso la
cucina.
Quando ormai aveva raggiunto il piccolo corridoio che la separava
dall’altra
stanza, però, sentì che qualcuno la tratteneva
per un braccio e udì Ben
chiederle di fermarsi.
«Ben, che cosa c’è?».
«Maggie, io ti devo parlare.» fece il giovane
poliziotto, negli occhi un’ansia
strana, diversa da quella che lei gli aveva letto in viso negli ultimi
mesi.
«Non possiamo parlare dopo?» domandò la
ragazza, lanciando un’occhiata alla
cucina nella quale si intravvedeva Andrea che tirava fuori qualcosa dal
forno e
un’occhiata dall’altra parte, al salotto, nel quale
Semir era rimasto solo,
rivolto con la sedia a rotelle verso il caminetto.
«No, non possiamo parlare dopo.».
«Proprio qui, in questo corridoio?».
«Proprio qui...» confermò lui,
abbassando la voce.
«Ben, mi stai facendo preoccupare, che cosa
c’è?» fece Margaret, con un
sospiro, rassegnandosi all’idea di dover rimanere ferma in
quello stretto
corridoio semibuio.
Ben aprì la bocca per parlare, ma rimase in silenzio.
Dalla cucina giungevano i singhiozzi sommessi di Andrea, dal salotto il
crepitìo
del fuoco acceso.
Era decisamente il momento sbagliato. Il momento sbagliato, il luogo
sbagliato,
tutto sbagliato. Ma improvvisamente aveva sentito che non avrebbe
potuto
attendere un minuto di più.
«Allora, Ben? Che cosa c’è?».
«C’è che io ti amo, Maggie.» mormorò
infine il poliziotto, incatenando i suoi occhi agli occhi verdi di lei.
E quegli occhi gli sorrisero.
«Anche io ti amo, ma adesso dovremmo...».
«No, no, ascoltami, io ti amo.» ripeté
Ben, quasi supplicando «E lo so, non è
il momento, siamo in un corridoio stretto e buio in casa loro, da una
parte c’è
Andrea che piange e dall’altra Semir che non riesce a darsi
pace e hanno perso
Lily e sono mesi terribili e saranno ancora mesi terribili
e...».
«Ehi...» lo interruppe la ragazza, guardandolo
negli occhi e posandogli una
mano sul petto «Respira, okay? Prendi fiato.».
«È che io ti amo, Margaret, e non voglio
più aspettare che sia il momento
giusto, o il luogo giusto, o l’atmosfera giusta.»
riprese lui, portando la mano
destra alla tasca della giacca «Per cui proprio qui, in
questo corridoio, in
questa casa, io... io vorrei chiederti una cosa.».
Maggie allargò il sorriso che già si era dipinto
sulle sue labbra. Gli occhi le
brillavano.
«Ben io non... non...».
«Non aspetterò che questa storia sia finita,
Maggie...».
«Ben...».
«Margaret Maier, mi vuoi sposare?».
Maggie chiuse gli occhi e li
riaprì in un istante, come per
convincersi che quella scena surreale fosse vera. Come per avere la
prova che
quella piccola scatolina di velluto nero aperta sotto ai suoi occhi
esistesse
davvero.
Posò lo sguardo sull’anello che luccicava tra le
mani del poliziotto e poi lo
spostò nei suoi occhi, senza riuscire a pronunciare nemmeno
una parola.
Aprì la bocca per rispondere ma, non appena ebbe trovato le
parole giuste, si
bloccò.
«Il momento giusto...» mormorò fra
sé, senza distogliere lo sguardo dagli occhi
di Ben, che invece cominciò a preoccuparsi.
«Che cosa?».
«Il momento giusto... ma certo!» esclamò
allora lei, questa volta ad alta voce
«Ben, devo fare una cosa.» aggiunse poi,
dirigendosi in fretta verso la cucina,
lasciando il ragazzo interdetto, immobile, ancora con la scatolina
aperta tra
le mani e con una domanda a cui ancora lei non aveva dato risposta.
Il cuore
dell’ispettore cominciò a
battere all’impazzata, mentre l’idea
di aver
appena rovinato tutto si faceva sempre più concreta nella
sua mente e
cominciava seriamente a terrorizzarlo.
Devo fare una cosa.
Rimase immobile, seguendo con lo sguardo Maggie che si
allontanava e non
capendo per quale motivo lei dovesse fare
una cosa prima di dargli una risposta.
La vide oltrepassare la soglia della cucina, raggiungere Andrea,
porgerle un
fazzoletto perché si asciugasse le lacrime dovute
all’ennesima litigata che la
donna aveva avuto con il marito poco prima. La vide mentre la
abbracciava e la
faceva sorridere, poi mentre la aiutava a sfornare i biscotti, il cui
profumo
inebriante invase in un attimo tutta la casa. La vide dirle ancora
qualche
parola, poi tornare verso di lui, sorridente.
Ben provò ad aprir bocca per parlare, per chiederle che cosa
stesse aspettando
per rispondergli, ma non ne ebbe il tempo: Maggie gli passò
davanti attraversando
il corridoio
velocemente, senza degnarlo
di uno sguardo, per dirigersi questa volta verso il salotto.
Ancora una volta, Ben
la spiò fermo
sulla soglia, ancora con la piccola scatola in velluto aperta tra le
mani.
La vide rovistare nella propria borsa che aveva abbandonato sul divano
ed
estrarne quel plico di fogli dalla copertina nera che lui aveva
già visto più
di una volta.
Poi, la vide sedersi accanto a Semir, di fronte al caminetto acceso, e
cominciare a parlargli.
«Semir, ti devo
confessare una cosa.» esordì la ragazza,
sedendosi accanto a lui davanti al caminetto, socchiudendo gli occhi al
calore
della fiamma scoppiettante.
Il turco distolse lo sguardo dal fuoco per lanciarle
un’occhiata interrogativa.
«Se è per lo psicologo puoi anche lasciar perdere,
Maggie, non fate altro che
ripetermi tutti che dovrei tornarci, ma io non...».
«No no no, ascoltami.» lo interruppe lei, con un
sorriso «Non voglio parlarti
dello psicologo, affatto. Sono sicura che capirai da solo quando
sarà il
momento e ci tornerai. Sono psicologa anche io, so come funziona.
Volevo
parlarti di un’altra cosa.».
«Sarebbe?».
«Io ho scritto un libro, Semir.».
L’uomo tornò a posare lo sguardo sul fuoco, senza
capire di che natura fosse
quella conversazione.
«Sì, Ben mi aveva detto che lo avresti fatto. Ma
cosa...».
«Quel libro è su di te.»
sparò lei, a bruciapelo.
Per un attimo, Semir smise di respirare.
«Scusa?».
«Su di te, su di voi. Su... questa storia.»
spiegò lei, senza perdere il
sorriso, provando a immaginare quale potesse essere la reazione
dell’amico.
L’ex poliziotto tornò a guardarla, senza essere
sicuro di aver capito del tutto
a che cosa quella ragazza si riferisse.
«Qui c’è... c’è
tutto, Semir.» continuò Margaret, porgendo a lui
il plico
rilegato e accarezzandone piano la copertina nera.
Semir lo prese, lo toccò, ma non sollevò il
cartoncino che copriva la prima
pagina. Avrebbe voluto chiedere qualcosa, ma non riuscì a
formulare nessun tipo
di domanda.
«C’è tutto, ma... ecco, io ho scritto la
parola fine a questo romanzo il
giorno della vigilia di Natale, ma ho
aspettato tutto questo tempo a parlartene perché io... non
lo so, forse mi
sentivo in colpa per essermi appropriata di questa storia, forse
credevo di non
averne il diritto, forse aspettavo il momento giusto.»
spiegò Maggie, a bassa
voce, sempre con il sorriso sulle labbra «Questi mesi, da
quando Keller vi ha
rapito, sono stati terribili. C’è chi affronta le
difficoltà parlando, chi
piange, chi ascolta solo il silenzio... io scrivo. L’ho
sempre fatto, mi è
venuto naturale scrivere questa storia e l’ho fatto senza
riflettere, senza
pensare, ho solo scritto basandomi su quello che ho visto, sul poco che
tu hai
raccontato, su quello che sapevo di Keller e di voi. Quando ho iniziato
non
sapevo dove sarei arrivata, non sapevo se lo avrei mai concluso e,
soprattutto,
quando l’ho iniziato avevo saputo solo delle liti tra te e
Andrea, ma Keller
ancora non aveva fatto nulla... solo dopo che siete stati rapiti ho
capito che
dovevo portare avanti questo lavoro, terminarlo, ma non ne conoscevo
ancora la
ragione.».
La psicologa fece una pausa.
Le mani di Semir tracciavano il profilo di quella copertina, senza
osare
sollevarla.
«E ora... ora la ragione la conosci?» chiese in un
sussurro, temendo la
risposta.
«Aprilo, Semir.».
E lui lo aprì.
Sollevò quel cartoncino nero come se pesasse una tonnellata.
Sotto di esso trovò una pagina completamente bianca a
eccezione del titolo, che
troneggiava in corsivo perfettamente centrato sul foglio.
Sopravviviamo.
Senza che nemmeno se ne rendesse conto, gli occhi gli divennero lucidi.
Sollevò lo sguardo sulla ragazza, provando con tutte le sue
forze a tenere a
bada il nodo che gli si era creato nella gola.
«Qual è la ragione?» domandò,
ancora, con la voce spezzata.
Maggie si morse il labbro, lanciò un’occhiata
decisa al fuoco che crepitava di
fronte a loro e poi al plico di fogli appoggiato sulle ginocchia
dell’ex
ispettore.
Quindi alzò lo sguardo su di lui, fissandolo negli occhi.
«Brucialo.».
Semir ricambiò lo sguardo, corrugando appena la fronte.
«Come...».
«Brucialo, Semir.» lo interruppe lei, mentre anche
i suoi occhi cominciavano a
brillare «Dai fuoco a questa storia. Falla finita. Getta
Keller tra le fiamme,
riduci tutto quello che è successo in cenere. Fallo,
Semir.».
L’uomo scosse il capo, lentamente, muovendo lo sguardo dalla
ragazza che aveva
di fronte al titolo in corsivo del libro, chiedendosi per quale motivo
le
lacrime chiedessero di scendere con tanta insistenza.
«Brucialo, Semir. È il momento giusto.».
L’istante di silenzio che seguì fu lunghissimo. O
forse breve. Nessuno dei due
lo seppe mai.
Un attimo prima il libro era tra le mani di Semir, un attimo dopo
ardeva tra le
fiamme di quel caminetto acceso.
E si contorceva.
Si contorceva, ripiegandosi tra le fiamme, gridando agonizzante.
Non voleva morire.
Diventava cenere, ma sembrava quasi lottare contro il fuoco, contro il
quale
non avrebbe mai vinto.
Crepitava.
E poi cessava di esistere.
Con le lacrime agli occhi, Margaret si sporse verso Semir, lo
abbracciò con
forza.
Quando si staccò dall’abbraccio, il suo lavoro era
andato distrutto,
polverizzato, per sempre.
Erano mesi che non si sentiva così libera.
Ben rimase a bocca spalancata a
spiare l’intera scena,
mentre Andrea alle sue spalle, singhiozzando piano, faceva altrettanto.
Era tutto finito.
«Sì.».
«Come?».
Ben corrugò la fronte, senza capire a che cosa la ragazza si
stesse riferendo.
Erano appena usciti da casa Gerkhan, il freddo e la neve li avevano
subito avvolti
e si stavano avviando lentamente verso la macchina, stretti nelle loro
giacche
invernali.
«Sì.» ripeté Maggie,
mostrandogli uno dei più bei sorrisi che Ben ricordasse di
aver mai visto sulla faccia della terra.
«Sì?».
«Sì, certo che ti sposo, stupido!»
esclamò la ragazza, gettandogli
improvvisamente le braccia al collo.
«Sì?».
«Sì.».
«Ti amo.» sussurrò Ben sulle sue labbra,
baciandola senza smettere nemmeno per
un istante di stringerla forte a sé.
Anche sotto la neve, il freddo era improvvisamente scomparso.
«Ti amo.».
L’anziano signore si
accarezzò i baffi bianchi, compiaciuto,
osservando la scena.
«Amore non è Amore se
muta quando scopre un mutamento
o tende a svanire
quando
l'altro s'allontana. Oh no! Amore è un faro sempre fisso che
sovrasta la tempesta
e non vacilla mai; è la stella-guida di ogni sperduta barca,
il cui valore è sconosciuto,
benché nota la distanza: se questo è errore e mi
sarà provato, Io non ho mai scritto,
e nessuno ha mai amato... * Gli
inglesi sono avanti, sempre
pensato io. Niente male, giovanotto!»
Poi si voltò e si incamminò sulla strada ormai
resa bianca dalla neve,
continuando a dialogare con se stesso.
A casa, sua nipote Lisa lo stava aspettando.
The End
* W.
Shakespeare
N.d.A.
Un
anno e sette mesi,
quaranta capitoli, la mia storia finisce qui.
Mi dispiace avervi fatto aspettare ancora tre mesi per leggere
quest’ultimo
capitolo, ma purtroppo non ho avuto molto tempo e la spunta
“completa” per questa
storia non poteva essere selezionata troppo in fretta.
Siamo tornati al prologo di quasi due anni fa, abbiamo incontrato di
nuovo
questo angelo custode dall’accento inglese, abbiamo capito
chi è davvero, una
figura marginale ma essenziale al tempo stesso.
Il ciclo si chiude, la vita ricomincia, nonostante tutto. La cenere
rimarrà in
quel camino, tutto il male che c’è stato non
potrà scomparire, ma la vita deve
vincere, comunque.
Grazie a chi mi ha seguito fino a qui, a chi ha commentato passo per
passo
questa storia non propriamente leggera, grazie Mary e grazie Rebecca,
davvero! Io
ci ho messo il cuore, più che in ogni altra storia.
Chissà che un giorno non mi rivediate tra queste pagine, per
ora chiudo così.
Grazie!
Sophie
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