San Martino di Livonia

di Old Fashioned
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima parte ***
Capitolo 2: *** Seconda parte ***
Capitolo 3: *** Terza parte ***



Capitolo 1
*** Prima parte ***


Gente mia,
un nuovo mappazzone, questa volta sulle crociate del nord. Ringrazio in anticipo chi avrà voglia di passare di qui^^







SAN MARTINO DI LIVONIA



Prima parte





I rami ormai spogli delle betulle si stagliavano contro l’azzurro pallido del cielo. Accarezzati dall’ultimo sole autunnale, i campi ondulati si perdevano verso la foschia dell’orizzonte.
Il vento sollevò una manciata di foglie dorate, che turbinarono frusciando attraverso la strada.
A quella vista, il destriero di fratello Reinhardt, un morello dal pelo lucido come pietra di Gage, mise le orecchie indietro e tentò di scartare.
Buono,” disse il cavaliere, tirando appena le redini.
L’animale sbuffò dilatando le froge e si sollevò in una mezza impennata. Frustò l’aria con la coda.
Buono,” ripeté fratello Reinhardt dandogli qualche pacca sul collo muscoloso.
Fratello Ulrich, che cavalcava al suo fianco, si girò a guardarlo. “Ha molto temperamento,” osservò.
L’altro, che nel frattempo aveva ricondotto l’animale all’obbedienza, rispose: “A volte penso che ne abbia anche troppo. Non mi dispiacerebbe se fosse un po’ più tranquillo.”
Non ho mai visto un cavallo così bello, però. Da dove viene? Non mi sembra un frisone.”
Fratello Reinhardt batté di nuovo qualche manata sul collo lustro del morello, quindi rispose: “È una razza che i nostri allevano nelle Puglie. Cavalli tedeschi incrociati con stalloni berberi e arabi.”
Come hai fatto ad averlo?”
Mi è stato assegnato quando il mio destriero si è azzoppato. Viene da una delle Komturei che abbiamo in quella zona.”
Fratello Ulrich dedicò un’altra lunga occhiata all’animale, che trottava elegante con la coda alta e l’incollatura arcuata, e disse: “Sei stato fortunato. Ha i garretti robusti, è agile e vigoroso.”
L’altro alzò le spalle. “Ma come vedi bastano un po’ di foglie spinte dal vento per farlo imbizzarrire. Un frisone almeno sarebbe più tranquillo.”
Per un po’ procedettero senza parlare. Sulla strada e nei campi non si vedeva nessuno, gli unici rumori che si udivano erano il battere ritmico degli zoccoli e il tinnire delle cotte di maglia.
Uno stormo di oche selvatiche attraversò il cielo.
Che silenzio,” commentò dopo un po’ fratello Reinhardt, lasciando vagare lo sguardo sull’alternarsi di campagna e foreste che si estendeva a perdita d’occhio.
Fratello Ulrich sorrise. “Non sei abituato, vero? Qui la gente si nasconde quando passiamo noi.”
Hanno paura?”
No, ci odiano. Non vogliono avere niente a che fare con noi. Superano la loro ritrosia solo quando c’è da radere al suolo la fattoria di qualche colono tedesco.” Emise una risata cupa, quindi chiarì: “Quando sono venti a uno, contro contadini armati solo di falci e forconi, ecco che d’improvviso scaturisce il celebre coraggio dei Samogizi.”
Fratello Reinhardt non rispose. Si limitò a far scorrere nuovamente lo sguardo sulle campagne deserte, che illuminate dal sole del tardo pomeriggio mostravano sontuose sfumature di oro, rosso e bruno. “Sono bei posti,” apprezzò.
Sì, quando li guardi da lontano,” concesse l’altro. “Se solo fai tanto di avventurarti su una di quelle distese d’erba finisci in acquitrini che letteralmente ti risucchiano vivo. Le selve sono piene di animali feroci, e i più pericolosi sono quelli a due gambe. Lo sai che quando arrivano qui, i coloni sono esentati dalle decime per periodi che vanno dai cinque ai vent’anni? E non certo per spirito di carità.”
Di nuovo fra i due calò il silenzio. A fratello Reinhardt parve di cogliere un movimento al limitare di un bosco, ma a una seconda occhiata non vide più nulla.
Si voltò a fissare il compagno: spalle robuste, sguardo acuto, una cicatrice che gli tagliava una guancia. Dava l’idea di essere fatto di pietra o ferro, più che di carne. “È da molto che sei qui?” gli chiese.
Da quando sono entrato nell’Ordine,” fu la risposta.
E la Terra Santa l’hai mai vista?”
Fratello Ulrich si limitò a scuotere la testa.
Io credo che laggiù si possa impazzire per il caldo,” spiegò l’altro. “Ci sono posti così aridi che non vedi nemmeno un filo d’erba: solo pietre e polvere, a perdita d’occhio. Ci sono solo poche piante, con le foglie così dure che i cavalli non riescono nemmeno a mangiarle, e l’acqua è un bene più prezioso dell’oro.” Fece una pausa. “Qui almeno il paesaggio è più gradevole.”
Quanto tempo sei stato laggiù?”
Un paio d’anni, poi da Starkenberg mi sono spostato a Venezia al seguito del Gran Maestro.”
È vero quello che dicono di Venezia?” chiese fratello Ulrich.
Che cosa intendi?”
Che ci sono i canali al posto delle strade e la gente invece di camminare va in barca.”
Sì, è così.”
L’altro aggrottò le sopracciglia perplesso, quindi proseguì: “Ho sentito dire che laggiù c’è una chiesa tutta d’oro, che contiene i tesori di Costantinopoli.”
San Marco,” confermò fratello Reinhardt, “ma è d’oro solo all’interno. Fuori è di mattoni.”
Tu l’hai vista?”
Molte volte. Il Gran Maestro ci andava spesso a pregare.”
E com'è?”
Beh...” fratello Reinhardt levò gli occhi al cielo come alla ricerca di ispirazione, quindi prese a narrare: “È come entrare in paradiso, credo. Tutte le pareti sono di mosaico d'oro, ci sono le immagini dei Santi, degli angeli, della Vergine e di Cristo. Alla luce delle candele le figure sembrano vive e quando le guardi in viso, è come se anch'esse ti guardassero fin nell'anima.” Si portò la mano al petto, sulla croce nera che lo ornava. “Senti qualcosa dentro, davvero. Come se ti trovassi realmente sotto lo sguardo del Signore.”
Per un po’ fratello Ulrich non replicò, quindi si voltò a fissarlo e chiese: “Come mai ti hanno mandato qui?” Dalla sua espressione appariva evidente che stava cercando di immaginare quali mancanze potessero aver indotto un trasferimento così punitivo.
Veramente l’ho chiesto io,” spiegò fratello Reinhardt, “ero stanco di fare vita di corte.” Fece una breve pausa, durante la quale lasciò vagare lo sguardo sull’ondulata immensità del paesaggio che li circondava, sorrise appena e riprese: “Venezia è magnifica, ori e marmi dappertutto, gente di tutte le terre conosciute, cibi sopraffini, spezie, stoffe pregiate… ma devi avere la forza d’animo di von Salza per mantenerti saldo nei tuoi voti nonostante tutte queste lusinghe.”
È per questo che hai fatto richiesta di essere inviato in una provincia di combattimento?”
Il cavaliere annuì.
Beh, fratello, allora posso rassicurarti: qui non ci sono né marmo né oro, il cibo è tutt’altro che sopraffino e l’unica gente con cui avrai a che fare, a parte i coloni tedeschi, sono quei pagani senza Dio dei Samogizi, il più amabile dei quali ambisce a catturarti e a bruciarti vivo in sella al tuo destriero per compiacere i suoi idoli.”



Stavano cavalcando da un po' quando la strada d'improvviso si allargò in una specie di spiazzo di terra battuta. Da una parte c'erano le rovine di un piccolo edificio in muratura. Il tetto era collassato, i muri semidiroccati. La porta penzolava da uno dei cardini.
Quella era la chiesa,” disse fratello Ulrich. “Ci siamo stufati di ricostruirla ogni anno. Adesso padre Emelrich viene qui la domenica con due cavalieri, tre o quattro mantelli grigi e una ventina di mezzi fratelli, fa allestire una tenda e dice messa lì dentro.”
Fratello Reinhardt annuì distrattamente, lo sguardo calamitato da ciò che lo circondava: seminascoste dalla vegetazione, c'erano capanne di tronchi. Alcune avevano stuoie di paglia appese alle finestre, altre mazzi di erbe secche che pendevano dal margine del tetto. A ben guardare, si intravedevano qua e là oggetti di uso comune, come ciotole di legno o rudimentali attrezzi agricoli.
Ci abita qualcuno?” chiese, ancora non del tutto sicuro che quelle povere masserizie non fossero in realtà rifiuti.
Certo,” fu la risposta, proferita col tono dell'ovvio. “Ci stanno guardando da dentro i loro buchi e probabilmente stanno invocando su di noi le maledizioni degli idoli che si ostinano a venerare.”
Fermo al centro dello spiazzo, fratello Reinhardt si guardò nuovamente intorno e notò che da qualcuna delle capanne, esile al punto da risultare quasi invisibile, si levava un lento filo di fumo. “Anche questi si sono nascosti?” chiese.
Si fece udire alle sue spalle la voce di fratello Ulrich: “Te l'ho detto: non vogliono avere nulla a che fare con noi. Capisco che si ostinino a fare i sacrifici agli idoli, perché magari è ciò che i padri hanno insegnato loro ed essi nella loro semplicità non capiscono che è sbagliato, ma anche una bestia riconosce ciò che la fa stare meglio, dico bene?”
Reinhardt si girò verso di lui. “Che cosa intendi?”
Con l'aratro tedesco, che ha il vomere di ferro invece che di legno, potrebbero coltivare di più e con minore fatica, eppure non vogliono neppure quello.” Scosse la testa come di fronte a qualcosa di profondamente stupido. “Hanno distrutto quelli che abbiamo donato loro. Li hanno bruciati davanti ai loro idoli.”
In quel momento si udì un lieve fruscio di foglie. Simultaneamente i due si girarono e si accorsero che qualcuno era sgattaiolato fuori da una delle capanne. Si trattava di un ragazzo che poteva avere quindici o sedici anni. Aveva addosso pochi stracci e non portava calzature. I capelli color stoppa erano una zazzera scomposta. Gli occhi verdi, enormi nel volto magro, colmi di meraviglia, erano fissi sul morello di fratello Reinhardt.
I due cavalieri si scambiarono uno sguardo, poi fratello Ulrich spiegò: “Quello lì è un Curo: praticamente adesso sta vedendo una divinità.”
Che significa?”
I Curi venerano il cavallo: il tuo, che è così bello, gli pare come Dio in terra.” Si segnò fugacemente.
Il ragazzo, lo sguardo sempre fisso sull'animale, si avvicinò di qualche passo. “Cavallo... molto bello...” balbettò. “Forte.” Fece un gesto che mimava possanza fisica e annuì. “Bello,” ripeté.
Reinhardt si rivolse al confratello: “Lo conosci?” Fissò il ragazzo, che però non aveva occhi che per il destriero.
È una specie di mendicante, non so come si chiami. Gira voce che sia mezzo tedesco, che sua madre fosse una contadina rapita da una tribù di Curi.”
Nessuno ha mai pensato di portarlo a Segewold? Magari gli si potrebbe insegnare a essere un buon cristiano, a maggior ragione se è vero che sua madre è tedesca.”
Chi lo sa se è vero,” replicò Ulrich. “Può essere solo il modo in cui Samogizi lo insultano perché non ha il loro stesso sangue.”
Reinhardt volse di nuovo lo sguardo verso il ragazzo, che a quel punto abbandonò la contemplazione del destriero e alzò timidamente gli occhi su di lui. “Cavallo... bello,” ripeté nel suo tedesco stentato. “Molto forte.”
Il cavaliere gli rivolse un sorriso, quindi prese dalla bisaccia che portava legata alla sella un pezzo di pane e glielo porse.
Il giovane allungò la mano per prenderlo, ma a quel punto si catapultò fuori da una delle capanne un uomo che brandiva un bastone. Questi sbraitò qualcosa e agitò un paio di volte l'improvvisata arma, producendo un sibilo minaccioso.
A quella vista, il ragazzo si fece indietro con tale velocità che il pezzo di pane gli scivolò dalle mani e cadde a terra, quindi si dileguò nel folto della vegetazione. L'uomo disse ancora qualcosa, quindi sferrò un calcio alla pagnotta, che rotolò via. Fece per andarsene, ma a quel punto Ulrich estrasse la spada e gli si parò davanti, poi in tono duro disse qualcosa nella sua lingua.
L'uomo si irrigidì, strinse i denti e aggrottò la fronte, ma non si mosse.
Il cavaliere allora, la spada saldamente in pugno, spinse il cavallo verso di lui. Ripeté quello che aveva detto poco prima.
L'altro masticò qualche frase a mezza voce, poi però si risolse a raccogliere il pane e a porgerlo a Reinhardt.
Prendilo,” ordinò brusco Ulrich.
Il confratello prese la pagnotta e la ripose nella bisaccia da cui l'aveva tratta.
Andiamocene,” disse allora l'altro. Rinfoderò l'arma, mise il cavallo al passo e cominciò a muoversi con andatura misurata, senza voltarsi indietro.
Ancora frastornato dall'accaduto, Reinhardt lo imitò. Gli parve di intravedere passando un lampo della zazzera bionda del ragazzo fra le frasche, ma a una seconda occhiata non vide altro che foglie dorate agitate dalla brezza.
Lentamente si lasciarono il misero villaggio alle spalle.

Non fare mai più una cosa del genere,” disse Ulrich in tono duro appena furono a distanza di sicurezza.
Volevo solo fare la carità a quel ragazzo,” si giustificò Reinhardt.
Con la tua carità i Samogizi si puliscono il culo,” replicò brusco l'altro. “Se tu conoscessi la loro lingua, avresti capito che quel tizio ci ha chiamati cani tedeschi e ha detto al Curo che il nostro pane è merda e va bene per i maiali.” Tacque per qualche istante, forse in attesa di una replica che però non giunse, quindi riprese: “Non permettere mai a uno di costoro di trattarti in questo modo. Devi farti rispettare, con le armi se necessario, e non devi mai metterti in posizione di inferiorità.”
Come si fa con le belve ammaestrate?”
Precisamente. Dentro ognuna di quelle spelonche c'erano almeno cinque di quelli, anche se tu non li hai visti. Che cosa pensi abbia impedito loro di uscire in branco e saltarci addosso?”
Non lo so,” rispose con franchezza Reinhardt. Rievocò lo sguardo limpido del ragazzo, il sorriso che gli aveva rivolto nel vedersi offrire un insperato pasto, l'ingenua sollecitudine con cui aveva cercato le poche parole di tedesco che conosceva per lodare la bellezza del suo cavallo in una lingua che lui potesse capire.
Si costrinse a distogliere il pensiero dall'accaduto. Si disse che doveva essere umile, doveva obbedire a chi era più anziano e più esperto di lui. “Forse la mia permanenza a Venezia, al fianco del Gran Maestro, mi ha reso superbo,” disse poi, seguendo il filo dei propri pensieri. “Ti prego di perdonarmi, fratello.”
Ah, lascia perdere,” rispose l'altro, accompagnando quelle parole con un gesto noncurante. “Voglio solo evitare che tu finisca da qualche parte stecchito con un coltello nella schiena, tutto qui.”



L'imponente castello di Segewold, che comparve su un'altura lungo la sponda del Gauja, risplendeva magnifico nella luce del tramonto.
I raggi obliqui accendevano di sfumature d'oro e ambra le pareti di massi di fiume, facevano brillare di un caldo color avorio le bandiere dell'Ordine che garrivano sulle torri e traevano fugaci barbaglii metallici dalle cotte e dagli elmi dei soldati di guardia sugli spalti.
L'acqua del fiume, già in ombra, era un nastro di piombo che scorreva silente.
Più lontano il castello di Treyden, arroccato su uno sperone di roccia che dominava tutta la vallata, era una sagoma nera in cui palpitava fugace qualche vago brillio dorato.
Il cielo era azzurro cupo sulla volta, mentre lungo l'orizzonte, dove il sole stava scomparendo dietro le alture, aveva un colore aranciato. Le poche, esili nuvole, attraversate dagli ultimi raggi, brillavano come foglia d’oro su uno sfondo di lapislazzuli.
Nell’aria c’erano odore di resina e forse un lontano sentore di mele, che ricordava a fratello Reinhardt il momento della raccolta a casa sua, in Franconia, quando il profumo dei frutti maturi, rossi e gonfi di succo, era così intenso da inebriare.
Il cavaliere strinse appena gli occhi e piegò la testa all’indietro, lasciando che per un po’ fosse il destriero a decidere che andatura tenere.
Sei stanco?” domandò fratello Ulrich.
Un po’. Devo riabituarmi a certe cose.”
Stai già rimpiangendo di aver lasciato Venezia?”
Reinhardt riprese le redini alla mano e fermò il cavallo, costringendo l’altro a imitarlo. “Al contrario,” disse pacato, “non sono mai stato così soddisfatto della mia decisione. È bello contemplare i tesori di Bisanzio dentro la chiesa di San Marco, è bello parlare con arabi, turcomanni, genti del nord e del lontano oriente, conoscere il loro modo di pensare e le loro usanze, ma nulla di ciò è paragonabile alla bellezza di essere qui. Noi portiamo la parola di Dio ai pagani.” Indicò il castello, che al calare della luce andava sempre più assumendo il sembiante di un’enorme creatura accucciata e pronta a balzare, quindi soggiunse: “Noi portiamo questo. Portiamo ordine e pace, al posto di tuguri di legno e superstizioni.”
Rimise il cavallo al passo, gli zoccoli dell'animale tonfarono sordi sul ponte di legno che conduceva all'ingresso di Segewold.

Lo accolse il cortile principale della fortezza, nel quale brillavano già le prime fiaccole. La chiesa dedicata alla Vergine era illuminata in modo tenue, tanto che dalle sue alte finestre filtrava solo un debole chiarore. Da essa stavano uscendo dopo i Vespri i fratelli cavalieri biancovestiti; le croci nere che portavano sul petto e sulla spalla quasi si confondevano con le ombre che si allungavano ormai ovunque.
Reinhardt smontò da cavallo e affidò l'animale allo scudiero, poi li raggiunse.
Il primo che gli rivolse la parola fu un cavaliere alto e magro che sembrava la statua di un santo. Questi lo trafisse con uno sguardo di rapace, ancora più duro sul suo volto dai lineamenti squadrati, e in tono di rimprovero disse: “Non eri alla funzione, fratello.”
Sì, io...”
Intervenne un altro cavaliere, addirittura più alto del primo, con la corporatura di un toro. A Reinhardt pareva di ricordare che si chiamasse Mathias. “Lascia stare, fratello Gunnar,” disse costui con la massima tranquillità. Poi, rivolto a lui: “Eri fuori con fratello Ulrich, per caso?”
È così.”
Il cavaliere si rivolse al confratello di nome Gunnar: “Ecco, vedi? Lo sai anche tu com'è fatto fratello Ulrich: quando è assorto in qualche compito dimentica tutto il resto.”
Le funzioni sono importanti,” protestò questi caparbio.
Sono importanti se sei padre Emelrich, che ha da fare solo quelle. Se sei un fratello cavaliere, io dico che è meglio sapere dove è più probabile che ti capiti un'imboscata.”
L'altro si limitò a un silenzio carico di riprovazione.
Nel frattempo stavano uscendo dalla chiesa altri mantelli bianchi. Reinhardt notò che in generale avevano l'aria più di soldati che di religiosi. I discorsi che sentiva, pronunciati da voci perlopiù forti e decise, vertevano sul combattimento, più che sulle Scritture.
Uno dei cavalieri, un uomo di mezz'età coi capelli neri già venati di grigio, disse: “Avete sentito quello che è successo alla fattoria di Odo? Tutte le bestie uccise.”
E di questa stagione, poi,” intervenne un altro. “È chiaro che ci stanno provocando.”
Ne arrivò un terzo, un biondo con la faccia da ragazzino ma già il piglio di un guerriero esperto. “È chiaro che vogliono spingerci ad attaccare prima del gelo.”
Un altro cavaliere dall'aria molto giovane in tono sprezzante commentò: “Pensano che siamo stupidi.”
Con te non sbaglierebbero di molto, fratello Luitpold!” disse quello dai capelli brizzolati. Tutti gli altri risero, l'oggetto dello scherno aggrottò le sopracciglia e brontolò qualcosa di inintelligibile ma poco gentile.
Un po' in disparte rispetto agli altri, Reinhardt seguiva in silenzio la scena. Sorrideva tra sé e sé, contagiato dal generale clima di rilassatezza, e man mano si lasciava prendere da quei discorsi di combattimenti e armi. Si sentiva come una nave che abbandona un porto sicuro in favore del mare aperto: forse in quelle ignote immensità sarebbe venuto in contatto con pericoli e patimenti, ma di certo si sarebbe trovato nell'elemento per cui era stato creato.
Una voce poderosa lo fece sussultare: “E tu, fratello?”
Reinhardt si riscosse dai suoi pensieri e si trovò davanti il cavaliere alto, con la corporatura da toro. “Fratello... Mathias?” tentò.
Ma bravo!” approvò l'altro, dandogli sulla spalla una pacca che gli parve un colpo di maglio, “ti ricordi già come mi chiamo. Hai già imparato anche i nomi di tutti gli altri o vuoi che te li ripeta?”
Prima che Reinhardt potesse rispondere, si aggiunse al gruppo anche fratello Ulrich.
Come si è comportato il nostro nuovo confratello?” gli chiese subito il cavaliere dai capelli brizzolati.
L'altro finse disperazione. “Voleva darsi a opere di carità, fratello Waldemar.”
Un mormorio più perplesso che disapprovante attraversò il gruppetto. Tutti si volsero a fissare Reinhardt con curiosità, spingendolo a ritirare appena la testa fra le spalle. “Volevo dare un pane a un mendicante,” si sentì in dovere di chiarire.
E per fortuna che l'ho visto in tempo,” intervenne Ulrich, “altrimenti sarebbe successo un disastro.”
Io volevo aiutare un povero,” si difese Reinhardt.
Fratello Waldemar gli mise una mano sulla spalla con l'atteggiamento di un padre che deve spiegare una cosa molto importante a un figlio un po' ribelle. “Qui non siamo in una provincia di pace,” disse in tono pacato. “Questa è la provincia peggiore che abbiamo, la più difficile, quella dove è meno opportuno abbassare la guardia e mostrare un atteggiamento fiducioso. La carità è meritoria, ma non se fatta a qualcuno che se ne serve contro di noi. Non se fatta a qualcuno che prima si finge debole per carpire la nostra fiducia e poi usa tale fiducia per colpire noi o i nostri confratelli alle spalle.”
Reinhardt emise un sospiro. “Ho capito, fratello,” si limitò a rispondere.
Ora non sai nulla di questo luogo,” insisté l'altro, “e tuo dovere è affidarti al consiglio dei più esperti. Quando sarai qui da più tempo, capirai da solo a chi è il caso di concedere fiducia e chi, invece, dev'essere tenuto alla giusta distanza.”
La distanza di un colpo di spada,” puntualizzò fratello Mathias.



Fratello Reinhardt entrò assieme agli altri nel refettorio e si fermò presso il suo posto nel tavolo riservato ai cavalieri. Nei piatti vi erano pane, carne, legumi e frutta, nelle coppe era stata versata la misura di vino concessa.
Nella sala regnava un silenzio solenne, rotto solo dal lieve crepitare delle candele di cera d’api che ardevano illuminando i commensali.
Un fratello prete raggiunse il leggio facendo echeggiare i passi sul pavimento di pietra, aprì la Bibbia con un tonfo che si riverberò sulle volte del soffitto e annunciò: “Dal Salmo 17, Diligam te Domine.”
Con un leggero tramestio tutti presero posto, il lettore cominciò a declamare:

Ho inseguito i miei nemici e li ho raggiunti,
non sono tornato senza averli annientati.
Li ho colpiti e non si sono rialzati,
sono caduti sotto i miei piedi.

Fratello Reinhardt fece saettare lo sguardo intorno a sé: fratello Gunnar stava annuendo. Prestava un ascolto attento alle Scritture, il modo in cui muoveva le labbra udendo certi passaggi faceva capire che doveva conoscerle a memoria. Mangiava poco, tanto che fratello Waldemar gli fece segno di concentrarsi sul cibo materiale, più che su quello spirituale.
Fratello Luitpold e il giovanotto biondo, che aveva scoperto chiamarsi fratello Siegfried, ignoravano al contrario serenamente il Salmo e continuavano a far segno al servo per avere carne e pane.

Tu mi hai cinto di forza per la guerra,
hai piegato sotto di me gli avversari.

Reinhardt rievocò le cene cui aveva preso parte a Venezia: tavole di cedro e legno di rosa, drappi preziosi al posto delle tovaglie. Mense sontuose, che avrebbero fatto sembrare quelle del pur ricco feudo di suo padre il vitto di un ospizio di mendicità.
Dignitari di ogni livello, ambasciatori, grandi mercanti, prelati.
Di nuovo fece girare lo sguardo sui confratelli: abiti semplici in luogo di sete e broccati; niente oro e argento, ma solo lucido ferro.
Niente rilassatezza, niente mollezza. Solo volontà adamantina.
Si chiese se il fratello prete avesse scelto quella lettura per lui, se servisse a fargli capire qual era lo spirito con cui da quel momento in poi avrebbe dovuto vivere la permanenza nell'Ordine.

Dei nemici mi hai mostrato le spalle.
Quelli che mi odiavano, li ho distrutti.

Si trovò inconsapevolmente ad annuire come fratello Gunnar. Il senso di inadeguatezza, di incertezza che tante volte l'aveva pervaso nel suo servizio precedente era scomparso.
Ringraziò in cuor suo per quella lettura: ora non aveva più dubbi. Ora era chiaro come il sole quale fosse il dovere di un cavaliere dell'Ordine Teutonico.

Hanno gridato e nessuno li ha salvati.
Hanno gridato al Signore, ma non ha risposto.
Come polvere al vento li ho dispersi,
calpestati come fango delle strade.









Angolo dell’autore
Aggiungo qui sotto un piccolo glossario della terminologia che ho usato o userò nel corso di questa storia:
Komturei = corrisponde alla Commenda templare
Komtur = Commendatario, colui che comanda la Komturei
Fratello Cavaliere (Ritterbruder) = cavaliere generalmente di nascita nobile che ha pronunciato i voti. È l’unico che ha il diritto di portare il mantello bianco dell’Ordine
Fratello Prete (Priestbruder) = membro dell’Ordine che ha solo funzioni ecclesiastiche e non di combattimento
Sergente o Mantello Grigio (Graumantler) = Combattente laico, in questo caso avente funzioni di comando sul altri laici, ma sempre subordinato ai fratelli cavalieri. Portava il mantello grigio, da cui il nome
Mezzo fratello (Halbbruder) membro laico dell’Ordine che serviva perlopiù come soldato a piedi

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Capitolo 2
*** Seconda parte ***



Gente mia, ecco la seconda parte del mappazzone. Un grandissimo ringraziamento a chi è passato anche solo a dare un’occhiata, e un ringraziamento speciale a chi mi ha lasciato il suo parere^^





Seconda parte



Fratello Reinhardt si affacciò alla merlatura della torre maggiore e lasciò vagare lo sguardo sulla vallata. Quella che al suo arrivo si era presentata come un sontuoso tappeto di oro, carminio e bruno appariva ora come una distesa bianca, costellata di neri alberi spogli, su cui i raggi del sole disegnavano ombre color indaco.
Aspirò con voluttà la brezza gelida, socchiuse gli occhi come forse un tempo avrebbe fatto annusando il più raro balsamo dell'Oriente.
La neve, in effetti, aveva un profumo. Era odore di pulito, di rigore. Era l'odore delle cose che andavano come avrebbero dovuto andare.
Alzò una mano per proteggersi dal riverbero, poi si girò per evitare che il sole gli battesse sul viso e a quel punto vide che qualcuno stava attraversando la vallata diretto a Segewold.
Osservò con più attenzione: erano quattro figure, un uomo, una donna e due bambini; gli abiti che indossavano li identificavano come coloni tedeschi.
Arrancavano come potevano nella neve fresca, l'uomo zoppicando vistosamente e appoggiandosi a un bastone improvvisato, la donna cercando di mantenere l'equilibrio nonostante un bambino in collo e altri due per mano.
Un tramestio alle sue spalle gli fece capire che qualcun altro si era accorto delle persone in avvicinamento. “Dobbiamo dare l'allarme!” disse una voce. Subito dopo la porta che conduceva alle scale fu spalancata e passi precipitosi si persero verso il basso.
Reinhardt rivolse un'altra occhiata al gruppetto. L'uomo era caduto, uno dei bambini lo tirava per la falda del vestito in un tentativo di farlo alzare.
Corse a sua volta giù per la scala a chiocciola, percorrendola così in fretta che quando arrivò all'altezza del cortile gli girava un po' la testa.
Nel barbacane c'era già una piccola folla di soldati, intravide nella penombra il mantello grigio di un sergente.
Qualcuno propose: “Facciamoli entrare!”
“Piano,” replicò un'altra voce, “prima controlliamo che siano veramente tedeschi.”
Poi tutti si fecero da parte per lasciare spazio all'imponente figura di fratello Manfred, Komtur del castello.
Questi ascoltò con aria grave i rapporti delle sentinelle, quindi conciso ordinò: “Aprite.”
Vennero fatti scorrere i catenacci, le due ante si schiusero con un basso cigolio. Al di là del ponte, nel mezzo della bianca distesa inviolata, lo sparuto gruppetto arrancava. Fin da quella distanza si sentiva il pianto del bambino che la donna aveva in braccio.
“Andiamo a prenderli, signore?” propose un armigero.
Senza staccare gli occhi dai fuggiaschi, fratello Manfred disse: “Aspetta.” Li fissò per qualche istante in silenzio, infine ordinò: “Portate il mio cavallo. Quattro cavalieri in armi e otto sergenti con me.”
Reinhardt rimase vagamente stupito dalla richiesta del Komtur, ma notò che a nessun altro era parsa eccessiva. Gli scudieri anzi si stavano già affrettando a portare fuori dalla stalla i cavalli per bardarli.
Si fece avanti per offrirsi volontario.

Fratello Manfred in testa, il drappello si riversò fuori dalle mura di Segewold. Nel veder uscire i cavalieri con la croce nera, l’uomo sollevò la mano che non reggeva il bastone e la agitò sopra la testa. Gridò qualcosa, che però si perse nel frastuono dei cavalli che passavano sul ponte di legno.
Gli animali partirono al galoppo leggero, sollevando spruzzi di neve con gli zoccoli. Per quanto la candida coltre attutisse i rumori, il terreno tremava sotto l'impatto dei grandi destrieri da guerra.
Fratello Reinhardt fissò lo sguardo sulla famiglia. La donna stava aiutando l’uomo a camminare, i bambini più grandicelli correvano affondando nella neve. Ogni tanto uno dei due si fermava e si voltava indietro indeciso, come ponderando l’eventualità di tornare con gli adulti, ma invariabilmente la donna gli faceva segno di andare avanti.
Il Komtur diede ordine di assumere la formazione d'attacco. Reinhardt quasi sussultò, chiedendosi per un istante perché il confratello avesse deciso di caricare degli inermi contadini, ma in quel momento qualcuno esclamò: “Eccoli!”
Si girò in quella direzione: sulle prime non vide nulla, poi si accorse che al limitare del bosco c’erano delle figure che si muovevano.
Un istante dopo, uno dei bambini cadde faccia in giù nella neve e non si mosse più. Gli impennaggi di una freccia gli uscivano dalla schiena.
Dai margini della foresta si staccarono degli uomini a cavallo, che presero a galoppare verso i coloni. Uno di essi spronò per ottenere maggiore velocità, raggiunse la coppia ed estrasse la spada. Gridò qualcosa in una lingua che Reinhardt non conosceva, poi sferrò un tondo rovescio.
Il corpo della donna si accasciò sussultando, la testa descrisse una parabola in aria, quindi atterrò sulla neve con un tonfo sordo e rotolò due o tre volte lasciandosi dietro una scia vermiglia.
Il Samogizio voltò il cavallo per riguadagnare la copertura della foresta, ma a quel punto fratello Reinhardt spronò e abbassò la lancia in posizione d'attacco.
L'uomo si accorse della minaccia e cercò di riguadagnare velocità, ma il suo basso ronzino non poteva competere con il morello del Teutonico.
La lancia lo colpì fra le scapole e lo sbalzò di sella. Reinhardt passò oltre, tirò le redini, fece girare il cavallo sui posteriori e partì per un secondo attacco. Per un istante colse negli occhi del Samogizio qualcosa che poteva somigliare allo sgomento, ma non se ne curò: strinse le ginocchia, rinsaldò la presa sull'arma e spronò.
Passato da parte a parte, l'uomo si torse nell'aria e ricadde in un turbinare di neve.
Reinhardt sfilò la lancia dal corpo esanime, si guardò intorno: due Mantelli Grigi stavano inseguendo un Samogizio che per scappare più in fretta si era addirittura liberato di parte dell'armatura e dello scudo, un altro aveva raccolto il bambino superstite, se l'era issato sull'arcione e stava galoppando verso Segewold. Un fratello cavaliere combatteva a piedi, armato di spada contro tre diversi avversari, ma sembrava che la cosa non lo impegnasse nemmeno più di tanto. Dalla corporatura imponente, Reinhardt valutò che doveva trattarsi di fratello Friedrich o di fratello Mathias.
Per un attimo ponderò se avvicinarsi per dargli man forte, ma un istante dopo il cavaliere abbatté l'avversario che gli stava di fronte con un fendente dal basso verso l'alto che spedì un violento spruzzo di sangue ad arrossare la neve tutt'intorno, quindi si girò fulmineo alla propria destra e con una mezza volta di polso sfruttò la forza che la spada ancora possedeva per caricare un tondo rovescio col quale abbatté anche il secondo avversario. Si fece indietro per evitare un attacco del terzo uomo, lo provocò con una finta, sottrasse bersaglio, caricò una punta alta e lo trafisse con tale forza che gli fece uscire la spada dalla schiena.
Dopodiché si raddrizzò ansante e si guardò intorno con l'aria di un toro infuriato che non trova più niente da incornare.
Fratello Reinhardt vide che i Samogizi superstiti stavano scappando verso le foreste. Un paio di cavalieri e i sergenti rimasti li stavano inseguendo, ma ormai essi avevano acquisito troppo vantaggio ed era chiaro che sarebbero riusciti a far perdere le loro tracce.
Fratello Manfred smontò da cavallo, si avvicinò al corpo della donna e lo rivoltò sulla schiena, scoprendo il fagotto che quelle membra irrigidite continuavano convulsamente a stringere. Si chinò a scostarne un lembo, scrutò con aria grave ciò che esso custodiva, quindi si rialzò scuotendo la testa. “Requiem aeternam dona eis, Domine,” mormorò segnandosi, “et lux perpetua luceat eis. Requiescant in pace.”
Una volta pronunciata la preghiera, il Komtur si rivolse al contadino, che giaceva rannicchiato e piangente nella neve. “Alzati,” gli ordinò.
L'uomo si levò in piedi a fatica, puntellandosi al bastone.
“Da dove vieni?” gli chiese fratello Manfred fissandolo attento.
“Dalla fattoria di Peltes, signore.”
“Sei ferito?”
“Alla gamba.”
“Sono stati loro?”
L'altro chinò la testa. “Sì, signore. Io...” Forse avrebbe voluto dire altro, ma la voce gli tremò e si spense in un mormorio roco. Egli dapprima fissò il corpo esanime della donna, quindi spostò lo sguardo sul bambino che giaceva faccia in giù.
Il cavaliere fissò a sua volta il corpo del bambino, quindi gli disse: “Uno dei tuoi figli almeno è salvo, ringrazia Dio per questo.” Fece una pausa, durante la quale dedicò alla foresta uno sguardo torvo, quindi concluse: “E ringrazia l'Ordine, perché ti giuro che esso non lascerà questo crimine impunito.”



Erano passati due giorni, ma dalla fattoria devastata continuava a levarsi una lenta colonna di fumo nero.
Il calore degli incendi aveva sciolto la neve tutt'intorno, lasciando sul terreno una fanghiglia grigiastra e disseminata di detriti.
Ogni cosa era stata distrutta, ogni edificio dato alle fiamme. Persone e animali giacevano nella posizione in cui erano stati uccisi. Un bambino nudo penzolava impiccato dal ramo di un albero, il collo abnormemente lungo e il volto violaceo, con la lingua che protrudeva dalla bocca in un ghigno demoniaco. A una donna era stato squarciato il ventre; gli intestini ne erano rotolati fuori e il gelo li aveva poi appiccicati al terreno, dove rimanevano come flosci cordami grigi.
Al centro dell'aia c'era quello che sembrava un vecchio albero contorto, composto da un tronco nodoso e da due rami che si allargavano come braccia.
I cavalieri si fermarono perplessi. Fratello Manfred si avvicinò lentamente allo strano simulacro, lo aggirò e una ruga profonda gli si scavò sulla fronte. “Questo passa ogni limite,” proferì gelido, quindi spronò e trottò via.
Quando il Komtur si fu allontanato, gli altri rimasero a scambiarsi mute occhiate. Infine fratello Siegfried, vinto dalla curiosità, andò a vedere. Arrivato nel punto in cui si era fermato fratello Manfred spalancò gli occhi, sbiancò e dovette allontanarsi in tutta fretta.
A quel punto, Fratello Reinhardt si voltò verso Fratello Ulrich in una muta richiesta di spiegazioni.
“Va' a vedere,” gli suggerì quest'ultimo in tono duro. “Io l'ho visto fare quando servivo a Wenden. Va' a vedere, ti garantisco che se tu vivessi un anno presso i Samogizi non impareresti altrettanto bene che razza di gente sono.”

Quello che sembrava un tronco con due rami era in realtà una rudimentale croce, costruita legando insieme spezzoni di travi mezze carbonizzate.
A quel grottesco supplizio era inchiodato un uomo. Il corpo era ormai irrigidito, ma la sua posizione contorta lasciava capire che la morte doveva essere giunta solo dopo un'orrenda agonia.
Il volto del poveretto, gonfio e livido, era irriconoscibile: al posto degli occhi vi erano due buchi dai bordi bruciacchiati, naso e orecchie mancavano. La bocca spalancata, ricolma di sangue coagulato, indicava che la lingua era stata strappata via. Al posto dei genitali vi era una piaga frastagliata.
Il sangue colato dalle innumerevoli ferite si era raccolto in una pozza ai piedi della croce ed era ormai congelato al pari di tutto il resto.
“Signore Iddio,” mormorò Reinhardt, non del tutto certo di non essere sbiancato come fratello Siegfried.
Fece arretrare il cavallo, che innervosito dall'odore di morte stava scalpitando con le orecchie piatte sul collo, quindi raggiunse Ulrich.
“Ebbene?” lo accolse questi.
Reinhardt rimase in silenzio. Aveva cominciato a nevicare e radi fiocchi fluttuavano verso terra. Il cielo era una tavola grigio pallido, tagliata a metà dalla colonna di fumo che continuava a salire densa e pesante.
Levò lo sguardo a incontrare quello del confratello e con voce incolore semplicemente disse: “Ho capito.”
Ulrich annuì grave, quindi replicò: “Non pensare mai che questa gente sia diversa da come l’hai vista oggi. Non pensare mai che ti rispetti se non hai una spada in mano o che abbia pietà di te se non ha la consapevolezza che farti del male significherebbe riceverne molto di più dai tuoi confratelli.”
A quelle parole Reinhardt si girò di nuovo verso la croce, che in quella luce fredda appariva nera. Inconsapevolmente toccò il simbolo che gli ornava il petto.
“Ti stai chiedendo se questo sia un messaggio per noi?” lo richiamò alla realtà Ulrich, che aveva notato il gesto. Si girò a sua volta verso il macabro allestimento, quindi proseguì: “Non sbagli: lo è. È la fine che ci augurano e che tenteranno in ogni modo di farci fare.”

Il viaggio di rientro trascorse in un silenzio funereo. La neve continuava a cadere stentata, riuscendo appena ad attecchire dove il terreno era più solido, ma infradiciandosi immediatamente nelle zone fangose.
“Tempo schifoso,” commentò dopo un po' fratello Ulrich, che cavalcava al fianco di fratello Reinhardt. “Almeno gelasse sul serio. Lo vedi? Adesso sembra tutto solido, in realtà sotto è una palude. Se esci dalle strade battute, i cavalli affondano fino ai ginocchi e poi non escono più. E al disgelo è anche peggio, perché sotto quel che rimane della neve c'è un acquitrino impraticabile.”
L'altro si limitò ad annuire. Al solito, a perdita d'occhio non si vedeva anima viva, ma ciò che era accaduto nella fattoria tedesca faceva capire chiaramente che in realtà la gente c'era, e in qualche modo era perfettamente al corrente di ogni spostamento dell'Ordine. “Loro come fanno?” chiese.
“A girare qui in mezzo, vuoi dire? Ci sono nati, sanno riconoscere il terreno solido a colpo d'occhio e sanno muoversi su quello molle senza affondare.”
Di nuovo calò il silenzio e per un po' Reinhardt rimase semplicemente a guardare i fiocchi di neve che si posavano sul manto lucido del suo cavallo e uno dopo l'altro lentamente si scioglievano trasformandosi in perle trasparenti.
Poi un movimento al margine della strada attirò la sua attenzione: si voltò e intravide qualcuno che si spostava agile, apparendo e scomparendo tra le ondulazioni del terreno e le alte erbe da palude che crescevano un po' ovunque.
D'istinto posò la mano sul pomo della spada e con l'altra strinse le redini, preparandosi a un eventuale inseguimento, poi ricordò quello che aveva appena udito sullo stato del terreno. Emise un sospiro di frustrazione.
Si voltò a cercare con lo sguardo il misterioso inseguitore, e a quel punto si trovò di fronte un ragazzetto vestito di stracci, magro, con gli occhi verdi e i capelli come una matassa di stoppa. “Ma sei tu?” non poté fare a meno di mormorare.
Il giovane gli rivolse una specie di sorriso, quindi saltò fra le erbe agile come una lontra e in un attimo scomparve alla vista. Reinhardt dovette trattenersi dal rivolgergli un gesto di saluto.
Fratello Ulrich si voltò verso di lui. “Hai detto qualcosa?”
“C'era il ragazzo del villaggio,” spiegò l'altro “quello a cui piaceva il mio cavallo.”
“Il Curo? Non mi piace il modo in cui ci sta sempre intorno. Magari è proprio quel figlio di una cagna che dice agli altri dove siamo. Dovevi tirargli dietro la lancia.”
“È solo un povero mendicante,” fu la risposta.
“Qui i poveri mendicanti ti tagliano la gola e ti lasciano a rantolare nel tuo stesso sangue, se fai tanto di farti trovare distratto.”



Nel piazzale di Segewold vi era un silenzio di pietra, rotto solo dal basso sibilo di un maestrale carico di gelo.
I cavalieri erano allineati in una lunga fila e attendevano, muti e immobili come statue. Mantelli e gualdrappe schioccavano nel vento.
Reinhardt, a cavallo insieme agli altri, fissò lo sguardo sulla porta del Capitolo e finalmente la vide aprirsi. Comparve sulla soglia fratello Manfred. Il Komtur appariva ancora più alto e imponente del solito; la sua espressione severa, tagliente come il filo di una lama, era quella di chi ha preso una decisione dura ma necessaria e non ha timore di metterla in atto.
Egli mosse nel cortile passi che echeggiarono come rintocchi, quindi con voce grave recitò: “Benedetto il Signore, mia roccia, che addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia. Mia grazia e mia fortezza, mio rifugio e mia liberazione, mio scudo in cui confido, colui che mi assoggetta i popoli.”
Il vento gemette in risposta, si udì un tintinnio metallico di finimenti.
Arrivò uno scudiero, conducendogli per le redini il più grande dei suoi destrieri da guerra, bardato con una gualdrappa candida segnata da due croci nere. L'uomo montò in sella e un servitore gli porse un Grande Elmo ornato ai lati di larghe ali nere e argento.
Egli lo prese e lo posò sull’arcione in modo che tutti potessero vederlo.
“Fratelli,” disse semplicemente, “è giunto il momento di colpire i pagani come loro hanno colpito i contadini della fattoria di Peltes. Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro. Frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatto all’altro.”
Di nuovo il vento ululò ferale, facendo schioccare le bandiere dell’Ordine sugli spalti.
Fratello Manfred consegnò allora il Grande Elmo allo scudiero, affinché lo custodisse fino al momento della battaglia, quindi diede di sprone al cavallo, che si mosse a un passo vigoroso e fiero. Sfilò davanti ai confratelli e a ognuno di essi rivolse uno sguardo, come per assicurarsi che anche nei loro occhi ardesse la stessa fiamma che accendeva i suoi.
Giunse al barbacane.
Le porte di quercia si spalancarono con un lungo gemito, rivelando il candore di neve inviolata, sotto un cielo grigio come ferro.
I cavalieri si disposero a due a due alle spalle del Komtur e uscirono in silenzio.
Dietro di loro, sergenti, armigeri appiedati e scudieri formarono una lunga colonna.

“Oggi si fa sul serio,” disse fratello Ulrich.
Fratello Reinhardt, che cavalcava al suo fianco, gli chiese: “Che significa?”
“Il Komtur comanda che vengano indossati i Grandi Elmi con le insegne delle casate. Significa che l’Ordine si mostrerà in tutta la sua potenza, per far passare a quei pagani senza Dio la voglia di ammazzare contadini inermi.”
“Pensi che sarà sufficiente?”
Ulrich alzò le spalle. “Di sicuro li terrà buoni per un po’.”
Reinhardt si voltò a fissare la colonna di cavalieri che fratello Richard, Komtur di Treyden, aveva mandato in appoggio al contingente di Segewold. “Che cosa succederà?” chiese.
“L’hai sentito: occhio per occhio, dente per dente.”
L’altro rievocò l’immagine dell’uomo crocifisso, con il viso sfigurato e i genitali tagliati. Strinse le labbra e aggrottò le sopracciglia in un’espressione cupa.
Fratello Ulrich sembrò accorgersi del suo smarrimento. “Distruggeremo un paio dei loro villaggi,” spiegò, “anche se non sarà certo un gran danno, considerando come sono fatti. Probabilmente di abitanti non ne troveremo, perché saranno già scappati nelle paludi. Quella gentaglia ha sempre qualcuno che li informa in anticipo dei nostri spostamenti.”
“E se ci fossero?”
L’altro lasciò passare qualche istante, quindi rispose: “So cosa stai pensando: un cavaliere non uccide persone inermi.” Di nuovo si interruppe. Strinse i denti, forse assorto in qualche ricordo non particolarmente piacevole, quindi riprese: “In primo luogo, qui di inermi non ce ne sono.”
“Ma le donne? I bambini?” lo interruppe Reinhardt.
“Sono perfettamente capaci di piantarti un coltello nella schiena, se fai tanto di dar loro le spalle. Ho visto io stesso un moccioso che non poteva avere più di sette anni uscire da un cespuglio, infilarsi tra le zampe di uno dei nostri destrieri e squarciargli il ventre da sotto.”
Reinhardt non replicò. Aveva combattuto senza quartiere in Terra Santa, ma sempre contro altri uomini d’arme. Contro gente che faceva quello per mestiere, se non per scelta di vita, che vestiva di ferro e maneggiava abitualmente la spada, ben consapevole di tutti i rischi connessi a tale attività. Gettò un’occhiata fugace alle dure erbe di palude che la neve non era riuscita a coprire del tutto e si chiese cos’avrebbe fatto se improvvisamente un bambino fosse uscito da lì e avesse provato a squarciare il ventre al suo cavallo.
Emise un sospiro e levò lo sguardo sul cielo grigio.
Per un po’ rimase assorto ad ascoltare i rumori della colonna in marcia: il tonfare soffice degli zoccoli nella neve, il tinnire dei finimenti, lo scricchiolio del cuoio, qualche breve conversazione a bassa voce.
Forse Dio lo stava mettendo alla prova.
Dio sapeva, naturalmente, quale fosse il punto debole di ognuno, ed ecco che per saggiare la forza delle sua fede lo poneva di fronte agli ostacoli che per lui sarebbe stato più difficile superare.
“Le donne dei Samogizi sono davvero così pericolose?” chiese.
“Tu prega il Signore che questi qui non ti prendano mai vivo,” replicò fratello Ulrich in tono duro. “Pregalo con tutto il cuore e augurati che ascolti le tue suppliche.”

Un lamento squarciò la trasognata calma in cui fratello Reinhardt da un po’ si stava crogiolando. Imprecando in cuor suo per essersi fatto cogliere alla sprovvista, il cavaliere si girò verso la provenienza del grido e vide uno dei soldati a terra, con una freccia che gli usciva dalla gola. Spruzzi di sangue arrossavano la neve fresca.
Alzò gli occhi verso quella che avrebbe potuto essere la provenienza del dardo e in un intrico di vegetali colse un movimento.
Senza esitare spronò il destriero, che balzò in avanti abbandonando la strada battuta e prese a farsi strada con vigore nella neve alta. Quando fu più vicino alla macchia di alberi marcescenti, si accorse che si trattava in realtà di un villaggio, che i pagani avevano mimetizzato con rami ed erbe di palude, di certo in attesa del loro arrivo.
Udì a quel punto un tramestio, quindi una freccia gli sibilò vicino all’orecchio. Il destriero scalpitò innervosito, Reinhardt vide una figura esile balzare fuori da una delle spelonche, colse il baluginio di una lama nella penombra dell’abitazione.
D’istinto brandì la lancia e la scagliò. Si udì un lamento, la figura crollò a terra, quindi si rialzò malamente e scomparve zoppicando e lasciandosi dietro una scia di sangue. Un altro gli corse incontro con la spada sguainata, egli fece indietreggiare il cavallo, snudò la lama a sua volta e abbatté l’avversario con una punta dall’alto. Recuperò l’arma, si fece indietro, altra gente gli stava venendo incontro. Il destriero fece una mezza impennata, rampò con gli anteriori, costringendo un pagano ad arretrare precipitosamente. Altri però gli stavano correndo addosso, Reinhardt vide con orrore un ragazzino gettarsi carponi con una daga stretta in pugno e immaginò il suo destriero rovesciarsi col ventre squarciato.
Una lancia inchiodò a terra il giovane pagano, il coltello scivolò via.
Reinhardt si girò di scatto e vide fratello Ulrich e un altro paio di cavalieri.
I Samogizi a quel punto si dileguarono scomparendo nelle campagne, sul villaggio calò un silenzio cupo.
“Tutto a posto?” chiese fratello Friedrich. Reinhardt notò che non aveva la lancia. Cercò con lo sguardo il pagano che era stato colpito poco prima e lo vide rannicchiato a terra, con le mani serrate sull’asta che gli usciva dall'addome e una pozza di sangue che gli si allargava sotto.
Scese da cavallo e fece qualche passo nella sua direzione.
“Che fai?” chiese alle sue spalle fratello Ulrich.
Reinhardt non rispose, anche perché obiettivamente non avrebbe saputo cosa rispondere. Non lo sapeva neppure lui, cosa avrebbe voluto o dovuto fare.
Avanzò di un altro passo. Il pagano, che fino a quel momento era rimasto rannicchiato a rantolare, si girò verso di lui.
Il cavaliere dovette faticare per per non fare un salto indietro: era una giovane donna, o forse un ragazzo imberbe, non si capiva. Il suo sguardo, lucido di sofferenza, esprimeva una febbrile volontà di lottare.
“Signore Iddio,” mormorò. Si fece il segno della croce e il ragazzo, o quel che era, sputò nella sua direzione.
Fratello Fredrich comparve al suo fianco. Dedicò poco più di uno sguardo al ferito, maschio o femmina che fosse, quindi afferrò l’asta della lancia e la sfilò con un movimento secco.
“Andiamo?” chiese poi.
“Aspetta,” replicò fratello Reinhardt. “Cosa facciamo con quello… quella?”
“Lo seppelliamo, al massimo. Non vedi che è morto?”
L’altro abbassò lo sguardo e incontrò occhi spalancati e immobili, che anche nel trapasso conservavano un vago barlume della ferocia che li aveva animati in vita.
“Questo qui avrà al massimo quattordici anni,” gli giunse la voce critica di fratello Mathias.
Questa qui,” lo corresse fratello Friedrich. “Per me è una femmina.”
“Non sarò certo io ad accertarmene,” rispose l’altro. “E ora andiamo, stanno aspettando noi.”

Si lasciarono alle spalle il villaggio in fiamme, che mandava verso il cielo una greve colonna di fumo bigio.
“Ora lo vedranno,” disse fratello Ulrich, “e capiranno che non scherziamo.”
Fratello Reinhardt, che aveva ancora davanti agli occhi lo sguardo feroce di quel ragazzo o ragazza, si limitò ad annuire.
“Nulla vale come l’esempio pratico, vero?” gli chiese l’altro.
“Cosa?”
“Avrei potuto raccontarti com’è fatta questa gente fino alla Quaresima, e tu non ti saresti comunque convinto.” Fece una breve pausa, durante la quale si girò sulla sella per controllare i dintorni, quindi soggiunse: “Ora invece hai capito, vero?”
Reinhardt emise un sospiro. “Credo di sì.”
“Se non fosse arrivato il Fritz, a questo punto staremmo in due su un solo cavallo come i Templari.”
L’altro stava per rispondere quando cominciò a udire una sorta di tuonare lontano. Istintivamente alzò lo sguardo al cielo aspettandosi l’addensarsi di nubi temporalesche, ma esso rimaneva di un grigio uniforme.
Si guardò fugacemente intorno per spiare le reazioni degli altri: nessuno sembrava farci caso. Il suono però proseguiva. Aumentava, anzi, assumendo la connotazione di un rullare cupo e incalzante, sul quale si inserivano quelli che sembravano lunghi muggiti.
Alla fine Reinhardt si voltò verso il confratello. “Che cos’è?”
L’altro non pareva particolarmente impressionato. “Vuoi dire questo rumore?”
“Sì.”
“Tamburi di guerra, canti in onore dei loro idoli. Pensano di spaventarci con un po’ di chiasso.”
“Credi che daranno battaglia?”
Fratello Ulrich alzò le spalle. “A un certo punto non potranno esimersi: è inverno e anche loro hanno bisogno di rifugi.”
A quelle parole l’altro si voltò a fissare la colonna di fumo che continuava a salire nell’aria immobile. “Che intendi dire?”
“Di solito funziona così: loro distruggono una fattoria, noi in risposta bruciamo villaggi finché loro non si trovano nella necessità di affrontarci in campo aperto per farci smettere. A quel punto noi ne ammazziamo un po’ e di solito gli altri per qualche mese stanno tranquilli.”
Fratello Reinhardt non rispose. I tamburi si erano fatti più forti, il canto pareva l’ululato di demoni infernali. Non si vedeva nessuno, ma sembrava che ogni roccia, ogni albero facesse scaturire quei suoni spaventosi. Si guardò intorno come se d'un tratto i Samogizi in armi avessero potuto sorgere dal terreno tutt'intorno a loro. “Dove sono?” chiese a disagio.
“Tra un po' arriveranno,” disse l'altro per tutta risposta.
I tamburi tacquero, i canti si affievolirono fino a cessare e sulle campagne calò un silenzio spettrale.
Il Komtur alzò un braccio e le schiere si fermarono. Il vento passò gemendo sulla pianura, i mantelli bianchi ondeggiarono.
Le bandiere dell'Ordine furono innalzate e schioccarono fiere nell'aria gelida.
Cominciò a quel punto a farsi udire un urlio diffuso, grida roche, strida e ululati. Il terreno tremava come percosso da un immenso maglio.
Impassibile, fratello Manfred diede un ordine secco e la schiera di cavalieri si dispose in una linea frontale. I Grandi Elmi vennero indossati, le lance impugnate. I cavalieri erano giganti di ferro, solenni e immobili.
I clamori si fecero più intensi, la vibrazione divenne il rombo cupo di centinaia zoccoli e piedi in corsa.
A un altro comando le lance vennero brandite. Un fremito di luce passò sulle punte affilate. I destrieri scalpitarono, rasparono la terra impazienti di lanciarsi all'assalto.
Le froge umide soffiarono densi getti di vapore.

Attraverso il Grande Elmo, fratello Reinhardt vedeva una striscia così candida che quasi gli faceva dolere gli occhi, sotto una striscia più sottile di un cupo color piombo. Se si girava, vedeva dei suoi confratelli solo i cimieri: orsi, leoni, lupi e draghi dalle fauci spalancate, ali e corna, spade brandite, corone, aquile e fenici.
Mostri e belve sembravano ringhiare bramosi, gli occhi davano l'idea di guizzare alla ricerca del nemico.
Ed esso giunse, dilagando sulla pianura come un'onda di piena. Guerrieri a cavallo e a piedi, che avanzavano in una disordinata corsa, emettendo roche grida di battaglia.
Reinhardt fece un groppo delle redini, rinsaldò la presa sulla lancia. Di nuovo si girò a fissare i confratelli, ricavandone l'impressione di un bastione di ferro, contrapposto a una vivida foga animale.
Il bastione rimase immoto, impassibile mentre i Samogizi correvano ululando ingiurie e sfide. Non ebbe un fremito al lancio dei primi proietti, ignorò il baluginare delle armi sguainate.
E infine giunse il segnale: le lance calarono in posizione d'attacco, i grandi destrieri da guerra balzarono in avanti.
Le ginocchia strette, i muscoli tesi, Reinhardt fissò lo sguardo su un guerriero che montava un cavallo alto e robusto, forse frutto di una razzia. Dava l'idea di essere un capo, portava un'armatura elaborata e aveva una lunga spada lustra. I capelli, biondi e arruffati, erano legati in una coda.
Riconobbe tra i suoi ornamenti il simbolo di Perkūnas, ovvero l'idolo che i Samogizi reputavano più importante.
Pensò alla propria croce nera. “Gott mit uns!” gridò d'impulso. Strinse la presa sulla lancia, spronò. Il motto proruppe in più punti dello schieramento, incupito dagli elmi, feroce. Si ripeté, sincronizzandosi fino a divenire un unico assordante ruggito.
La lancia impattò con una violenza che quasi gli mozzò il respiro. Il Samogizio con le insegne di capo scomparve dalla sua vista, il cavallo scosso corse via. Un altro guerriero cercò di afferrarlo per montargli in sella, ma fu raggiunto e abbattuto da un fratello cavaliere.
Reinhardt continuò ad avanzare. Vide sfilare elmi appuntiti adorni di pelliccia, volti barbuti, qualche chioma ispida. Di nuovo abbassò la lancia, sbalzò di sella un guerriero a cavallo, passò oltre. Il Grande Elmo attutiva i rumori della battaglia, tuttavia ovunque percepiva urla, nitriti e clangore di armi. Spronò, l'animale rispose con un poderoso galoppo. Abbassò l'asta in posizione di attacco, puntò un altro Samogizio a cavallo. Questi lo vide e cercò di scartare per evitare l'impatto, ma la lancia lo passò da parte a parte, facendogli uscire un fiotto di sangue alla bocca. Il corpo si accasciò tirandosi dietro l'arma, Reinhardt la lasciò andare, sfoderò la spada e si ributtò nel centro della mischia.
Qualcuno lo tirò per la falda del mantello, egli si girò di scatto e pur attraverso le feritoie dell'elmo vide una mano brancicare verso i finimenti del suo cavallo.
Calò la spada e l'arto volò reciso, lasciandosi dietro uno spruzzo vermiglio. Si spinse in avanti, alla ricerca di altri avversari.
Dopo aver attraversato la pianura come una gigantesca falce, la linea dei cavalieri si era frammentata e ovunque infuriavano gli scontri.
Fratello Reinhardt vide un confratello cadere a terra assieme al cavallo, un paio di Samogizi gli si avventarono addosso, un altro si aggrappò al cimiero. Il cavaliere abbatté quest'ultimo a mani nude, poi si fece indietro cercando di allontanarsi dall'animale agonizzante, ma nel frattempo altri pagani tentarono di afferrarlo.
Egli però aveva sfoderato la spada, e quelli che lo stavano incalzando più da presso caddero malamente nel loro stesso sangue.
Reinhardt si fece avanti. Raggiunse al galoppo il confratello, si piegò sulla sella e calò un tondo dritto sul collo di uno dei pagani. Quella che volò in aria, descrivendo un'ampia parabola, gli parve la testa di una donna.
Tirò le redini raddrizzando la schiena, fece girare sui posteriori il suo agile destriero, lo spinse nuovamente in avanti, ma nel tempo della conversione l’altro aveva già ucciso i due nemici che lo minacciavano da vicino. Gli altri stavano scappando.

Quando i pagani andarono in rotta, Reinhardt aveva la sensazione di essere appena entrato in campo. Gli sembrava che fossero passati solo pochi, convulsi attimi.
Poi però si guardò intorno e si accorse che tutta la pianura era costellata di cadaveri. C’erano soldati riversi al suolo, qualche sergente, addirittura un mantello bianco, ma perlopiù i corpi erano quelli dei Samogizi, e ce n’erano a perdita d’occhio.
Per certi aspetti, la cosa lo stupì: da quando si trovava in Livonia, non li aveva mai visti combattere fino alla morte. Perlopiù, quando si accorgevano che le cose si mettevano male, preferivano abbandonare lo scontro e dileguarsi nei boschi per poi combattere nuovamente in condizioni più favorevoli.
Di nuovo fece scorrere lo sguardo sul campo di battaglia: questa volta non doveva essere stato così facile dileguarsi.
Si tolse il Grande Elmo e tenendolo sull’arcione inspirò a pieni polmoni. L’aria era fredda, piacevole sulla pelle accaldata, ma greve dell’odore di sangue e di corpi smembrati. Ogni tanto, un refolo di fumo acre la appesantiva ulteriormente.
Aggrottò le sopracciglia. Man mano che la tensione dello scontro veniva meno, cominciavano a farsi sentire la stanchezza e il dolore. Il braccio destro gli faceva male come se ci fosse un cane che glielo stava mordendo, si sentiva la camicia appiccicata addosso dal sudore.
Si guardò gli abiti e si accorse che ormai erano ben lungi dall’essere candidi: le falde del mantello erano strappate, tagliate da colpi di spada. Sulla destra l’indumento era talmente inzuppato di sangue da esserne appesantito.
Per un po' rimase a fissare perplesso quella larga macchia rossa, già scura e secca sui bordi, poi si piegò in avanti per controllare che il cavallo non avesse qualche ferita.
Una voce lo fece sussultare: “Ebbene, fratello, come va?”
Si girò di scatto, la mano corse d'istinto al pomo della spada. Riconobbe fratello Manfred.
“Scusate,” disse, abbandonando la presa sull'arma.
L'altro scosse la testa. “Apprezzo chi non si fa cogliere alla sprovvista,” rispose. “Meglio mettere mano alla spada quando non ve n'è bisogno che non farlo quando le circostanze lo richiedono. Non sei d'accordo?”
“Sì, avete ragione.”
Il Komtur, le mani appoggiate sull'arcione, annuì e disse: “Ti sei comportato bene in battaglia, fratello.”
Reinhardt chinò appena la testa. “Vi ringrazio,” rispose.
“Sei ferito, per caso?”
Il più giovane crollò il capo. “No, signore.” Di nuovo abbassò gli occhi sui propri abiti. “No, non credo.”
“Rendiamo grazie a Dio per questo,” rispose il Komtur. “Non tutti sono così fortunati alla loro prima battaglia contro i pagani.”
Detto questo, fratello Manfred spronò il destriero e raggiunse un gruppetto di sergenti e mezzi fratelli che stavano allineando da una parte i corpi dei Samogizi. Reinhardt notò che fratello Emelrich stava già indossando i paramenti per impartire una benedizione alle salme.
Cercò con lo sguardo fratello Ulrich, augurandosi che non appartenesse a lui il mantello bianco che aveva visto a terra calpestato e insanguinato.
Lo scorse ai margini del campo, seduto su un manto di pelliccia che probabilmente aveva raccolto da qualche nemico morto. Assicurò il Grande Elmo alla sella, quindi scese da cavallo e tenendo l'animale per le redini lo raggiunse.
Al suo arrivo l'altro alzò lo sguardo su di lui. “Sei qui,” disse.
“A Dio piacendo.”
L'altro sorrise. “Pare che tu sia piaciuto anche al Komtur. L'ho visto mentre ti parlava, aveva l'aria soddisfatta.”
Reinhardt si limitò ad annuire.
Fratello Ulrich gli fece cenno di sedere accanto a lui. “Che c'è?” gli chiese poi. “Sei ferito per caso?”
“No, è che...” Sospirò, scosse la testa. “Non lo so, non capisco. Noi portiamo del bene a costoro, portiamo il vero Dio, portiamo case di pietra, attrezzi utili. Perché invece di accettare il nostro aiuto si ostinano a combatterci?” Fece un ampio gesto per indicare il campo di battaglia, quindi in tono amaro soggiunse: “Perché donne o ragazzini a stento in grado di sollevare un'arma si ergono contro di noi facendo questa misera fine? Non sanno che i loro idoli sono solo simulacri di legno che non significano nulla?”
“Forse vogliono vivere a modo loro,” fu la risposta dell'altro, pronunciata col tono paziente del genitore che sente un bambino fare una domanda profondamente ingenua.
“Si fanno ammazzare a decine pur di poter continuare a vivere in spelonche buie, venerando idoli e mangiando quel poco che la loro coltivazione inefficace consente di strappare alla terra?”
“Loro credono che sia giusto così. E ora siedi, Reinhardt, hai la faccia di uno che sta per cadere lungo disteso da un momento all'altro.”



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Capitolo 3
*** Terza parte ***


Gente mia, anche questo mappazzone è finito. L’episodio è concluso in sé, è vero, ma nulla vieta di farne l’inizio di una long, appena l’ispirazione si degnerà di assistermi.
Ringrazio moltissimo tutti quelli che mi hanno seguito e mi hanno fatto sapere il loro parere.





Terza parte



Fratello Reinhardt ritirò la testa fra le spalle sotto una raffica di vento particolarmente violenta, carica di un nevischio che pungeva come una manciata di aghi.
Si strinse al collo la pesante cappa di montone.
Quando il drappiere gliel'aveva consegnata, sulle prime era rimasto stupito: né a Starkenberg né in Italia aveva mai avuto bisogno di indumenti del genere, e sulle prime era stato quasi tentato di rifiutarla, perché indossata sopra il manto bianco dell'Ordine era brutta da vedere, ma soprattutto intralciava nei movimenti.
Per fortuna come al solito era arrivato fratello Ulrich, a soccorrerlo con la sua maggiore esperienza di quei luoghi, e lui l'aveva accettata.
Di nuovo si piegò per evitare una sventagliata di nevischio ghiacciato.
Se si guardava intorno, non riusciva quasi a riconoscere le campagne che aveva visto appena giunto in Livonia: non c'era più nulla del rosso, del porpora, dell'oro che l'avevano accolto al suo arrivo. Ora c'era solo bianco ovunque, tanto che riusciva difficile credere che in quelle lande vi fosse mai stato qualcosa di diverso da ghiaccio e neve.
Freddo, eh?” gli disse fratello Ulrich, che cavalcava al suo fianco avvolto nel mantello di montone come chi è abituato a portarlo da una vita.
Già,” brontolò Reinhardt.
Sei fortunato, non è neanche uno degli inverni più rigidi.”
Stai scherzando?” protestò l’altro, al solito piegandosi per offrire la minore superficie possibile al vento ghiacciato.
Un anno venne un tale freddo che nella foresta trovammo un cervo maschio, con un palco di corna largo come due uomini a braccia aperte uno di fianco all’altro, completamente congelato, duro come la pietra.”
Un cervo?” ripeté incredulo fratello Reinhardt.
Rendemmo grazie a Sant’Uberto,” fu la risposta. “Scarseggiava la carne, e con quello mangiammo per più di una settimana.”
Dopo quell’aneddoto, per un po’ proseguirono in silenzio. La strada che conduceva al piccolo villaggio con la chiesa diroccata era coperta di neve e i cavalli avanzavano lenti, alzando le zampe con precauzione. Il vento faceva schioccare le gualdrappe come bandiere.
Quando l’agglomerato di capanne apparve in lontananza, più che altro come una sagoma scura che emergeva dalla foschia, Reinhardt si voltò verso il confratello e chiese: “Padre Emelrich vuole dire messa anche con questo tempo?”
Non vedo perché non dovrebbe,” rispose l’altro. “La parola di Dio si porta solo col bel tempo adesso?”
No, ma...”
Cosa vuoi che sia un po’ di neve? Ti ho detto che abbiamo visto di peggio da queste parti.”
Reinhardt, impegnato a proteggersi dall’ennesima sventagliata di nevischio gelido, non rispose.

Il villaggio sembrava più che mai abbandonato, e forse in parte lo era anche. Alcune capanne erano buie, con lingue di neve che dalla porta dilagavano all'interno. Le altre avevano gli ingressi serrati da stuoie e tavole.
Le poche impronte che si vedevano in giro erano mezze coperte dal manto ghiacciato, segno che a prescindere dalla presenza dei cavalieri tedeschi, la gente se ne stava ben tappata in casa. Le rovine della chiesa erano più basse rispetto all'ultima volta che Reinhardt le aveva viste, un muro mancava del tutto, la porta penzolante era stata portata via, forse per farne legna da ardere.
A ridosso dell'unico angolo più o meno intero, sotto una specie di riparo costruito con assi e rami, baluginava un piccolo fuoco.
Il cavaliere si volse stupito verso il confratello, che in risposta alzò le spalle perplesso.
Osservò con più attenzione e colse mani tremanti, parzialmente fasciate di stracci, che si tendevano sulle esili fiamme.
Smontò da cavallo. Fratello Ulrich fece per dirgli qualcosa, ma lui si limitò a zittirlo con un cenno, e tenendo l'animale per le redini si avvicinò incuriosito.
Si chinò per scrutare all'interno del miserabile rifugio.
Rannicchiato in un viluppo di cenci, c'era il Curo. Gli parve ancora più magro di come lo ricordava, più pallido. Con gli stracci rattoppati che aveva addosso tremava verga a verga, tuttavia non mancò di rivolgergli un lieve sorriso. “Cavallo... forte,” gli ricordò.
Reinhardt sorrise a sua volta. “Sì, il mio cavallo è molto forte,” assentì.
Il ragazzo annuì in un modo che sembrava imitare il suo. Di nuovo gli rivolse un timido sorriso, poi però si rannicchiò scosso da un brivido. Il cavaliere notò che la sua pelle, laddove era esposta al gelo, aveva ormai il colore di quella dei morti.
D’impulso si tolse dalle spalle il pesante mantello di montone e glielo tese.
A quel movimento, il ragazzo scattò in piedi, poi arretrò e rimase a guardarlo incerto, facendo saettare gli occhi da lui all'indumento.
Prendilo, è per te,” gli disse allora. Ripeté il gesto di porgerglielo, provocando un suo nuovo, precipitoso arretramento. “Ulrich, puoi digli che voglio darlo a lui?” chiese allora, senza distogliere lo sguardo dal ragazzo tremante.
Sei matto?” giunse in risposta la voce del confratello. “Vuoi rifare la pantomima dell'altra volta?”
Senza girarsi, in tono duro fratello Reinhardt rispose: “No, questa volta passerò a fil di spada chiunque osi percuotere questo giovane, o portargli via ciò che è suo. E ora diglielo, per favore.”
L'altro emise un sospiro come di esasperazione, quindi proferì qualcosa nella lingua dei pagani. Il ragazzo alzò gli occhi su di lui come se non si capacitasse di ciò che aveva appena udito. Egli ripeté la frase.
Il Curo volse allora lo sguardo al mantello. Non era certo un indumento pregiato, ma era ampio e morbido, in grado di proteggere dal vento e dalla neve. L'esterno era di pelle quasi grezza, ma l'interno era un vello così folto che ci si poteva affondare dentro.
Prendilo,” ripeté fratello Reinhardt. Si protese a deporglielo fra le mani.

Hai freddo?” chiese fratello Ulrich. Il vento era così forte che il cavaliere doveva alzare la voce per farsi sentire.
Fratello Reinhardt strinse le labbra e cercando di mantenere la voce ferma rispose: “No.”
Ulrich fece una breve risata e replicò: “Ringrazia il Cielo che stiamo per arrivare a Segewold, almeno riuscirò a metterti davanti al camino prima che tu faccia la fine del cervo.” Fece una pausa, quindi perplesso chiese: “Ma di' un po', cosa ti è venuto in mente di dare al Curo il tuo mantello?”
Aveva freddo. Non aveva di che coprirsi, in quel tugurio miserabile.”
Lo sai, vero, che alla prima occasione ripagherà la tua generosità cercando di tagliarti la gola?”
Reinhardt scosse la testa. “Non credo che sia come dici tu.” Ingobbì le spalle, cercando di proteggersi da una raffica particolarmente violenta, quindi soggiunse: “Tu sei qui da più tempo di me e conosci i pagani, ma io ho visto gli occhi di quel ragazzo, e gli occhi non mentono. Vedrai che non farà mai nulla contro di noi. Anzi, io penso che troverà il modo di sdebitarsi.”
E come vuoi che faccia a sdebitarsi quel povero pezzente? È il servo di qualcuno, vive di avanzi, non è neppure padrone degli stracci che ha addosso.”
Fratello Reinhardt non replicò. Nonostante la camicia, il gambeson e la cotta d'arme, senza il mantello di montone si sentiva gelare. Non più trattenuto dal pesante indumento, il manto bianco dell'Ordine gli svolazzava intorno furiosamente, spinto dalle raffiche. La cotta di maglia era talmente gelata che vi si era formato sopra un sottile strato di brina. Se per sbaglio la sfiorava con la pelle nuda, sentiva una fitta di dolore. Pur protette dai guanti, le dita gli si stavano intorpidendo.
In ogni caso, ne aveva più bisogno di me,” disse dopo un po'.
Voglio proprio vederti, quando spiegherai a fratello Manfred perché non hai più il mantello di montone.”
Gli dirò che ho fatto un’opera di bene,” rispose Reinhardt piccato. “Portare la parola di Dio ai pagani significa anche insegnare loro cosa sono la carità e il sacrificio di sé, o sbaglio?”
Poi diede di sprone al destriero distaccando il confratello di alcune lunghezze.
Digli che te l’ha strappato un lupo,” consigliò fratello Ulrich alle sue spalle, alzando la voce per coprire l’ululato del vento.
Fratello Reinhardt fermò il destriero. “Ho fatto un’opera di bene,” insisté serio quando l’altro l’ebbe raggiunto. “Non vedo perché dovrei mentire.”
Andiamo, dai,” lo esortò l’altro per tutta risposta. “Se sto morendo di freddo io, non oso immaginare te.”

Ormai era pomeriggio inoltrato e tutti i cavalieri che non erano impegnati in qualche compito erano nella sala comune, dove in un grande camino ardeva un tronco di quercia. Nell’aria c’era il brusio di conversazioni a bassa voce.
Un paio di confratelli erano impegnati in una partita a scacchi; un altro, nell’angolo accanto al camino, con la schiena appoggiata alla parete, stava leggendo assorto.
Quando fratello Ulrich e fratello Reinhardt si presentarono sulla soglia, calò di colpo un gran silenzio, nel quale si udì distintamente il rumore di un pezzo degli scacchi che cadeva e rotolava via.
Infine fratello Waldemar si alzò lentamente in piedi e a passi misurati li raggiunse. Dedicò a Reinhardt una lunga occhiata dal basso verso l’alto, quindi aggrottò le sopracciglia e gli chiese: “Che hai fatto, fratello? Dal colore della tua faccia si direbbe che ti abbiano ripescato da un lago.”
Sto bene,” gli assicurò il più giovane per tutta risposta, ma non riuscì a impedirsi di balbettare per il freddo.
L’altro lo fissò critico. “Dov’è il tuo mantello di montone?” gli chiese poi. “Non sarai uscito senza, spero.”
Veramente no, fratello.”
E allora dov’è finito, l’hai perso?”
Reinhardt chinò appena la testa. “Ecco, io… ho compiuto un’opera di carità.”
Di nuovo fratello Waldemar aggrottò le sopracciglia. “Sarebbe a dire?”
Intervenne a quel punto fratello Ulrich, che mise una mano sulla spalla di Reinhardt e disse: “Hai presente San Martino, Waldemar?”
Si avvicinò anche fratello Friedrich, che stava seguendo lo scambio incuriosito. “San Martino ha dato il suo mantello a un mendicante,” considerò. “Tu hai fatto lo stesso?”
Reinhardt annuì. Ritirò appena la testa fra le spalle aspettandosi una rampogna, ma l’altro scoppiò in una risata. “Ora nell’Ordine c’è un santo,” esclamò. “San Martino di Livonia!”
Altri cavalieri, che nel frattempo si erano avvicinati, scoppiarono a loro volta in una risata.
Si fece avanti fratello Gunnar, che fissò tutti con occhi di fuoco e in tono duro ammonì: “Questa è blasfemia!”
Nessuno parve impressionarsi particolarmente. Fratello Mathias scosse anzi la testa e disse: “È solo un modo per scherzare un po'.”
È blasfemia!” insisté il primo imperterrito. “Smettetela subito, o dovrò informare il Komtur.”
Così si farà una risata anche lui,” rispose Mathias, che subito dopo si rivolse a fratello Friedrich dicendo: “Va' a chiamare fratello Manfred, Fritz. Digli che qui c'è San Martino di Livonia, se vuole venire a rendergli omaggio.”
Subito!” il cavaliere si allontanò ridacchiando.
Sopraffatto dall'ilarità generale, Reinhardt non sapeva bene se unirsi all'allegria dei confratelli o protestare sdegnato. Si voltò verso Ulrich come in cerca di ispirazione, ma il cavaliere fece a sua volta una risata e rivolto agli altri disse: “E lo sapete quale sarà il miracolo più grande del nostro San Martino di Livonia? Convincere il drappiere a dargli un altro mantello!”
Se ci riesce sarà veramente un santo miracoloso,” replicò Siegfried. “Per me, dopo un prodigio del genere arriverà la gente in pellegrinaggio a Segewold!”
I pagani convertiti, magari!” rincarò Luitpold.
Fratello Reinhardt chinò la testa senza dire nulla. Nonostante il piacevole tepore del fuoco, decise che degli scherzi dei confratelli ne aveva avuto abbastanza. “Io ho fatto un’opera di carità,” ripeté in tono duro. Si diresse poi deciso verso la porta, e sulla soglia incrociò il Komtur che gli disse: “E dunque abbiamo qui un nuovo santo? San Martino di Livonia che regala mantelli ai pagani?”



In piedi sugli spalti, fratello Reinhardt lasciava vagare lo sguardo sulle colline ancora coperte di neve. Il sole ormai s’era fatto più caldo e dappertutto si udiva il gocciare e gorgogliare dei mille rivoli che il disgelo produceva.
Si allentò il mantello sul petto: la temperatura si era fatta più mite e non richiedeva più di indossare un vello di montone; il gambeson, la cotta d’arme e il manto bianco dell’Ordine erano più che sufficienti.
Ripensò al ragazzo: non l’aveva più rivisto, quindi non aveva modo di sapere se fosse riuscito a sopravvivere a quella tormenta o no. Si chiese se davvero stesse solo aspettando l’occasione buona per approfittarsi della sua fiducia e colpirlo a tradimento, e ancora una volta l’ipotesi gli parve inverosimile.
Guardò di nuovo oltre la merlatura: cielo azzurro, senza una nuvola. Come aveva imparato a riconoscere l’odore della neve quando era giunto in Livonia, così ora coglieva nell’aria quello della primavera in arrivo: un misto di limo, erba giovane e resina dei boschi.
Passò in volo un trampoliere bianco e grigio. I rami ancora spogli delle betulle ondeggiarono appena, spinti da un refolo d’aria che sapeva di fumo e cucina.
Il cavaliere si voltò verso il cortile. Sulla soglia di un magazzino c’era una donna con un neonato in braccio, che con la mano libera rimestava una pentola appesa su un fuoco improvvisato e intanto diceva qualcosa a due bambini intenti a rincorrersi. Un vecchio venerabile, con la barba bianca che gli arrivava fino al petto, sedeva su una panca a lato della porta, le mani poggiate una sull’altra sul pomo del bastone. Di un’altra donna si coglieva nel silenzio il pianto sommesso.
Erano arrivati poco prima dell’alba. Le sentinelle avevano visto delle fiaccole che erravano sulla pianura come fuochi fatui e avevano dato l’allarme, pensando che fossero i Samogizi che tentavano un attacco. Solo dopo avevano capito che in realtà era un gruppo di contadini in fuga da una fattoria distrutta.
Reinhardt abbandonò gli spalti e scese nel cortile. In un angolo un po’ discosto, il Komtur stava parlando con un uomo di circa trent’anni, biondo, con un braccio al collo. Riconobbe sul suo volto segnato l’espressione tesa di chi è appena sfuggito a qualcosa di orribile.
Si avvicinò incuriosito e sentì l’uomo dire: “Sono arrivati al calare della notte. Ce ne siamo accorti quando la casa era già in fiamme.”
Fratello Manfred annuì grave.
Hanno portato via gli animali, rubato il grano,” proseguì l’uomo, “e poi...” dovette interrompersi.
Il Komtur gli fece cenno che aveva udito abbastanza. Gli posò una mano sulla spalla, ma l’uomo balbettò: “Helga...” La voce era incrinata dal pianto. “I bambini...”
Faremo dire una messa per loro,” gli assicurò il cavaliere.
Sono riuscito a salvare solo mio padre, mia sorella e mia cognata coi figli. Gli altri sono tutti morti.”
Quant’è vero Dio, li vendicheremo,” promise il Komtur.
In quel momento si udirono le sentinelle dare una voce. Reinhardt corse verso gli spalti. “Cosa c’è?” chiese.
Dall’alto, un soldato gli rispose: “Sta arrivando un uomo a cavallo.”
Un cavaliere?”
La sentinella diede un altro sguardo all’esterno, quindi rispose: “Monta a pelo, sta galoppando come se avesse il diavolo alle calcagna.”
A quelle parole, Reinhardt si voltò verso il Komtur, che in risposta ordinò: “Aprite la porta.”
Quello che entrò, in groppa a un cavallo schiumante e letteralmente impazzito di paura, era a malapena un ragazzo. Vestiva abiti da contadino ed era pallido come un morto. Aveva una mano serrata su un ciuffo di criniera, mentre l’altra stringeva quel che restava di redini da tiro scorciate con mezzi di fortuna.
Per amor di Dio, aiutatemi!” esalò non appena vide Reinhardt farglisi incontro. Fece per scendere da cavallo, ma le gambe non lo ressero e si accasciò al suolo tremante. “Per l’amor di Dio,” ripeté. Grosse lacrime cominciarono a scendergli lungo le guance.
Cosa c’è, sei ferito?” gli chiese il cavaliere, chinandosi accanto a lui.
Il ragazzo lo fissò con occhi che il terrore rendeva enormi. “Hanno ucciso tutti,” balbettò. “Tutti. Tutti morti.” Il pianto divenne un singhiozzare convulso.
Rienhardt lo prese per le spalle. “Chi ha ucciso tutti?” gli chiese, anche se immaginava già quello che il ragazzo gli avrebbe risposto.

Nella sala comune il clima era cupo. Nonostante le ampie finestre fossero attraversate dal sole del primo pomeriggio, l’aria sembrava aver conservato il gelo dell’inverno.
Fratello Reinhardt sedette su una delle panche che correvano lungo la parete. Per una volta era solo, perché fratello Ulrich era impegnato nella riunione del Capitolo assieme ai cavalieri con maggiore anzianità di servizio e al Capitolo del castello di Treyden.
Fratello Siegfried, che sedeva presso il lungo tavolo di quercia che attraversava la sala, fece girare uno sguardo torvo e ringhiò: “Prima la fattoria di Odo, poi Peltes. Adesso Heilige Magdalene, Osterrade e Wulfsfelde. Le stanno distruggendo tutte.” Fece una pausa, quindi aggiunse: “Dobbiamo forse aspettare che quei pagani senza Dio radano al suolo anche l’ultima? Che uccidano tutti i coloni tedeschi?”
Fratello Luitpold rincarò la dose: “È necessario agire subito, i pagani devono capire con chi hanno a che fare.”
Pensi che non lo sappiano?” lo rimbeccò fratello Mathias. “Proprio perché sanno chi siamo e come combattiamo, se ne sono stati tranquilli per tutto l’inverno e adesso che c’è il disgelo vogliono spingerci ad agire.”
E quindi cosa dovremmo fare, secondo te?” lo provocò l’altro, “Stare a guardare mentre quelli fanno ciò che vogliono? I cavalieri teutonici, garanti di pace e ordine, lasceranno che quattro pagani puzzolenti mettano a ferro e fuoco la Livonia?”
Se combattessimo adesso faremmo esattamente il loro gioco.”
Ma se non combattiamo, la nostra gente morirà, o nel migliore dei casi perderà tutto quello che possiede.” Fratello Luitpold fece un gesto iroso verso le finestre che davano sul cortile, come per invitare il confratello ad affacciarvisi. “Li hai visti anche tu i poveretti che si sono rifugiati qui: gente che si è vista uccidere i figli o i genitori sotto gli occhi, che si è vista andare a fuoco la casa che aveva costruito in anni di sacrifici. Cosa diremo a costoro, che ci dispiace tanto ma c’è il disgelo?”
Fratello Reinhardt seguiva quegli scambi in silenzio. Sentiva di trovarsi in Livonia da troppo poco tempo per esprimere un parere sulla questione: non aveva mai visto un disgelo da quelle parti, non conosceva ancora l’ubicazione di tutte le fattorie. Una cosa però gli era chiara: se i Samogizi erano tutti come quelli che aveva incontrato il suo primo giorno a Segewold, non intervenire avrebbe significato condannare a morte ogni colono dei dintorni.
Gli tornò in mente quello che aveva visto presso la fattoria di Peltes e dovette chiudere gli occhi mentre un brivido di orrore gli percorreva le membra.
Di nuovo prese la parola fratello Siegfried: “Se non interveniamo, la rivolta si estenderà come il fuoco sulle stoppie.”
Intervenire adesso significa finire impantanati nel fango,” intervenne fratello Friedrich.
Ci sono i soldati a piedi e i sergenti, e non è tutta palude. C'è anche terreno solido.”
Col disgelo? Appena esci dalle strade battute è solo pantano.”
E loro come fanno? Anche loro hanno i cavalli, no?”
Combattono anche a piedi. E poi qui ci sono nati, e dove noi non vediamo altro che fango, essi sanno trovare con facilità abbastanza terreno solido per muoversi.”
Io dico che dobbiamo dare loro una lezione esemplare,” intervenne fratello Luitpold. “Devono rimpiangere il momento in cui hanno deciso di levare le armi contro l'Ordine.”
Fratello Mathias stava per replicare quando la porta del capitolo si aprì e sulla soglia comparve fratello Manfred.
Nella sala calò immediatamente il silenzio, tutti volsero nella sua direzione sguardi carichi di aspettativa.



Reinhardt lanciò un'occhiata alla fattoria: muri bianchi, tetto di paglia rifatto da poco, recinti di legno, meli e susini carichi di gemme. Una generale impressione di pulizia e ordine, di lavoro operoso che dà i suoi frutti. In giro però non si vedeva nessuno, persino gli animali da cortile dovevano essere stati chiusi da qualche parte.
Si voltò verso Ulrich, che cavalcava al suo fianco, e gli chiese: “Tu pensi che funzionerà?”
Nella zona sono rimaste solo due fattorie,” disse il confratello per tutta risposta, “quindi attaccheranno o questa o l'altra. Qui ci siamo noi, nell'altra quelli di Treyden.”
E se non attaccassero?”
Avremmo comunque ottenuto lo scopo di proteggere i contadini.”
Renhardt non rispose. Gli era chiaro che un assalto in campo aperto non poteva essere portato avanti in quella stagione, il terreno molle non avrebbe retto il peso dei cavalli da guerra, pertanto era necessario adeguarsi alle modalità di combattimento dei Samogizi: imboscate, piccoli scontri, rapide ritirate. Più danni possibile nel minor tempo possibile, con la differenza che laddove le fattorie non potevano essere né abbandonate né spostate, i pagani avevano tutta la foresta e tutte le paludi a loro disposizione, ed erano in grado di far sorgere o scomparire rifugi sicuri nel breve arco di una notte.
Quindi resteremo qui di guardia?” chiese.
Fratello Ulrich annuì serio. “È il nostro dovere.”
Per quanto tempo?”
Per tutto il tempo che sarà necessario.”

Il sole stava scomparendo dietro le alture quando cominciarono a suonare i tamburi di guerra. Sulle colline che circondavano i campi, già nere nella luce che andava scemando, comparivano e scomparivano dei bagliori, e roche grida si soprapponevano a un rullare cupo e monotono, che sembrava far tremare la terra stessa.
Reinhardt fece girare lo sguardo tutt'intorno. Con il manto bianco sulle spalle, nel crepuscolo i confratelli sembravano fantasmi; la fattoria era una silente sagoma scura contro il cielo color indaco.
Attaccheranno?” chiese.
Fratello Ulrich fissò a sua volta le alture, quindi rispose: “Non è detto, può anche darsi che vadano avanti così tutta la notte per snervarci. Poi magari attaccheranno all'alba, o non attaccheranno affatto e domani sera ricominceranno con i tamburi e le urla.” Scosse la testa con un sospiro. “Questa gente è imprevedibile.”
Di nuovo Reinhardt fece girare lo sguardo sulla mole sinistra delle colline. “Non potremmo andare a cercarli?” propose.
Col buio, in mezzo agli alberi? Impossibile. L'importante è mantenere la calma, i pagani non si avvicineranno se noi siamo qui.” Fece una pausa, quindi in tono vagamente rassicurante soggiunse: “E lo sanno che siamo qui, i manti bianchi li vedono anche al buio.”
L'altro si limitò ad annuire, ma più passava il tempo, più si faceva strada in lui la consapevolezza che le cose non fossero affatto come le descriveva fratello Ulrich. Proprio dietro la casa c'erano le pendici di una collina, ed era da lì che provenivano i clamori più forti. I suoni erano sfrontati, incalzanti, carichi di una ferocia primordiale. Come già aveva notato in occasione della battaglia campale di pochi mesi prima, sembrava la voce della terra stessa, degli alberi, dei torrenti che rombando si riversavano a valle.

Passarono le ore, e mentre la notte avanzava e si faceva più cupa e fredda, il suono dei tamburi, sempre più intenso e profondo, continuava a far vibrare l’aria e il suolo.
A un tratto, a Reinhardt parve di vedere nuovi e più vividi bagliori brillare nel fianco nero della collina.
Ulrich...” cominciò, ma non fece in tempo a finire la frase. L'oscurità fu squarciata da un improvviso fulgore aranciato e quella che sembrava un'enorme palla di fuoco scese rimbalzando lungo le pendici della collina.
Balle di paglia incendiate!” udì gridare alle sue spalle.
Il globo fiammeggiante nel frattempo aveva raggiunto la casa. Si abbatté sul tetto e vi appiccò il fuoco, che prese ad ardere con violenza. Assieme a quello della paglia bruciata, nell'aria c'era odore di resina e catrame.
Si udirono qua e là dei richiami, il nitrito di qualche cavallo. Reinhardt vide passare un confratello già in sella. “Che cosa succede?” esclamò.
Un'imboscata!” rispose qualcuno.
Altre palle di fuoco arrivarono, rimbalzando lungo le pendici della collina. Un covone di fieno si incendiò e prese ad ardere come una torcia.
Nella luce sanguigna, Reinhardt vide fratello Ulrich montare in groppa al destriero. “Indietro!” lo sentì urlare, “state indietro!”
Passò fratello Friedrich a cavallo. L'animale fu colpito in pieno da una balla incendiata, la gualdrappa prese fuoco ed esso si impennò pazzo di terrore, nitrendo e schiumando, per poi lanciarsi in un galoppo sfrenato. Più correva, più ovviamente il fuoco prendeva vigore, e a nulla valevano i tentativi del cavaliere di ricondurlo all'obbedienza.
Sotto lo sguardo inorridito di Reinhardt il confratello, impotente ad aiutare l'animale, si lasciò cadere di sella. Il destriero fuggì nitrendo fino a che non venne inghiottito dal buio.
La voce di Ulrich lo riscosse: “Indietro!”
Abbandonarono la fattoria, che ormai ardeva a fiamma chiara illuminando quasi a giorno i dintorni, e per sottrarsi ai proiettili incendiati arretrarono verso una spianata ancora coperta delle ultime nevi.
Appena fuori dalla zona battuta, Reinhardt sentì il cavallo affondare nella mota fino ai nodelli. “Ulrich!” esclamò preoccupato. Ragionò in un lampo che quella grande spianata fra le colline era come un catino naturale, che accoglieva tutta l'acqua di disgelo proveniente dalle alture.
Non ti fermare!” gli raccomandò l'altro. Una balla incendiata passò fra loro spargendo nugoli di scintille, quindi scomparve alle loro spalle ed esaurì la propria corsa sfrigolando in una pozza fangosa.
Ulrich, ci stanno spingendo nel pantano!”
O questo o bruciare vivi, scegli tu!”
Le urla di guerra si fecero incalzanti mentre le scie di fuoco delle frecce incendiarie tagliavano l'oscurità. Un cavallo emise un nitrito di dolore, qualcuno imprecò. I cavalieri arretrarono ulteriormente, piantandosi man mano in un acquitrino che sembrava non avere fondo. Impastate di fango, le gualdrappe si avviluppavano intorno alle zampe dei cavalli, si impigliavano nei rami morti impedendo loro ulteriormente i movimenti.
Una salva di frecce passò sibilando. Si udì un grido di dolore, e subito dopo il rumore di un corpo che cadeva. Un cavallo nitrì, si udì il risucchio acquoso delle zampe che frenetiche cercavano di liberasi dal pantano.

Così come erano cominciati, i clamori cessarono bruscamente e nel buio non si udirono altro che il tintinnio lieve delle cotte di maglia e lo stronfiare di qualche destriero nervoso.
La sensazione non era quella di solitudine, tuttavia. Vi era anzi l'angosciosa consapevolezza che tutt'intorno vi fossero presenze silenti ma attente, malevole, che non staccavano loro gli occhi di dosso.
Chi è caduto?” chiese una voce nel buio.
Zitto!” intervenne brusca una seconda voce.
Un cavallo emise un basso nitrito, si udì il pesticciare degli zoccoli nella mota. Nell'oscurità appena rischiarata da qualche stella, si udì la domanda: “Dove sono?”
Come in risposta a essa, un dardo sibilò. Si udì un urlo di dolore.
Fratello Siegfried!” esclamò Ulrich. “Sei ferito?”
Ma la risposta non fece in tempo a giungere, perché una nuova salva di frecce li investì. Si udirono urla di dolore, un cavallo rovinò a terra con un lungo gemito. Gli altri arretrarono, affondando ulteriormente nel fango.
Reinhardt vide una sagoma bianca arrancare, percepì il tinnire di una cotta di maglia. “Qui, aggrappati al mio cavallo,” disse, senza nemmeno sapere chi fosse il cavaliere che era rimasto appiedato.
Grazie,” ansò fratello Waldemar.
Dov'è Siegfried?”
Non lo so, non si vede niente.” Poi, dopo una pausa: “Non so come facciano a vedere, quei pagani senza Dio.”
Vedono i mantelli bianchi,” replicò Reinhardt. Spronò il cavallo, che prese ad avanzare faticosamente, con le zampe piantate nel pantano. Al suo fianco, aggrappato all'arcione, Waldemar faceva del suo meglio per non inciampare. “Quei maledetti non si avvicinano,” ringhiò, “se ne stanno al sicuro e intanto ci massacrano di frecce.”
Arrivarono altri proietti. D'un tratto, una fitta atroce strappò a Reinhardt un gemito di dolore e lo obbligò ad accasciarsi sulla sella.
Che succede?” chiese preoccupato fratello Waldemar, ma il più giovane non riusciva nemmeno a raccogliere il fiato sufficiente per rispondergli. Si aggrappò alla criniera del cavallo mentre i clamori della battaglia si trasformavano lentamente in un rombo indistinto, come suoni percepiti attraverso l'acqua. Aveva la sensazione che nel fianco gli fosse entrata una sbarra incandescente, che ad ogni movimento gli straziava maggiormente le carni.
Reinhardt!”
Il cavaliere si riscosse a fatica, accorgendosi di avere una mano serrata sull'arcione con tale forza che tutto il braccio gli si era intorpidito.
Reinhardt, rispondi!”
Sentì che il cavallo si stava muovendo. Ancora una volta cercò di raccogliere il fiato per dire qualcosa, ma il dolore gli impediva qualsiasi movimento. Nell'aria c'era odore di limo, sangue e sudore di cavallo. Voci e nitriti risuonavano ovunque, ma gli arrivavano stranamente ovattati...

Reinhardt sbatté gli occhi. Cercò di deglutire, ma aveva la gola talmente secca che gli sembrava di aver inghiottito un pugno di sabbia.
Tutt'intorno c'era un vago chiarore, più vivido a oriente. La superficie della palude, costellata di erbe e alberi morti, era coperta da uno strato di nebbia che pur nella scarsa luce sembrava emanare una debole fosforescenza. Si udivano solo gli innumerevoli rumori delle creature selvatiche: frinire, gracidare, il lontano lamento di un gufo.
Che cosa...” mormorò con voce appena percettibile.
Non parlare, hai una freccia nel fianco.”
Io...”
Zitto. È già un miracolo che tu non sia caduto dal cavallo.” Ci fu una pausa, poi fratello Waldemar proseguì: “Se tu fossi caduto, adesso saresti morto.”
Non che questo rischio sia scongiurato,” intervenne qualcun altro in tono cupo.
A Reinhardt parve di riconoscere la voce. “Ulrich?” mormorò.
Dà retta a Waldemar, non parlare,” fu la risposta, ma Reinhardt insisté: “Dove siamo?”
Nel mezzo di questo schifoso pantano,” brontolò Ulrich. “Abbiamo perso parecchia gente, ammazzati dai pagani o affogati, e molti altri sono feriti o hanno perso i cavalli. Quelli là stanno aspettando che crolliamo dalla fatica per venire a finirci.”
Reinhardt si guardò intorno: a perdita d’occhio, solo una pianura costellata di piante marcescenti. Al suolo vi era un fango tenace, gelido, che sembrava avvinghiarsi alle zampe dei cavalli come se avesse voluto risucchiare le bestie fino al centro della terra. Per quanto lo sguardo poteva spaziare, non si vedeva nulla che suggerisse una presenza umana: né case, né strade, né campi coltivati.
Dove siamo?” ripeté a fatica.
All’inferno,” brontolò fratello Siegfried. È tutta la notte che quegli schifosi ci spingono verso l'interno della palude.” Fece una pausa che utilizzò per far scorrere lo sguardo sulla desolazione che li circondava, quindi soggiunse: “Mi chiedo cosa aspettino a finirci.”
A tentare di finirci,” lo corresse fratello Ulrich.
Come in risposta a quella muta domanda, in lontananza cominciarono a rullare i tamburi di guerra.
I cavalieri si scambiarono muti sguardi. Nessuno di loro ormai era illeso, alcuni procedevano a piedi, arrancando in un'acqua fangosa che nel migliore dei casi arrivava fin sopra il ginocchio. Presto si sarebbero trovati per l'ennesima volta a far da bersaglio a frecce scagliate da lontano, senza neppure la possibilità di difendersi.
E sapete cosa succede a chi viene preso vivo,” disse fratello Waldemar in tono ammonitore.
La frase fu seguita da un consapevole silenzio.
Cominciarono i canti di guerra, anche se nella nebbia non si vedeva ancora nessuno.
Reinhardt strinse gli occhi, cercando di mantenere una lucidità che sempre più si ostinava a sfuggirgli. Il dolore al fianco era un pulsare sordo, aveva freddo e si sentiva la gola in fiamme. Vide una figura esile uscire dalla nebbia e muoversi sicura nella loro direzione. Un raggio del sole nascente la illuminò, facendo brillare una zazzera scomposta di capelli biondi, ed egli ebbe di colpo l’impressione di trovarsi sotto la cupola di San Marco, con i mosaici d’oro che brillavano così tanto da fargli male agli occhi.
Si passò una mano sulla fronte, vacillò e sentì qualcuno afferrarlo. Fratello Ulrich disse: “È il ragazzo del mantello. Guarda, ce l'ha ancora addosso.”
Non fategli del male,” riuscì a balbettare Reinhardt, con una voce così fioca che quasi si perse nel rullo incalzante dei tamburi.
Il ragazzo si fermò di fronte a lui. Gli rivolse un lungo sguardo carico di consapevolezza, quindi allungò una mano e prese le redini del suo destriero. “Cavallo… vieni,” disse in tono gentile. “Vieni. Io ti aiuto.”
L’esausto animale, spaventato, schiumante, incrostato di fango da capo a piedi, sotto la sua sollecitazione mosse un cauto passo.
Vieni,” ripeté il ragazzo.

Aggrappato all’arcione, Reinhardt sussultava di dolore ogni volta che il ragazzo convinceva il suo cavallo a fare un passo. Dopo i primi attimi aveva dovuto smettere di guardarlo, perché i raggi del sole sui suoi capelli trasfiguravano nell’oro dei mosaici di San Marco e la cosa lo disorientava così tanto da dargli una specie di vertigine.
Abbassò lo sguardo sul proprio fianco, nel quale era ancora conficcata la freccia. Strinse gli occhi mentre l’immagine perdeva nitidezza e udì la voce del ragazzo che premurosamente gli assicurava: “Presto siamo arrivati.”
La frase suonò come un presagio. Presto sarebbe morto? Guardò intorno a sé: annebbiati, vaghi come fantasmi, c'erano i suoi confratelli. Si chiese se fossero già ombre, se quello che stava conducendo il suo cavallo per le redini fosse il Curo cui aveva donato il mantello o magari qualche Santo, uscito dal paradiso per accompagnarlo nel suo ultimo viaggio.
Sia lodato Dio!” disse a un tratto qualcuno al suo fianco. Reinhardt si riscosse appena dal torpore in cui era scivolato e si accorse che era ricomparso il rumore degli zoccoli sul terreno solido.
Quel suono, così familiare, rassicurante, gli trasmise una sensazione di calore che quasi riuscì ad alleviare il gelo profondo che lo attanagliava.
È bello,” mormorò.
Qualcuno, forse fratello Ulrich, gli chiese: “Che cosa è bello, Reinhardt?”
Questo posto... ” Poi il buio l'avvolse.



L'ultima neve si era sciolta da poco, le betulle cominciavano a mettere le foglie. Dopo la luce cupa dell'inverno, che aveva stemperato ogni colore in un soffuso alternarsi di grigio e bianco, il sole primaverile conferiva al castello di Segewold un nitore adamantino.
La fortezza si ergeva superba; investite dai raggi dorati, le bandiere dell'Ordine splendevano come metallo polito.
Fratello Reinhardt tirò le redini e per un po' rimase a contemplarla assorto, mentre un refolo di vento gli agitava appena le falde del mantello e scompigliava la criniera corvina del suo destriero.
Fratello Ulrich lo raggiunse. “Perché ti sei fermato?” gli chiese. Si guardò intorno con l'aria di cercare eventuali ostacoli.
Il primo alzò le spalle. Inspirò a occhi socchiusi, ancora una volta riconoscendo e catalogando tutti gli odori di cui l'aria della Livonia era carica: resina, boschi, un lontano sentore di fumo di legna, l'aroma dolce del miele. Ferro e cuoio ingrassato.
Di nuovo fissò il castello, e i mosaici d'oro di Venezia gli parvero pacchiana ostentazione, paragonati al marziale rigore di quel poderoso edificio.
Guardavo,” rispose semplicemente, quindi mise il cavallo al passo e si diresse verso il ponte di legno che conduceva alla porta.
Lo superò beandosi del rumore sordo e ritmico degli zoccoli sul rovere, attraversò il barbacane ed entrò nel cortile.
Un ragazzo gli corse incontro con tale impeto che il suo nervoso destriero mise lo orecchie indietro e arretrò di un paio di passi, rischiando di finire contro quello di fratello Ulrich.
Sta' attento,” gli raccomandò questi, facendo spostare di lato il proprio cavallo.
Reinhardt smontò di sella. “Non così in fretta, Martin,” disse in tono di affettuoso rimprovero, “quante volte te lo devo ripetere?”
Il ragazzo assunse un'espressione contrita. “Scusa, signore,” disse, ma un attimo dopo la sua attenzione era nuovamente rivolta al destriero.
Reinhardt scosse appena la testa. Gli consegnò le redini e gli disse: “Dagli da mangiare e striglialo bene.”
L'altro sorrise come se il cavaliere gli avesse appena proposto di fare la cosa più bella del mondo. “Sì, signore!” esclamò felice, poi si allontanò rapido, conducendo con sé il cavallo.
Al fianco del confratello, Ulrich lanciò un'occhiata al ragazzo, che camminava a passo svelto parlando sommessamente al destriero, e disse: “Un po' più in carne, con i capelli corti e vestito come un cristiano quasi non si riconosce.”
Reinhardt pensò alla prima volta che l'aveva visto: un ragnetto sparuto, con gli occhi enormi e le giunture troppo grosse per le sue membra sottili. “Adesso sta bene,” rispose.
Ulrich di nuovo lo fissò fugace, poi chiese: “Ha rinunciato ai suoi idoli?”
Fratello Reinhardt alzò le spalle. “Non credo. Forse lo farà col tempo. Si è lasciato battezzare, questo sì, ma più che altro per fare un piacere a me.” Sorrise scuotendo appena la testa. “In quanto al resto, credo continui a venerare il mio cavallo.”
Se non altro, ha buon occhio.”
I due cavalieri si incamminarono fianco a fianco, i mantelli bianchi che ondeggiavano appena, le cotte di maglia che tinnivano lievi.
Nel cortile di Segewold ferveva l'attività: un fabbro stava battendo un pezzo di metallo incandescente sull'incudine, e a ogni colpo nugoli di scintille schizzavano via e finivano a rimbalzare sul selciato. Il sellaio stava cucendo dei finimenti, una lunga fila di mezzi fratelli stava portando sacchi ricolmi nel granaio. Dappertutto ordine, pulizia, disciplina.
Intravidero il ragazzo che strigliava con impegno il morello: cantava una canzone nella sua lingua e di tanto in tanto si interrompeva per dire qualcosa all'animale. Quando si accorse di loro alzò il braccio in un gesto di saluto, poi tornò con entusiasmo al lavoro.
Sai,” disse fratello Ulrich con un sorriso, “io credo che in fondo San Martino di Livonia un miracolo l'abbia compiuto davvero: far capire a un pagano il valore di ciò che stiamo portando in questa terra.”

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