San Martino di Livonia di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima parte ***
Capitolo 2: *** Seconda parte ***
Capitolo 3: *** Terza parte ***
Capitolo 1 *** Prima parte ***
Gente
mia,
un
nuovo mappazzone, questa volta sulle crociate del nord. Ringrazio in
anticipo chi avrà voglia di passare di qui^^
SAN
MARTINO DI LIVONIA
Prima
parte
I
rami ormai spogli delle betulle si stagliavano contro l’azzurro
pallido del cielo. Accarezzati dall’ultimo sole autunnale, i campi
ondulati si perdevano verso la foschia dell’orizzonte.
Il
vento sollevò una manciata di foglie dorate, che turbinarono
frusciando attraverso la strada.
A
quella vista, il destriero di fratello Reinhardt, un morello dal pelo
lucido come pietra di Gage, mise le orecchie indietro e tentò di
scartare.
“Buono,”
disse il cavaliere, tirando appena le redini.
L’animale
sbuffò dilatando le froge e si sollevò in una mezza impennata.
Frustò l’aria con la coda.
“Buono,”
ripeté fratello Reinhardt dandogli qualche pacca sul collo
muscoloso.
Fratello
Ulrich, che cavalcava al suo fianco, si girò a guardarlo. “Ha
molto temperamento,” osservò.
L’altro,
che nel frattempo aveva ricondotto l’animale all’obbedienza,
rispose: “A volte penso che ne abbia anche troppo. Non mi
dispiacerebbe se fosse un po’ più tranquillo.”
“Non
ho mai visto un cavallo così bello, però. Da dove viene? Non mi
sembra un frisone.”
Fratello
Reinhardt batté di nuovo qualche manata sul collo lustro del
morello, quindi rispose: “È una razza che i nostri allevano nelle
Puglie. Cavalli tedeschi incrociati con stalloni berberi e arabi.”
“Come
hai fatto ad averlo?”
“Mi
è stato assegnato quando il mio destriero si è azzoppato. Viene da
una delle Komturei che abbiamo in quella zona.”
Fratello
Ulrich dedicò un’altra lunga occhiata all’animale, che trottava
elegante con la coda alta e l’incollatura arcuata, e disse: “Sei
stato fortunato. Ha i garretti robusti, è agile e vigoroso.”
L’altro
alzò le spalle. “Ma come vedi bastano un po’ di foglie spinte
dal vento per farlo imbizzarrire. Un frisone almeno sarebbe più
tranquillo.”
Per
un po’ procedettero senza parlare. Sulla strada e nei campi non si
vedeva nessuno, gli unici rumori che si udivano erano il battere
ritmico degli zoccoli e il tinnire delle cotte di maglia.
Uno
stormo di oche selvatiche attraversò il cielo.
“Che
silenzio,” commentò dopo un po’ fratello Reinhardt, lasciando
vagare lo sguardo sull’alternarsi di campagna e foreste che si
estendeva a perdita d’occhio.
Fratello
Ulrich sorrise. “Non sei abituato, vero? Qui la gente si nasconde
quando passiamo noi.”
“Hanno
paura?”
“No,
ci odiano. Non vogliono avere niente a che fare con noi. Superano la
loro ritrosia solo quando c’è da radere al suolo la fattoria di
qualche colono tedesco.” Emise una risata cupa, quindi chiarì:
“Quando sono venti a uno, contro contadini armati solo di falci e
forconi, ecco che d’improvviso scaturisce il celebre coraggio dei
Samogizi.”
Fratello
Reinhardt non rispose. Si limitò a far scorrere nuovamente lo
sguardo sulle campagne deserte, che illuminate dal sole del tardo
pomeriggio mostravano sontuose sfumature di oro, rosso e bruno. “Sono
bei posti,” apprezzò.
“Sì,
quando li guardi da lontano,” concesse l’altro. “Se solo fai
tanto di avventurarti su una di quelle distese d’erba finisci in
acquitrini che letteralmente ti risucchiano vivo. Le selve sono piene
di animali feroci, e i più pericolosi sono quelli a due gambe. Lo
sai che quando arrivano qui, i coloni sono esentati dalle decime per
periodi che vanno dai cinque ai vent’anni? E non certo per spirito
di carità.”
Di
nuovo fra i due calò il silenzio. A fratello Reinhardt parve di
cogliere un movimento al limitare di un bosco, ma a una seconda
occhiata non vide più nulla.
Si
voltò a fissare il compagno: spalle robuste, sguardo acuto, una
cicatrice che gli tagliava una guancia. Dava l’idea di essere fatto
di pietra o ferro, più che di carne. “È da molto che sei qui?”
gli chiese.
“Da
quando sono entrato nell’Ordine,” fu la risposta.
“E
la Terra Santa l’hai mai vista?”
Fratello
Ulrich si limitò a scuotere la testa.
“Io
credo che laggiù si possa impazzire per il caldo,” spiegò
l’altro. “Ci sono posti così aridi che non vedi nemmeno un filo
d’erba: solo pietre e polvere, a perdita d’occhio. Ci sono solo
poche piante, con le foglie così dure che i cavalli non riescono
nemmeno a mangiarle, e l’acqua è un bene più prezioso dell’oro.”
Fece una pausa. “Qui almeno il paesaggio è più gradevole.”
“Quanto
tempo sei stato laggiù?”
“Un
paio d’anni, poi da Starkenberg mi sono spostato a Venezia al
seguito del Gran Maestro.”
“È
vero quello che dicono di Venezia?” chiese fratello Ulrich.
“Che
cosa intendi?”
“Che
ci sono i canali al posto delle strade e la gente invece di camminare
va in barca.”
“Sì,
è così.”
L’altro
aggrottò le sopracciglia perplesso, quindi proseguì: “Ho sentito
dire che laggiù c’è una chiesa tutta d’oro, che contiene i
tesori di Costantinopoli.”
“San
Marco,” confermò fratello Reinhardt, “ma è d’oro solo
all’interno. Fuori è di mattoni.”
“Tu
l’hai vista?”
“Molte
volte. Il Gran Maestro ci andava spesso a pregare.”
“E
com'è?”
“Beh...”
fratello Reinhardt levò gli occhi al cielo come alla ricerca di
ispirazione, quindi prese a narrare: “È come entrare in paradiso,
credo. Tutte le pareti sono di mosaico d'oro, ci sono le immagini dei
Santi, degli angeli, della Vergine e di Cristo. Alla luce delle
candele le figure sembrano vive e quando le guardi in viso, è come
se anch'esse ti guardassero fin nell'anima.” Si portò la mano al
petto, sulla croce nera che lo ornava. “Senti qualcosa dentro,
davvero. Come se ti trovassi realmente sotto lo sguardo del Signore.”
Per
un po’ fratello Ulrich non replicò, quindi si voltò a fissarlo e
chiese: “Come mai ti hanno mandato qui?” Dalla sua espressione
appariva evidente che stava cercando di immaginare quali mancanze
potessero aver indotto un trasferimento così punitivo.
“Veramente
l’ho chiesto io,” spiegò fratello Reinhardt, “ero stanco di
fare vita di corte.” Fece una breve pausa, durante la quale lasciò
vagare lo sguardo sull’ondulata immensità del paesaggio che li
circondava, sorrise appena e riprese: “Venezia è magnifica, ori e
marmi dappertutto, gente di tutte le terre conosciute, cibi
sopraffini, spezie, stoffe pregiate… ma devi avere la forza d’animo
di von Salza per mantenerti saldo nei tuoi voti nonostante tutte
queste lusinghe.”
“È
per questo che hai fatto richiesta di essere inviato in una provincia
di combattimento?”
Il
cavaliere annuì.
“Beh,
fratello, allora posso rassicurarti: qui non ci sono né marmo né
oro, il cibo è tutt’altro che sopraffino e l’unica gente con cui
avrai a che fare, a parte i coloni tedeschi, sono quei pagani senza
Dio dei Samogizi, il più amabile dei quali ambisce a catturarti e a
bruciarti vivo in sella al tuo destriero per compiacere i suoi
idoli.”
✠
Stavano
cavalcando da un po' quando la strada d'improvviso si allargò in una
specie di spiazzo di terra battuta. Da una parte c'erano le rovine di
un piccolo edificio in muratura. Il tetto era collassato, i muri
semidiroccati. La porta penzolava da uno dei cardini.
“Quella
era la chiesa,” disse fratello Ulrich. “Ci siamo stufati di
ricostruirla ogni anno. Adesso padre Emelrich viene qui la domenica
con due cavalieri, tre o quattro mantelli grigi e una ventina di
mezzi fratelli, fa allestire una tenda e dice messa lì dentro.”
Fratello
Reinhardt annuì distrattamente, lo sguardo calamitato da ciò che lo
circondava: seminascoste dalla vegetazione, c'erano capanne di
tronchi. Alcune avevano stuoie di paglia appese alle finestre, altre
mazzi di erbe secche che pendevano dal margine del tetto. A ben
guardare, si intravedevano qua e là oggetti di uso comune, come
ciotole di legno o rudimentali attrezzi agricoli.
“Ci
abita qualcuno?” chiese, ancora non del tutto sicuro che quelle
povere masserizie non fossero in realtà rifiuti.
“Certo,”
fu la risposta, proferita col tono dell'ovvio. “Ci stanno guardando
da dentro i loro buchi e probabilmente stanno invocando su di noi le
maledizioni degli idoli che si ostinano a venerare.”
Fermo
al centro dello spiazzo, fratello Reinhardt si guardò nuovamente
intorno e notò che da qualcuna delle capanne, esile al punto da
risultare quasi invisibile, si levava un lento filo di fumo. “Anche
questi si sono nascosti?” chiese.
Si
fece udire alle sue spalle la voce di fratello Ulrich: “Te l'ho
detto: non vogliono avere nulla a che fare con noi. Capisco che si
ostinino a fare i sacrifici agli idoli, perché magari è ciò che i
padri hanno insegnato loro ed essi nella loro semplicità non
capiscono che è sbagliato, ma anche una bestia riconosce ciò che la
fa stare meglio, dico bene?”
Reinhardt
si girò verso di lui. “Che cosa intendi?”
“Con
l'aratro tedesco, che ha il vomere di ferro invece che di legno,
potrebbero coltivare di più e con minore fatica, eppure non vogliono
neppure quello.” Scosse la testa come di fronte a qualcosa di
profondamente stupido. “Hanno distrutto quelli che abbiamo donato
loro. Li hanno bruciati davanti ai loro idoli.”
In
quel momento si udì un lieve fruscio di foglie. Simultaneamente i
due si girarono e si accorsero che qualcuno era sgattaiolato fuori da
una delle capanne. Si trattava di un ragazzo che poteva avere
quindici o sedici anni. Aveva addosso pochi stracci e non portava
calzature. I capelli color stoppa erano una zazzera scomposta. Gli
occhi verdi, enormi nel volto magro, colmi di meraviglia, erano fissi
sul morello di fratello Reinhardt.
I
due cavalieri si scambiarono uno sguardo, poi fratello Ulrich spiegò:
“Quello lì è un Curo: praticamente adesso sta vedendo una
divinità.”
“Che
significa?”
“I
Curi venerano il cavallo: il tuo, che è così bello, gli pare come
Dio in terra.” Si segnò fugacemente.
Il
ragazzo, lo sguardo sempre fisso sull'animale, si avvicinò di
qualche passo. “Cavallo... molto bello...” balbettò. “Forte.”
Fece un gesto che mimava possanza fisica e annuì. “Bello,”
ripeté.
Reinhardt
si rivolse al confratello: “Lo conosci?” Fissò il ragazzo, che
però non aveva occhi che per il destriero.
“È
una specie di mendicante, non so come si chiami. Gira voce che sia
mezzo tedesco, che sua madre fosse una contadina rapita da una tribù
di Curi.”
“Nessuno
ha mai pensato di portarlo a Segewold? Magari gli si potrebbe
insegnare a essere un buon cristiano, a maggior ragione se è vero
che sua madre è tedesca.”
“Chi
lo sa se è vero,” replicò Ulrich. “Può essere solo il modo in
cui Samogizi lo insultano perché non ha il loro stesso sangue.”
Reinhardt
volse di nuovo lo sguardo verso il ragazzo, che a quel punto
abbandonò la contemplazione del destriero e alzò timidamente gli
occhi su di lui. “Cavallo... bello,” ripeté nel suo tedesco
stentato. “Molto forte.”
Il
cavaliere gli rivolse un sorriso, quindi prese dalla bisaccia che
portava legata alla sella un pezzo di pane e glielo porse.
Il
giovane allungò la mano per prenderlo, ma a quel punto si catapultò
fuori da una delle capanne un uomo che brandiva un bastone. Questi
sbraitò qualcosa e agitò un paio di volte l'improvvisata arma,
producendo un sibilo minaccioso.
A
quella vista, il ragazzo si fece indietro con tale velocità che il
pezzo di pane gli scivolò dalle mani e cadde a terra, quindi si
dileguò nel folto della vegetazione. L'uomo disse ancora qualcosa,
quindi sferrò un calcio alla pagnotta, che rotolò via. Fece per
andarsene, ma a quel punto Ulrich estrasse la spada e gli si parò
davanti, poi in tono duro disse qualcosa nella sua lingua.
L'uomo
si irrigidì, strinse i denti e aggrottò la fronte, ma non si mosse.
Il
cavaliere allora, la spada saldamente in pugno, spinse il cavallo
verso di lui. Ripeté quello che aveva detto poco prima.
L'altro
masticò qualche frase a mezza voce, poi però si risolse a
raccogliere il pane e a porgerlo a Reinhardt.
“Prendilo,”
ordinò brusco Ulrich.
Il
confratello prese la pagnotta e la ripose nella bisaccia da cui
l'aveva tratta.
“Andiamocene,”
disse allora l'altro. Rinfoderò l'arma, mise il cavallo al passo e
cominciò a muoversi con andatura misurata, senza voltarsi indietro.
Ancora
frastornato dall'accaduto, Reinhardt lo imitò. Gli parve di
intravedere passando un lampo della zazzera bionda del ragazzo fra le
frasche, ma a una seconda occhiata non vide altro che foglie dorate
agitate dalla brezza.
Lentamente
si lasciarono il misero villaggio alle spalle.
“Non
fare mai più una cosa del genere,” disse Ulrich in tono duro
appena furono a distanza di sicurezza.
“Volevo
solo fare la carità a quel ragazzo,” si giustificò Reinhardt.
“Con
la tua carità i Samogizi si puliscono il culo,” replicò brusco
l'altro. “Se tu conoscessi la loro lingua, avresti capito che quel
tizio ci ha chiamati cani tedeschi e ha detto al Curo che il nostro
pane è merda e va bene per i maiali.” Tacque per qualche istante,
forse in attesa di una replica che però non giunse, quindi riprese:
“Non permettere mai a uno di costoro di trattarti in questo modo.
Devi farti rispettare, con le armi se necessario, e non devi mai
metterti in posizione di inferiorità.”
“Come
si fa con le belve ammaestrate?”
“Precisamente.
Dentro ognuna di quelle spelonche c'erano almeno cinque di quelli,
anche se tu non li hai visti. Che cosa pensi abbia impedito loro di
uscire in branco e saltarci addosso?”
“Non
lo so,” rispose con franchezza Reinhardt. Rievocò lo sguardo
limpido del ragazzo, il sorriso che gli aveva rivolto nel vedersi
offrire un insperato pasto, l'ingenua sollecitudine con cui aveva
cercato le poche parole di tedesco che conosceva per lodare la
bellezza del suo cavallo in una lingua che lui potesse capire.
Si
costrinse a distogliere il pensiero dall'accaduto. Si disse che
doveva essere umile, doveva obbedire a chi era più anziano e più
esperto di lui. “Forse la mia permanenza a Venezia, al fianco del
Gran Maestro, mi ha reso superbo,” disse poi, seguendo il filo dei
propri pensieri. “Ti prego di perdonarmi, fratello.”
“Ah,
lascia perdere,” rispose l'altro, accompagnando quelle parole con
un gesto noncurante. “Voglio solo evitare che tu finisca da qualche
parte stecchito con un coltello nella schiena, tutto qui.”
✠
L'imponente
castello di Segewold, che comparve su un'altura lungo la sponda del
Gauja, risplendeva magnifico nella luce del tramonto.
I
raggi obliqui accendevano di sfumature d'oro e ambra le pareti di
massi di fiume, facevano brillare di un caldo color avorio le
bandiere dell'Ordine che garrivano sulle torri e traevano fugaci
barbaglii metallici dalle cotte e dagli elmi dei soldati di guardia
sugli spalti.
L'acqua
del fiume, già in ombra, era un nastro di piombo che scorreva
silente.
Più
lontano il castello di Treyden, arroccato su uno sperone di roccia
che dominava tutta la vallata, era una sagoma nera in cui palpitava
fugace qualche vago brillio dorato.
Il
cielo era azzurro cupo sulla volta, mentre lungo l'orizzonte, dove il
sole stava scomparendo dietro le alture, aveva un colore aranciato.
Le poche, esili nuvole, attraversate dagli ultimi raggi, brillavano
come foglia d’oro su uno sfondo di lapislazzuli.
Nell’aria
c’erano odore di resina e forse un lontano sentore di mele, che
ricordava a fratello Reinhardt il momento della raccolta a casa sua,
in Franconia, quando il profumo dei frutti maturi, rossi e gonfi di
succo, era così intenso da inebriare.
Il
cavaliere strinse appena gli occhi e piegò la testa all’indietro,
lasciando che per un po’ fosse il destriero a decidere che andatura
tenere.
“Sei
stanco?” domandò fratello Ulrich.
“Un
po’. Devo riabituarmi a certe cose.”
“Stai
già rimpiangendo di aver lasciato Venezia?”
Reinhardt
riprese le redini alla mano e fermò il cavallo, costringendo l’altro
a imitarlo. “Al contrario,” disse pacato, “non sono mai stato
così soddisfatto della mia decisione. È bello contemplare i tesori
di Bisanzio dentro la chiesa di San Marco, è bello parlare con
arabi, turcomanni, genti del nord e del lontano oriente, conoscere il
loro modo di pensare e le loro usanze, ma nulla di ciò è
paragonabile alla bellezza di essere qui. Noi portiamo la parola di
Dio ai pagani.” Indicò il castello, che al calare della luce
andava sempre più assumendo il sembiante di un’enorme creatura
accucciata e pronta a balzare, quindi soggiunse: “Noi portiamo
questo.
Portiamo ordine e pace, al posto di tuguri di legno e superstizioni.”
Rimise
il cavallo al passo, gli zoccoli dell'animale tonfarono sordi sul
ponte di legno che conduceva all'ingresso di Segewold.
Lo
accolse il cortile principale della fortezza, nel quale brillavano
già le prime fiaccole. La chiesa dedicata alla Vergine era
illuminata in modo tenue, tanto che dalle sue alte finestre filtrava
solo un debole chiarore. Da essa stavano uscendo dopo i Vespri i
fratelli cavalieri biancovestiti; le croci nere che portavano sul
petto e sulla spalla quasi si confondevano con le ombre che si
allungavano ormai ovunque.
Reinhardt
smontò da cavallo e affidò l'animale allo scudiero, poi li
raggiunse.
Il
primo che gli rivolse la parola fu un cavaliere alto e magro che
sembrava la statua di un santo. Questi lo trafisse con uno sguardo di
rapace, ancora più duro sul suo volto dai lineamenti squadrati, e in
tono di rimprovero disse: “Non eri alla funzione, fratello.”
“Sì,
io...”
Intervenne
un altro cavaliere, addirittura più alto del primo, con la
corporatura di un toro. A Reinhardt pareva di ricordare che si
chiamasse Mathias. “Lascia stare, fratello Gunnar,” disse costui
con la massima tranquillità. Poi, rivolto a lui: “Eri fuori con
fratello Ulrich, per caso?”
“È
così.”
Il
cavaliere si rivolse al confratello di nome Gunnar: “Ecco, vedi? Lo
sai anche tu com'è fatto fratello Ulrich: quando è assorto in
qualche compito dimentica tutto il resto.”
“Le
funzioni sono importanti,” protestò questi caparbio.
“Sono
importanti se sei padre Emelrich, che ha da fare solo quelle. Se sei
un fratello cavaliere, io dico che è meglio sapere dove è più
probabile che ti capiti un'imboscata.”
L'altro
si limitò a un silenzio carico di riprovazione.
Nel
frattempo stavano uscendo dalla chiesa altri mantelli bianchi.
Reinhardt notò che in generale avevano l'aria più di soldati che di
religiosi. I discorsi che sentiva, pronunciati da voci perlopiù
forti e decise, vertevano sul combattimento, più che sulle
Scritture.
Uno
dei cavalieri, un uomo di mezz'età coi capelli neri già venati di
grigio, disse: “Avete sentito quello che è successo alla fattoria
di Odo? Tutte le bestie uccise.”
“E
di questa stagione, poi,” intervenne un altro. “È chiaro che ci
stanno provocando.”
Ne
arrivò un terzo, un biondo con la faccia da ragazzino ma già il
piglio di un guerriero esperto. “È chiaro che vogliono spingerci
ad attaccare prima del gelo.”
Un
altro cavaliere dall'aria molto giovane in tono sprezzante commentò:
“Pensano che siamo stupidi.”
“Con
te non sbaglierebbero di molto, fratello Luitpold!” disse quello
dai capelli brizzolati. Tutti gli altri risero, l'oggetto dello
scherno aggrottò le sopracciglia e brontolò qualcosa di
inintelligibile ma poco gentile.
Un
po' in disparte rispetto agli altri, Reinhardt seguiva in silenzio la
scena. Sorrideva tra sé e sé, contagiato dal generale clima di
rilassatezza, e man mano si lasciava prendere da quei discorsi di
combattimenti e armi. Si sentiva come una nave che abbandona un porto
sicuro in favore del mare aperto: forse in quelle ignote immensità
sarebbe venuto in contatto con pericoli e patimenti, ma di certo si
sarebbe trovato nell'elemento per cui era stato creato.
Una
voce poderosa lo fece sussultare: “E tu, fratello?”
Reinhardt
si riscosse dai suoi pensieri e si trovò davanti il cavaliere alto,
con la corporatura da toro. “Fratello... Mathias?” tentò.
“Ma
bravo!” approvò l'altro, dandogli sulla spalla una pacca che gli
parve un colpo di maglio, “ti ricordi già come mi chiamo. Hai già
imparato anche i nomi di tutti gli altri o vuoi che te li ripeta?”
Prima
che Reinhardt potesse rispondere, si aggiunse al gruppo anche
fratello Ulrich.
“Come
si è comportato il nostro nuovo confratello?” gli chiese subito il
cavaliere dai capelli brizzolati.
L'altro
finse disperazione. “Voleva darsi a opere di carità, fratello
Waldemar.”
Un
mormorio più perplesso che disapprovante attraversò il gruppetto.
Tutti si volsero a fissare Reinhardt con curiosità, spingendolo a
ritirare appena la testa fra le spalle. “Volevo dare un pane a un
mendicante,” si sentì in dovere di chiarire.
“E
per fortuna che l'ho visto in tempo,” intervenne Ulrich,
“altrimenti sarebbe successo un disastro.”
“Io
volevo aiutare un povero,” si difese Reinhardt.
Fratello
Waldemar gli mise una mano sulla spalla con l'atteggiamento di un
padre che deve spiegare una cosa molto importante a un figlio un po'
ribelle. “Qui non siamo in una provincia di pace,” disse in tono
pacato. “Questa è la provincia peggiore che abbiamo, la più
difficile, quella dove è meno opportuno abbassare la guardia e
mostrare un atteggiamento fiducioso. La carità è meritoria, ma non
se fatta a qualcuno che se ne serve contro di noi. Non se fatta a
qualcuno che prima si finge debole per carpire la nostra fiducia e
poi usa tale fiducia per colpire noi o i nostri confratelli alle
spalle.”
Reinhardt
emise un sospiro. “Ho capito, fratello,” si limitò a rispondere.
“Ora
non sai nulla di questo luogo,” insisté l'altro, “e tuo dovere è
affidarti al consiglio dei più esperti. Quando sarai qui da più
tempo, capirai da solo a chi è il caso di concedere fiducia e chi,
invece, dev'essere tenuto alla giusta distanza.”
“La
distanza di un colpo di spada,” puntualizzò fratello Mathias.
✠
Fratello
Reinhardt entrò assieme agli altri nel refettorio e si fermò presso
il suo posto nel tavolo riservato ai cavalieri. Nei piatti vi erano
pane, carne, legumi e frutta, nelle coppe era stata versata la misura
di vino concessa.
Nella
sala regnava un silenzio solenne, rotto solo dal lieve crepitare
delle candele di cera d’api che ardevano illuminando i commensali.
Un
fratello prete raggiunse il leggio facendo echeggiare i passi sul
pavimento di pietra, aprì la Bibbia con un tonfo che si riverberò
sulle volte del soffitto e annunciò: “Dal Salmo 17, Diligam
te Domine.”
Con
un leggero tramestio tutti presero posto, il lettore cominciò a
declamare:
Ho
inseguito i miei nemici e li ho raggiunti,
non
sono tornato senza averli annientati.
Li
ho colpiti e non si sono rialzati,
sono
caduti sotto i miei piedi.
Fratello
Reinhardt fece saettare lo sguardo intorno a sé: fratello Gunnar
stava annuendo. Prestava un ascolto attento alle Scritture, il modo
in cui muoveva le labbra udendo certi passaggi faceva capire che
doveva conoscerle a memoria. Mangiava poco, tanto che fratello
Waldemar gli fece segno di concentrarsi sul cibo materiale, più che
su quello spirituale.
Fratello
Luitpold e il giovanotto biondo, che aveva scoperto chiamarsi
fratello Siegfried, ignoravano al contrario serenamente il Salmo e
continuavano a far segno al servo per avere carne e pane.
Tu
mi hai cinto di forza per la guerra,
hai
piegato sotto di me gli avversari.
Reinhardt
rievocò le cene cui aveva preso parte a Venezia: tavole di cedro e
legno di rosa, drappi preziosi al posto delle tovaglie. Mense
sontuose, che avrebbero fatto sembrare quelle del pur ricco feudo di
suo padre il vitto di un ospizio di mendicità.
Dignitari
di ogni livello, ambasciatori, grandi mercanti, prelati.
Di
nuovo fece girare lo sguardo sui confratelli: abiti semplici in luogo
di sete e broccati; niente oro e argento, ma solo lucido ferro.
Niente
rilassatezza, niente mollezza. Solo volontà adamantina.
Si
chiese se il fratello prete avesse scelto quella lettura per lui, se
servisse a fargli capire qual era lo spirito con cui da quel momento
in poi avrebbe dovuto vivere la permanenza nell'Ordine.
Dei
nemici mi hai mostrato le spalle.
Quelli
che mi odiavano, li ho distrutti.
Si
trovò inconsapevolmente ad annuire come fratello Gunnar. Il senso di
inadeguatezza, di incertezza che tante volte l'aveva pervaso nel suo
servizio precedente era scomparso.
Ringraziò
in cuor suo per quella lettura: ora non aveva più dubbi. Ora era
chiaro come il sole quale fosse il dovere di un cavaliere dell'Ordine
Teutonico.
Hanno
gridato e nessuno li ha salvati.
Hanno
gridato al Signore, ma non ha risposto.
Come
polvere al vento li ho dispersi,
calpestati
come fango delle strade.
Angolo
dell’autore
Aggiungo
qui sotto un piccolo glossario della terminologia che ho usato o
userò nel corso di questa storia:
Komturei
= corrisponde alla Commenda templare
Komtur
= Commendatario, colui che comanda la Komturei
Fratello
Cavaliere (Ritterbruder) = cavaliere generalmente di nascita nobile
che ha pronunciato i voti. È l’unico che ha il diritto di portare
il mantello bianco dell’Ordine
Fratello
Prete (Priestbruder) = membro dell’Ordine che ha solo funzioni
ecclesiastiche e non di combattimento
Sergente
o Mantello Grigio (Graumantler) = Combattente laico, in questo caso
avente funzioni di comando sul altri laici, ma sempre subordinato ai
fratelli cavalieri. Portava il mantello grigio, da cui il nome
Mezzo
fratello (Halbbruder) membro laico dell’Ordine che serviva perlopiù
come soldato a piedi
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Seconda parte ***
Gente
mia, ecco la seconda parte del mappazzone. Un grandissimo
ringraziamento a chi è passato anche solo a dare un’occhiata, e un
ringraziamento speciale a chi mi ha lasciato il suo parere^^
Seconda
parte
Fratello
Reinhardt si affacciò alla merlatura della torre maggiore e lasciò
vagare lo sguardo sulla vallata. Quella che al suo arrivo si era
presentata come un sontuoso tappeto di oro, carminio e bruno appariva
ora come una distesa bianca, costellata di neri alberi spogli, su cui
i raggi del sole disegnavano ombre color indaco.
Aspirò
con voluttà la brezza gelida, socchiuse gli occhi come forse un
tempo avrebbe fatto annusando il più raro balsamo dell'Oriente.
La
neve, in effetti, aveva un profumo. Era odore di pulito, di rigore.
Era l'odore delle cose che andavano come avrebbero dovuto andare.
Alzò
una mano per proteggersi dal riverbero, poi si girò per evitare che
il sole gli battesse sul viso e a quel punto vide che qualcuno stava
attraversando la vallata diretto a Segewold.
Osservò
con più attenzione: erano quattro figure, un uomo, una donna e due
bambini; gli abiti che indossavano li identificavano come coloni
tedeschi.
Arrancavano
come potevano nella neve fresca, l'uomo zoppicando vistosamente e
appoggiandosi a un bastone improvvisato, la donna cercando di
mantenere l'equilibrio nonostante un bambino in collo e altri due per
mano.
Un
tramestio alle sue spalle gli fece capire che qualcun altro si era
accorto delle persone in avvicinamento. “Dobbiamo dare l'allarme!”
disse una voce. Subito dopo la porta che conduceva alle scale fu
spalancata e passi precipitosi si persero verso il basso.
Reinhardt
rivolse un'altra occhiata al gruppetto. L'uomo era caduto, uno dei
bambini lo tirava per la falda del vestito in un tentativo di farlo
alzare.
Corse
a sua volta giù per la scala a chiocciola, percorrendola così in
fretta che quando arrivò all'altezza del cortile gli girava un po'
la testa.
Nel
barbacane c'era già una piccola folla di soldati, intravide nella
penombra il mantello grigio di un sergente.
Qualcuno
propose: “Facciamoli entrare!”
“Piano,”
replicò un'altra voce, “prima controlliamo che siano veramente
tedeschi.”
Poi
tutti si fecero da parte per lasciare spazio all'imponente figura di
fratello Manfred, Komtur del castello.
Questi
ascoltò con aria grave i rapporti delle sentinelle, quindi conciso
ordinò: “Aprite.”
Vennero
fatti scorrere i catenacci, le due ante si schiusero con un basso
cigolio. Al di là del ponte, nel mezzo della bianca distesa
inviolata, lo sparuto gruppetto arrancava. Fin da quella distanza si
sentiva il pianto del bambino che la donna aveva in braccio.
“Andiamo
a prenderli, signore?” propose un armigero.
Senza
staccare gli occhi dai fuggiaschi, fratello Manfred disse: “Aspetta.”
Li fissò per qualche istante in silenzio, infine ordinò: “Portate
il mio cavallo. Quattro cavalieri in armi e otto sergenti con me.”
Reinhardt
rimase vagamente stupito dalla richiesta del Komtur, ma notò che a
nessun altro era parsa eccessiva. Gli scudieri anzi si stavano già
affrettando a portare fuori dalla stalla i cavalli per bardarli.
Si
fece avanti per offrirsi volontario.
Fratello
Manfred in testa, il drappello si riversò fuori dalle mura di
Segewold. Nel veder uscire i cavalieri con la croce nera, l’uomo
sollevò la mano che non reggeva il bastone e la agitò sopra la
testa. Gridò qualcosa, che però si perse nel frastuono dei cavalli
che passavano sul ponte di legno.
Gli
animali partirono al galoppo leggero, sollevando spruzzi di neve con
gli zoccoli. Per quanto la candida coltre attutisse i rumori, il
terreno tremava sotto l'impatto dei grandi destrieri da guerra.
Fratello
Reinhardt fissò lo sguardo sulla famiglia. La donna stava aiutando
l’uomo a camminare, i bambini più grandicelli correvano affondando
nella neve. Ogni tanto uno dei due si fermava e si voltava indietro
indeciso, come ponderando l’eventualità di tornare con gli adulti,
ma invariabilmente la donna gli faceva segno di andare avanti.
Il
Komtur diede ordine di assumere la formazione d'attacco. Reinhardt
quasi sussultò, chiedendosi per un istante perché il confratello
avesse deciso di caricare degli inermi contadini, ma in quel momento
qualcuno esclamò: “Eccoli!”
Si
girò in quella direzione: sulle prime non vide nulla, poi si accorse
che al limitare del bosco c’erano delle figure che si muovevano.
Un
istante dopo, uno dei bambini cadde faccia in giù nella neve e non
si mosse più. Gli impennaggi di una freccia gli uscivano dalla
schiena.
Dai
margini della foresta si staccarono degli uomini a cavallo, che
presero a galoppare verso i coloni. Uno di essi spronò per ottenere
maggiore velocità, raggiunse la coppia ed estrasse la spada. Gridò
qualcosa in una lingua che Reinhardt non conosceva, poi sferrò un
tondo rovescio.
Il
corpo della donna si accasciò sussultando, la testa descrisse una
parabola in aria, quindi atterrò sulla neve con un tonfo sordo e
rotolò due o tre volte lasciandosi dietro una scia vermiglia.
Il
Samogizio voltò il cavallo per riguadagnare la copertura della
foresta, ma a quel punto fratello Reinhardt spronò e abbassò la
lancia in posizione d'attacco.
L'uomo
si accorse della minaccia e cercò di riguadagnare velocità, ma il
suo basso ronzino non poteva competere con il morello del Teutonico.
La
lancia lo colpì fra le scapole e lo sbalzò di sella. Reinhardt
passò oltre, tirò le redini, fece girare il cavallo sui posteriori
e partì per un secondo attacco. Per un istante colse negli occhi del
Samogizio qualcosa che poteva somigliare allo sgomento, ma non se ne
curò: strinse le ginocchia, rinsaldò la presa sull'arma e spronò.
Passato
da parte a parte, l'uomo si torse nell'aria e ricadde in un turbinare
di neve.
Reinhardt
sfilò la lancia dal corpo esanime, si guardò intorno: due Mantelli
Grigi stavano inseguendo un Samogizio che per scappare più in fretta
si era addirittura liberato di parte dell'armatura e dello scudo, un
altro aveva raccolto il bambino superstite, se l'era issato
sull'arcione e stava galoppando verso Segewold. Un fratello cavaliere
combatteva a piedi, armato di spada contro tre diversi avversari, ma
sembrava che la cosa non lo impegnasse nemmeno più di tanto. Dalla
corporatura imponente, Reinhardt valutò che doveva trattarsi di
fratello Friedrich o di fratello Mathias.
Per
un attimo ponderò se avvicinarsi per dargli man forte, ma un istante
dopo il cavaliere abbatté l'avversario che gli stava di fronte con
un fendente dal basso verso l'alto che spedì un violento spruzzo di
sangue ad arrossare la neve tutt'intorno, quindi si girò fulmineo
alla propria destra e con una mezza volta di polso sfruttò la forza
che la spada ancora possedeva per caricare un tondo rovescio col
quale abbatté anche il secondo avversario. Si fece indietro per
evitare un attacco del terzo uomo, lo provocò con una finta,
sottrasse bersaglio, caricò una punta alta e lo trafisse con tale
forza che gli fece uscire la spada dalla schiena.
Dopodiché
si raddrizzò ansante e si guardò intorno con l'aria di un toro
infuriato che non trova più niente da incornare.
Fratello
Reinhardt vide che i Samogizi superstiti stavano scappando verso le
foreste. Un paio di cavalieri e i sergenti rimasti li stavano
inseguendo, ma ormai essi avevano acquisito troppo vantaggio ed era
chiaro che sarebbero riusciti a far perdere le loro tracce.
Fratello
Manfred smontò da cavallo, si avvicinò al corpo della donna e lo
rivoltò sulla schiena, scoprendo il fagotto che quelle membra
irrigidite continuavano convulsamente a stringere. Si chinò a
scostarne un lembo, scrutò con aria grave ciò che esso custodiva,
quindi si rialzò scuotendo la testa. “Requiem
aeternam dona eis, Domine,”
mormorò segnandosi, “et
lux perpetua luceat eis. Requiescant in pace.”
Una
volta pronunciata la preghiera, il Komtur si rivolse al contadino,
che giaceva rannicchiato e piangente nella neve. “Alzati,” gli
ordinò.
L'uomo
si levò in piedi a fatica, puntellandosi al bastone.
“Da
dove vieni?” gli chiese
fratello Manfred fissandolo attento.
“Dalla
fattoria di Peltes, signore.”
“Sei
ferito?”
“Alla
gamba.”
“Sono
stati loro?”
L'altro
chinò la testa. “Sì, signore. Io...” Forse avrebbe voluto dire
altro, ma la voce gli tremò e si spense in un mormorio roco. Egli
dapprima fissò il corpo esanime della donna, quindi spostò lo
sguardo sul bambino che giaceva faccia in giù.
Il
cavaliere fissò a sua volta il corpo del bambino, quindi gli disse:
“Uno dei tuoi figli almeno è salvo, ringrazia Dio per questo.”
Fece una pausa, durante la quale dedicò alla foresta uno sguardo
torvo, quindi concluse: “E ringrazia l'Ordine, perché ti giuro che
esso non lascerà questo crimine impunito.”
✠
Erano
passati due giorni, ma dalla fattoria devastata continuava a levarsi
una lenta colonna di fumo nero.
Il
calore degli incendi aveva sciolto la neve tutt'intorno, lasciando
sul terreno una fanghiglia grigiastra e disseminata di detriti.
Ogni
cosa era stata distrutta, ogni edificio dato alle fiamme. Persone e
animali giacevano nella posizione in cui erano stati uccisi. Un
bambino nudo penzolava impiccato dal ramo di un albero, il collo
abnormemente lungo e il volto violaceo, con la lingua che protrudeva
dalla bocca in un ghigno demoniaco. A una donna era stato squarciato
il ventre; gli intestini ne erano rotolati fuori e il gelo li aveva
poi appiccicati al terreno, dove rimanevano come flosci cordami
grigi.
Al
centro dell'aia c'era quello che sembrava un vecchio albero contorto,
composto da un tronco nodoso e da due rami che si allargavano come
braccia.
I
cavalieri si fermarono perplessi. Fratello Manfred si avvicinò
lentamente allo strano simulacro, lo aggirò e una ruga profonda gli
si scavò sulla fronte. “Questo passa ogni limite,” proferì
gelido, quindi spronò e trottò via.
Quando
il Komtur si fu allontanato, gli altri rimasero a scambiarsi mute
occhiate. Infine fratello Siegfried, vinto dalla curiosità, andò a
vedere. Arrivato nel punto in cui si era fermato fratello Manfred
spalancò gli occhi, sbiancò e dovette allontanarsi in tutta fretta.
A
quel punto, Fratello Reinhardt si voltò verso Fratello Ulrich in una
muta richiesta di spiegazioni.
“Va'
a vedere,” gli suggerì quest'ultimo in tono duro. “Io l'ho visto
fare quando servivo a Wenden. Va' a vedere, ti garantisco che se tu
vivessi un anno presso i Samogizi non impareresti altrettanto bene
che razza di gente sono.”
Quello
che sembrava un tronco con due rami era in realtà una rudimentale
croce, costruita legando insieme spezzoni di travi mezze
carbonizzate.
A
quel grottesco supplizio era inchiodato un uomo. Il corpo era ormai
irrigidito, ma la sua posizione contorta lasciava capire che la morte
doveva essere giunta solo dopo un'orrenda agonia.
Il
volto del poveretto, gonfio e livido, era irriconoscibile: al posto
degli occhi vi erano due buchi dai bordi bruciacchiati, naso e
orecchie mancavano. La bocca spalancata, ricolma di sangue coagulato,
indicava che la lingua era stata strappata via. Al posto dei genitali
vi era una piaga frastagliata.
Il
sangue colato dalle innumerevoli ferite si era raccolto in una pozza
ai piedi della croce ed era ormai congelato al pari di tutto il
resto.
“Signore
Iddio,” mormorò Reinhardt, non del tutto certo di non essere
sbiancato come fratello Siegfried.
Fece
arretrare il cavallo, che innervosito dall'odore di morte stava
scalpitando con le orecchie piatte sul collo, quindi raggiunse
Ulrich.
“Ebbene?”
lo accolse questi.
Reinhardt
rimase in silenzio. Aveva cominciato a nevicare e radi fiocchi
fluttuavano verso terra. Il cielo era una tavola grigio pallido,
tagliata a metà dalla colonna di fumo che continuava a salire densa
e pesante.
Levò
lo sguardo a incontrare quello del confratello e con voce incolore
semplicemente disse: “Ho capito.”
Ulrich
annuì grave, quindi replicò: “Non pensare mai che questa gente
sia diversa da come l’hai vista oggi. Non pensare mai che ti
rispetti se non hai una spada in mano o che abbia pietà di te se non
ha la consapevolezza che farti del male significherebbe riceverne
molto di più dai tuoi confratelli.”
A
quelle parole Reinhardt si girò di nuovo verso la croce, che in
quella luce fredda appariva nera. Inconsapevolmente toccò il simbolo
che gli ornava il petto.
“Ti
stai chiedendo se questo sia un messaggio per noi?” lo richiamò
alla realtà Ulrich, che aveva notato il gesto. Si girò a sua volta
verso il macabro allestimento, quindi proseguì: “Non sbagli: lo è.
È la fine che ci augurano e che tenteranno in ogni modo di farci
fare.”
Il
viaggio di rientro trascorse in un silenzio funereo. La neve
continuava a cadere stentata, riuscendo appena ad attecchire dove il
terreno era più solido, ma infradiciandosi immediatamente nelle zone
fangose.
“Tempo
schifoso,” commentò dopo un po' fratello Ulrich, che cavalcava al
fianco di fratello Reinhardt. “Almeno gelasse sul serio. Lo vedi?
Adesso sembra tutto solido, in realtà sotto è una palude. Se esci
dalle strade battute, i cavalli affondano fino ai ginocchi e poi non
escono più. E al disgelo è anche peggio, perché sotto quel che
rimane della neve c'è un acquitrino impraticabile.”
L'altro
si limitò ad annuire. Al solito, a perdita d'occhio non si vedeva
anima viva, ma ciò che era accaduto nella fattoria tedesca faceva
capire chiaramente che in realtà la gente c'era, e in qualche modo
era perfettamente al corrente di ogni spostamento dell'Ordine. “Loro
come fanno?” chiese.
“A
girare qui in mezzo, vuoi dire? Ci sono nati, sanno riconoscere il
terreno solido a colpo d'occhio e sanno muoversi su quello molle
senza affondare.”
Di
nuovo calò il silenzio e per un po' Reinhardt rimase semplicemente a
guardare i fiocchi di neve che si posavano sul manto lucido del suo
cavallo e uno dopo l'altro lentamente si scioglievano trasformandosi
in perle trasparenti.
Poi
un movimento al margine della strada attirò la sua attenzione: si
voltò e intravide qualcuno che si spostava agile, apparendo e
scomparendo tra le ondulazioni del terreno e le alte erbe da palude
che crescevano un po' ovunque.
D'istinto
posò la mano sul pomo della spada e con l'altra strinse le redini,
preparandosi a un eventuale inseguimento, poi ricordò quello che
aveva appena udito sullo stato del terreno. Emise un sospiro di
frustrazione.
Si
voltò a cercare con lo sguardo il misterioso inseguitore, e a quel
punto si trovò di fronte un ragazzetto vestito di stracci, magro,
con gli occhi verdi e i capelli come una matassa di stoppa. “Ma sei
tu?” non poté fare a meno di mormorare.
Il
giovane gli rivolse una specie di sorriso, quindi saltò fra le erbe
agile come una lontra e in un attimo scomparve alla vista. Reinhardt
dovette trattenersi dal rivolgergli un gesto di saluto.
Fratello
Ulrich si voltò verso di lui. “Hai detto qualcosa?”
“C'era
il ragazzo del villaggio,” spiegò l'altro “quello a cui piaceva
il mio cavallo.”
“Il
Curo? Non mi piace il modo in cui ci sta sempre intorno. Magari è
proprio quel figlio di una cagna che dice agli altri dove siamo.
Dovevi tirargli dietro la lancia.”
“È
solo un povero mendicante,” fu la risposta.
“Qui
i poveri mendicanti
ti tagliano la gola e ti lasciano a rantolare nel tuo stesso sangue,
se fai tanto di farti trovare distratto.”
✠
Nel
piazzale di Segewold vi era un silenzio di pietra, rotto solo dal
basso sibilo di un maestrale carico di gelo.
I
cavalieri erano allineati in una lunga fila e attendevano, muti e
immobili come statue. Mantelli e gualdrappe schioccavano nel vento.
Reinhardt,
a cavallo insieme agli altri, fissò lo sguardo sulla porta del
Capitolo e finalmente la vide aprirsi. Comparve sulla soglia fratello
Manfred. Il Komtur appariva ancora più alto e imponente del solito;
la sua espressione severa, tagliente come il filo di una lama, era
quella di chi ha preso una decisione dura ma necessaria e non ha
timore di metterla in atto.
Egli
mosse nel cortile passi che echeggiarono come rintocchi, quindi con
voce grave recitò: “Benedetto il Signore, mia roccia, che addestra
le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia. Mia grazia e mia
fortezza, mio rifugio e mia liberazione, mio scudo in cui confido,
colui che mi assoggetta i popoli.”
Il
vento gemette in risposta, si udì un tintinnio metallico di
finimenti.
Arrivò
uno scudiero, conducendogli per le redini il più grande dei suoi
destrieri da guerra, bardato con una gualdrappa candida segnata da
due croci nere. L'uomo montò in sella e un servitore gli porse un
Grande Elmo ornato ai lati di larghe ali nere e argento.
Egli
lo prese e lo posò sull’arcione in modo che tutti potessero
vederlo.
“Fratelli,”
disse semplicemente, “è giunto il momento di colpire i pagani come
loro hanno colpito i contadini della fattoria di Peltes. Se uno farà
una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto
all’altro. Frattura per frattura, occhio per occhio, dente per
dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatto all’altro.”
Di
nuovo il vento ululò ferale, facendo schioccare le bandiere
dell’Ordine sugli spalti.
Fratello
Manfred consegnò allora il Grande Elmo allo scudiero, affinché lo
custodisse fino al momento della battaglia, quindi diede di sprone al
cavallo, che si mosse a un passo vigoroso e fiero. Sfilò davanti ai
confratelli e a ognuno di essi rivolse uno sguardo, come per
assicurarsi che anche nei loro occhi ardesse la stessa fiamma che
accendeva i suoi.
Giunse
al barbacane.
Le
porte di quercia si spalancarono con un lungo gemito, rivelando il
candore di neve inviolata, sotto un cielo grigio come ferro.
I
cavalieri si disposero a due a due alle spalle del Komtur e uscirono
in silenzio.
Dietro
di loro, sergenti, armigeri appiedati e scudieri formarono una lunga
colonna.
“Oggi
si fa sul serio,” disse fratello Ulrich.
Fratello
Reinhardt, che cavalcava al suo fianco, gli chiese: “Che
significa?”
“Il
Komtur comanda che vengano indossati i Grandi Elmi con le insegne
delle casate. Significa che l’Ordine si mostrerà in tutta la sua
potenza, per far passare a quei pagani senza Dio la voglia di
ammazzare contadini inermi.”
“Pensi
che sarà sufficiente?”
Ulrich
alzò le spalle. “Di sicuro li terrà buoni per un po’.”
Reinhardt
si voltò a fissare la colonna di cavalieri che fratello Richard,
Komtur di Treyden, aveva mandato in appoggio al contingente di
Segewold. “Che cosa succederà?” chiese.
“L’hai
sentito: occhio per occhio, dente per dente.”
L’altro
rievocò l’immagine dell’uomo crocifisso, con il viso sfigurato e
i genitali tagliati. Strinse le labbra e aggrottò le sopracciglia in
un’espressione cupa.
Fratello
Ulrich sembrò accorgersi del suo smarrimento. “Distruggeremo un
paio dei loro villaggi,” spiegò, “anche se non sarà certo un
gran danno, considerando come sono fatti. Probabilmente di abitanti
non ne troveremo, perché saranno già scappati nelle paludi. Quella
gentaglia ha sempre qualcuno che li informa in anticipo dei nostri
spostamenti.”
“E
se ci fossero?”
L’altro
lasciò passare qualche istante, quindi rispose: “So cosa stai
pensando: un cavaliere non uccide persone inermi.” Di nuovo si
interruppe. Strinse i denti, forse assorto in qualche ricordo non
particolarmente piacevole, quindi riprese: “In primo luogo, qui di
inermi non ce ne sono.”
“Ma
le donne? I bambini?” lo interruppe Reinhardt.
“Sono
perfettamente capaci di piantarti un coltello nella schiena, se fai
tanto di dar loro le spalle. Ho visto io stesso un moccioso che non
poteva avere più di sette anni uscire da un cespuglio, infilarsi tra
le zampe di uno dei nostri destrieri e squarciargli il ventre da
sotto.”
Reinhardt
non replicò. Aveva combattuto senza quartiere in Terra Santa, ma
sempre contro altri uomini d’arme. Contro gente che faceva quello
per mestiere, se non per scelta di vita, che vestiva di ferro e
maneggiava abitualmente la spada, ben consapevole di tutti i rischi
connessi a tale attività. Gettò un’occhiata fugace alle dure erbe
di palude che la neve non era riuscita a coprire del tutto e si
chiese cos’avrebbe fatto se improvvisamente un bambino fosse uscito
da lì e avesse provato a squarciare il ventre al suo cavallo.
Emise
un sospiro e levò lo sguardo sul cielo grigio.
Per
un po’ rimase assorto ad ascoltare i rumori della colonna in
marcia: il tonfare soffice degli zoccoli nella neve, il tinnire dei
finimenti, lo scricchiolio del cuoio, qualche breve conversazione a
bassa voce.
Forse
Dio lo stava mettendo alla prova.
Dio
sapeva, naturalmente, quale fosse il punto debole di ognuno, ed ecco
che per saggiare la forza delle sua fede lo poneva di fronte agli
ostacoli che per lui sarebbe stato più difficile superare.
“Le
donne dei Samogizi sono davvero così pericolose?” chiese.
“Tu
prega il Signore che questi qui non ti prendano mai vivo,” replicò
fratello Ulrich in tono duro. “Pregalo con tutto il cuore e
augurati che ascolti le tue suppliche.”
Un
lamento squarciò la trasognata calma in cui fratello Reinhardt da un
po’ si stava crogiolando. Imprecando in cuor suo per essersi fatto
cogliere alla sprovvista, il cavaliere si girò verso la provenienza
del grido e vide uno dei soldati a terra, con una freccia che gli
usciva dalla gola. Spruzzi di sangue arrossavano la neve fresca.
Alzò
gli occhi verso quella che avrebbe potuto essere la provenienza del
dardo e in un intrico di vegetali colse un movimento.
Senza
esitare spronò il destriero, che balzò in avanti abbandonando la
strada battuta e prese a farsi strada con vigore nella neve alta.
Quando fu più vicino alla macchia di alberi marcescenti, si accorse
che si trattava in realtà di un villaggio, che i pagani avevano
mimetizzato con rami ed erbe di palude, di certo in attesa del loro
arrivo.
Udì
a quel punto un tramestio, quindi una freccia gli sibilò vicino
all’orecchio. Il destriero scalpitò innervosito, Reinhardt vide
una figura esile balzare fuori da una delle spelonche, colse il
baluginio di una lama nella penombra dell’abitazione.
D’istinto
brandì la lancia e la scagliò. Si udì un lamento, la figura crollò
a terra, quindi si rialzò malamente e scomparve zoppicando e
lasciandosi dietro una scia di sangue. Un altro gli corse incontro
con la spada sguainata, egli fece indietreggiare il cavallo, snudò
la lama a sua volta e abbatté l’avversario con una punta
dall’alto. Recuperò l’arma, si fece indietro, altra gente gli
stava venendo incontro. Il destriero fece una mezza impennata, rampò
con gli anteriori, costringendo un pagano ad arretrare
precipitosamente. Altri però gli stavano correndo addosso, Reinhardt
vide con orrore un ragazzino gettarsi carponi con una daga stretta in
pugno e immaginò il suo destriero rovesciarsi col ventre squarciato.
Una
lancia inchiodò a terra il giovane pagano, il coltello scivolò via.
Reinhardt
si girò di scatto e vide fratello Ulrich e un altro paio di
cavalieri.
I
Samogizi a quel punto si dileguarono scomparendo nelle campagne, sul
villaggio calò un silenzio cupo.
“Tutto
a posto?” chiese fratello Friedrich. Reinhardt notò che non aveva
la lancia. Cercò con lo sguardo il pagano che era stato colpito poco
prima e lo vide rannicchiato a terra, con le mani serrate sull’asta
che gli usciva dall'addome e una pozza di sangue che gli si allargava
sotto.
Scese
da cavallo e fece qualche passo nella sua direzione.
“Che
fai?” chiese alle sue spalle fratello Ulrich.
Reinhardt
non rispose, anche perché obiettivamente non avrebbe saputo cosa
rispondere. Non lo sapeva neppure lui, cosa avrebbe voluto o dovuto
fare.
Avanzò
di un altro passo. Il pagano, che fino a quel momento era rimasto
rannicchiato a rantolare, si girò verso di lui.
Il
cavaliere dovette faticare per per non fare un salto indietro: era
una giovane donna, o forse un ragazzo imberbe, non si capiva. Il suo
sguardo, lucido di sofferenza, esprimeva una febbrile volontà di
lottare.
“Signore
Iddio,” mormorò. Si fece il segno della croce e il ragazzo, o quel
che era, sputò nella sua direzione.
Fratello
Fredrich comparve al suo fianco. Dedicò poco più di uno sguardo al
ferito, maschio o femmina che fosse, quindi afferrò l’asta della
lancia e la sfilò con un movimento secco.
“Andiamo?”
chiese poi.
“Aspetta,”
replicò fratello Reinhardt. “Cosa facciamo con quello… quella?”
“Lo
seppelliamo, al massimo. Non vedi che è morto?”
L’altro
abbassò lo sguardo e incontrò occhi spalancati e immobili, che
anche nel trapasso conservavano un vago barlume della ferocia che li
aveva animati in vita.
“Questo
qui avrà al massimo quattordici anni,” gli giunse la voce critica
di fratello Mathias.
“Questa
qui,” lo corresse
fratello Friedrich. “Per me è una femmina.”
“Non
sarò certo io ad accertarmene,” rispose l’altro. “E ora
andiamo, stanno aspettando noi.”
Si
lasciarono alle spalle il villaggio in fiamme, che mandava verso il
cielo una greve colonna di fumo bigio.
“Ora
lo vedranno,” disse fratello Ulrich, “e capiranno che non
scherziamo.”
Fratello
Reinhardt, che aveva ancora davanti agli occhi lo sguardo feroce di
quel ragazzo o ragazza, si limitò ad annuire.
“Nulla
vale come l’esempio pratico, vero?” gli chiese l’altro.
“Cosa?”
“Avrei
potuto raccontarti com’è fatta questa gente fino alla Quaresima, e
tu non ti saresti comunque convinto.” Fece una breve pausa, durante
la quale si girò sulla sella per controllare i dintorni, quindi
soggiunse: “Ora invece hai capito, vero?”
Reinhardt
emise un sospiro. “Credo di sì.”
“Se
non fosse arrivato il Fritz, a questo punto staremmo in due su un
solo cavallo come i Templari.”
L’altro
stava per rispondere quando cominciò a udire una sorta di tuonare
lontano. Istintivamente alzò lo sguardo al cielo aspettandosi
l’addensarsi di nubi temporalesche, ma esso rimaneva di un grigio
uniforme.
Si
guardò fugacemente intorno per spiare le reazioni degli altri:
nessuno sembrava farci caso. Il suono però proseguiva. Aumentava,
anzi, assumendo la connotazione di un rullare cupo e incalzante, sul
quale si inserivano quelli che sembravano lunghi muggiti.
Alla
fine Reinhardt si voltò verso il confratello. “Che cos’è?”
L’altro
non pareva particolarmente impressionato. “Vuoi dire questo
rumore?”
“Sì.”
“Tamburi
di guerra, canti in onore dei loro idoli. Pensano di spaventarci con
un po’ di chiasso.”
“Credi
che daranno battaglia?”
Fratello
Ulrich alzò le spalle. “A un certo punto non potranno esimersi: è
inverno e anche loro hanno bisogno di rifugi.”
A
quelle parole l’altro si voltò a fissare la colonna di fumo che
continuava a salire nell’aria immobile. “Che intendi dire?”
“Di
solito funziona così: loro distruggono una fattoria, noi in risposta
bruciamo villaggi finché loro non si trovano nella necessità di
affrontarci in campo aperto per farci smettere. A quel punto noi ne
ammazziamo un po’ e di solito gli altri per qualche mese stanno
tranquilli.”
Fratello
Reinhardt non rispose. I tamburi si erano fatti più forti, il canto
pareva l’ululato di demoni infernali. Non si vedeva nessuno, ma
sembrava che ogni roccia, ogni albero facesse scaturire quei suoni
spaventosi. Si guardò intorno come se d'un tratto i Samogizi in armi
avessero potuto sorgere dal terreno tutt'intorno a loro. “Dove
sono?” chiese a disagio.
“Tra
un po' arriveranno,” disse l'altro per tutta risposta.
I
tamburi tacquero, i canti si affievolirono fino a cessare e sulle
campagne calò un silenzio spettrale.
Il
Komtur alzò un braccio e le schiere si fermarono. Il vento passò
gemendo sulla pianura, i mantelli bianchi ondeggiarono.
Le
bandiere dell'Ordine furono innalzate e schioccarono fiere nell'aria
gelida.
Cominciò
a quel punto a farsi udire un urlio diffuso, grida roche, strida e
ululati. Il terreno tremava come percosso da un immenso maglio.
Impassibile,
fratello Manfred diede un ordine secco e la schiera di cavalieri si
dispose in una linea frontale. I Grandi Elmi vennero indossati, le
lance impugnate. I cavalieri erano giganti di ferro, solenni e
immobili.
I
clamori si fecero più intensi, la vibrazione divenne il rombo cupo
di centinaia zoccoli e piedi in corsa.
A
un altro comando le lance vennero brandite. Un fremito di luce passò
sulle punte affilate. I destrieri scalpitarono, rasparono la terra
impazienti di lanciarsi all'assalto.
Le
froge umide soffiarono densi getti di vapore.
Attraverso
il Grande Elmo, fratello Reinhardt vedeva una striscia così candida
che quasi gli faceva dolere gli occhi, sotto una striscia più
sottile di un cupo color piombo. Se si girava, vedeva dei suoi
confratelli solo i cimieri: orsi, leoni, lupi e draghi dalle fauci
spalancate, ali e corna, spade brandite, corone, aquile e fenici.
Mostri
e belve sembravano ringhiare bramosi, gli occhi davano l'idea di
guizzare alla ricerca del nemico.
Ed
esso giunse, dilagando sulla pianura come un'onda di piena. Guerrieri
a cavallo e a piedi, che avanzavano in una disordinata corsa,
emettendo roche grida di battaglia.
Reinhardt
fece un groppo delle redini, rinsaldò la presa sulla lancia. Di
nuovo si girò a fissare i confratelli, ricavandone l'impressione di
un bastione di ferro, contrapposto a una vivida foga animale.
Il
bastione rimase immoto, impassibile mentre i Samogizi correvano
ululando ingiurie e sfide. Non ebbe un fremito al lancio dei primi
proietti, ignorò il baluginare delle armi sguainate.
E
infine giunse il segnale: le lance calarono in posizione d'attacco, i
grandi destrieri da guerra balzarono in avanti.
Le
ginocchia strette, i muscoli tesi, Reinhardt fissò lo sguardo su un
guerriero che montava un cavallo alto e robusto, forse frutto di una
razzia. Dava l'idea di essere un capo, portava un'armatura elaborata
e aveva una lunga spada lustra. I capelli, biondi e arruffati, erano
legati in una coda.
Riconobbe
tra i suoi ornamenti il simbolo di Perkūnas,
ovvero l'idolo che i Samogizi reputavano più importante.
Pensò
alla propria croce nera. “Gott
mit uns!” gridò
d'impulso. Strinse la presa sulla lancia, spronò. Il motto proruppe
in più punti dello schieramento, incupito dagli elmi, feroce. Si
ripeté, sincronizzandosi fino a divenire un unico assordante
ruggito.
La
lancia impattò con una violenza che quasi gli mozzò il respiro. Il
Samogizio con le insegne di capo scomparve dalla sua vista, il
cavallo scosso corse via. Un altro guerriero cercò di afferrarlo per
montargli in sella, ma fu raggiunto e abbattuto da un fratello
cavaliere.
Reinhardt
continuò ad avanzare. Vide sfilare elmi appuntiti adorni di
pelliccia, volti barbuti, qualche chioma ispida. Di nuovo abbassò la
lancia, sbalzò di sella un guerriero a cavallo, passò oltre. Il
Grande Elmo attutiva i rumori della battaglia, tuttavia ovunque
percepiva urla, nitriti e clangore di armi. Spronò, l'animale
rispose con un poderoso galoppo. Abbassò l'asta in posizione di
attacco, puntò un altro Samogizio a cavallo. Questi lo vide e cercò
di scartare per evitare l'impatto, ma la lancia lo passò da parte a
parte, facendogli uscire un fiotto di sangue alla bocca. Il corpo si
accasciò tirandosi dietro l'arma, Reinhardt la lasciò andare,
sfoderò la spada e si ributtò nel centro della mischia.
Qualcuno
lo tirò per la falda del mantello, egli si girò di scatto e pur
attraverso le feritoie dell'elmo vide una mano brancicare verso i
finimenti del suo cavallo.
Calò
la spada e l'arto volò reciso, lasciandosi dietro uno spruzzo
vermiglio. Si spinse in avanti, alla ricerca di altri avversari.
Dopo
aver attraversato la pianura come una gigantesca falce, la linea dei
cavalieri si era frammentata e ovunque infuriavano gli scontri.
Fratello
Reinhardt vide un confratello cadere a terra assieme al cavallo, un
paio di Samogizi gli si avventarono addosso, un altro si aggrappò al
cimiero. Il cavaliere abbatté quest'ultimo a mani nude, poi si fece
indietro cercando di allontanarsi dall'animale agonizzante, ma nel
frattempo altri pagani tentarono di afferrarlo.
Egli
però aveva sfoderato la spada, e quelli che lo stavano incalzando
più da presso caddero malamente nel loro stesso sangue.
Reinhardt
si fece avanti. Raggiunse al galoppo il confratello, si piegò sulla
sella e calò un tondo dritto sul collo di uno dei pagani. Quella che
volò in aria, descrivendo un'ampia parabola, gli parve la testa di
una donna.
Tirò
le redini raddrizzando la schiena, fece girare sui posteriori il suo
agile destriero, lo spinse nuovamente in avanti, ma nel tempo della
conversione l’altro aveva già ucciso i due nemici che lo
minacciavano da vicino. Gli altri stavano scappando.
Quando
i pagani andarono in rotta, Reinhardt aveva la sensazione di essere
appena entrato in campo. Gli sembrava che fossero passati solo pochi,
convulsi attimi.
Poi
però si guardò intorno e si accorse che tutta la pianura era
costellata di cadaveri. C’erano soldati riversi al suolo, qualche
sergente, addirittura un mantello bianco, ma perlopiù i corpi erano
quelli dei Samogizi, e ce n’erano a perdita d’occhio.
Per
certi aspetti, la cosa lo stupì: da quando si trovava in Livonia,
non li aveva mai visti combattere fino alla morte. Perlopiù, quando
si accorgevano che le cose si mettevano male, preferivano abbandonare
lo scontro e dileguarsi nei boschi per poi combattere nuovamente in
condizioni più favorevoli.
Di
nuovo fece scorrere lo sguardo sul campo di battaglia: questa volta
non doveva essere stato così facile dileguarsi.
Si
tolse il Grande Elmo e tenendolo sull’arcione inspirò a pieni
polmoni. L’aria era fredda, piacevole sulla pelle accaldata, ma
greve dell’odore di sangue e di corpi smembrati. Ogni tanto, un
refolo di fumo acre la appesantiva ulteriormente.
Aggrottò
le sopracciglia. Man mano che la tensione dello scontro veniva meno,
cominciavano a farsi sentire la stanchezza e il dolore. Il braccio
destro gli faceva male come se ci fosse un cane che glielo stava
mordendo, si sentiva la camicia appiccicata addosso dal sudore.
Si
guardò gli abiti e si accorse che ormai erano ben lungi dall’essere
candidi: le falde del mantello erano strappate, tagliate da colpi di
spada. Sulla destra l’indumento era talmente inzuppato di sangue da
esserne appesantito.
Per
un po' rimase a fissare perplesso quella larga macchia rossa, già
scura e secca sui bordi, poi si piegò in avanti per controllare che
il cavallo non avesse qualche ferita.
Una
voce lo fece sussultare: “Ebbene, fratello, come va?”
Si
girò di scatto, la mano corse d'istinto al pomo della spada.
Riconobbe fratello Manfred.
“Scusate,”
disse, abbandonando la presa sull'arma.
L'altro
scosse la testa. “Apprezzo chi non si fa cogliere alla sprovvista,”
rispose. “Meglio mettere mano alla spada quando non ve n'è bisogno
che non farlo quando le circostanze lo richiedono. Non sei
d'accordo?”
“Sì,
avete ragione.”
Il
Komtur, le mani appoggiate sull'arcione, annuì e disse: “Ti sei
comportato bene in battaglia, fratello.”
Reinhardt
chinò appena la testa. “Vi ringrazio,” rispose.
“Sei
ferito, per caso?”
Il
più giovane crollò il capo. “No, signore.” Di nuovo abbassò
gli occhi sui propri abiti. “No, non credo.”
“Rendiamo
grazie a Dio per questo,” rispose il Komtur. “Non tutti sono così
fortunati alla loro prima battaglia contro i pagani.”
Detto
questo, fratello Manfred spronò il destriero e raggiunse un
gruppetto di sergenti e mezzi fratelli che stavano allineando da una
parte i corpi dei Samogizi. Reinhardt notò che fratello Emelrich
stava già indossando i paramenti per impartire una benedizione alle
salme.
Cercò
con lo sguardo fratello Ulrich, augurandosi che non appartenesse a
lui il mantello bianco che aveva visto a terra calpestato e
insanguinato.
Lo
scorse ai margini del campo, seduto su un manto di pelliccia che
probabilmente aveva raccolto da qualche nemico morto. Assicurò il
Grande Elmo alla sella, quindi scese da cavallo e tenendo l'animale
per le redini lo raggiunse.
Al
suo arrivo l'altro alzò lo sguardo su di lui. “Sei qui,” disse.
“A
Dio piacendo.”
L'altro
sorrise. “Pare che tu sia piaciuto anche al Komtur. L'ho visto
mentre ti parlava, aveva l'aria soddisfatta.”
Reinhardt
si limitò ad annuire.
Fratello
Ulrich gli fece cenno di sedere accanto a lui. “Che c'è?” gli
chiese poi. “Sei ferito per caso?”
“No,
è che...” Sospirò, scosse la testa. “Non lo so, non capisco.
Noi portiamo del bene a costoro, portiamo il vero Dio, portiamo case
di pietra, attrezzi utili. Perché invece di accettare il nostro
aiuto si ostinano a combatterci?” Fece un ampio gesto per indicare
il campo di battaglia, quindi in tono amaro soggiunse: “Perché
donne o ragazzini a stento in grado di sollevare un'arma si ergono
contro di noi facendo questa misera fine? Non sanno che i loro idoli
sono solo simulacri di legno che non significano nulla?”
“Forse
vogliono vivere a modo loro,” fu la risposta dell'altro,
pronunciata col tono paziente del genitore che sente un bambino fare
una domanda profondamente ingenua.
“Si
fanno ammazzare a decine pur di poter continuare a vivere in
spelonche buie, venerando idoli e mangiando quel poco che la loro
coltivazione inefficace consente di strappare alla terra?”
“Loro
credono che sia giusto così. E ora siedi, Reinhardt, hai la faccia
di uno che sta per cadere lungo disteso da un momento all'altro.”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Terza parte ***
Gente mia, anche questo
mappazzone è finito. L’episodio è concluso in sé, è vero, ma
nulla vieta di farne l’inizio di una long, appena l’ispirazione
si degnerà di assistermi.
Ringrazio
moltissimo tutti quelli che mi hanno seguito e mi hanno fatto sapere
il loro parere.
Terza
parte
Fratello
Reinhardt ritirò la testa fra le spalle sotto una raffica di vento
particolarmente violenta, carica di un nevischio che pungeva come una
manciata di aghi.
Si
strinse al collo la pesante cappa di montone.
Quando
il drappiere gliel'aveva consegnata, sulle prime era rimasto stupito:
né a Starkenberg né in Italia aveva mai avuto bisogno di indumenti
del genere, e sulle prime era stato quasi tentato di rifiutarla,
perché indossata sopra il manto bianco dell'Ordine era brutta da
vedere, ma soprattutto intralciava nei movimenti.
Per
fortuna come al solito era arrivato fratello Ulrich, a soccorrerlo
con la sua maggiore esperienza di quei luoghi, e lui l'aveva
accettata.
Di
nuovo si piegò per evitare una sventagliata di nevischio ghiacciato.
Se
si guardava intorno, non riusciva quasi a riconoscere le campagne che
aveva visto appena giunto in Livonia: non c'era più nulla del rosso,
del porpora, dell'oro che l'avevano accolto al suo arrivo. Ora c'era
solo bianco ovunque, tanto che riusciva difficile credere che in
quelle lande vi fosse mai stato qualcosa di diverso da ghiaccio e
neve.
“Freddo,
eh?” gli disse fratello Ulrich, che cavalcava al suo fianco avvolto
nel mantello di montone come chi è abituato a portarlo da una vita.
“Già,”
brontolò Reinhardt.
“Sei
fortunato, non è neanche uno degli inverni più rigidi.”
“Stai
scherzando?” protestò l’altro, al solito piegandosi per offrire
la minore superficie possibile al vento ghiacciato.
“Un
anno venne un tale freddo che nella foresta trovammo un cervo
maschio, con un palco di corna largo come due uomini a braccia aperte
uno di fianco all’altro, completamente congelato, duro come la
pietra.”
“Un
cervo?” ripeté incredulo fratello Reinhardt.
“Rendemmo
grazie a Sant’Uberto,” fu la risposta. “Scarseggiava la carne,
e con quello mangiammo per più di una settimana.”
Dopo
quell’aneddoto, per un po’ proseguirono in silenzio. La strada
che conduceva al piccolo villaggio con la chiesa diroccata era
coperta di neve e i cavalli avanzavano lenti, alzando le zampe con
precauzione. Il vento faceva schioccare le gualdrappe come bandiere.
Quando
l’agglomerato di capanne apparve in lontananza, più che altro come
una sagoma scura che emergeva dalla foschia, Reinhardt si voltò
verso il confratello e chiese: “Padre Emelrich vuole dire messa
anche con questo tempo?”
“Non
vedo perché non dovrebbe,” rispose l’altro. “La parola di Dio
si porta solo col bel tempo adesso?”
“No,
ma...”
“Cosa
vuoi che sia un po’ di neve? Ti ho detto che abbiamo visto di
peggio da queste parti.”
Reinhardt,
impegnato a proteggersi dall’ennesima sventagliata di nevischio
gelido, non rispose.
Il
villaggio sembrava più che mai abbandonato, e forse in parte lo era
anche. Alcune capanne erano buie, con lingue di neve che dalla porta
dilagavano all'interno. Le altre avevano gli ingressi serrati da
stuoie e tavole.
Le
poche impronte che si vedevano in giro erano mezze coperte dal manto
ghiacciato, segno che a prescindere dalla presenza dei cavalieri
tedeschi, la gente se ne stava ben tappata in casa. Le rovine della
chiesa erano più basse rispetto all'ultima volta che Reinhardt le
aveva viste, un muro mancava del tutto, la porta penzolante era stata
portata via, forse per farne legna da ardere.
A
ridosso dell'unico angolo più o meno intero, sotto una specie di
riparo costruito con assi e rami, baluginava un piccolo fuoco.
Il
cavaliere si volse stupito verso il confratello, che in risposta alzò
le spalle perplesso.
Osservò
con più attenzione e colse mani tremanti, parzialmente fasciate di
stracci, che si tendevano sulle esili fiamme.
Smontò
da cavallo. Fratello Ulrich fece per dirgli qualcosa, ma lui si
limitò a zittirlo con un cenno, e tenendo l'animale per le redini si
avvicinò incuriosito.
Si
chinò per scrutare all'interno del miserabile rifugio.
Rannicchiato
in un viluppo di cenci, c'era il Curo. Gli parve ancora più magro di
come lo ricordava, più pallido. Con gli stracci rattoppati che aveva
addosso tremava verga a verga, tuttavia non mancò di rivolgergli un
lieve sorriso. “Cavallo... forte,” gli ricordò.
Reinhardt
sorrise a sua volta. “Sì, il mio cavallo è molto forte,”
assentì.
Il
ragazzo annuì in un modo che sembrava imitare il suo. Di nuovo gli
rivolse un timido sorriso, poi però si rannicchiò scosso da un
brivido. Il cavaliere notò che la sua pelle, laddove era esposta al
gelo, aveva ormai il colore di quella dei morti.
D’impulso
si tolse dalle spalle il pesante mantello di montone e glielo tese.
A
quel movimento, il ragazzo scattò in piedi, poi arretrò e rimase a
guardarlo incerto, facendo saettare gli occhi da lui all'indumento.
“Prendilo,
è per te,” gli disse allora. Ripeté il gesto di porgerglielo,
provocando un suo nuovo, precipitoso arretramento. “Ulrich, puoi
digli che voglio darlo a lui?” chiese allora, senza distogliere lo
sguardo dal ragazzo tremante.
“Sei
matto?” giunse in risposta la voce del confratello. “Vuoi rifare
la pantomima dell'altra volta?”
Senza
girarsi, in tono duro fratello Reinhardt rispose: “No, questa volta
passerò a fil di spada chiunque osi percuotere questo giovane, o
portargli via ciò che è suo. E ora diglielo, per favore.”
L'altro
emise un sospiro come di esasperazione, quindi proferì qualcosa
nella lingua dei pagani. Il ragazzo alzò gli occhi su di lui come se
non si capacitasse di ciò che aveva appena udito. Egli ripeté la
frase.
Il
Curo volse allora lo sguardo al mantello. Non era certo un indumento
pregiato, ma era ampio e morbido, in grado di proteggere dal vento e
dalla neve. L'esterno era di pelle quasi grezza, ma l'interno era un
vello così folto che ci si poteva affondare dentro.
“Prendilo,”
ripeté fratello Reinhardt. Si protese a deporglielo fra le mani.
“Hai
freddo?” chiese fratello Ulrich. Il vento era così forte che il
cavaliere doveva alzare la voce per farsi sentire.
Fratello
Reinhardt strinse le labbra e cercando di mantenere la voce ferma
rispose: “No.”
Ulrich
fece una breve risata e replicò: “Ringrazia il Cielo che stiamo
per arrivare a Segewold, almeno riuscirò a metterti davanti al
camino prima che tu faccia la fine del cervo.” Fece una pausa,
quindi perplesso chiese: “Ma di' un po', cosa ti è venuto in mente
di dare al Curo il tuo mantello?”
“Aveva
freddo. Non aveva di che coprirsi, in quel tugurio miserabile.”
“Lo
sai, vero, che alla prima occasione ripagherà la tua generosità
cercando di tagliarti la gola?”
Reinhardt
scosse la testa. “Non credo che sia come dici tu.” Ingobbì le
spalle, cercando di proteggersi da una raffica particolarmente
violenta, quindi soggiunse: “Tu sei qui da più tempo di me e
conosci i pagani, ma io ho visto gli occhi di quel ragazzo, e gli
occhi non mentono. Vedrai che non farà mai nulla contro di noi.
Anzi, io penso che troverà il modo di sdebitarsi.”
“E
come vuoi che faccia a sdebitarsi quel povero pezzente? È il servo
di qualcuno, vive di avanzi, non è neppure padrone degli stracci che
ha addosso.”
Fratello
Reinhardt non replicò. Nonostante la camicia, il gambeson e la cotta
d'arme, senza il mantello di montone si sentiva gelare. Non più
trattenuto dal pesante indumento, il manto bianco dell'Ordine gli
svolazzava intorno furiosamente, spinto dalle raffiche. La cotta di
maglia era talmente gelata che vi si era formato sopra un sottile
strato di brina. Se per sbaglio la sfiorava con la pelle nuda,
sentiva una fitta di dolore. Pur protette dai guanti, le dita gli si
stavano intorpidendo.
“In
ogni caso, ne aveva più bisogno di me,” disse dopo un po'.
“Voglio
proprio vederti, quando spiegherai a fratello Manfred perché non hai
più il mantello di montone.”
“Gli
dirò che ho fatto un’opera di bene,” rispose Reinhardt piccato.
“Portare la parola di Dio ai pagani significa anche insegnare loro
cosa sono la carità e il sacrificio di sé, o sbaglio?”
Poi
diede di sprone al destriero distaccando il confratello di alcune
lunghezze.
“Digli
che te l’ha strappato un lupo,” consigliò fratello Ulrich alle
sue spalle, alzando la voce per coprire l’ululato del vento.
Fratello
Reinhardt fermò il destriero. “Ho fatto un’opera di bene,”
insisté serio quando l’altro l’ebbe raggiunto. “Non vedo
perché dovrei mentire.”
“Andiamo,
dai,” lo esortò l’altro per tutta risposta. “Se sto morendo di
freddo io, non oso immaginare te.”
Ormai
era pomeriggio inoltrato e tutti i cavalieri che non erano impegnati
in qualche compito erano nella sala comune, dove in un grande camino
ardeva un tronco di quercia. Nell’aria c’era il brusio di
conversazioni a bassa voce.
Un
paio di confratelli erano impegnati in una partita a scacchi; un
altro, nell’angolo accanto al camino, con la schiena appoggiata
alla parete, stava leggendo assorto.
Quando
fratello Ulrich e fratello Reinhardt si presentarono sulla soglia,
calò di colpo un gran silenzio, nel quale si udì distintamente il
rumore di un pezzo degli scacchi che cadeva e rotolava via.
Infine
fratello Waldemar si alzò lentamente in piedi e a passi misurati li
raggiunse. Dedicò a Reinhardt una lunga occhiata dal basso verso
l’alto, quindi aggrottò le sopracciglia e gli chiese: “Che hai
fatto, fratello? Dal colore della tua faccia si direbbe che ti
abbiano ripescato da un lago.”
“Sto
bene,” gli assicurò il più giovane per tutta risposta, ma non
riuscì a impedirsi di balbettare per il freddo.
L’altro
lo fissò critico. “Dov’è il tuo mantello di montone?” gli
chiese poi. “Non sarai uscito senza, spero.”
“Veramente
no, fratello.”
“E
allora dov’è finito, l’hai perso?”
Reinhardt
chinò appena la testa. “Ecco, io… ho compiuto un’opera di
carità.”
Di
nuovo fratello Waldemar aggrottò le sopracciglia. “Sarebbe a
dire?”
Intervenne
a quel punto fratello Ulrich, che mise una mano sulla spalla di
Reinhardt e disse: “Hai presente San Martino, Waldemar?”
Si
avvicinò anche fratello Friedrich, che stava seguendo lo scambio
incuriosito. “San Martino ha dato il suo mantello a un mendicante,”
considerò. “Tu hai fatto lo stesso?”
Reinhardt
annuì. Ritirò appena la testa fra le spalle aspettandosi una
rampogna, ma l’altro scoppiò in una risata. “Ora nell’Ordine
c’è un santo,” esclamò. “San Martino di Livonia!”
Altri
cavalieri, che nel frattempo si erano avvicinati, scoppiarono a loro
volta in una risata.
Si
fece avanti fratello Gunnar, che fissò tutti con occhi di fuoco e in
tono duro ammonì: “Questa è blasfemia!”
Nessuno
parve impressionarsi particolarmente. Fratello Mathias scosse anzi la
testa e disse: “È solo un modo per scherzare un po'.”
“È
blasfemia!” insisté il primo imperterrito. “Smettetela subito, o
dovrò informare il Komtur.”
“Così
si farà una risata anche lui,” rispose Mathias, che subito dopo si
rivolse a fratello Friedrich dicendo: “Va' a chiamare fratello
Manfred, Fritz. Digli che qui c'è San Martino di Livonia, se vuole
venire a rendergli omaggio.”
“Subito!”
il cavaliere si allontanò ridacchiando.
Sopraffatto
dall'ilarità generale, Reinhardt non sapeva bene se unirsi
all'allegria dei confratelli o protestare sdegnato. Si voltò verso
Ulrich come in cerca di ispirazione, ma il cavaliere fece a sua volta
una risata e rivolto agli altri disse: “E lo sapete quale sarà il
miracolo più grande del nostro San Martino di Livonia? Convincere il
drappiere a dargli un altro mantello!”
“Se
ci riesce sarà veramente un santo miracoloso,” replicò Siegfried.
“Per me, dopo un prodigio del genere arriverà la gente in
pellegrinaggio a Segewold!”
“I
pagani convertiti, magari!” rincarò Luitpold.
Fratello
Reinhardt chinò la testa senza dire nulla. Nonostante il piacevole
tepore del fuoco, decise che degli scherzi dei confratelli ne aveva
avuto abbastanza. “Io ho fatto un’opera di carità,” ripeté in
tono duro. Si diresse poi deciso verso la porta, e sulla soglia
incrociò il Komtur che gli disse: “E dunque abbiamo qui un nuovo
santo? San Martino di Livonia che regala mantelli ai pagani?”
✠
In
piedi sugli spalti, fratello Reinhardt lasciava vagare lo sguardo
sulle colline ancora coperte di neve. Il sole ormai s’era fatto più
caldo e dappertutto si udiva il gocciare e gorgogliare dei mille
rivoli che il disgelo produceva.
Si
allentò il mantello sul petto: la temperatura si era fatta più mite
e non richiedeva più di indossare un vello di montone; il gambeson,
la cotta d’arme e il manto bianco dell’Ordine erano più che
sufficienti.
Ripensò
al ragazzo: non l’aveva più rivisto, quindi non aveva modo di
sapere se fosse riuscito a sopravvivere a quella tormenta o no. Si
chiese se davvero stesse solo aspettando l’occasione buona per
approfittarsi della sua fiducia e colpirlo a tradimento, e ancora una
volta l’ipotesi gli parve inverosimile.
Guardò
di nuovo oltre la merlatura: cielo azzurro, senza una nuvola. Come
aveva imparato a riconoscere l’odore della neve quando era giunto
in Livonia, così ora coglieva nell’aria quello della primavera in
arrivo: un misto di limo, erba giovane e resina dei boschi.
Passò
in volo un trampoliere bianco e grigio. I rami ancora spogli delle
betulle ondeggiarono appena, spinti da un refolo d’aria che sapeva
di fumo e cucina.
Il
cavaliere si voltò verso il cortile. Sulla soglia di un magazzino
c’era una donna con un neonato in braccio, che con la mano libera
rimestava una pentola appesa su un fuoco improvvisato e intanto
diceva qualcosa a due bambini intenti a rincorrersi. Un vecchio
venerabile, con la barba bianca che gli arrivava fino al petto,
sedeva su una panca a lato della porta, le mani poggiate una
sull’altra sul pomo del bastone. Di un’altra donna si coglieva
nel silenzio il pianto sommesso.
Erano
arrivati poco prima dell’alba. Le sentinelle avevano visto delle
fiaccole che erravano sulla pianura come fuochi fatui e avevano dato
l’allarme, pensando che fossero i Samogizi che tentavano un
attacco. Solo dopo avevano capito che in realtà era un gruppo di
contadini in fuga da una fattoria distrutta.
Reinhardt
abbandonò gli spalti e scese nel cortile. In un angolo un po’
discosto, il Komtur stava parlando con un uomo di circa trent’anni,
biondo, con un braccio al collo. Riconobbe sul suo volto segnato
l’espressione tesa di chi è appena sfuggito a qualcosa di
orribile.
Si
avvicinò incuriosito e sentì l’uomo dire: “Sono arrivati al
calare della notte. Ce ne siamo accorti quando la casa era già in
fiamme.”
Fratello
Manfred annuì grave.
“Hanno
portato via gli animali, rubato il grano,” proseguì l’uomo, “e
poi...” dovette interrompersi.
Il
Komtur gli fece cenno che aveva udito abbastanza. Gli posò una mano
sulla spalla, ma l’uomo balbettò: “Helga...” La voce era
incrinata dal pianto. “I bambini...”
“Faremo
dire una messa per loro,” gli assicurò il cavaliere.
“Sono
riuscito a salvare solo mio padre, mia sorella e mia cognata coi
figli. Gli altri sono tutti morti.”
“Quant’è
vero Dio, li vendicheremo,” promise il Komtur.
In
quel momento si udirono le sentinelle dare una voce. Reinhardt corse
verso gli spalti. “Cosa c’è?” chiese.
Dall’alto,
un soldato gli rispose: “Sta arrivando un uomo a cavallo.”
“Un
cavaliere?”
La
sentinella diede un altro sguardo all’esterno, quindi rispose:
“Monta a pelo, sta galoppando come se avesse il diavolo alle
calcagna.”
A
quelle parole, Reinhardt si voltò verso il Komtur, che in risposta
ordinò: “Aprite la porta.”
Quello
che entrò, in groppa a un cavallo schiumante e letteralmente
impazzito di paura, era a malapena un ragazzo. Vestiva abiti da
contadino ed era pallido come un morto. Aveva una mano serrata su un
ciuffo di criniera, mentre l’altra stringeva quel che restava di
redini da tiro scorciate con mezzi di fortuna.
“Per
amor di Dio, aiutatemi!” esalò non appena vide Reinhardt farglisi
incontro. Fece per scendere da cavallo, ma le gambe non lo ressero e
si accasciò al suolo tremante. “Per l’amor di Dio,” ripeté.
Grosse lacrime cominciarono a scendergli lungo le guance.
“Cosa
c’è, sei ferito?” gli chiese il cavaliere, chinandosi accanto a
lui.
Il
ragazzo lo fissò con occhi che il terrore rendeva enormi. “Hanno
ucciso tutti,” balbettò. “Tutti. Tutti morti.” Il pianto
divenne un singhiozzare convulso.
Rienhardt
lo prese per le spalle. “Chi
ha ucciso tutti?” gli chiese, anche se immaginava già quello che
il ragazzo gli avrebbe risposto.
Nella
sala comune il clima era cupo. Nonostante le ampie finestre fossero
attraversate dal sole del primo pomeriggio, l’aria sembrava aver
conservato il gelo dell’inverno.
Fratello
Reinhardt sedette su una delle panche che correvano lungo la parete.
Per una volta era solo, perché fratello Ulrich era impegnato nella
riunione del Capitolo assieme ai cavalieri con maggiore anzianità di
servizio e al Capitolo del castello di Treyden.
Fratello
Siegfried, che sedeva presso il lungo tavolo di quercia che
attraversava la sala, fece girare uno sguardo torvo e ringhiò:
“Prima la fattoria di Odo, poi Peltes. Adesso Heilige Magdalene,
Osterrade e Wulfsfelde. Le stanno distruggendo tutte.” Fece una
pausa, quindi aggiunse: “Dobbiamo forse aspettare che quei pagani
senza Dio radano al suolo anche l’ultima? Che uccidano tutti i
coloni tedeschi?”
Fratello
Luitpold rincarò la dose: “È necessario agire subito, i pagani
devono capire con chi hanno a che fare.”
“Pensi
che non lo sappiano?” lo rimbeccò fratello Mathias. “Proprio
perché sanno chi siamo e come combattiamo, se ne sono stati
tranquilli per tutto l’inverno e adesso che c’è il disgelo
vogliono spingerci ad agire.”
“E
quindi cosa dovremmo fare, secondo te?” lo provocò l’altro,
“Stare a guardare mentre quelli fanno ciò che vogliono? I
cavalieri teutonici, garanti di pace e ordine, lasceranno che quattro
pagani puzzolenti mettano a ferro e fuoco la Livonia?”
“Se
combattessimo adesso faremmo esattamente il loro gioco.”
“Ma
se non combattiamo, la nostra gente morirà, o nel migliore dei casi
perderà tutto quello che possiede.” Fratello Luitpold fece un
gesto iroso verso le finestre che davano sul cortile, come per
invitare il confratello ad affacciarvisi. “Li hai visti anche tu i
poveretti che si sono rifugiati qui: gente che si è vista uccidere i
figli o i genitori sotto gli occhi, che si è vista andare a fuoco la
casa che aveva costruito in anni di sacrifici. Cosa diremo a costoro,
che ci dispiace tanto ma c’è il disgelo?”
Fratello
Reinhardt seguiva quegli scambi in silenzio. Sentiva di trovarsi in
Livonia da troppo poco tempo per esprimere un parere sulla questione:
non aveva mai visto un disgelo da quelle parti, non conosceva ancora
l’ubicazione di tutte le fattorie. Una cosa però gli era chiara:
se i Samogizi erano tutti come quelli che aveva incontrato il suo
primo giorno a Segewold, non intervenire avrebbe significato
condannare a morte ogni colono dei dintorni.
Gli
tornò in mente quello che aveva visto presso la fattoria di Peltes e
dovette chiudere gli occhi mentre un brivido di orrore gli percorreva
le membra.
Di
nuovo prese la parola fratello Siegfried: “Se non interveniamo, la
rivolta si estenderà come il fuoco sulle stoppie.”
“Intervenire
adesso significa finire impantanati nel fango,” intervenne fratello
Friedrich.
“Ci
sono i soldati a piedi e i sergenti, e non è tutta palude. C'è
anche terreno solido.”
“Col
disgelo? Appena esci dalle strade battute è solo pantano.”
“E
loro come fanno? Anche loro hanno i cavalli, no?”
“Combattono
anche a piedi. E poi qui ci sono nati, e dove noi non vediamo altro
che fango, essi sanno trovare con facilità abbastanza terreno solido
per muoversi.”
“Io
dico che dobbiamo dare loro una lezione esemplare,” intervenne
fratello Luitpold. “Devono rimpiangere il momento in cui hanno
deciso di levare le armi contro l'Ordine.”
Fratello
Mathias stava per replicare quando la porta del capitolo si aprì e
sulla soglia comparve fratello Manfred.
Nella
sala calò immediatamente il silenzio, tutti volsero nella sua
direzione sguardi carichi di aspettativa.
✠
Reinhardt
lanciò un'occhiata alla fattoria: muri bianchi, tetto di paglia
rifatto da poco, recinti di legno, meli e susini carichi di gemme.
Una generale impressione di pulizia e ordine, di lavoro operoso che
dà i suoi frutti. In giro però non si vedeva nessuno, persino gli
animali da cortile dovevano essere stati chiusi da qualche parte.
Si
voltò verso Ulrich, che cavalcava al suo fianco, e gli chiese: “Tu
pensi che funzionerà?”
“Nella
zona sono rimaste solo due fattorie,” disse il confratello per
tutta risposta, “quindi attaccheranno o questa o l'altra. Qui ci
siamo noi, nell'altra quelli di Treyden.”
“E
se non attaccassero?”
“Avremmo
comunque ottenuto lo scopo di proteggere i contadini.”
Renhardt
non rispose. Gli era chiaro che un assalto in campo aperto non poteva
essere portato avanti in quella stagione, il terreno molle non
avrebbe retto il peso dei cavalli da guerra, pertanto era necessario
adeguarsi alle modalità di combattimento dei Samogizi: imboscate,
piccoli scontri, rapide ritirate. Più danni possibile nel minor
tempo possibile, con la differenza che laddove le fattorie non
potevano essere né abbandonate né spostate, i pagani avevano tutta
la foresta e tutte le paludi a loro disposizione, ed erano in grado
di far sorgere o scomparire rifugi sicuri nel breve arco di una
notte.
“Quindi
resteremo qui di guardia?” chiese.
Fratello
Ulrich annuì serio. “È il nostro dovere.”
“Per
quanto tempo?”
“Per
tutto il tempo che sarà necessario.”
Il
sole stava scomparendo dietro le alture quando cominciarono a suonare
i tamburi di guerra. Sulle colline che circondavano i campi, già
nere nella luce che andava scemando, comparivano e scomparivano dei
bagliori, e roche grida si soprapponevano a un rullare cupo e
monotono, che sembrava far tremare la terra stessa.
Reinhardt
fece girare lo sguardo tutt'intorno. Con il manto bianco sulle
spalle, nel crepuscolo i confratelli sembravano fantasmi; la fattoria
era una silente sagoma scura contro il cielo color indaco.
“Attaccheranno?”
chiese.
Fratello
Ulrich fissò a sua volta le alture, quindi rispose: “Non è detto,
può anche darsi che vadano avanti così tutta la notte per
snervarci. Poi magari attaccheranno all'alba, o non attaccheranno
affatto e domani sera ricominceranno con i tamburi e le urla.”
Scosse la testa con un sospiro. “Questa gente è imprevedibile.”
Di
nuovo Reinhardt fece girare lo sguardo sulla mole sinistra delle
colline. “Non potremmo andare a cercarli?” propose.
“Col
buio, in mezzo agli alberi? Impossibile. L'importante è mantenere la
calma, i pagani non si avvicineranno se noi siamo qui.” Fece una
pausa, quindi in tono vagamente rassicurante soggiunse: “E lo sanno
che siamo qui, i manti bianchi li vedono anche al buio.”
L'altro
si limitò ad annuire, ma più passava il tempo, più si faceva
strada in lui la consapevolezza che le cose non fossero affatto come
le descriveva fratello Ulrich. Proprio dietro la casa c'erano le
pendici di una collina, ed era da lì che provenivano i clamori più
forti. I suoni erano sfrontati, incalzanti, carichi di una ferocia
primordiale. Come già aveva notato in occasione della battaglia
campale di pochi mesi prima, sembrava la voce della terra stessa,
degli alberi, dei torrenti che rombando si riversavano a valle.
Passarono
le ore, e mentre la notte avanzava e si faceva più cupa e fredda, il
suono dei tamburi, sempre più intenso e profondo, continuava a far
vibrare l’aria e il suolo.
A
un tratto, a Reinhardt parve di vedere nuovi e più vividi bagliori
brillare nel fianco nero della collina.
“Ulrich...”
cominciò, ma non fece in tempo a finire la frase. L'oscurità fu
squarciata da un improvviso fulgore aranciato e quella che sembrava
un'enorme palla di fuoco scese rimbalzando lungo le pendici della
collina.
“Balle
di paglia incendiate!” udì gridare alle sue spalle.
Il
globo fiammeggiante nel frattempo aveva raggiunto la casa. Si abbatté
sul tetto e vi appiccò il fuoco, che prese ad ardere con violenza.
Assieme a quello della paglia bruciata, nell'aria c'era odore di
resina e catrame.
Si
udirono qua e là dei richiami, il nitrito di qualche cavallo.
Reinhardt vide passare un confratello già in sella. “Che cosa
succede?” esclamò.
“Un'imboscata!”
rispose qualcuno.
Altre
palle di fuoco arrivarono, rimbalzando lungo le pendici della
collina. Un covone di fieno si incendiò e prese ad ardere come una
torcia.
Nella
luce sanguigna, Reinhardt vide fratello Ulrich montare in groppa al
destriero. “Indietro!” lo sentì urlare, “state indietro!”
Passò
fratello Friedrich a cavallo. L'animale fu colpito in pieno da una
balla incendiata, la gualdrappa prese fuoco ed esso si impennò pazzo
di terrore, nitrendo e schiumando, per poi lanciarsi in un galoppo
sfrenato. Più correva, più ovviamente il fuoco prendeva vigore, e a
nulla valevano i tentativi del cavaliere di ricondurlo
all'obbedienza.
Sotto
lo sguardo inorridito di Reinhardt il confratello, impotente ad
aiutare l'animale, si lasciò cadere di sella. Il destriero fuggì
nitrendo fino a che non venne inghiottito dal buio.
La
voce di Ulrich lo riscosse: “Indietro!”
Abbandonarono
la fattoria, che ormai ardeva a fiamma chiara illuminando quasi a
giorno i dintorni, e per sottrarsi ai proiettili incendiati
arretrarono verso una spianata ancora coperta delle ultime nevi.
Appena
fuori dalla zona battuta, Reinhardt sentì il cavallo affondare nella
mota fino ai nodelli. “Ulrich!” esclamò preoccupato. Ragionò in
un lampo che quella grande spianata fra le colline era come un catino
naturale, che accoglieva tutta l'acqua di disgelo proveniente dalle
alture.
“Non
ti fermare!” gli raccomandò l'altro. Una balla incendiata passò
fra loro spargendo nugoli di scintille, quindi scomparve alle loro
spalle ed esaurì la propria corsa sfrigolando in una pozza fangosa.
“Ulrich,
ci stanno spingendo nel pantano!”
“O
questo o bruciare vivi, scegli tu!”
Le
urla di guerra si fecero incalzanti mentre le scie di fuoco delle
frecce incendiarie tagliavano l'oscurità. Un cavallo emise un
nitrito di dolore, qualcuno imprecò. I cavalieri arretrarono
ulteriormente, piantandosi man mano in un acquitrino che sembrava non
avere fondo. Impastate di fango, le gualdrappe si avviluppavano
intorno alle zampe dei cavalli, si impigliavano nei rami morti
impedendo loro ulteriormente i movimenti.
Una
salva di frecce passò sibilando. Si udì un grido di dolore, e
subito dopo il rumore di un corpo che cadeva. Un cavallo nitrì, si
udì il risucchio acquoso delle zampe che frenetiche cercavano di
liberasi dal pantano.
Così
come erano cominciati, i clamori cessarono bruscamente e nel buio non
si udirono altro che il tintinnio lieve delle cotte di maglia e lo
stronfiare di qualche destriero nervoso.
La
sensazione non era quella di solitudine, tuttavia. Vi era anzi
l'angosciosa consapevolezza che tutt'intorno vi fossero presenze
silenti ma attente, malevole, che non staccavano loro gli occhi di
dosso.
“Chi
è caduto?” chiese una voce nel buio.
“Zitto!”
intervenne brusca una seconda voce.
Un
cavallo emise un basso nitrito, si udì il pesticciare degli zoccoli
nella mota. Nell'oscurità appena rischiarata da qualche stella, si
udì la domanda: “Dove sono?”
Come
in risposta a essa, un dardo sibilò. Si udì un urlo di dolore.
“Fratello
Siegfried!” esclamò Ulrich. “Sei ferito?”
Ma
la risposta non fece in tempo a giungere, perché una nuova salva di
frecce li investì. Si udirono urla di dolore, un cavallo rovinò a
terra con un lungo gemito. Gli altri arretrarono, affondando
ulteriormente nel fango.
Reinhardt
vide una sagoma bianca arrancare, percepì il tinnire di una cotta di
maglia. “Qui, aggrappati al mio cavallo,” disse, senza nemmeno
sapere chi fosse il cavaliere che era rimasto appiedato.
“Grazie,”
ansò fratello Waldemar.
“Dov'è
Siegfried?”
“Non
lo so, non si vede niente.” Poi, dopo una pausa: “Non so come
facciano a vedere, quei pagani senza Dio.”
“Vedono
i mantelli bianchi,” replicò Reinhardt. Spronò il cavallo, che
prese ad avanzare faticosamente, con le zampe piantate nel pantano.
Al suo fianco, aggrappato all'arcione, Waldemar faceva del suo meglio
per non inciampare. “Quei maledetti non si avvicinano,” ringhiò,
“se ne stanno al sicuro e intanto ci massacrano di frecce.”
Arrivarono
altri proietti. D'un tratto, una fitta atroce strappò a Reinhardt un
gemito di dolore e lo obbligò ad accasciarsi sulla sella.
“Che
succede?” chiese preoccupato fratello Waldemar, ma il più giovane
non riusciva nemmeno a raccogliere il fiato sufficiente per
rispondergli. Si aggrappò alla criniera del cavallo mentre i clamori
della battaglia si trasformavano lentamente in un rombo indistinto,
come suoni percepiti attraverso l'acqua. Aveva la sensazione che nel
fianco gli fosse entrata una sbarra incandescente, che ad ogni
movimento gli straziava maggiormente le carni.
“Reinhardt!”
Il
cavaliere si riscosse a fatica, accorgendosi di avere una mano
serrata sull'arcione con tale forza che tutto il braccio gli si era
intorpidito.
“Reinhardt,
rispondi!”
Sentì
che il cavallo si stava muovendo. Ancora una volta cercò di
raccogliere il fiato per dire qualcosa, ma il dolore gli impediva
qualsiasi movimento. Nell'aria c'era odore di limo, sangue e sudore
di cavallo. Voci e nitriti risuonavano ovunque, ma gli arrivavano
stranamente ovattati...
Reinhardt
sbatté gli occhi. Cercò di deglutire, ma aveva la gola talmente
secca che gli sembrava di aver inghiottito un pugno di sabbia.
Tutt'intorno
c'era un vago chiarore, più vivido a oriente. La superficie della
palude, costellata di erbe e alberi morti, era coperta da uno strato
di nebbia che pur nella scarsa luce sembrava emanare una debole
fosforescenza. Si udivano solo gli innumerevoli rumori delle creature
selvatiche: frinire, gracidare, il lontano lamento di un gufo.
“Che
cosa...” mormorò con voce appena percettibile.
“Non
parlare, hai una freccia nel fianco.”
“Io...”
“Zitto.
È già un miracolo che tu non sia caduto dal cavallo.” Ci fu una
pausa, poi fratello Waldemar proseguì: “Se tu fossi caduto, adesso
saresti morto.”
“Non
che questo rischio sia scongiurato,” intervenne qualcun altro in
tono cupo.
A
Reinhardt parve di riconoscere la voce. “Ulrich?” mormorò.
“Dà
retta a Waldemar, non parlare,” fu la risposta, ma Reinhardt
insisté: “Dove siamo?”
“Nel
mezzo di questo schifoso pantano,” brontolò Ulrich. “Abbiamo
perso parecchia gente, ammazzati dai pagani o affogati, e molti altri
sono feriti o hanno perso i cavalli. Quelli là stanno aspettando che
crolliamo dalla fatica per venire a finirci.”
Reinhardt
si guardò intorno: a perdita d’occhio, solo una pianura costellata
di piante marcescenti. Al suolo vi era un fango tenace, gelido, che
sembrava avvinghiarsi alle zampe dei cavalli come se avesse voluto
risucchiare le bestie fino al centro della terra. Per quanto lo
sguardo poteva spaziare, non si vedeva nulla che suggerisse una
presenza umana: né case, né strade, né campi coltivati.
“Dove
siamo?” ripeté a fatica.
“All’inferno,”
brontolò fratello Siegfried. È tutta la notte che quegli schifosi
ci spingono verso l'interno della palude.” Fece una pausa che
utilizzò per far scorrere lo sguardo sulla desolazione che li
circondava, quindi soggiunse: “Mi chiedo cosa aspettino a finirci.”
“A
tentare
di finirci,” lo corresse fratello Ulrich.
Come
in risposta a quella muta domanda, in lontananza cominciarono a
rullare i tamburi di guerra.
I
cavalieri si scambiarono muti sguardi. Nessuno di loro ormai era
illeso, alcuni procedevano a piedi, arrancando in un'acqua fangosa
che nel migliore dei casi arrivava fin sopra il ginocchio. Presto si
sarebbero trovati per l'ennesima volta a far da bersaglio a frecce
scagliate da lontano, senza neppure la possibilità di difendersi.
“E
sapete cosa succede a chi viene preso vivo,” disse fratello
Waldemar in tono ammonitore.
La
frase fu seguita da un consapevole silenzio.
Cominciarono
i canti di guerra, anche se nella nebbia non si vedeva ancora
nessuno.
Reinhardt
strinse gli occhi, cercando di mantenere una lucidità che sempre più
si ostinava a sfuggirgli. Il dolore al fianco era un pulsare sordo,
aveva freddo e si sentiva la gola in fiamme. Vide una figura esile
uscire dalla nebbia e muoversi sicura nella loro direzione. Un raggio
del sole nascente la illuminò, facendo brillare una zazzera
scomposta di capelli biondi, ed egli ebbe di colpo l’impressione di
trovarsi sotto la cupola di San Marco, con i mosaici d’oro che
brillavano così tanto da fargli male agli occhi.
Si
passò una mano sulla fronte, vacillò e sentì qualcuno afferrarlo.
Fratello Ulrich disse: “È il ragazzo del mantello. Guarda, ce l'ha
ancora addosso.”
“Non
fategli del male,” riuscì a balbettare Reinhardt, con una voce
così fioca che quasi si perse nel rullo incalzante dei tamburi.
Il
ragazzo si fermò di fronte a lui. Gli rivolse un lungo sguardo
carico di consapevolezza, quindi allungò una mano e prese le redini
del suo destriero. “Cavallo… vieni,” disse in tono gentile.
“Vieni. Io ti aiuto.”
L’esausto
animale, spaventato, schiumante, incrostato di fango da capo a piedi,
sotto la sua sollecitazione mosse un cauto passo.
“Vieni,”
ripeté il ragazzo.
Aggrappato
all’arcione, Reinhardt sussultava di dolore ogni volta che il
ragazzo convinceva il suo cavallo a fare un passo. Dopo i primi
attimi aveva dovuto smettere di guardarlo, perché i raggi del sole
sui suoi capelli trasfiguravano nell’oro dei mosaici di San Marco e
la cosa lo disorientava così tanto da dargli una specie di
vertigine.
Abbassò
lo sguardo sul proprio fianco, nel quale era ancora conficcata la
freccia. Strinse gli occhi mentre l’immagine perdeva nitidezza e
udì la voce del ragazzo che premurosamente gli assicurava: “Presto
siamo arrivati.”
La
frase suonò come un presagio. Presto sarebbe morto? Guardò intorno
a sé: annebbiati, vaghi come fantasmi, c'erano i suoi confratelli.
Si chiese se fossero già ombre, se quello che stava conducendo il
suo cavallo per le redini fosse il Curo cui aveva donato il mantello
o magari qualche Santo, uscito dal paradiso per accompagnarlo nel suo
ultimo viaggio.
“Sia
lodato Dio!” disse a un tratto qualcuno al suo fianco. Reinhardt si
riscosse appena dal torpore in cui era scivolato e si accorse che era
ricomparso il rumore degli zoccoli sul terreno solido.
Quel
suono, così familiare, rassicurante, gli trasmise una sensazione di
calore che quasi riuscì ad alleviare il gelo profondo che lo
attanagliava.
“È
bello,” mormorò.
Qualcuno,
forse fratello Ulrich, gli chiese: “Che cosa è bello, Reinhardt?”
“Questo
posto... ” Poi il buio
l'avvolse.
✠
L'ultima
neve si era sciolta da poco, le betulle cominciavano a mettere le
foglie. Dopo la luce cupa dell'inverno, che aveva stemperato ogni
colore in un soffuso alternarsi di grigio e bianco, il sole
primaverile conferiva al castello di Segewold un nitore adamantino.
La
fortezza si ergeva superba; investite dai raggi dorati, le bandiere
dell'Ordine splendevano come metallo polito.
Fratello
Reinhardt tirò le redini e per un po' rimase a contemplarla assorto,
mentre un refolo di vento gli agitava appena le falde del mantello e
scompigliava la criniera corvina del suo destriero.
Fratello
Ulrich lo raggiunse. “Perché ti sei fermato?” gli chiese. Si
guardò intorno con l'aria di cercare eventuali ostacoli.
Il
primo alzò le spalle. Inspirò a occhi socchiusi, ancora una volta
riconoscendo e catalogando tutti gli odori di cui l'aria della
Livonia era carica: resina, boschi, un lontano sentore di fumo di
legna, l'aroma dolce del miele. Ferro e cuoio ingrassato.
Di
nuovo fissò il castello, e i mosaici d'oro di Venezia gli parvero
pacchiana ostentazione, paragonati al marziale rigore di quel
poderoso edificio.
“Guardavo,”
rispose semplicemente, quindi mise il cavallo al passo e si diresse
verso il ponte di legno che conduceva alla porta.
Lo
superò beandosi del rumore sordo e ritmico degli zoccoli sul rovere,
attraversò il barbacane ed entrò nel cortile.
Un
ragazzo gli corse incontro con tale impeto che il suo nervoso
destriero mise lo orecchie indietro e arretrò di un paio di passi,
rischiando di finire contro quello di fratello Ulrich.
“Sta'
attento,” gli raccomandò questi, facendo spostare di lato il
proprio cavallo.
Reinhardt
smontò di sella. “Non così in fretta, Martin,” disse in tono di
affettuoso rimprovero, “quante volte te lo devo ripetere?”
Il
ragazzo assunse un'espressione contrita. “Scusa, signore,” disse,
ma un attimo dopo la sua attenzione era nuovamente rivolta al
destriero.
Reinhardt
scosse appena la testa. Gli consegnò le redini e gli disse: “Dagli
da mangiare e striglialo bene.”
L'altro
sorrise come se il cavaliere gli avesse appena proposto di fare la
cosa più bella del mondo. “Sì, signore!” esclamò felice, poi
si allontanò rapido, conducendo con sé il cavallo.
Al
fianco del confratello, Ulrich lanciò un'occhiata al ragazzo, che
camminava a passo svelto parlando sommessamente al destriero, e
disse: “Un po' più in carne, con i capelli corti e vestito come un
cristiano quasi non si riconosce.”
Reinhardt
pensò alla prima volta che l'aveva visto: un ragnetto sparuto, con
gli occhi enormi e le giunture troppo grosse per le sue membra
sottili. “Adesso sta bene,” rispose.
Ulrich
di nuovo lo fissò fugace, poi chiese: “Ha rinunciato ai suoi
idoli?”
Fratello
Reinhardt alzò le spalle. “Non credo. Forse lo farà col tempo. Si
è lasciato battezzare, questo sì, ma più che altro per fare un
piacere a me.” Sorrise scuotendo appena la testa. “In quanto al
resto, credo continui a venerare il mio cavallo.”
“Se
non altro, ha buon occhio.”
I
due cavalieri si incamminarono fianco a fianco, i mantelli bianchi
che ondeggiavano appena, le cotte di maglia che tinnivano lievi.
Nel
cortile di Segewold ferveva l'attività: un fabbro stava battendo un
pezzo di metallo incandescente sull'incudine, e a ogni colpo nugoli
di scintille schizzavano via e finivano a rimbalzare sul selciato. Il
sellaio stava cucendo dei finimenti, una lunga fila di mezzi fratelli
stava portando sacchi ricolmi nel granaio. Dappertutto ordine,
pulizia, disciplina.
Intravidero
il ragazzo che strigliava con impegno il morello: cantava una canzone
nella sua lingua e di tanto in tanto si interrompeva per dire
qualcosa all'animale. Quando si accorse di loro alzò il braccio in
un gesto di saluto, poi tornò con entusiasmo al lavoro.
“Sai,”
disse fratello Ulrich con un sorriso, “io credo che in fondo San
Martino di Livonia un miracolo l'abbia compiuto davvero: far capire a
un pagano il valore di ciò che stiamo portando in questa terra.”
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3849359
|