Gabbiano

di atsogaovlas
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sospiri ***
Capitolo 2: *** Domande ***
Capitolo 3: *** Rivelazione ***



Capitolo 1
*** Sospiri ***


Tirai una lunga boccata dalla sigaretta, e pensai a come il mio fiato si era ridotto nel corso del tempo, al fumo che impregnava i miei polmoni di catrame e a come respiravo, a mio dire, poco e niente.
Era da una settimana che non uscivo di casa, stavo male e stavo lentamente finendo nella spirale di ansia, depressione, xanax e tabacco in cui mi infilavo quando qualcosa mi turbava. Cercavo terribilmente qualcosa che mi distraesse dal filo dei miei pensieri ma sembrava non riuscissi a trovare nulla. Tirai un altra boccata e diedi un occhiata al telefono, non c'erano novità. Lo guardavo costantemente per controllare se Anna avesse cambiato immagine profilo e se quest'ultima potesse darmi informazioni sul suo stato d'animo o su quello che volesse. Di tanto in tanto controllavo pure se avesse risposto al lungo monologo con la quale risposi quando decise di lasciarmi, controllavo nonostante sapevo di averla bloccata subito dopo, speravo quasi di non averlo fatto, ma era troppo tardi per tornare indietro. Il fatto che non ci fossero novità al telefono – adesso aveva caricato un altra delle sue immagini enigmatiche che ti facevano capire solo che non stava bene, ma nient'altro – mi incupì ancora di più. La testa mi stava esplodendo e l'influenza sembrava non lasciarmi in pace.

“E' assurdo che io mi sia ridotto così – pensai – alla fine è evidente che non stavamo bene insieme.”

E d'altro canto era così, no? Insomma, se una storia finisce lo fa per un motivo, c'è sempre un motivo. Finisce perchè si è diversi: si hanno visioni differenti della vita, delle cose che compongono il mondo. La poltiica, società, famiglia o magari si hanno semplicemente idee differenti sull'amore e sugli affetti, sul modo in cui ci si dovrebbe comportare gli uni con gli altri, insomma, c'è sempre un buon motivo, che è meglio accettare anziché tentare a tutti i costi di sistemare le cose. Ma accettare le cose  - o per meglio dire, anche solo capirle - non era da me.

Spensi la sigaretta nel posacenere e mi guardai attorno.

Niente aveva un senso. La casa in cui vivevo, non era altro che un vecchio ufficio di mio nonno, adibito ad abitazione da mio padre quando ero più piccolo, per evitarci continui trasferimenti da un quartiere all'altro della città. Nella sua struttura era disordinata e spesso mi dava un senso di povertà opprimente che poteva solo essere alleviato dall'accettazione di vivere lì adesso, ma non per sempre.
Osservai le cose sulla mia scrivania, aldilà di tutta l'immondizia sparsa di qua e di là: -pacchi di tabacco e vecchi pacchi di cartine o di filtri oramai vuoti, la mia sigaretta elttronica con del liquido stagnante dentro, bottiglie di profumo e di acqua vuote, fogli con scarabocchi sui diversi workout che ho fatto il mese precedente – c'era un letto di tabacco dappertutto. Quando il mio sguardo si posò sui pavimenti e sulle mura, non potei fare a meno di notare come il vizio del fumo mi avesse fatto inondare di cenere i primi e di ingiallire i secondi. La polvere dominava incontrastata e qua e là erano sparse buste di plastica piene di cicche di sigarette, ma nonostante ciò, il mio posacenere strabordava. Era tutto sporco e, in questo momento, non avevo voglia di pulire. Non avevo voglia fare nulla.

Tirai un profondo sospiro.

Era oramai da qualche mese che cercavo di sistemarmi: mi ero iscritto in palestra, le visite con la psichiatra andavano meglio e lo xanax non era più un obbligo così come la paroxetina. Eppure sembrava tutto stesse andando a puttane e tutto quello su cui avevo mantenuto così faticosamente il controllo mi stesse scivolando dalle mani lentamente come a ricordarmi che alla fine in realtà, quella sensazione di riprendersi stava facendo posto a quella che sembrava essere la mia costante. Stare male. Il gioco era finito, l'essere positivo era finito, e lo aveva fatto bruscamente, come quando ci si sveglia da un bel sogno e all'improvviso si viene trascinati nella realtà degli eventi, dove tutto e difficile e niente va come si vuole al primo colpo, anzi, mai.

Pensai ad Anna, perchè mi aveva lasciato? Mi guardai attorno e, lentamente, tirai un altro profondo sospiro.

Avevo smesso di fumare e adesso fumavo di nuovo, avevo incominciato ad allenarmi e adesso non avevo neanche voglia di smuovere un muscolo, avevo incominciato ad essere sensibile verso le necessità e i bisogni e l'affetto di cui io e gli altri necessitavamo e adesso, improvvisamente, sentivo che tutto quello che ero stato si stava spegnendo e stava morendo così come era morta la mia relazione. Tutto incominciava a vorticare fuori controllo in una spirale che mi conduceva dritto dentro un profondo abisso, un abisso tetro che avevo già vissuto troppe volte. E al centro di questo abisso si trovava lei, Anna, e i suoi ricci meravigliosi. E più tutta la mia vita vorticava, più tutto sprofondava, più lei sembrava apparire distante e sparire lentamente come uno spettro lasciando il posto a quello che ero stato e che non volevo essere più. Tutto d'un tratto il posto in cui lei si trovava nella mia mente, si trovò vuoto e questo vuoto lo sentivo in testa, nel petto e sembrava che l'unica cosa che riuscisse a fermarlo fosse essere triste, fumare, e assumere xanax. La rabbia incominciò a ribollirmi nelle vene: “Che egoista di merda! - esclamai a voce alta – lo sapeva già da tempo che non voleva stare con me, se no che senso avrebbe avuto prendersela tanto per una cosa così? Uscire decine di vecchi litigi per cosa? Accusarmi di negligenza e menefreghismo quando non ho fatto altro che starle accanto tutto il tempo? Egoista di merda!”

Ed era vero. Era stata egoista. Era stata egoista e io l'amavo comunque. Era da undici mesi che non facevamo l'amore e dovevo stare estremamente attento ai suoi bisogni emotivi, che mi maltrattavo da solo come un cane per come l'avevo fatta stare, che mi chiedevo cosa potessi fare per riparare a tutto quanto, che mi sentivo dire da lei: “Non so come mi stento” , “Sto male”, “Non mi sento bene”, lei, lei, lei, LEI! Non si parlava altro che di lei e solo di lei, non avevo mai avuto delle scuse per ciò che mi feriva ma a lei le si dovevano, lei e i suoi fottuti bisogni. Esisteva solo lei, mi ero auto-annientato per farle spazio, eppure la amavo ancora. La amavo ancora e avevo fatto tutto quello che potevo, ma non aveva importanza, mi aveva lasciato comunque. Mi aveva lasciato nonostante le scuse, nonostante gli spazi, nonostante tutta la fatica che posi per salvare il nostro rapporto, mi aveva lasciato seppure avessi tentato il mio meglio, che a quanto pareva, non era mai stato abbastanza.

La testa mi scoppiava e sentii il sangue pulsare nelle tempie. Presi tre pasticche di xanax e me le schiaffai in gola. Le mani mi tremavano e non riuscivo a distinguere più la mia tristezza dalla mia rabbia. "Finalmente un emozione che conosco" dissi, rassegnato.
Fissai il muro coi miei e i suoi disegni. Erano ancora lì, appesi. Quasi a ricordarmi cosa si fosse perso. Sbeffeggiavano me e le mie emozioni.
Ma lentamente, col passare del tempo, tutto prese calore.
Tutto sembrava chiaro e semplice. Non per questo era meno schifoso, ma andava bene comunque e io, dovevo fare solo quello che potevo fare, dovevo impegnarmi per stare meglio. "Andrà meglio, si..." spostai la mano e mi sembrava pesasse trecento chili. Ero strafatto. Mi sentivo stanco come avessi corso la maratona di New York, quindi andai nella stanza di mio padre e mi buttai sul materassone king size, il materasso sembrava quasi avvolgermi. Mi buttai la coperta addosso e aprì Netflix sullo smartphone, misi Bojack Horseman. Volevo fumare una sigaretta, ma dimenticai il tabacco nella mia camera, così me ne restai lì, infreddolito, influenzato e completamente rilassato, sentendo quasi il mio corpo squagliarsi sul materasso. Pensai ad Anna, alle sue piccole mani, ai suoi ricci e al profumo che faceva, un profumo che mi faceva sentire a casa ovunque fossi. Immaginai di mettere il mio viso sul suo collo caldo, come facevo quando ci abbracciavamo a letto e improvvisamente mi sentì bene. La baciai con la mente ancora una volta, promettendomi che sarebbe stata l'ultima. "Ti amo ancora , per oggi":

 

Tirai un profondo sospiro e dormì un sonno senza sogni.

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Capitolo 2
*** Domande ***


Domande La mattina seguente uscì di casa presto, faceva freddo e c'era molta umidità. Questo dava quella fastidiosa sensazione di stare quasi svestiti, poiché il freddo si attaccava e trapassava qualunque capo uno si mettesse addosso, rendendo  quasi inutile l'atto di coprirsi. Guardai il cielo e c'era un sole raggiante. Dal fabbro vicino casa venivano rumori fastidiosi di flex e martellate. Fissai per un attimo il cielo, era di un blu terso ed era stupendo. Era bello poter guardare il cielo e non sentirmi sconvolto dall'agorafobia e dalla vastità delle cose. Tiravo su col naso perchè ero ancora influenzato così mi ero assicurato di portarmi dei fazzolettini. Ripensai ad Anna ed ero nervoso: dovevo incontrare la mia psichiatra di lì a poco e non sarebbe stato semplice, non lo era mai confrontarmi con me stesso, specie ora. Sentii vibrare il telefono in tasca, era mia madre:

"Pronto?"
"Ciao tesoro, come stai?"
"Bene Ma, sto qui che mi sono vestito, sono un pò rincoglionito stamattina, adesso sto andando dalla dottoressa..."
"Ah, bene." seguii un attimo di silenzio
"Tu come stai, Ma?"
"Sto bene, vado al lavoro, oggi dovrei tornare a casa prima..."
"Mh, bene. Lavori troppo."
"Già. Hai controllato quella storia del concorso dei vigili urbani qui a Varese? Potrebbe essere una buona occasione per.."
Cristo, perchè continua ad assillarmi con questa storia?
"Ah si Ma, devo farlo, sicuramente manderò la domanda" dissi velocemente
"Eh si Sà, qualcosa devi fare alla fine, ti devi muovere..."
Cristo, ci risiamo
"Senti Ma, hai ragione, adesso vedo cosa posso fare appena torno a casa. Non so neanche se vale la pena farlo, devo anche vedere se papà ha intenzione di chiudere quella roba in Francia se no mi sa che vado lì."
"Mh, si capisco ma la domanda puoi farla lo stesso intanto."
Sbuffai - "Va bene, quando torno a casa"
"Okay, allora stai andando adesso dalla dottoressa?"
"Si sono quasi arrivato, stacco che vado dentro, ciao Ma"
"Ciao Tesoro"

Tesoro... mi mancava mia madre.

Arrivai davanti all'edificio, si trovava poco distante da casa mia, era come un grosso blocco color giallo canarino scolorito. Un blocco dove ero "costretto" ad andare ogni mese, una volta al mese se ero fortunato. Entrai, e improvvisamente, al contrario dell'aspetto piuttosto anonimo che aveva all'esterno, al suo interno si capiva immediatamente che ci si trovava in una struttura appartenente alla sanità pubblica:
pavimenti con piastrelle ampie e bianche, muri per metà superiore bianchi ed inferiori quasi di un verde smeraldo, anch'esso sbiadito malissimo. Le luci al neon ronzavano sulla mia testa. E c'era odore di alcool e disinfettanti. Percorsi il corridoio per andare dove si trovavano gli psichiatri e gli psicologi, al muro si trovavano un sacco di fotografie di uno dei pazienti - un omone grosso come una montagna ma dall'aria simpatica - con in mano la sua collezione di farfalle. In tutte le foto. Ne guardai meglio una dove teneva in mano una teca con una farfalla grande quanto la mia testa. Sentì le zampette di quella cosa sulle mie spalle, le sue ali grandi e delicate come carta svolazzarmi intorno emettendo come un fruscio... rabbrividii.
Cristo Santo, che razza di hobby inquietante.
Ero sempre stato impaurito dagli insetti, ma la cosa era peggiorata da quando avevo incominciato a star male, qualche anno addietro. Era diventato qualcosa di ridicolo e derisibile. Come tutte le cose che mi mettevano inquietudine e che prima, invece, erano solo cose...normali.

Arrivato in sala d'attesa trovai l'omone delle farfalle, giocherellava con una palla pazza, di tanto in tanto, usava uno yo-yo. Non parlava mai e si limitava ai convenevoli. Ma quando mi guardò, non disse nulla. Non gli dissi nulla neanche io ed entrai nell'anticamera dell'ufficio dove riceveva la mia dottoressa.

"Salve, avrei appuntamento con la dottoressa Giurdo, era per le undici ma penso di essere in anticipo." Come sempre.
Uno degli impiegati - erano tre! Non due, tre! Tre persone per fare segreteria in un ambulatorio piccolissimo?! - mi guardò da sopra i suoi occhiali con l'aria di chi era stato interrotto durante il suo cruciverba preferito.
"Ah si, si..." fece
dall'altra parte della stanza, in un angolo che non potevo vedere il suo collega fece "Antò lo vuoi il caffé, te lo preparo?"
l'infastidito fece cenno di si, poi si rivolse a me e con un tono che sembrava un misto tra la noia e la scocciatura fece:
"Siediti in sala d'attesta, a breve ti riceve"
Benvenuti nel sistema sanitario nazionale, dove nessuno vuol fare niente e sono in tre per fare le cose che può fare una persona sola, Cristo santo
Mi sedetti e aspettai. Fumai un paio di sigarette fuori, in una zona all'aperto che si trovava attaccata alla sala d'attesa, poi l'infastidito venne e mi disse che era il mio turno di entrare, mi attaccai frettolosamente i capelli - che stavo lasciando allungare da quando io e Anna stavamo ancora insieme, a lei piacevano i capelli lunghi negli uomini,così come piaceva a me portarli - con il codino che avevo rubato ad Anna quando era qui con me, prima di risalire a Chieti. Anna... un tonfo al cuore. Improvvisamente mi trovai a pensare di nuovo a lei e al suo dannato codino, ai suoi capelli, al suo viso... Anna mi aveva lasciato, mi aveva lasciato nonostante tutti i miei sforzi.

"Hey tu! La dottoressa ti riceve!"
"Oh, si mi scusi."

Mi avviai ed entrai, chiusi la porta e la dottoressa era lì, seduta, bella come sempre. Era una bellissima donna  e molto professionale, il che la rendeva ancora più bella.
I suoi occhi neri mi scrutarono e mi sentii a disagio, sebbene cercassi sempre, quando mi sedevo, di mantenere la posizione del mio corpo molto rilassata.

"Buongiorno!
Ma lei è sempre più alto, ma come fa?" fece sorridendo per poi aggiungere "Qual'è il suo segreto?"
Era chiaro che volesse mettermi a mio agio, era chiaro che invece queste cose facevano l'esatto opposto. Ero negato per questo tipo di convenevoli.
"Ehh!! - esclamai per prendere tempo, cercando di farmi venire qualcosa di simpatico in mente - i miei mi hanno messo a mollo i piedi da bambino, e come le piante sono "sparato" in alto"
Cristo, che figura di merda, perchè non mi viene niente di decente?
Rise e per circostanza risi anche io, poi mi guardò e disse: "Come andiamo?"
Feci una smorfia.
"Non so cosa risponderle perch-"
"Aspetta - mi interruppe - prima fisicamente, come stai fisicamente?"
"Sto bene - ripensai ai miei polmoni - sto bene tutto sommato, mangio regolare, ogni tanto dormo male e mi sento molto stanco, ma penso di star bene ."
"Ottimo,stanco per cosa? I farmaci? Li hai presi o hai continuato a non prenderli? Ultimamente stavi meglio e abbiamo interrotto la paroxetina, hai avuto altri attacchi di panico?"
"No, no. Nessun attacco, sento solo molta ansia. Forse la stanchezza è dovuta agli orari sballati in cui vado a letto. -era così? Mi sentivo perennemente stanco...era solo una questione di dormire bene e meglio? Non dissi nient'altro al riguardo - Ho preso dello xanax nell'ultimo mese, in tutto sarà stato cinque o sei volte."
"Ne sentiva il bisogno?"
"Più come rinforzo, per darmi forza quando avevo paura che tutto crollasse"
"Capisco... e con la palestra come va, si sta ancora allenando?"
"Si, beh, non vado più in palestra, mi alleno a casa oramai, ho comprato anche qualche attrezzo, mi sto appassionando al calisthenics, grazie ad un amico"
"Mh, andare in palestra era anche un occasione per non stare a casa"
E' vero, lo era, ed era tremendamente importante.
"Si ma non mi piaceva l'ambiente"
"Capisco, per il resto? Come si sente? Con Anna come va?"
Anna...
"Sto bene, si insomma, sto veramente bene. Anna è stata qui e siamo stati insieme anche se ha un sacco di problemi suoi e cose sue e sembra che più io faccia per entrambi, più io sbagli qualcosa, non riusciamo a smettere di litigare, oramai litighiamo...litigavamo quasi una volta al mese e adesso lei è partita e..." e mi ha lasciato, mi ha lasciato perchè dice che sono menefreghista e che non ce la fa più e ha accumulato troppe cose dentro che non riesce più a controllare, che non riesce a controllare perchè la verità è che lei ha i suoi problemi irrisolti che la dominano e mi ha lasciato per questo  "...e abbiamo deciso di interrompere il nostro rapporto. Forse è meglio così. Nel senso, sono triste e mi fa male, ma mi rendo conto che lei deve essere libera e che io non posso trattenerla."
Mi guardò per un attimo in silenzio. Poi disse:
"Come la fa sentire il fatto che abbiate rotto, cosa significa per lei questa rottura, come si sente al riguardo?"
"Come mi devo sentire? So solo che questa volta non posso di nuovo spuntare dal nulla e chiederle di riprovarci dopo un mese e mezzo."
"In che senso?"
"Nel senso che devo pensare a me e alla mia vita. Devo trovare il modo di risolvere le cose, le MIE cose. E' da undici mesi che non facevamo più l'amore e non trovavamo un punto d'incontro e io ce l'ho messa tutta. Mi ci sono fiondato a capofitto. Per undici mesi ho misurato tutto al millimetro e sono stanco."
La dottoressa si sistemò meglio sulla sedia. Feci la stessa cosa.
"Cosa le ha detto Anna? Quali erano le sue motivazioni per questa rottura?"
"Dice che ero menefreghista. Che non le davo le attenzioni che meritava."
"Ed è vero?"
"No. E mi fa incazzare."
"Beh, è comprensibile se ritiene di aver fatto tutto quanto possibile".
Perchè l'ho fatto, giusto? O no? E se avessi sbagliato tutto invece? Se fossi stato un completo disastro? Se ci fosse un altro modo che non ho ancora trovato che possa salvare il mio rapporto con lei?
"Immagino di si. Anche perchè mi sento vuoto, mi sento vuoto senza di lei." conclusi.
I suoi occhi neri continuavano a scrutarmi, piegò leggermente la testa verso sinistra, poi, unì le mani sul tavolo. Stava cercando di elaborare il punto, lo faceva sempre in questo modo.
"Da quando lei viene qui, ha fatto dei giganteschi passi avanti. Davvero. Ma continua a lanciarsi in situazioni disperate in cui prova in tutti i modi a salvare un rapporto morente oramai da quasi un anno. Non pensa che forse sarebbe meglio lasciar andare e basta? Semplicemente occuparsi di se stesso, trovare un lavoro, sistemarsi veramente e stare bene, stare bene davvero?"
"Ma io con lei stavo bene."
Ed era vero, anche quando Anna era lontano per l'Università, io stavo bene, se stavo con lei a scherzare al telefono. E quando lei era con me fisicamente, io non sentivo più il mondo pesarmi addosso come aveva sempre fatto da che io avessi memoria.
"Si ma con lei..." incalzò "...mentre lei deve stare bene già DA SOLO e poi con qualcun altro, ma solo dopo. Non potrà star bene con nessuno se si fa carico di ogni cosa per stare bene con qualcun altro, capisce? Non si può essere felici veramente se si è felici solo con qualcuno accanto. La felicità viene da sé prima di tutto. E poi si condivide con gli altri. Tutti i tentativi che lei ha fatto, li ha fatti prchè amava Anna e voleva vederla felice e magari voleva anche che fosse felice con lei, okay, ma non ha mai veramente cercato la SUA felicità. Comprende quello che le dico? Deve amare se stesso per poter amare qualcun altro incondizionatamente. Se no è solo un circolo vizioso in cui si spera che l'altro copra dei vuoti che noi abbiamo dentro. E fa stare male."
Netta, precisa, dritto al punto, come sempre.
"Si, me ne rendo conto."
Ed era vero, me ne rendevo conto, ma io speravo di poter salvare me ed Anna insieme, e non solo me o solo lei. E lei se n'era andata.
"Si ricordi di se stesso. Di stare bene, di non pensare ai fallimenti e di andare avanti con la speranza che andrà meglio se ci lavora su.
Per il resto, come va con la ricerca del lavoro?"


Quella sera, quando mi sdraiai sul letto e ripensai alla discussione con la dottoresa, ripensai al mio passato e pensai ad Anna. Pensai agli ultimi litigi che fummo costretti ad affrontare, ai rinfacci, alle discussioni senza fine in cui dire che ci si amava non bastava più e sembrava che ci fosse quasi un buco nero al centro di tutto che incominciava a risucchiare tutte le buone intenzioni per una risoluzione pacifica, per tornare ad amarsi come all'inzio, spensierati.
Presi il telefono e aprì la chat di Anna, guardai tutti i messaggi delle ultime due settimane, incoraggiamenti su incoraggiamenti per quell'esame che le pesava tanto e le metteva ansia perchè la teneva bloccata in un mondo di studi che non le piacevano, messaggi in cui le dicevo che mi mancava, che l'avrei chiamata più tardi, messaggi che io credevo servissero a rinforzare il concetto che tenevo a lei e che non volevo perderla, dove esprimevo il mio amore per lei con parole semplici di tutti i giorni. In cui le donavo delle attenzioni del tutto normali, che lei avrebbe rinfacciato come mancanze, quando invece volevo solo lasciarle i suoi spazi come mi aveva chiesto.

Non c'erano sms o chiamate. Posai il telefono sul comodino.
Mi sentivo sconfitto e il petto si strinse in una morsa come quasi l'uomo delle farfalle ci si fosse seduto sopra per impedirmi di respirare.
Il cuore si gonfiò di una strana sensazione e gli occhi diventarono lucidi. Promisi che non avrei pianto e non lo feci.
Stesi lì, a fissare il soffitto e cercare di capire qualcosa, qualcosa che era inafferabile per me, una domanda grande come il cielo, che vorticava su di me e cercava di risucchiarmi quando avevo un attacco agorafobico.

Perchè tutto questo?
Perchè?

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Capitolo 3
*** Rivelazione ***


Oltre alle domande che albergavano nella mia testa e ai colloqui per tentare di dissipare la mia ansia, probabilmente, una parte di me, continuava a porsi interrogativi anche nei sogni.

Dopo che Anna mi lasciò continuai a dormire poco e niente, spesso in preda a sogni malinconici o per lo più, incubi. A questi ultimi ero in realtà abituato, forgiato da anni di ansie lasciatemi graziosamente in regalo dai miei e dal loro comportamento irresponsabile – per carità non che fosse tutta colpa loro, ma probabilmente contribuirono tanto quanto contribuì tutto il resto delle mie esperienze personali passate – erano gli altri a causarmi qualche problema.

Anna appariva spesso nei miei sogni, a volte come una figura anonima e distante, intenta ad osservarmi mentre attorno a me si svolgevano incendi, mentre si rompevano i ghiacci e collassavano nell'oceano artico, mentre accadeva qualcosa di tremendamente irreparabile; in quei momenti, mi dava la sensazione che ciò che stesse accadendo, fosse colpa mia. Nel suo silenzio totale, ella sapeva come distruggermi, forse l'aveva sempre saputo, forse glielo avevo insengato io? I suoi occhi erano quasi vitrei e per quanto scuri fossero alle volte, in quella visione onirica diventavano incredibilmente oscuri e cupi. Sebbene dal suo volto non trasparisse nessuna emozione particolare, era proprio quell'apparente indiffrenza che trasmetteva al mio Io un potente senso di colpa, pesante come un macigno. Di tanto in tanto, correvo verso di lei intenzionato a salvarla, a dover fare il possibile per toglierla dalla momentanea apocalisse che stava accadendo intorno a me, ma il pavimento sotto i miei piedi cedeva, gli alberi in fiamme mi cadevano addosso come colonne di un tempio distrutto, i ghiacci mi seppellivano in una tremenda e fredda tomba.

 

Altre volte, invece, appariva la Anna di sempre, quella che avevo amato all'inverosimile e per la quale avevo sacrificato tempo e stima in me stesso, nel vano tentativo di salvare il nostro rapporto. In quei sogni, lei era diversa, era perpetua e vicina, emanava quasi calore, quel calore che solo certe cose e persone che sono familiari e intime possono dare. Anche in quei casi restava in silenzio, eppure mi sembrava di sentirla parlare e al tempo stesso paradossalmente volevo che restasse ferma lì, a fissarmi, muta, con lo sguardo addolcito di chi ha capito finalmente tutto, di chi ha capito che in amore non si vince e si perde da soli, ma sempre in due, e che per quanto tutti gli sforzi che facciamo ci sembrino inutili, alla fine, se si è insieme si può risolvere ogni cosa. Mi crogiolavo così nel forte desiderio di sentirle dire quello che volevo, ma al tempo stesso di non dire nulla per non spezzare l'incantesimo che avveniva solamente lì, negli istanti fuggevoli di quel momento esatto, di quel sogno, nel suo sguardo.

 

Purtroppo, dovevo svegliarmi prima o poi e a quel punto, era chiaro che la realtà era pronta a prendermi a schiaffi. Passai tra la disperazione circa Dicembre, Gennaio ed inizi di Febbraio. Quando non riuscivo a dormire, inghiottivo xanax e questo mi faceva dormire, ma un sonno sedato e quasi forzato.Tuttavia, non contento di come andavano le cose, ad ogni colloquio andava tutto bene e non avevo nessun tipo di problema. Ero pronto per una guarigione immediata. Nulla di più distante dalla realtà.

 

La mancanza di sonno e l'uso di xanax come fossero confetti mi fece sprofondare in una spirale autodistruttiva senza fine. Durante l'arco di Febbraio, andavo in giro per pub con gli amici, bevevo già sotto ansiolitici e contattavo la ragazza con cui mi vedevo prima di Anna per scopare: Teresa. Sapevo fosse ancora innamorata di me e dunque non solo non avrebbe mai detto di no, ma avrebbe accettato di vedermi proprio perchè ne aveva voglia, e questo era fondamentale.

 

Purtroppo non c'è un modo carino di dirlo, come spesso accade di tutti i comportamenti miserabili e crudeli di cui un essere umano è capace, è la cruda verità che rende i fatti chiari e ci spinge ad imparare ad accettarli e correggerli: mi comportavo come un coglione, un vero coglione. Ma la cosa mi faceva stare tremendamente bene. Se volevo una cosa e sapevo come ottenerla, la pretendevo, era già mia. E se qualcosa era di dubbio gusto o di una forte bassezza morale, non poteva fregarmene di meno: se mi andava, la facevo. Non c'era più spazio per i sentimenti, né i miei, né quelli degli altri. D'altro canto, chi si era curato di avere rispetto di ciò che provavo? Nessuno. E allora a me non doveva interessare di nessun altro. Quella piccola parte sensibile di me che aveva cercato tanto faticosamente di salvaguardare ciò che mi rendeva felice, venne condannata all'oblio, a stare ferma ed in silenzio, ad osservare mentre un enorme buco nero inghiottiva tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Non importava che mi rendessi conto di essere spregevole o di ferire la povera Teresa, alla fine che importanza potevano avere i suoi sentimenti per me? Nessuna.

Proprio come i miei per Anna.

Tutto questo massacro di alcol, farmaci e bassezza andò avanti fino a che una sera Teresa non fece l'errore di chiedermi qualcosa in più che non fosse vederci a casa mia:

 

"Hey, ti andrebbe domani di andare a Modica?"

"A Modica?"

"Si, beh è da un pò che ci vediamo di nuovo, ho pensato che magari potremmo fare qualcosa per cambiare, mangiare un gelato insieme, passeggiare per il Corso, sai, qualcosa in giro, insieme"

"Io e te non stiamo insieme Tere"

"Oh...si lo so, era giusto per fare qualcosa di diverso anziché stare qua a.."

Certo che lo sai, ma non ti arrendi, perchè ci speri, ma perchè deve essere tutto così difficile? Perchè non capisici?

"Eh, quindi? Onestamente non ho voglia di uscire"

"Beh almeno potremmo andare a vedere un film non dobbiamo stare per forza a passeggiare"

Cristo, ma può essere che non capisce? Cazzo!

"Tere, non ho voglia di uscire con te"

 

La guardai e capì immediatamente cosa avevo fatto. Come io per Anna, Teresa aveva lottato molto tempo per mantenere una relazione con me, inutilmente. Dirle quelle parole fu come ficcarle un pugnale in petto. Ma dovevo assicurarmi che capisse, dovevo:

 

"Sai benissimo perchè ti chiamo, e accetti di venire qua ogni volta, perchè devi sempre mettermi con le spalle al muro? Perchè ogni volta che vieni devi sempre venirmi a dire se facciamo qualcosa? Non voglio, non ho alcun interesse nell'avere una relazione con te."

 

Ci fu un silenzio surreale, poi sentii le sue lacrime calde colare sul mio petto. Restò lì, immobile come una statua. La sua testa che dapprima fissava il mio volto, ora sprofondava sul mio sterno, la sua coscia copriva ancora il mio inguine e sentii le sue mani stringermi il torace ancora più forte, quasi aggrapparsi per resistere a quelle parole impetuose, a quella tempesta di rabbia cui io stavo dando sfogo. Mi strinse così forte, che sembrava quasi la sua tristezza trapassasse il suo corpo per entrare direttamente nel mio. Quasi ad imprimerla contro di me, così che io non potessi fare a meno di sentirla nell'animo.

Continuai a fissare il soffitto. Tutta quella situazione, tutto quello che stava accadendo. Il mio comportamento, lei, noi, quel letto, il sesso. Era tutto penoso e disgustoso oltre ogni limite. Disgustoso.

Incominciai a morire di caldo, improvvisamente sembrava quasi che i muri della stanza stessero stringendosi in una morsa. Il cuore mi martellava nelle orecchie, ero entrato oramai in uno stato di delirio totale e benché cercassi di non darlo a vedere, respiravo a fatica, soffocavo e sprofondavo nel mio letto quasi come mi stessero calando in una fossa. Una fortissima sensazione di nausea si fece largo tra tutto quel miscuglio insopportabile di emozioni.

Perchè è qui?! Perchè non è ancora andata via?!

Poi ruppe quel silenzio tombale:

"Va bene – fece con la voce ad un filo dal pianto – come vuoi. Possiamo anche stare qua."

Improvvisamente, la scostai e balzai in piedi, non ce la facevo più.

"Va bene!?" urlai "Non va bene un cazzo! Che significa come voglio? Non riesci a renderti conto di quanto sia patetico tutto questo? Di quanto tu sia patetica!?"

Lei prese immediatamente il lenzuolo per coprirsi, aveva gli occhi ancora bagnati, ma anziché essere incupiti e bassi da quella che prima era tristezza, adesso erano aperti e increduli, presi da sgomento.

 

"Che succede?" fece, quasi come quando ci si sveglia dal sonno
"Che succede?! Ti sembra normale tutto questo? Ti sembra quello che meriti?! Beh, a me no!"

 

Ero una furia. Incominciai a camminare su e giù per la stanza cercando qualcosa, non so cosa, ma avevo la sensazione che doveva trovarsi lì.

Il mio cuore stava per esplodere da un momento all'altro, me lo sentivo. Tutto cominciò a vorticare e io non sapevo dove voltarmi per cercare un pò d'aria, le veritgini mi assalirono al punto che dovetti appoggiarmi sulla scrivania.

 

"Và via! - ruggì- prendi la tua roba e vattene!" raccolsi da terra l'intimo che metteva appositamente quando dovevamo vederci – sapeva che adoravo la lingerie – e gliela gettai sul letto, poi la maglietta e i jeans.

 

"Ma sei impazzito...?"

"Togliti dai coglioni! ORA!"

"Ma fai sul serio? Non-"

"VAI VIA ADESSO!" le gettai le scarpe, non curandomi di dove le avessi lanciate.

 

Non riuscivo più a contenere la nausea, arrivò il conato.
Andai di corsa verso il bagno e aprì il gabinetto. Vomitai con così tanta forza da avere dolore alla gola e allo stomaco immediatamente. L'acidità dell'alcool mi bruciava le tonsille e adesso oltre alla fame d'aria, la puzza di tutto quello che avevo ingerito – o meglio bevuto – mi faceva stare anche peggio. Abbracciai la tavoletta come un marinaio abbraccia l'albero di una nave che affonda negli abissi.

 

Non appena riuscì a riprendermi, andai nella mia camera. Non c'era nessuno. Andai all'ingresso e la porta era aperta. Se n'era andata.
Chiusi la porta e tornai in camera mia. Silenzio.
Mi sedetti sul letto, coi gomiti appoggiati alle ginocchia, i palmi su volto. Mi ero ripreso, apparentemente e non solo fisicamente. Quasi come una rivelazione, era tutto chiaro davvero, dentro. Era finalmente chiaro che il problema non era solo l'assenza di Anna, quanto la mia stessa assenza nei miei riguardi. Se mi ero spinto ad essere infimo e meschino, se non davo rispetto ai sentimenti degli altri, era proprio perchè non riuscivo a rispettare i miei e mi comportavo così con me stesso.
Dovevo fare qualcosa, alla svelta.
Alzai per un attimo la testa e guardai tutto quanto nella stanza, tutto quello che vedevo, non era altro una copia di come mi sentivo. Tutto in quella stanza mi parlava e sembrava dirmi che non c'era speranza.

Caddi dal letto col culo per terra ma non mi rialzai – il pavimento era fresco. Mi stirai direttamente lì, per lungo, fissando il lampadario che compiva giravolte con lo sfondo del soffitto, come una ballerina su un palcoscenico.

Dovevo vomitare di nuovo.

 

 

 

(scritto e non riletto - causa lavoro)

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