Leksa Kom Trikru

di empathy
(/viewuser.php?uid=930091)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 

Lexa sanguinava copiosamente, e guardava il viso di Clarke ricolmo di lacrime. Le diceva di non arrendersi e che non l’avrebbe lasciata andare. Si affannava per fermarle il sangue, Lexa poteva vedere le sue mani sporche che le premevano sulla pancia.

«Clarke» la chiamò.

«Sono qui» rispose accarezzandole i capelli. «Sono qui».

«La mia lotta è finita».

«No! Non ti lascerò morire!» esclamò in lacrime.

«Il prossimo comandante ti proteggerà».

Aveva a malapena la forza di parlare ma Clarke non smetteva di combattere per lei. Era buio intorno, Lexa riusciva a vedere solo la luce delle candele, e tutto ciò cui riusciva a pensare era di proteggere la sua amata anche dopo la morte.

Svenne tra le cure di Clarke che riuscì a fermare l’emorragia cauterizzando la ferita con un ferro sterilizzato.

Si svegliò con una fitta di dolore alla pancia. Titus non c’era ma Clarke dormiva accanto al suo letto. Nonostante stesse sudando e le girasse la testa, quando Clarke si svegliò cercò di mettersi a sedere, mossa che la fece gemere di dolore.

Clarke saltò in piedi dicendole di non fare sforzi: non era ancora fuori pericolo.

Lexa la guardò con dolcezza e allungò una mano a sfiorarle il viso, Clarke si lasciò andare alla delicatezza di quel gesto assaporando ciò che, Lexa lo sapeva, aveva temuto di perdere.

«Clarke...» iniziò Lexa con tono deciso e allo stesso tempo amorevole, «mi hai salvato la vita, ma è tempo per te di tornare dalla tua gente».

«No! Non posso lasciarti in queste condizioni». La gravità della voce suggerì a Lexa che lei fosse seriamente preoccupata.

«Non posso tornare finché non sono certa che starai bene» aggiunse.

Ci fu un lungo silenzio tra le due interrotto infine da Lexa:

«Devo parlare con Titus».

L’altra la guardò sorpresa; fino a quel momento non aveva pensato a Titus, ma se Clarke rimaneva almeno per un po’ doveva assicurarsi che non corresse pericoli. In più il suo fidato maestro e consigliere l’aveva tradita, l’aveva quasi uccisa e adesso che non poteva nemmeno mettersi in piedi senza che le vorticasse la stanza intorno rischiava di perdere completamente il rispetto dei clan. Aveva bisogno di riprendersi in fretta e nascondere le sue condizioni.

«È qui fuori, vado a chiamarlo» e si diresse verso la porta uscendo.

Quando rientrò con Titus al seguito un raggio di luce che penetrava dalla tende socchiuse le illuminò parte del volto.

«Titus» disse, ed egli si avvicinò al suo capezzale.

«Perdonami Heda» mormorò dolorosamente.

Lexa si sentiva impallidire come se le forze la stessero abbandonando. «Non cercherai mai più di attentare alla vita di Clarke» disse imperiosa. «Giuralo».

«Lo giuro».

Si sentiva sempre più debole, e a quella rassicurazione si concedette di assecondare il bisogno di riposo. Tutto divenne offuscato e la voce di Clarke risuonò come in lontananza. Poi il buio.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***



Un giorno intero era passato quando Lexa aprì di nuovo gli occhi. Questa volta era sola nella stanza illuminata dalle candele, non un volto né un rumore, neanche in lontananza. Per un istante pensò di essere morta. Cercò di mettersi in piedi ma anche solo quel piccolo sforzo la fece star male, comunque riuscì ad avanzare piano verso la porta con un braccio stretto in vita.

Vide Titus che si incamminava nella sua direzione, il suo sguardo cambiò appena alzò gli occhi su di lei e si precipitò ad aiutarla.

«Heda non puoi stare in piedi» le disse.

«Devo rimettermi in forze il prima possibile!» ribatté «I clan non devono vedermi così!»

 

Titus e Clarke lavorarono insieme per trovare una buona scusa a giustificare l’assenza di Lexa dalla capitale. Era un periodo di grande insicurezza per via dell’instabilità dei rapporti con il tredicesimo clan. Clarke era tornata dalla sua gente; sperava di riuscire a guidare tutti verso una serena convivenza con i grounders così aveva lasciato la capitale.

Quando riuscì a camminare dritta, senza inciampare, Lexa decise che fosse giunto il momento di farsi vedere e convocare tutti i capi dei tredici clan. Erano passate settimane, e se voleva portare la pace tra il popolo doveva mostrarsi forte e in grado di sopprimere ogni contrasto o disappunto: nessuno doveva mettere in discussione le sue decisioni.

 

Nella sala grande erano seduti su alti scranni i capi dei tredici clan, Lexa era in alto sul suo trono e li guardava. Sedevano divisi ai due lati opposti del comandante e la guardavano in attesa, i volti, illuminati dai raggi del sole, rivolti su di lei si interrogavano su quanto ancora avrebbero aspettato: Clarke non era ancora arrivata.

Titus era in piedi accanto a Lexa, e preoccupato per le conseguenze che l’assenza di Clarke avrebbe comportato per Lexa parlò:

«Heda...»ma si bloccò quando vide la mano alzata di Lexa.

Candele accese depositate su candelabri di altezze differenti conferivano alla stanza un’aura antica accentuata dai drappi appesi alle pareti alte quasi tre metri. Non c’era molto colore, anzi nessuno ad eccezione delle facce abbronzate che la fissavano: alcune coperte di cicatrici, altre da folte barbe scure o bianche, con i capelli lunghi sulle spalle legati sulla nuca.

Lexa si alzò voltando le spalle a quegli occhi ansiosi e a Titus, le mani incrociate dietro la schiena, il lungo mantello che le scivolava dalle spalle.

All’improvviso le due ante della porta si aprirono, Clarke si stagliava ansimante tra queste. Quando si girò vide che era sconvolta e capì che tra gli SkiKru qualcosa non andava.

Un mormorio si sollevò nella sala.

«Silenzio!» gridò Heda. E le facce tornarono su di lei.

«Comandante… Heda…» iniziò Clarke, «abbiamo bisogno del tuo aiuto. Siamo stati attaccati… un nemico comune minaccia la sicurezza della coalizione e di tutti noi!»

«Mente, Heda!»

«L’unica minaccia alla coalizione e il popolo del cielo!»

Gridavano i capi dei clan, il cui astio per gli SkiKru era fin troppo evidente.

«Silenzio!» gridò di nuovo, e tutti tacquero. «Chi vi ha attaccati?»

«Vivono al di là dei confini dei clan, il loro grido di guerra è Gonpure: non parlano la nostra lingua» spiegò «ma conoscono il tuo nome… Lexa».

Nessuno fiatò. Questa volta solo occhi allarmati la guardavano.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 

In una notte senza luna nessuno avrebbe potuto vedere due viaggiatori senza paura varcare le porte di Polis. Uno era grosso e avvolto in un mantello nero mentre l’altro era una ragazzina con le mani legate, continuava a cadere per la stanchezza e lui la raccoglieva e se la trascinava dietro.

Anche nella fredda notte estiva si udivano i suoni della foresta. Il vento che frusciava tra le foglie mentre passi inquietanti risuonavano in lontananza, come spettri invisibili a sorveglianza degli intrusi.

Polis… era una città costruita sulla cima di alcune colline circondata da una rigogliosa vegetazione, con l’alta torre sopravvissuta all’apocalisse nucleare come unica reliquia del vecchio mondo. Si stagliava sopra ogni cosa anche in quella notte, bella e bianca come il viso della ragazza trascinata, ma più spaventato e leso di quanto non fosse la torre. I suoi lineamenti esotici erano insoliti per l’uomo col mantello, lui, che era cresciuto a Polis sotto il comando di Lexa Kom Trikru e trovava familiare e sicuro solo ciò che riguardava i territori della coalizione, sapeva distinguere cos’era diverso e sbagliato.

Lentamente giunsero al limitare della città. Attraversarono le vie periferiche segnando una linea immaginaria a dividere la città a metà per giungere dall’altro lato, dove la strada finiva e c’erano solo poche case a definire il confine a sud-ovest. L’uomo col mantello gettò la ragazzina dietro la tenda di una di queste, poi si guardò intorno circospetto e s’infilò dentro anche lui. Non appena fu dentro esaminò bene in faccia la sua preda che si era rannicchiata in un angolo spaventata. Decise che finché era lì le avrebbe tenuto legate anche le gambe, così prese una corda dalla sua sacca e mentre la legava entrò un altro uomo molto più rozzo e sporco del compagno.

«È lei?» chiese smanioso. L’altro annuì. «Fermo!» ordinò, «la voglio con le gambe libere».

«Non ci mettere troppo fratello. Non appena mi sarò riposato va portata subito da Heda. E non esagerare: ci serve viva.»

«Pensi che non lo sappia?» ruggì avventandosi con un pugnale al collo del fratello. «È grazie a me se puoi dormire qualche ora, o saresti dovuto andare alla torre immediatamente! Ma dopotutto… ti ringrazio per questo regalo» e abbassò il pugnale.

L’uomo pensò che fosse un pazzo a credere di fargli un favore quando per lui questo contrattempo era rischioso: chiunque avesse saputo cos’era quella ragazzina non avrebbe osato aspettare per consegnarla a Heda, era troppo preziosa per lasciarsela scappare, e se fosse successo e avessero saputo che lui ce l’aveva avuta per tutto quel tempo rischiava la morte. Comunque non aveva scelta: non si poteva discutere con un pazzo. Si allontanò rifugiandosi sulla sua brandina.

Una volta rimasta sola con il fratello cattivo sentiva le lacrime uscirle dagli occhi.

«Siamo solo noi ora» sibilò con un sorriso. Lei sentiva il suo fiato sulla faccia e una mano asciugarle le lacrime. Le aveva fatto venire il voltastomaco. «No no no… non c’è da avere paura. Vedrai che ti piacerà». Era viscido, e osservandolo bene si accorse di una orrenda cicatrice su metà del volto; provò ribrezzo, e cercò di allontanarsi. Lui, però, la trattenne afferrandola per le spalle e costringendola a sdraiarsi sul pavimento gelido.

«Non devi opporti! Hai capito?»

E tentò di sfilarle la maglietta ma lei si dimenò. Allora un forte calcio allo stomaco rischiò di farla vomitare davvero.

«Non vale la pena lottare» le sussurrò all’orecchio. «In un modo o nell’altro sarai mia stanotte».

 

Quando si svegliò non era ancora sorto il sole. Non c’erano segni di vita fuori dalla casa, dentro c’era solo un lamento sommesso.

«Kallum!» non aveva intenzione di andare di là e vedere la scena quindi lo chiamò. Dopo qualche secondo se lo ritrovò accanto al letto.

«Fratello! Sei già sveglio» fece tutto soddisfatto mentre si sistemava i pantaloni.

«È ora. Tra poco sorgerà il sole».

C’era stato un tempo in cui i due fratelli erano stati più vicini, complici nella vita; ora avevano interessi diversi, modi diversi di reagire al dolore. Era un pensiero che gli ispirava tristezza. Se il loro terzo fratello fosse stato ancora vivo nessuno dei due sarebbe finito così.

Dopotutto stavano per avere un piccola rivincita: il popolo che aveva distrutto la loro famiglia stava per pentirsene. Quella ragazzina era la loro vendetta.

Nell’altra stanza lei era stesa al suolo sanguinante, aveva un labbro spaccato ed era seminuda. Non aveva forze neanche per coprirsi. Boser si avvicinò e le sistemò gli abiti. Poi cercò di metterla in piedi ma non riusciva a reggersi e gridò dal dolore.

«Non ti avevo detto di andarci piano?»

«Scusa fratello, non ho resistito» e rise prendendosi gioco di lui.

Così dovette trascinarla di peso fino alla torre dove non pretese di lasciarla alle guardie ma volle portarla personalmente nella stanza del trono.

 

La torre era imponente e simboleggiava il potere che aveva il comandante su tutto il resto. In quella giornata grigia e nebbiosa solo lei poteva vedersi persino dal punto più lontano. Lexa lo sapeva. E mentre scrutava il vasto orizzonte di fronte a lei, Clarke la osservava ma non osava parlare. Avevano avuto una discussione su come procedere e Lexa sembrava voler prendere tempo. C’era qualcosa del suo passato che non aveva mai raccontato a Clarke, e non voleva agire prima di avere ben chiara la situazione. La sua compagna non poteva capire, non questa volta. Sentì uno scricchiolio e intuì che Clarke si era appena seduta.

«Stanno avanzando verso di noi proprio in questo istante!» proseguì «Hanno ucciso molti di noi e gli altri sono stati costretti a fuggire. Cosa aspetti?»

«Non hai idea di cosa abbiamo contro Clarke». Sapeva che doveva fare ciò che era meglio per la sua gente, ma sapeva anche che buttarsi a capofitto in una trappola non era la soluzione. Era già successo in passato. Se avessero voluto scontrarsi con l’intera coalizione in una battaglia a viso aperto l’avrebbero fatto attaccando la città, e invece avevano invaso un territorio lontano, mettendoli a conoscenza della loro presenza: doveva per forza essere una trappola.

Clarke si avvicinò a Lexa ma rimase sempre dietro di lei.

«Se non mi racconti non posso aiutarti».

Lexa si girò a fissarla. Si persero l’una negli occhi dell’altra e Lexa si arrese a quello sguardo, si mise di fronte a lei, così vicina da poterla respirare.

«Sediamoci… ti racconterò tutto». Clarke annuì.

Poco dopo il suo conclave si era verificata una situazione simile a quella in cui si trovavano ora. Uno dei clan era stato attaccato da un nemico sconosciuto: degli uomini guidati da una donna a cavallo che brandiva la spada come se fosse l’estensione naturale del proprio braccio. Parlavano una lingua sconosciuta ed erano spietati: non uccisero le loro vittime ma le lasciarono sul campo di battaglia a morire dissanguate.

Lexa, anche sotto i consigli di Titus, aveva radunato i suoi uomini e marciarono per giorni verso il nemico. Non lo incontrarono mai sulla strada, dovettero giungere fino al territorio del clan sconfitto per poi rendersi conto di essere stati circondati. Avevano avuto pazienza, atteso giorni e poi attaccato nell’oscurità della notte. Quando si svegliarono era troppo tardi, Lexa aveva ordinato la ritirata ma molti morirono mostruosamente nel tentativo di consentire la salvezza agli altri.

Solo poche centinaia di uomini tornarono con lei a Polis. Una città quasi senza difese che stava per essere distrutta. Ma non arrivarono mai alla capitale. Nessuno sentì più parlare di loro fino a qualche giorno fa.

Lexa era rimasta molto turbata per la sconfitta subita. E dopo quell’episodio tornò cambiata dalla battaglia, più riflessiva e più saggia. Gli insegnamenti che le avevano impartito da giovane non prevedevano ogni cosa, e lei imparò l’importanza di usare creatività e astuzia, e che non sempre vanno seguite le regole e l’impulsività.

In quel momento Titus irruppe nella sala ansimando.

«Heda… sono venuti due uomini e una ragazzina per vederti. Dicono di avere un regalo per te».

«Di cosa si tratta?» chiese Lexa alzandosi.

«Non hanno voluto dirlo. Vogliono parlarne solo con te».

«Fateli entrare» ordinò.

I due si fecero largo con la ragazza trascinata dietro. Lexa si immobilizzò vedendola ma nessuno se ne accorse.

«Heda» fece Boser accennando un inchino. Mentre suo fratello rimase impassibile.

«Cosa vi porta qui?»

«Abbiamo un regalo Heda» disse Boser gettando in ginocchio davanti a sé la prigioniera. Lexa ebbe l’opportunità di guardarla meglio. Aveva molte ferite, sanguinava e piangeva, ma lei restò impassibile. Dopo qualche istante parlò:

«Cosa significa?»

«Da soli».

«Lasciateci!» ordinò a Titus e alle guardie di uscire ma non era rivolta a Clarke. Notando l’espressione insoddisfatta dei due disse:

«Lei rimane».

A una replica così perentoria dovettero accontentarsi.

«Entrambi eravamo presenti alla tua prima battaglia. Sappiamo cosa bisogna affrontare. Ma abbiamo un vantaggio» annunciò indicando la prigioniera.

«Sono andato vicino al territorio Skaikru, ho seguito le impronte sul terreno, ma conducevano a un vicolo cieco. Credevo di aver fallito quando li ho visti. Erano divisi in piccoli gruppi radunati intorno a un fuoco. Questa volta sono guidati da un uomo e c’era lei al suo fianco. Lei… sua figlia».

Lexa sgranò gli occhi. Nella grande sala si sentì improvvisamente oppressa: non potevano bastare quattro pareti a contenere le sue emozioni. S’inginocchiò di fronte alla ragazza, allungò un braccio per spostarle i capelli dal viso ma questa si spostò spaventata e tremante.

«Cosa le è successo?»

Kallum ostentò un gran sorriso.

«L’ho rapita nel sonno. È selvatica come lei, così ho dovuto… educarla un po’. Giusto il necessario perché non creasse problemi».

Lexa e Boser si guardarono fissi per un istante. La penombra della stanza si era fatta più intensa e le candele non bastavano a sciogliere il ghiaccio di quegli sguardi.

Lexa si alzò e Boser aggiunse:

«Vogliamo solo consegnartela e avere un’equa rivincita per quello che ci hanno fatto in passato».

«Titus vi farà scortare fuori» concluse.

Adesso sapeva come agire, ma doveva ancora una volta sacrificare i suoi sentimenti per il bene del suo popolo.

«Agiremo in difesa» annunciò a Clarke.

Chiamò Titus e gli ordinò di mettere degli uomini di guardia in tutta la città, e nei territori dei clan rimasti. Se si fossero mossi in una qualunque direzione lo avrebbero saputo e avrebbero avuto modo di sconfiggerli minacciando la vita della loro principessa.

Non volle rinchiuderla nel bunker sotterraneo così la fece portare in una piccola stanza dove non c’erano candele, con due uomini di guardia alla porta. Era piccola e fredda, spoglia di qualsiasi decorazione, con solo delle coperte sistemate alla meglio sul pavimento come letto. Nonostante ciò sarebbe sicuramente stata meglio della notte precedente.

 

Clarke e Lexa dormirono insieme. Clarke le teneva la mano, ma nei sogni di Lexa non c’era spazio per quella dolcezza. Solo incubi di morti violente e sangue, come a ricordarle che il suo destino non era la pace.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3850508