Rinnega il tuo nome

di Shichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Latowidge ***
Capitolo 2: *** La nostra ***
Capitolo 3: *** Ricordi il mio nome? ***
Capitolo 4: *** Divieto ***
Capitolo 5: *** Perché sei qui? ***
Capitolo 6: *** Quello che sono ***
Capitolo 7: *** Un brano che non gli appartiene ***
Capitolo 8: *** Mio fratello ***
Capitolo 9: *** Oltre quel che vedi ***
Capitolo 10: *** Arte ***
Capitolo 11: *** Lentamente, sbiadisce ***
Capitolo 12: *** Lui che non rivolge lo sguardo verso di me ***
Capitolo 13: *** Quel giorno si riunirono lì ***
Capitolo 14: *** Poi, il tempo si ferma ***
Capitolo 15: *** Un passo avanti - qualcosa si spezza ***
Capitolo 16: *** C'è una cosa che desidero mostrarti ***
Capitolo 17: *** La verità che continui a cercare ***
Capitolo 18: *** Qualcosa che non so dire ***
Capitolo 19: *** La me stessa che non voglio ricordare ***
Capitolo 20: *** La verità, guardala con i miei occhi ***



Capitolo 1
*** Latowidge ***


Latowidge era un collegio rinomato

Disclaimer: i personaggi di Pandora Hearts sono © di Jun Mochizuki. Gli altri, è la mia interpretazione artistica che tappa i buchi di una trama che necessita tanti pg.

Note introduttive: cercherò di farla più breve possibile, ma sono necessarie. L’intera fanfiction si svolgerà in una scuola (Latowidge, presente anche nel manga): per questa mia trovata geniale, le età dei protagonisti che nel manga sono giustificate dai mille sbalzi temporali del nostro amatissimo Abisso, qui sono inesistenti. Motivo per cui le ho dovute adattare.

Ho cercato di mantere delle linee generali (come il fatto che anche nel manga Vincent e Gilbert si passano un solo anno di differenza), ma in alcuni casi era impossibile. Per un motivo simile ho dovuto rendere Ada sorella maggiore di Oz.

Malgrado io non ami molto inserire troppi nuovi personaggi, qui mi tocca: trattandosi di una scuola con più di dieci studenti sputati quali i nostri amati protagonisti, mi capiterà non solo di sparare nomi a casaccio tanto per far numero, ma anche di dover approfondire un minimo la sfera di quel tale studente-compagno di classe.

Non avranno comunque ruoli rilevanti, ecco tutto: saranno la mia amata cornice.

Infine, ho cercato anche di attenermi abbastanza al manga per quanto riguarda il passato dei personaggi: chiaramente ho dovuto attualizzare e togliere qualche cosa strana come l'Abisso, o le Catene, i salti temporali e via dicendo. Ma Oz ha sempre il padre che meriterebbe il ritiro della patria potestà stile ritiro patente, e Vincent e Gilbert restano adottati (e con parte del loro altresì sfigatissimo passato).

Infine: non so quanto sarà lunga la fanfic, ogni quanto aggiornerò ecc. Ma se vorrete seguirmi, ne sarò felice XD Il rating per ora è arancione, per sicurezza: se la situazione degenera, verrà cambiato in rosso ù_ù”

Mi scuso per le note oltremodo lunghe, ma erano necessarie per facilitare la lettura.

 

 

Latowidge

 

 

Latowidge era un collegio rinomato.

A chiunque si chiedesse nella contea, non faceva che rispondere la stessa cosa: Latowidge è la scelta migliore per i tuoi figli.

Era collocata appena in periferia, subito fuori dalla città ma non eccessivamente lontana, cosicché i genitori più apprensivi fossero in grado di raggiungere la scuola facilmente.

Contava di tre edifici: il più grande era la scuola. Comprendeva le aule per ogni singola materia insegnata e divisa per corsi. Il primo e il secondo anno utilizzavano le stesse classi, le terze erano le uniche occupanti delle aule per il loro anno, ed infine quarte e quinte sfruttavano le medesime classi per le lezioni.

Lo stesso edificio includeva un'aula magna in cui ogni anno aveva luogo un saggio o uno spettacolo a chiusura dell'anno scolastico, una sala piuttosto capiente per ospitare l'annuale ballo di Natale, la segreteria studenti, la sala insegnanti, un ufficio per ogni docente ed infine una biblioteca ad uso e consumo di tutti gli studenti.

Tutte le aule, così come le altre stanze, presentavano un arredamento in legno - elegante ma non pomposo - e l'attrezzatura migliore per il buon lavoro di docenti e studenti.

Gli altri due edifici erano i due dormitori, uno maschile e l'altro femminile, con stanze doppie ed ognuno con un capo dormitorio per ogni anno fra gli studenti.

L'esterno vantava un grande spazio verde adibito a giardino, trattato con cura meticolosa da più di un inserviente.

Quanto alla suddivisione degli studenti, differivano di anno in anno per un particolare della divisa: un'idea della presidenza, per quel che si sapeva. La divisa bianca, sia per le ragazze che per i ragazzi, presentava – obbligatoriamente e previsto dal regolamento – un nastro posizionato sotto il colletto della camicia candida.

Per i ragazzi era sistemato in un fiocco fine, il nastro corto abbastanza perché l'ornamento non risultasse troppo femminile; per le ragazze, vi era un'applicazione simile con la sola differenza che il nastro risultava più lungo, sfiorando spesso la camicia all'altezza del seno.

Sia gli uni che le altre, comunque, cambiavano il colore del nastro in base all'anno di appartenenza: il primo anno bianco, il secondo azzurro, il terzo blu, il quarto di un grigio fumo, il quinto ed ultimo anno nero.

I docenti erano i migliori qualificati, assunti direttamente dalle migliori università del posto e, talvolta, anche di altri Paesi.

In definitiva, l'Istituto Latowidge era famoso e il luogo d'istruzione ideale.

Ma è sempre un collegio, sospirò mentalmente, alzando lo sguardo sull'edificio che si stagliava non troppo lontano rispetto a lui.

Ai grandi ed imponenti cancelli che recavano il nome della scuola, stava fermo e in piedi il classico nuovo studente destinato ad iniziare la sua vita lì di punto in bianco e non dal primo anno.

E se state immaginando un ragazzo depresso, oppure arrabbiato col mondo, che metterà piede lì dentro con l'intenzione di recitare il ruolo dello sfigato i cui genitori lo hanno mandato lì a calci nel sedere, beh... c'è una sola cosa giusta in quest'immagine mentale.

Che non ci stava propriamente andando di sua volontà.

Ma per il resto, Oz Bezarius non la vedeva nemmeno così tragica come poteva apparire.

Si stiracchiò, occhieggiando i propri abiti: gli avevano detto di quanto fosse noto il posto e di quanto solo i figli di famiglie più o meno altolocate vi studiassero – e d'altra parte lui era uno di loro.

Ma aveva preferito non indossare nulla di formale, perché non ci si sarebbe visto, né trovato a proprio agio. E, benché suo padre avesse ampiamente mostrato la sua totale disapprovazione per la semplice camicia bianca con sopra un altrettanto semplice gilet nero, e per i pantaloni al ginocchio – e gli scarponcini "da contadino" e la cravatta "vergognosamente allentata" – aveva comunque fatto di testa propria.

La stessa testa che gli aveva suggerito che farsi venire a prendere all'ingresso da sua sorella non avrebbe entusiasmato suo padre.

Aveva quindi assicurato alla maggiore che avrebbe fatto da solo, e che non doveva preoccuparsi: sarebbe arrivato alla segreteria studenti senza intoppi.

Un'ultima occhiata generale e, valigia alla mano, varcò la soglia avviandosi per il curato vialetto che suggeriva la direzione per raggiungere la scuola.

Più o meno a quello che – ad occhio – gli sembrava il centro del giardino, c'era una fontana, di quelle che a suo avviso erano più tipiche di una tenuta importante che non di una scuola.

Ma non era male: da lì il sentiero guidava ad ognuno dei tre edifici.

Mantenne l'attenzione su quello centrale, il più grande, nonché la sua meta.

«Un nuovo studente, ne? » sentì chiedere senza preavviso al proprio fianco, voltandosi istintivamente a guardare.

L'immagine che inquadrò dopo pochi istanti, gli diede la sensazione di una persona... non proprio grottesca, ma il giudizio non si allontanava di molto.

Tuttavia, abbozzò un sorrisetto leggero: «Si nota?» scherzò su, mentre l'altro sorrideva sottilmente.

Notò che forse era uno dei rari albini di cui aveva letto sui libri: i capelli chiari, e tuttavia troppo per l'età giovane che dimostrava, avevano un taglio scalato che sfiorava appena la base del collo. La pelle chiara, l'occhio che non era coperto dalla frangia era di un insolito rosso carminio.

Gli abiti che indossava gli ricordarono più una divisa: scuri, neri, con ricami argentati; parevano quelli di un qualche ufficiale.

...Non fosse stato per la bambolina di pezza sulla spalla.

«Abbastanza. Sguardo perso per il giardino, abiti tutt'altro che simili alla divisa. E anche la valigia mi ha suggerito che sei un cattivo bambino che rappresenta un nuovo acquisto.» canticchiò divertito – in un modo del tutto personale, osservò lui.

Lo vide portare una mano in tasca e allungare il braccio verso di lui, aprendo la mano stretta a pugno con il palmo rivolto verso l'altro: rivelò ai suoi occhi una caramella avvolta nella carta arancione.

Oz la prese, l'espressione che ricordava un cagnolino scodinzolante di fronte ad un biscotto dato dal padrone. Il suo interlocutore parve trovarlo simpatico.

«E il nuovo studente si chiama Oz Bezarius, scommetto.» finse di indovinare.

Questo lo sorprese un po’ di più in effetti e, al tempo stesso, gli lasciò il sentore che con ogni probabilità quell’uomo non era il giardiniere; se lo era, complimenti per la rete d’informazioni.

Sul momento, comunque, rimase in silenzio e preferì aprire la caramella e mangiarla piuttosto che rispondere. Continuò ad avanzare verso l’edificio centrale, l’uomo che proseguiva al suo fianco con aria tutto sommato divertita e con un passo tragicamente vicino al saltellare.

Si decise a lasciar stare quella compagnia inaspettata per il tempo sufficiente a guardarsi intorno, studiando i tre edifici e le loro disposizioni, così come i sentieri puliti e privi di erbacce che collegavano quel giardino enorme ai dormitori e scuola.

Quando ebbe registrato un'immagine complessiva che potesse soddisfare la sua curiosità almeno per il momento, tornò con gli occhi chiari sull'uomo al suo fianco, che guardava di fronte a sé e non gli aveva ancora posto nessuna domanda.

Fu dunque Oz a parlare: «Tutti a scuola sanno il mio nome?» chiese, ironicamente divertito dalla propria domanda retorica. L'altro parve deciso ad assecondare quel gioco.

«No, no, solo le persone importanti lo sanno!» lo prese in giro. Sembrò stancarsene subito, però, dato che in pochi istanti aggiunse: «Occhi verdi, capelli chiari. Così identico alla signorina Ada, che anche se avessi un cognome diverso non associare le vostre immagini sarebbe impossibile, no?» lo incalzò.

Oz sorrise: effettivamente c'era da ammettere che con quell'aspetto fisico, lui e la sorella non potevano certo fingersi estranei. Non solo avevano entrambi i capelli biondi - forse lei appena più scuri a seconda della luce, e ovviamente più lunghi - e gli occhi di un verde brillante. Anche i lineamenti coincidevano come solo quelli di alcuni fratelli e sorelle potevano fare.

L'unico motivo, probabilmente, per il quale non venivano scambiati per gemelli, era che Ada dimostrava fisicamente i due anni in più che li separavano.

Diciottenne - sebbene da pochi mesi - Ada Bezarius era la più grande dei due figli del casato.

Raggiunse i pochi scalini che portavano al piano rialzato su cui sorgeva l'edificio scolastico, osservando il grande portone in legno scuro, intagliato verso l'interno, con decorazioni non troppo sfarzose.

Rimase qualche istante fermo sul primo scalino; l'altro, al suo fianco, ridacchiò come chi rivede la stessa scena per l'ennesima volta. Lo superò, dunque, raggiungendo il portone e socchiudendo appena una delle due ante, il tanto che bastava da insinuarsi all'interno oltre la soglia.

Tuttavia, non la varcò subito, voltandosi ad osservarlo da sopra la propria spalla: «La segreteria studenti è raggiungibile passando per il corridoio sulla destra.» canticchiò divertito, l'espressione indecifrabile. Oz stava per dire qualcosa - un ringraziamento probabilmente - ma l'altro lo anticipò parlando di nuovo: «Benvenuto, signor Bezarius, attento a non perderti, ne?» aggiunse ed Oz non seppe dire se l'altro parlasse seriamente o se si stesse facendo beffe di lui.

Annuì, nel dubbio, fermando l'altro che a quel punto gli aveva dato le spalle e già faceva per entrare: «Ma il suo nome?» lo interrogò, come se fino ad allora avesse sempre scordato di chiederlo lungo il breve tragitto fatto. Quello ridacchiò.

«Chissà.» fu l'unica replica che gli concesse, prima di scivolare all'interno della costruzione senza chiudere il portone. Spiazzato dalla risposta - o, meglio, dall'assenza di una vera e propria - Oz si affrettò a seguirlo.

Quando ebbe aperto abbastanza il portone da passarvi con l'unica valigia che aveva a mano, quello strano individuo era sparito, ma al suo posto l'ampio atrio dell'istituto lasciava senza fiato e faceva passare di mente in un istante le domande che Oz si era posto fino ad un attimo prima.

Spazioso ed impeccabile nel suo ordine e nella sua pulizia, l'atrio dava una prima impressione di Latowidge che - com'era stato per la fontana all'esterno - somigliava più ad un villa molto grande che non ad una scuola. Per quanto fosse un istituto per figli di famiglie ricche, Oz trovava alcune parti di tutto quel luogo quasi ridondanti.

Il pavimento - in marmo chiaro, molto simile al color avorio - rifletteva le luci dei grandi lampadari in stile ottocentesco che si potevano ammirare alzando lo sguardo: grandi e in cristallo, apparivano fragili quanto bellissimi nelle forme a goccia che scendevano come addobbi dalla base in metallo che si intravedeva appena.

Poco più avanti rispetto a lui e rispetto al portone, c'era quello che - non fosse stato abituato ad ambienti più o meno vicini a quello stile - avrebbe scambiato per uno scherzo, un elemento volto alla sola volontà di portare lo sfarzo all'eccesso.

Sulla grande scalinata che si diramava in due più strette - una che saliva verso destra, l'altra verso sinistra - di fronte ad un grande quadro raffigurante un vessillo che con ogni probabilità era lo stemma di Latowidge, vi era uno strato generoso di moquette rossa che ricopriva buona parte della scalinata e per tutta la sua lunghezza.

Probabilmente, si disse muovendo qualche passo verso la scalinata, entrambe le diramazioni portavano a due diverse aree della scuola. Quel che era certo, comunque, era che se la segreteria studenti non lo avesse munito di mappa, non avrebbe avuto vita facile lì dentro.

Sarebbero state più le volte in cui si sarebbe perso che non quelle in cui avrebbe trovato l'aula giusta all'orario giusto - e possibilmente non dopo una settimana di ricerche.

Riuscendo a spostare lo sguardo dalla scalinata e a portarlo sulla destra individuò il corridoio indicato dall'uomo che sembrava sparito nel nulla. Scrollò appena le spalle: non era proprio il caso di cercarlo alla cieca, tanto più che a conti fatti non aveva altro motivo che la curiosità di scoprirne il nome.

Si obbligò quindi ad ammirare la scuola dopo - magari quando avesse avuto Ada a fargli da guida - e si avviò sulla destra, verso l'ormai famigerata segreteria degli studenti.

 

 

Per sua fortuna, trovare l'ampia sala che ospitava le quattro addette ai documenti e agli archivi non era stato difficile: era bastato andare sempre dritto e controllare le varie targhette in ottone sulle porte in legno scuro come il portone.

Una volta trovata quella giusta, come se avesse avuto un cartello con scritto il proprio nome attaccato al collo, una signora dall'aria cortese gli si era avvicinata riconoscendolo come Oz Bezarius, il nuovo studente.

Si era presa la briga di comunicargli la classe di cui avrebbe fatto parte da quel lunedì, e di dargli l'orario delle lezioni che gli consegnò insieme ad un paio di fogli con il regolamento e con uno più piccolo con sopra scritti il numero della sua stanza, il nome del suo futuro compagno di camera, il nome del capo dormitorio a cui fare riferimento.

Infine, dopo essere sparita qualche minuto in una stanza adiacente, era tornata con la sua divisa nuova e ancora avvolta dalla stoffa scura e anonima per proteggerla.

Armato di tutto ciò e cercando contemporaneamente di non perdersi nulla per strada con tutte quelle cose in mano - ringraziando come non mai che il resto dei bagagli fossero stati consegnati direttamente a scuola - si avviò verso il dormitorio dei ragazzi dove avrebbe vissuto da lì alla fine dei suoi quattro anni di istruzione a Latowidge.

L'edificio del dormitorio, una volta raggiunto, non si era rivelato troppo diverso da quello della costruzione centrale da cui veniva: il portone, del medesimo legno scuro, si apriva su un atrio forse un poco più piccolo. Anch'esso in marmo chiaro e con lampadari piuttosto simili, aveva la scalinata - più stretta - spostata completamente sul lato sinistro. Il resto dell'atrio, altro non era che una sala comune piuttosto spaziosa per gli studenti che gradivano restare in compagnia piuttosto che nella solitudine della propria stanza.

Arredata con gusto ed eleganza, presentava due o tre divani e molte poltroncine. Il camino, addossato alla parete, rendeva facile immaginare che quella sala comune fosse sfruttata più in inverno che non in estate. Un grande orologio a pendolo con la base che poggiava a terra e il legno di mogano finemente lavorato, torreggiava nell'angolo opposto alla scalinata.

Al suo ingresso, qualche studente sicuramente più grande di lui si era voltato, probabilmente attirato dal rumore del portone che si apriva.

Tuttavia, pur avendolo individuato, nessuno aveva detto nulla; non prima, almeno, di averlo visto avere seri problemi a salire più di due gradini senza che la divisa, o la valigia, o i fogli cadessero di mano. O rischiassero seriamente di farlo.

Solo a quel punto uno dei due - Oz sospettava che fosse stato mosso a pietà, o che volesse evitare una morte per soffocamento al compagno che si stava letteralmente sbellicando dalle risate a vederlo in difficoltà - gli fece un cenno leggero con la mano per attirarne l'attenzione.

«Puoi lasciarlo lì, se ne occuperà un inserviente più tardi.» gli fece presente.

Oz osservò incerto le proprie cose, decidendosi magari a lasciare qualcosa, il tempo di individuare la stanza e tornare a riprenderla.

«Largo, largo, non voglio beghe se investo qualcunooo!» sentì esclamare, obbligato da quella voce sconosciuta ad alzare lo sguardo per vedere una testa rossa e dai capelli arruffati sfrecciare sul corrimano in marmo della scala. Lo vide raggiungere la fine dandosi un lieve slancio - o così gli parve - e atterrare con un gesto tecnico che con quello che stava facendo non c'entrava nulla, o comunque dubitava servisse davvero a qualcosa.

Lo vide fare un inchino verso il portone, una folla invisibile che fungeva da pubblico immaginario.

«Ed è ancora Noah Keynes a battere i record di Latowidge! Un salto perfetto, e la folla è in delirio. As usual.» lo sentì commentare e davvero Oz non poté fare a meno di ridacchiare, per quanto perplesso da quel tipo a dir poco singolare.

Sentì il ragazzo più grande che gli aveva consigliato di lasciare lì i bagaglio rivolgersi al rosso con un: «Keynes, dovresti piantarla di fare l'idiota sui corrimano.»

Mentre quest'ultimo replicava qualcosa ridacchiando, Oz poté riservarsi di studiarlo un attimo: i capelli rossi erano scompigliati e appena mossi, tenuti in un vago e discutibile ordine da una fascia scura posta in una posizione apparentemente casuale della testa. Gli occhi, di un castano appena più chiaro del nocciola, erano ridenti ed espressivi; probabilmente erano la parte che più attirava l'attenzione del volto dalla pelle e i lineamenti abbastanza ordinari, seppur attraenti.

Ma di certo non era uno di quei ragazzi che facesse voltare le teste di un'intera sala.

Vestiva, notò Oz, abiti comuni anziché la divisa. E lo fissava tra il divertito e l'incuriosito.

E lui non se ne era accorto.

Abbozzò un sorriso divertito: «Bella discesa.» osservò, non proprio certo del perché l'altro lo osservasse. Ma quello scoppiò in una risata sinceramente divertita, facendogli il segno dell'ok alzando il pollice verso l'alto: «Tecnica che miglioro di anno in anno. Sai com'è, la noia uccide a volte.» commentò con semplicità, facendogli l'occhiolino complice.

Allungò una mano verso di lui: «Noah Keynes, piacere.» esclamò cordiale, occhieggiandolo per qualche attimo e notando la momentanea impossibilità di Oz a stringergli la mano con tutta quella roba. Ridacchiò, ritirando la propria.

«A dopo la stretta di mano. Sei quello nuovo, Oz Beza-qualcosa, giusto?» lo interrogò quasi nell'immediato.

Oz, sebbene un po' frastornato, lo trovava schietto e amichevole; annuì: «Oz Bezarius, sì.» confermò. L'altro annuì di rimando, segno che aveva capito.

«Bene, mi offro di portare una valigia al mio nuovo compagno di stanza. Anche perché non ci sono inservienti che ci fanno da facchini. Prendi nota: ci sono solo quelli delle pulizie e quelli del giardino. E i cuochi, naturalmente.» spiegò con una strizzatina d'occhio, agguantando la sua divisa e facendogli strada iniziando a salire le scale.

Con un'occhiata ai due nella sala comune che erano tornati alle proprie occupazioni, Oz lo seguì per l'intera scalinata e poi per una parte del corridoio sulla sinistra nel quale l'altro si era diretto.

«Mi sembrava un po' strano che ci fossero inservienti che portano le borse.» osservò divertito. Vide Noah, che era avanti a lui sì e no di un paio di passi, storcere appena il naso: «E' solo una cavolata dei più grandi. Sai, lo fanno con le matricole e con quelli nuovi. Penso sia una cosa da che mondo è mondo, ma questo non la rende meno stupida.» osservò, non proprio infastidito.

Sembrava più uno rassegnato.

«Per carità, eh? Io nella stupidità ci sguazzo sempre volentieri. Ma siamo tutti o più o meno ricchi qui. Non capisco il senso di mettere le mani nelle borse dei primini.» concluse, e finalmente Oz comprese il senso del voler far lasciare agli studenti più piccoli la roba nell'atrio.

«E perché dovrebbero? L'hai detto tu che siamo tutti più o meno ricchi qui, no?» gli fece notare, incuriosito e in un certo senso anche perplesso.

Fermandosi davanti ad una porta che Oz dedusse fosse la loro stanza, Noah lo osservò come a dire: "porta pazienza, che vuoi farci?".

«Boh, valli a capire. Sarà che gli fa figo?» si interrogò lui stesso, scuotendo poi la testa ed estraendo dalla tasca una chiave con cui aprì la porta: «Però tranquillo. Non sono tutti così, eh?» assicurò ridacchiando e aprendo definitivamente la porta della stanza.

«Et voilà. Metà del tuo regno da qui ai prossimi quattro anni!» esclamò fingendosi plateale.

Si guardarono un attimo, ridendo entrambi, ed entrando poco dopo.

Mentre Noah si richiudeva la porta alle spalle, Oz si prese il tempo per osservare quella stanza: come c'era da aspettarsi, solo la metà dove stava Noah aveva dei particolari che la rendevano personalizzata. La sua metà, in ordine e anonima, consisteva in un letto dalle lenzuola bianche e pulite ed un copriletto bordeaux, speculare al letto di Noah - con la differenza che su quest'ultimo pareva fossero passati una decina di bambini con la voglia di distruggerlo.

Più o meno di fronte al letto stava un armadio in legno e vicino ad esso Oz riconobbe alcuni scatoloni con le sue cose, ancora chiusi; più in là, in una posizione tale da essere illuminata dalla luce che filtrava da una delle due ampie finestre, stava la scrivania, vuota ed impersonale.

«Visto così fa un po' spoglio, ma tra poco ci saranno su un mucchio di libri e rimpiangerai lo spazio che vedi ora.» assicurò con una nota divertita nella voce mentre si buttava di peso sul proprio letto dopo aver poggiato la divisa del biondo sulla sedia della sua scrivania.

Oz poggiò la borsa a terra, andando a sedersi sul proprio letto, l'aria incuriosita mentre continuava a studiare la nuova stanza, ascoltando di sfuggita l'altro.

«Come mai c'erano così pochi studenti?» chiese, lo sguardo chiaro che andava su Noah, mentre dondolava appena le gambe avanti e indietro, in un gesto abituale. L'altro parve pensarci su qualche attimo, le braccia incrociate dietro la testa.

«Beh, nel fine settimana siamo sempre meno. Alcuni studenti non abitano tanto lontano da qui, e tornano a casa. Qui o sono venuti per la fama del collegio, o ce li hanno mandati i genitori per questo o l'altro motivo. Il primo gruppo, nel fine settimana torna a casa.» spiegò soprappensiero.

Oz annuì distrattamente: lui apparteneva senza alcun dubbio al secondo gruppo, perciò difficilmente sarebbe tornato spesso a casa. Ada, invece, ricordava che a volte lo faceva ora che ci pensava.

«Tu sei del secondo gruppo?» chiese, forse non proprio il massimo del tatto a ben pensarci. Noah non parve prendersela. Al contrario, ridacchiò: «Naah, io e il mio vecchio andiamo d'accordo. Solo che fa un lavoro che lo tiene fuori di casa, quindi è inutile.» assicurò. Oz tacque qualche istante: Noah non aveva esattamente l'aria di un ricco figlio di papà. O, se lo era davvero, si sforzava di sembrare tutt'altro.

«E che lavoro fa?» domandò, la curiosità che ormai faceva tutto per conto suo: «Fotografo. Gira un sacco di posti e secondo me prima o poi si perderà da qualche parte. Ma gli piace, e poi nessuno dei due ha mai fatto storie sulle cose private dell'altro. Io e Chris siamo così.» asserì, il sorriso sulle labbra. Dal tono con cui ne parlava, ad Oz parve abbastanza chiaro che il rapporto fra i due anche se un po' diverso da quello dei canonici padre-figlio, era buono.

«Te invece? Sei il fratello di Ada del quarto anno, vero? Lei so che ogni tanto ci torna a casa.» aggiunse, riportando l'attenzione di Oz sul discorso.

Il biondo annuì, sebbene appena sorpreso: «Conosci mia sorella?» domandò. Da quel che gli aveva detto Ada, un aspetto particolare di Latowidge e dei suoi studenti, era che fra i diversi anni difficilmente c'era un'interazione tale da far sì che qualcuno del quinto anno - ad esempio - legasse particolarmente con uno del secondo o del terzo.

Essendo divisi anche nelle aule che frequentavano, c'era una maggioranza di gruppi primo-secondo anno, o quarto-quinto. Solo il terzo anno era un po' il tramite fra i due gruppi, o per lo più rimaneva con i compagni di corso.

Spesso - aveva detto sua sorella - a Latowidge ti sembra di stare in tante scuole diverse quanti erano le classi e gli anni.

«Non conosco proprio lei, ma la sua compagna di stanza. Mi ha dato qualche ripetizione e da lì siamo diventati amici. Qualche volta è capitato anche di chiacchierare con tua sorella.» spiegò, assumendo un'espressione furba, palesemente divertita da qualsiasi cosa stesse elaborando in quel momento. Lo fissò sogghignando: «Mica avrai il complesso della sorella, eh Oz?» lo sfotté.

Oz si imbronciò quasi istantaneamente, in un cambio d'espressione abituale che spesso assumeva; oltretutto, quella storia del complesso gliel'avevano sempre messa davanti come se fosse scontato.

...Beh, magari lo aveva davvero. Ma solo un pochino!

«Proprio per niente.» borbottò comunque in risposta a Noah, che scoppiò a ridere: «La tua faccia dice il contrario, sai signor Bezarius?» continuò a prenderlo in giro. Oz, seduto sul bordo del proprio letto, si allungò a recuperare il proprio cuscino, lasciandolo e riuscendo a centrare Noah in piena faccia.

Ci fu un verso indistinto, soffocato dalla stoffa dell'oggetto, prima che vedesse riemergere il viso di Noah, il cuscino ora nelle sue mani: «Ti insegno io ad avere rispetto dei compagni che occupano la tua stanza da più tempo, ragazzino!» lo prese in giro, restituendo il favore.

 

 

La lotta con i cuscini che avevano improvvisato e che era degna di due mocciosi non era durata molto ma, come tutte le importanti esperienze della vita, gli aveva dato una lezione basilare.

Nota numero uno: Noah Keynes, neo compagno di stanza, non dovrà mai più essere sfidato ad una battaglia simile.

La sua mira è pessima.

Avevano praticamente messo sottosopra la stanza - addio ordine dalla sua parte. Quella di Noah era già disastrata da prima.

Dopo aver più o meno ripreso fiato e dopo che Oz ebbe sistemato buona parte delle sue cose - Noah era sparito a gironzolare da qualche parte, giustificandosi con un: "abituati, io vivo nel mio disordine organizzato" - mancava ancora un'oretta alla cena.

Non potendo entrare nel dormitorio femminile (così diceva il regolamento che gli avevano consegnato in segreteria) e non avendo ovviamente compiti o simili, aveva optato per un giretto in giardino. Ada l'avrebbe comunque incontrata a cena, con tutta calma.

L'esplorazione dello spazio verde tutto intorno alla scuola aveva occupato anche più tempo di quanto avesse previsto: aveva girato più che altro casualmente, incrociando diversi studenti di diversi anni, quelli che non erano tornati a casa per il weekend e che probabilmente piuttosto che chiudersi in una stanza avevano preferito approfittare della bella giornata per restare all'aperto.

Si stava infine avviando nuovamente verso l’edificio centrale, deciso a darsi il tempo di trovare la mensa, quando qualcuno che avrebbe potuto portarcelo senza intoppi lo individuò, agitando appena la mano verso di lui.

«Fratellino!» sentì chiamare, e non occorreva certo girarsi per indovinare di chi si trattasse.

Nel farlo, comunque, vide la figura della sorella che gli veniva incontro: poche volte l’aveva vista in divisa, giacché tornando a casa di solito lo faceva con abiti comodi e mai con quelli di Latowidge.

D’altra parte, non gli era nemmeno del tutto sconosciuta: non solo per le studentesse incrociate nel giardino quel pomeriggio, ma anche perché ricordava quando la stessa Ada, emozionata per il primo giorno a Latowidge, non aveva resistito e l’aveva indossata per la prima volta proprio a casa loro.

La gonna bianca, che copriva una porzione delle lunghe gambe fino a metà coscia, le calze che celavano alla vista quasi tutto il resto arrivando fin sopra il ginocchio. La camicia candida, portava sotto il colletto un nastrino le cui estremità scendevano quasi fino a metà busto, di color grigio fumo, segno distintivo del quarto anno.

Infine la giacca – anch’essa bianca – completava la divisa.

«Stavi andando in mensa?» lo riportò alla realtà la domanda, Ada di fronte a lui. Le sorrise con dolcezza, assumendo poi subito un’aria spensierata: «Sì, mi muovevo per tempo. Questo posto è grande proprio come lo avevi descritto, sai?» assicurò, vedendola ridacchiare sommessamente portando la mano a coprire educatamente la bocca.

Sembrava felice sua sorella, in quel luogo.

E lui non poté evitarsi di sorridere più ampiamente, felice per lei che nel contempo si era voltata indietro, l’espressione di chi ha dimenticato qualcosa: «Scusami se ti ho lasciata indietro Karin.» la sentì pronunciare.

Si sporse di lato, facendo capolino con la testa dal fianco della sorella e cercando con lo sguardo la “Karin” a cui Ada si era rivolta.

Individuò ormai non troppo distante da loro una ragazza che, ad occhio, sembrava avere più o meno l’età di sua sorella: i capelli corvini, leggermente mossi verso le punte, scendevano sciolti e tenuti in ordine da una fascia bianca, che lasciava libere solo la frangia e alcune ciocche più corte che incorniciavano il viso dalla pelle chiara.

Gli occhi azzurri dall’espressione gentile erano sui due fratelli, il sorriso cortese e gentile rivolto dapprima solo ad Ada, poi anche Oz appena quest’ultimo rientrò nel suo campo visivo.

Sorrise più ampiamente: «Ada, lui è il fratello di cui mi parlavi?» domandò, una nota allegra nel tono di voce. Vide sua sorella annuire un paio di volte.

La affiancò, rivolgendosi quindi a Karin, tendendole la mano: «Oz Bezarius.» si presentò senza bisogno che fosse Ada a farlo per lui. La ragazza gli strinse prontamente la mano: «Karin, Karin Hamilton. Sono la compagna di stanza di Ada.» replicò gentile. Allontanate le rispettive mani, la moretta si rivolse ad Ada.

«Allora io ti precedo in mensa.» disse, spostando poi lo sguardo chiaro su Oz e accennando ad un leggero inchino con la testa: «Piacere di averti conosciuto Oz, e benvenuto a Latowidge.» aggiunse allegra, avviandosi verso un corridoio sulla sinistra.

Lui la salutò con la mano, stile bambino piccolo, l’espressione anche un pelo ebete; Ada sorrise: «Hai già sistemato tutte le tue cose?» domandò, probabilmente impensierita dal fatto che quello fosse solo il primo giorno del fratello.

Annuì, battendosi un pugno sul petto con aria spavalda: «Ovviamente e senza intoppi!» esclamò sicuro di sé, facendola ridere. Si avviarono dunque entrambi verso la mensa: «Il mio compagno di stanza dice di conoscerti. Si chiama Noah Keynes.» osservò, mentre camminavano.

Vide Ada annuire con la coda dell’occhio: «Oh, sì. È un amico di Karin per la verità, ma qualche volta abbiamo parlato. Non sapevo fosse il tuo compagno di stanza.» ammise. Facendo mente locale, collegò le parole della sorella a quelle dello stesso Noah quando aveva detto di conoscere una compagna di Ada e non proprio Ada stessa.

Annuì quindi, mentre ormai varcavano la soglia della mensa: il vociare era concitato, mescolato a risate qua e là. Molti posti erano vuoti, ma spiegò la cosa con la questione del ritorno a casa del week-end di cui gli aveva già accennato Noah. Mentre prendevano posto allo stesso tavolo – dopo essere passati a prendere ognuno il proprio pasto al grande banco dove era possibile servirsi da soli come più si preferiva – Oz osservò i vari tavoli che vedeva tutti intorno.

«Ada?» chiamò, mentre ancora gli occhi chiari vagavano per la sala; la sorella, appena sedutasi di fronte a lui e intenta a spiegare il tovagliolo in cui erano avvolte le posate, alzò lo sguardo: «Dimmi.» replicò incuriosita.

Oz la imitò, sedendosi a sua volta, lo sguardo che rimase sugli altri tavoli ancora un po’ fino a spostarsi definitivamente sulla sorella maggiore: «È vero che anche Gilbert studia qui?» chiese.

Ada sorrise raggiante: «Allora anche tu ricordi Gilbert, Oz?» chiese entusiasta. Lui la guardò per un attimo confuso, senza capire il perché di tanto entusiasmo. Annuì lentamente.

«Perché non dovrei?»

«No, è che quando Gilbert è andato via avevi nove o dieci anni. Anche lui era convinto che non lo ricordassi.» spiegò. Le era capitato di incrociare e parlare con Gilbert da quando studiava lì, dal momento che anche lui era a Latowidge, e il ragazzo si era detto convinto del fatto che Oz difficilmente potesse ricordarlo.

Oz arricciò appena il naso, imbronciandosi: «Appunto, era solo sei anni fa. Non è così tanto da non ricordarlo, Gil è stato da noi per un sacco di tempo, no?» le fece notare, anche se effettivamente non aveva un ricordo preciso di quando fosse arrivato.

Ada sorrise, felice che lo ricordasse: «Vero. E poi a te Gilbert piaceva così tanto, ricordo che facesti un sacco di storie quando se ne andò!» lo prese bonariamente in giro mentre tagliava con attenzione la carne nel proprio piatto. Oz arrossì appena, fingendosi indignato dalla cosa – probabilmente nell’assurda speranza che così l’imbarazzo fosse meno visibile, nella sua vecchia abitudine di esasperare un’offesa o un’indignazione per nascondere dell’altro – ed esclamando un: «Non è affatto vero!»

Ada, benché non avesse certo cambiato idea si limitò a sorridere senza aggiungere altro.

Per contro, Oz sbuffò decidendo di dedicarsi alla sua cena: conosceva la sorella abbastanza da sapere che, qualunque cosa avesse potuto dire lui, lei non avrebbe cambiato il proprio modo di vedere la cosa.

 

 

Osservò fuori dalla finestra, la tenda scura appena scostata dalla mano, il tanto sufficiente a poter guardare fuori senza dare la possibilità a chi era nel giardino del collegio di fare lo stesso.

La stanza veniva appena illuminata dal poco di luce che filtrava da quella piccola apertura, rimanendo per il resto nella penombra e, in angoli particolarmente lontani dalla finestra, nella completa oscurità.

Il respiro regolare e quasi impercettibile risultava, dato il silenzio della camera, un rumore fin troppo udibile; lo sguardo che fino ad allora era rimasto puntato sul giardino si scostò, mentre la mano che lasciava andare le tende faceva sì che la stanza sprofondasse nuovamente nel buio quasi totale.

Avanzò lentamente verso la poltrona della stanza, sedendosi e rilassandosi contro lo schienale, entrambe le braccia poggiate agli appositi braccioli.

Sospirò piano, quasi stancamente.

«C’è odore di qualcosa di nuovo.» sentì pronunciare non troppo distante da sé, da un punto particolarmente nell’ombra alla sua sinistra.

«Così pare.» replicò pacatamente. Un verso stizzito gli diede ad intendere che il suo interlocutore non apprezzasse la novità, o forse la scarsa attenzione che sentiva nel tono dell’altro. Sorrise appena, un ghigno in realtà.

«Non è cosa che ci riguardi. Latowidge vede studenti arrivare e studenti andarsene.»

«Quello è uno studente che non deve stare affatto qui.»

«Lo consideri una minaccia?» lo sfotté palesemente, sebbene il tono sembrava rimanere comunque piuttosto pacato, come poco prima. Un nuovo verso stizzito, simile ad uno schiocco di labbra che con la scarsa illuminazione non gli era possibile scorgere con lo sguardo.

Ma dopotutto, non aveva bisogno di vedere. Erano compagni da molti anni; sapeva “osservare” anche solo ascoltando.

«Non incrocerà la tua strada. E nemmeno la mia.» assicurò, concedendosi infine di chiudere gli occhi.

 

 

 

 

 

Note

E il primo capitolo si concluse *faccia ebete*

Non ho note particolari riguardo il capitolo vero e proprio, giusto una puntualizzazione sul personaggio di Noah.

Di mia invenzione (a scanso di equivoci per chi, magari, non è al passo col manga), si sarà notato che quando parla sembra quasi che io abbia scordato i termini appropriati della lingua italiana XD

 

In realtà, come si capirà poi più avanti, è un tratto “personale” di Noah stesso: si esprime con toni molto colloquiali rispetto al resto degli studenti che si trovano a Latowidge.

Se vi torna più semplice, potete considerarlo come uno che parla lo slang, ecco XD

 

 

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Capitolo 2
*** La nostra ***


Disclaimer: il personaggi di Marcus e Clifton Lafayette sono di invenzione dell’autrice Yoko891

Disclaimer: il personaggi di Marcus e Clifton Lafayette sono di invenzione dell’autrice Yoko891.

Note: ringrazio Yoko per avermi permesso di utilizzare Marcus. Al contrario di Clifton (che viene e verrà solo nominato per fare numero XP), Marcus si rendeva necessario poiché il personaggio di Noah nasce strettamente collegato a lui. Grazie Yoko <3

 

 

La nostra “ordinaria amministrazione” è…

 

La cena si era svolta più o meno con una certa tranquillità.

Senza tornare sul discorso di Gilbert, Ada gli aveva indicato di tanto in tanto alcuni studenti che conosceva: come poté notare Oz stesso, la maggior parte erano dello stesso anno della sorella. Fra loro c'era stata Karin Hamilton, la ragazza incrociata proprio fuori dalla mensa prima di cena: era seduta al tavolo con un'altra ragazza dai capelli biondi e corti e l'aria irriverente - che Ada gli indicò come Sally McFinch - e un ragazzo dall'aria pacata e il sorriso gentile, i capelli scuri e abbastanza lunghi, tenuti in ordine da un nastro blu, che per un istante aveva scambiato per il fratello di Karin.

Ad un'occhiata più approfondita, insieme al nome suggeritogli dalla sorella - Clifton Lafayette, dunque un cognome diverso da quello di Karin - Oz aveva escluso quella possibilità. Il ragazzo in special modo, aveva detto Ada, era uno studente piuttosto brillante del suo anno.

L'attenzione di Oz, mentre lasciava vagare lo sguardo per la sala che andava lentamente svuotandosi, si soffermò anche su Noah che stava uscendo e che gli rivolse un saluto veloce e un cenno che stava a segnalare un "ci vediamo dopo".

«Ada, il capo dormitorio cambia per ogni anno?» domandò incuriosito, cercando quasi di individuare a occhio il loro - cosa impossibile anche con un numero di studenti ridotto.

Ada sorseggiò l'acqua, per poi dissentire col capo: «No, è lo stesso per tutti gli anni. C'è anche un vice capo dormitorio, comunque, in modo che quando sono assenti gli uni, ci siano gli altri.» spiegò.

Oz annuì, prendendo il proprio vassoio e allungando una mano verso quello della sorella, aspettando che lei glielo porgesse per portarlo a posto insieme al proprio. Quando lo ebbe riconsegnato e fu tornato al tavolo, Ada lo affiancò ed uscirono insieme dalla mensa.

Camminando per il giardino, approfittando di avere ancora tempo prima del coprifuoco imposto dal regolamento, Ada azzardò finalmente alla domanda che aveva evitato di fare appena si erano visti.

«Oz... come sta papà?» chiese, il tono quasi timoroso eppure era palese che cercasse di mantenersi rassicurante, e gentile. Lui sorrise apertamente: «Lavora un sacco come al solito! Nostro padre non cambia mai, non preoccuparti.» assicurò ridacchiando, le braccia incrociate dietro la testa mentre camminavano.

«E anche tu stai bene?» quasi parve incalzarlo. Lui spostò lo sguardo su di lei, una sfumatura di perplessità nelle iridi chiare. Infine, le sorrise con dolcezza: «Sì. Una scuola vale l'altra, e poi così posso controllare la mia sorellina, no?» scherzò su, riprendendo ad avanzare dopo aver rallentato appena alla sua domanda. Ada non lo affiancò subito.

Lo seguì inizialmente solo con lo sguardo, preoccupata e dispiaciuta: suo fratello mentiva così frequentemente e con così tanta naturalezza, eppure lo capiva ugualmente, se ne accorgeva come se di mentire non fosse mai stato davvero capace.

Sperava che almeno una delle due risposte non fosse una bugia, che almeno loro padre stesse davvero bene; e sperava anche che Latowidge avrebbe aiutato a far sì che anche Oz migliorasse, e non solo per rassicurare lei.

Lo vide voltarsi e chiamarla, il tono allegro, esortandola a sbrigarsi o l'avrebbe lasciata indietro: scosse appena la testa, accantonando per un attimo quelle preoccupazioni e affiancandolo dopo averlo raggiunto nuovamente.

 

Rientrò in dormitorio, dopo essersi salutato con Ada all'ingresso di quello femminile dove l’aveva accompagnata. Avviandosi alle scale aveva trovato più di qualche studente in sala comune, a chiacchierare per lo più. Si era anche intrattenuto per un po', fermato da un ragazzo: capelli scuri dal taglio corto e appena spettinato, gli occhi anch'essi neri, dall'espressione piuttosto apatica.

Si era presentato come Aedan Shaye, del terzo anno: «Tu sei il nuovo studente, Oz Bezarius.» aveva detto con un tono tale che al biondo era parso che più che una domanda, fosse un'affermazione. Aveva comunque annuito, inclinando appena il capo di lato, incuriosito dal suo essersi avvicinato. L'altro non mutò più di tanto espressione: «Il capo dormitorio non c'è, ma tornerà lunedì per le lezioni. Quindi da lunedì sera, devi scegliere un giorno per incontrarlo.» disse.

Sembrava che il suo compito fosse semplicemente riportare un'informazione affidata da un altro, a giudicare dal coinvolgimento della sua voce, praticamente inesistente.

«Anche se non ho nulla da chiedere?» domandò Oz. Dopotutto il regolamento era spiegato nei dettagli su quei fogli che gli avevano dato nel pomeriggio. Cercò di anticipare la risposta dell'altro dal suo sguardo o da un eventuale cambiamento d'espressione, che però non ci fu.

«Come ti pare. Io dovevo solo riportare il messaggio.» replicò nell'unico modo che Oz non avrebbe potuto prevedere in alcun modo. Chiunque si sarebbe aspettato che l'altro rispondesse un secco "sì, devi", o che magari gli assicurasse che non era obbligato a farlo subito, ma che prima o poi sarebbe stato il caso che si facesse almeno vedere.

Invece, una replica totalmente neutra come l'espressione, Aedan si congedò con un cenno leggero del capo senza aggiungere altro, né aspettare la sua risposta.

Lo vide andare in direzione delle poltroncine, prendendo posto ad una libera accanto ad un compagno - probabilmente dello stesso anno - che ridacchiò, rendendo partecipe l’altro del discorso nato con altri studenti.

Ancora un po' perplesso, Oz si era dunque davvero deciso ad andare in stanza e aveva quindi salito la scalinata, seguendo il percorso fatto con Noah e raggiungendo la porta giusta.

Non fece in tempo ad aprire, comunque, che per poco l’uscio non si aprì direttamente contro la sua faccia. Lo schivò per un pelo, indietreggiando e sbilanciandosi un poco.

Vide uscirne un ragazzo che gli ricordò in qualche modo l'uomo che lo aveva accolto nel giardino in quel modo strambo, al suo arrivo: i capelli di un biondo chiarissimo da sembrare quasi bianchi, ciò che colpì Oz furono gli occhi di ghiaccio.

Non solo per il colore chiaro, ma anche per lo sguardo freddo che li animava: indossava abiti pratici, ma aveva un'eleganza innata. Non era difficile immaginare che fosse di ottima famiglia e abituato ad una certa compostezza. Lo stesso viso aveva qualcosa di attraente malgrado l'espressione non fosse proprio l'emblema della cordialità in quel momento.

A seguire uscì Noah, il sorrisetto colpevole sulle labbra: «Dai, Marcus, non te la prendere.» cercò di abbonirlo il rosso, ridacchiando piano.

«Non me la sono presa, le tue cazzate restano le tue, non fraintendere ogni mio strafottuto atteggiamento.» sbottò quello, la grazia della sua figura completamente spazzata via dal momento stesso in cui aveva aperto bocca.

Oz sbatté un paio di volte le palpebre, sorpreso: aveva la stessa finezza di un giardiniere piuttosto rozzo, quel tipo. Noah, però, non solo non sembrava offeso ma rideva apertamente, quasi felice per quella reazione.

«Va bene, va bene. Mi auguri la buonanotte prima di andartene?» chiese, ed Oz si chiese seriamente se il suo sogno proibito quella sera non fosse farsi prendere a pedate dal ragazzo chiamato Marcus. Quest'ultimo sbuffò sonoramente, avvicinandosi e scompigliandogli appena i capelli: «Buonanotte.» sbottò di malavoglia.

«Buonanotte anche a te, Marcus.»

«Grazie a quelli che non mi fai pestare sarà una notte di merda, evita di prendermi per il culo Noah.» ribatté, la speranza di un qualche barlume di finezza ormai completamente sparita.

Allontanandosi, Marcus posò lo sguardo per qualche attimo su Oz, che ricambiò fra il sorpreso e il confuso. Non gli rivolse la parola, comunque, avviandosi dalla parte opposta del corridoio.

Oz spostò lo sguardo su Noah alla ricerca di una spiegazione - o della certezza che tutto ciò fosse in qualche modo normale - e il compagno di stanza gli sorrise rassicurante, facendogli cenno di seguirlo dentro.

Una volta entrato e aver richiuso la porta alle proprie spalle, notò che Noah era già in pigiama; lo vide buttarsi con aria beata sul proprio letto, affondando inizialmente la faccia nel cuscino come un ragazzino. Rimase in quella posizione per qualche tempo, ridacchiando a tratti per chissà quale pensiero - probabilmente, immaginò Oz, riguardava quel tipo che se ne era andato.

Approfittò comunque di quei minuti per cambiarsi a sua volta, tirando fuori il pigiama ed indossandolo. Quando anche lui si buttò di peso sul letto, rilassandosi, Noah sembrava essersi ripreso psicologicamente abbastanza da articolare una spiegazione.

«Quello è uno del terzo anno. Marcus dico.» se ne uscì, non l'inizio migliore per capire ma sempre un inizio. Oz si limitò soltanto ad annuire, incalzandolo a continuare.

«E' un po' sboccato, l'avrai notato, ma non è cattivo.» assicurò.

Oz sorrise: «Siete amici da tanto?» domandò, deducendolo dalla totale fiducia che traspariva dal tono dell'altro. Noah lo guardò per un attimo confuso, poi ridacchiò.

«Marcus è mio fratello.» disse lasciando di stucco Oz: «Fratellastro a dir la verità, e sua madre e mio padre neanche sono sposati ancora.» chiarì, spiegandosi meglio.

Oz ci pensò su un attimo: «Non avrei immaginato che potessi avere un fratello, o fratellastro.» ammise.

Noah lo osservò in silenzio, il sorriso strafottente che si faceva largo sul viso: «Hai presente che mio padre è un fotografo, no?» se ne uscì, apparentemente senza nessuna connessione al resto del discorso. Ad ogni modo Oz fece segno di sì con la testa.

«Sì, me l'hai detto oggi.»

«E hai presente che questa è una scuola di ricchi, sì?»

«Beh, sì, direi di sì.»

«Ho l'aria di un figlio di papà, Oz?»

«Nemmeno di striscio ad essere sinceri.»

«Ecco!» esclamò l'altro, come se finalmente avessero centrato il punto, assumendo poi un'espressione tranquilla, di chi sta per osservare casualmente che forse domani il tempo sarà nuvoloso: «La madre di Marcus è la metà ricca della famiglia. Papà e io siamo la metà stupida.» concluse, la faccia da schiaffi che aveva assunto un'aria troppo ebete per sperare di non scoppiare a ridere.

Parlava della ricchezza e della stupidità come le due metà di un DNA, una cosa che capita e allora la prendi con filosofia.

Oz ebbe la sua conferma: il motivo per cui lui sarebbe andato d'accordo con Noah, era che quest'ultimo era uno dalla mente decisamente semplice.

In altre parole, era assai probabile che condividessero la stessa dose si stupidità - in senso buono. Più o meno.

Scoppiarono a ridere entrambi, quasi in contemporanea; quando riuscirono a smettere, si guardarono per un attimo: «Appena possiamo te lo presento meglio.» aggiunse, come se non avessero mai interrotto il discorso. Oz annuì, rimanendo qualche momento in silenzio.

Quando si decise a parlare, aveva lo sguardo rivolto al soffitto, sdraiato sul letto a pancia in su: «Conosci molti studenti, anche degli altri anni?» domandò, ma sembrava in realtà una premessa alla domanda vera e propria.

Noah, probabilmente incuriosito da quella richiesta, annuì: «Non tutti, ma una buona parte. Soprattutto quelli del terzo e del quarto, perché sto spesso con Marcus o con Karin.» spiegò.

Oz soppesò qualche istante se proseguire o meno con la domanda vera e propria: «Conosci un Gilbert?»

Noah lo guardò praticamente allucinato: «Mica dirai Gilbert Nightray?» se ne uscì, stupito; uno stupore che Oz non capì, mentre confermava i sospetti di Noah.

«Sì. Intendo Gilbert Nightray, perché?» chiese, istintivamente sulla difensiva senza nemmeno accorgersene. L'altro sospirò, come se la sapesse lunga: «Beh, non ci ho mai parlato di persona. Ma è abbastanza famoso, o meglio lo è suo fratello Vincent.» assicurò.

Oz, assunse un'espressione confusa: che lui sapesse, Gilbert non aveva mai avuto fratelli. A meno che, adottato dai Nightray, non ne avesse acquisiti. Noah parve intuire quella confusione nell'altro e si limitò a continuare senza chiedere nulla.

«Non so tantissimo su di loro, ma Gilbert non parla con tante persone. L'ho visto dare davvero confidenza solo ai parenti che studiano qui, oppure a tua sorella Ada. Non so se è carattere, tipo che è riservato. Non mi sembra malaccio, pare uno a posto.» spiegò, tornando con lo sguardo - che si era posato sul soffitto quasi ad imitazione di Oz - sul biondo: «Perché ti interessa tanto?» chiese infine.

Oz, che aveva ascoltato quasi pendendo dalle sue labbra, non rispose subito.

«I parenti che studiano qui?» ripeté, perplesso: «Perché, tutto il casato Nightray è a Latowidge?» aggiunse, involontariamente ironico.

Noah ridacchiò, sistemandosi su un fianco, la mano destra a sorreggere il volto: «Più o meno. Cioè, se oltre ai due fratelli conti pure due delle guardie del corpo di famiglia e la cugina, sono un bel po' rispetto agli altri che al massimo hanno un fratello o una sorella, come me e te. Però la cugina mi ricordo che è una cosa a parte, ha anche il cognome diverso. So che non vanno tanto d'accordo. E anche se le due guardie del corpo rispondono all'iscrizione con il nome dei Nightray, tutti sanno che non sono i figli del capofamiglia.» concluse.

Oz, a quel punto, si prese qualche istante per riordinare le idee, rimanendo in silenzio.

Quando si voltò per chiedere altro, dopo un bel po' che non parlavano, lo notò: Noah dormiva della grossa, probabilmente addormentatosi senza che lui se ne accorgesse nemmeno.

Sorrise divertito; voltandosi su un fianco per mettersi a dormire, si lasciò sfuggire una risata leggera quando - mettendosi sotto le coperte - notò Noah sdraiato scompostamente sopra le sue, l'espressione ebete e beata mentre dormiva a bocca aperta mugugnando qualcosa di indistinto.

 

 

«…z? …Oz?» sentì chiamare, senza la minima intenzione di aprire gli occhi.

Erano così… pesanti. E lui così stanco, spossato.

«Lascia che riposi. La… è stata…» cosa? Cosa era stato come?

Quella voce era nuova e familiare al tempo stesso.

Quella voce era…

 

«Bella addormentata, ci svegliamo o no?»

Aprì gli occhi di scatto, sussultando appena. La prima cosa che rientrò nel suo campo visivo, fu la faccia sorridente e dallo sguardo iperattivo già di prima mattina di Noah.

Mugugnò qualcosa di insensato, tentando di girarsi dall’altra parte. Sentì ridacchiare, poco prima che coperta e lenzuolo venissero tirati via dandogli una spiacevole sensazione di improvviso cambio di temperatura.

Aprì gli occhi di malavoglia, cercando con lo sguardo la causa dell'assenza di quel tepore così piacevole: ai piedi del letto, Noah era di spalle di fronte all'armadio aperto di Oz.

Recuperò qualcosa appeso alla stampella e gliela lanciò al volo, sorridente: il biondo la prese più o meno fra le mani, notando che si trattava dei propri pantaloni. Li osservò perplesso mentre una camicia pulita e semplice gli arrivava più meno in testa coprendogli in parte la visuale.

La tirò via, tornando sull'altro che aveva entrambe le mani sui fianchi e in quel momento ricordava tragicamente una mamma - o una zia piuttosto ficcanaso.

«Dai, muoviti! E' già tardi per la colazione sai?» gli fece presente. Ancora mezzo assonnato, stropicciandosi un occhio e sbadigliando, Oz riuscì a mettere insieme qualche parola: «Mi sveglierai così tutte le mattine?» chiese a metà fra lo scherzoso e il preoccupato.

Noah ridacchiò: «Solo nei week-end probabilmente. Quando abbiamo lezione non mi sveglio io, figurati se sveglio te!» gli fece presente.

Oz ridacchiò: «E con le lezioni?»

«Ovvio. Se non mi sveglio, vuol dire che era destino che io continuassi a dormire! E chi sono io per oppormi al mio destino?» recitò falsamente melodrammatico, chiudendo le ante dell'armadio del biondo: «Forza, hai cinque minuti per essere lavato e vestito. Ho così fame che mi mangerò i tuoi vestiti se non mi fai fare colazione.» osservò, lo stomaco che gorgogliava quasi a voler sottolineare che lo avrebbe fatto sul serio.

Oz, recuperati vestiti e la roba pulita da mettere, ormai sulla soglia del bagno si voltò con aria eloquente e falsamente arrogante: «Anziché mirare ai miei vestiti potresti anche scendere in mensa, sai?» ironizzò.

Noah lo guardò con espressione di chi sa e si diverte alle spalle di uno che non può nemmeno immaginare cosa lo attende: «Tu non hai mai visto la colazione a Latowidge, perciò sii grato al fratellone Noah che si immola per proteggerti.» sottolineò.

«Proteggermi? Non ti affiderei una piantina!» disse con falsa aria da innocentino.

Noah gli tirò un calzino appallottolato che Oz evitò chiudendosi velocemente alle spalle la porta del bagno.

Una decina di minuti dopo - neanche Noah lo avesse cronometrato - uscivano dal dormitorio maschile e attraversavano il giardino fino all'edificio centrale e alla mensa.

«Allora, questo grande pericolo?» lo incalzò Oz, il tono palesemente scettico. Noah lo osservò con un sorrisetto furbo: «Oz, che esperienza hai con le donne?» se ne uscì senza un nesso.

Oz guardò davanti a sé, un po' a disagio. Insomma, se si parlava di come far piacere ad una donna dal punto di vista del Galateo, si poteva anche fare - non che ricordasse più di quattro lezioni ma, ehi!, qualcosa la sapeva!

Ma l'esperienza in altri campi si limitava a quando era un poppante che, come tutti i fratelli minori, ciarlava a proposito di voler sposare la propria sorella - ciò che, quindi, fanno quasi tutti i bambini.

«Perché, mi farai lezione su come diventare un perfetto gigolò?» ironizzò anche per togliersi d'impaccio. Noah ridacchiò: «Non penso ti sarei molto d'aiuto su quello, ma c'è una cosa che posso insegnarti sulle ragazze di questa scuola.» assicurò, ormai entrambi sulla soglia della mensa.

Si fermò lì, indicando nella sala: «Prova a dare un'occhiata verso i tavoli in fondo.» gli consigliò. Oz fece dunque capolino con la testa all'interno della sala, affacciandosi per poter vedere: non ci volle molto per capire a cosa si riferisse il compagno.

In fondo alla sala, appena staccati dal resto dei tavoli, ce ne erano alcuni in disparte: occupati per lo più da adulti, di loro Oz fu in grado di riconoscere solo lo strano tipo con la bambolina di pezza sulla spalla che aveva incontrato al suo arrivo. Al tavolo con lui stava un uomo che sembrava forse più giovane di un paio d'anni, ma non di più.

Capelli castani dal taglio abbastanza sbarazzino, aveva l'aria di uno che si sta rassegnando al fatto che la vocazione della sua vita è fare il maestro d'asilo - il cui unico bambino è proprio l'attuale compagno di tavolo.

Occhiali dalla montatura fina che al momento stava pulendo con l'apposito panno, indossava gli stessi abiti che aveva l'albino. Il quale, al momento, era appena piegato sul tavolo - quasi del tutto sgombrato - e fissava intensamente una pallina.

Sì. Proprio una pallina, neanche questa fosse un uccellino che dovesse spiccare il volo.

Oz cercò di capire cosa mai potesse aspettarsi dal piccolo oggetto, che vide l'uomo avvicinare la mano piano, quasi aspettandosi che la pallina scappasse spaventata, dandogli... un colpetto veloce.

Quella volò via, prendendo in pieno la testa di un uomo al tavolo accanto che dava loro le spalle. Nel silenzio della sala - cosa innaturale e che si era formato da un po', ora che ci faceva caso - vide la persona colpita alzarsi con calma.

Con molta calma.

E in seguito voltarsi velocemente mentre un libro prendeva il volo - e l'albino lo evitava con nonchalance e un sorrisetto da far innervosire anche un santo.

«Xerxes Break la mia pazienza ha un limite.» tuonò glaciale l'uomo lanciatore di libri - così lo aveva soprannominato Oz, in attesa di conoscerne il nome - guardando male l'altro che aveva assunto un'aria divertita degna della migliore faccia da schiaffi che Oz avesse mai visto.

«Quanto sei noioso Rufy.» si lamentò l'uomo chiamato Break, mentre il biondo temeva seriamente di vedere l'altro azzannarlo alla giugulare entro breve.

Ma, come si suol dire, il peggio doveva ancora venire.

In quel momento in cui la tensione si poteva quasi tagliare con un coltello tanto era palpabile, un solo ed unico suono riecheggiò nella sala sulla quale era caduto il silenzio.

«Aaaw, litigano di nuovo!» fu la frase pronunciata con un tono che fu un misto tra una malsana adorazione per la cosa e uno smielato entusiasmo.

Se non fosse stato così lontano, Oz avrebbe giurato di aver visto l'uomo che aveva lanciato il libro con la stessa espressione di chi si chiede silenziosamente per quale motivo Dio lo odia a tal punto da fargli penare tutto quello.

Mentre Xerxes Break se la rideva di gusto canticchiando: «Guarda, Rufy, le tue ammiratrici ti amano ~!»

Oz pensò che forse era solidale a quel tale "Rufy". Break, seppure a suo modo divertente, sembrava uno di quelli che ti rendono la vita un Inferno.

Non importa come.

Ce la fanno comunque.

Sentì Noah ridacchiare al suo fianco, mentre lo afferrava per un braccio e lo tirava verso di sé. Oz non fece in tempo ad alzare lo sguardo interrogativo verso di lui, che uno scalpiccio proveniente dall'ingresso attirò la sua attenzione: un gruppo di studentesse appartenenti probabilmente ai primi due anni, si affrettava verso la mensa.

Oz lasciò che passassero, tirato di lato dal compagno di stanza; quando furono passate, sentì Noah sbuffare divertito: «Ti presento il fan club del corpo docenti. Non sai quanto possono essere letali.» scherzò su, divertito come chi non si stanca mai di vedere una stessa scena, per quanto ripetitiva.

Oz lo fissò perplesso: «Stai scherzando?» chiese, anche se sembrava che nemmeno lui riuscisse a trattenere una risata.

Noah, varcando la soglia, si limitò a dire: «Aspetta di sentirle sospirare a lezione. Hanno una fantasia tale che il repertorio di frasi stucchevoli non si esaurisce mai.» assicurò ridendo e avanzando verso il banco per scegliere cosa mangiare a colazione.

Oz scosse la testa ridendo, seguendolo nella stessa direzione.

 

Dopo la colazione si erano divisi.

Noah aveva accennato ad una ricerca da finire per il lunedì successivo - o meglio, al dover chiedere a Karin se poteva aiutarlo a cominciarla dall'inizio, visto che tanto per fare una cosa diversa si era ridotto all'ultimo - dunque si era avviato verso la biblioteca.

Così, Oz aveva optato per farsi un giro e magari vedere se incrociava Gilbert: certo, era probabile che l'altro fosse tornato a casa con i fratelli. E, di certo, l'avrebbe potuto scoprire chiedendo in segreteria o magari controllando in dormitorio.

Ma non aveva idea di quale fosse la stanza dell'altro, né voleva sembrare una brutta copia di un maniaco ossessivo: non aveva nulla di così vitale da chiedergli. Oltretutto, erano sei anni che non si incrociavano nemmeno; non sapeva neanche esattamente di cosa parlare. I ricordi di quando Gilbert era a casa Bazarius erano piuttosto vaghi, e lui era un bambino praticamente.

Ed inoltre... molte cose erano diverse, allora.

«Ehi, tu, hai intenzione di stare lì ancora per molto o posso sperare che tu tolga il tuo sudicio piede dalla mia tracolla in tempi umani?!» sentì dire, la voce che proveniva dal basso.

Abbassò lo sguardo sul terreno del giardino, l'erba che profumava dell'odore tipico di quando viene appena tagliata.

Seduta in terra, la schiena contro il tronco dell'albero e lo sguardo puntato su di lui, stava una ragazza minuta ma dall'espressione palesemente seccata.

I capelli - la prima cosa che notò dopo lo sguardo dal colore ametista e soprattutto indispettito - erano castani scuri e parecchio lunghi, legati in due codini alti che le donavano un'aria sbarazzina e graziosa. Non indossava la divisa di Latowidge: il suo posto era preso da una camicetta bianca e senza particolari ricami e una gonna nera che sfiorava il ginocchio.

Oz sbatté un paio di volte le palpebre.

«Cos'è, oltre che cafone pure cieco?!» sbottò quella e, finalmente, il biondo individuò il proprio piede su parte della sua borsa a tracolla. Lo alzò subito, indietreggiando di un paio di passi e abbozzando un sorrisetto impacciato, la mano che andava a grattare appena la nuca.

«Mi spiace, non l'avevo vista.» ammise, il tono a mo di ulteriore scusa. Quella sbuffò, riprendendo tra le mani il libro poggiato sulle gambe senza una parola.

Oz ridacchiò: era certo di averla vista imbronciarsi.

Si sedette sull'erba, poco oltre la borsa; lei spostò lo sguardo lateralmente, su di lui: «Beh?»

«Posso farti compagnia?»

«Non la voglio la compagnia.»

«D'accordo.» replicò Oz con tono allegro senza muoversi di un millimetro. Lei sbuffò sonoramente, senza preoccuparsi certo di nasconderglielo, tutt'altro.

«Cosa vuoi?» lo incalzò, quasi fosse scontato che volesse qualcosa e che fosse intenzionata a capire cosa fosse al più presto per poterselo togliere di torno in fretta.

Oz ridacchiò: «Cosa leggi?» domandò senza rispondere alla sua domanda.

Lei, perplessa probabilmente dal suo essere così ottuso, spostò lo sguardo sul libro per poi riportarlo su di lui, l'aria beffarda: «Come occultare il cadavere di quello che ti si siede vicino con l'intenzione di romperti le scatole.» decretò.

Oz rise, sinceramente divertito, mentre la ragazza iniziava a maturare l'idea che quel tipo non fosse tanto normale, o che magari avesse uno spiccato gusto del macabro.

Il biondo, per contro, gli porse la mano con la chiara intenzione di fare conoscenza: «Oz Bezarius.» si presentò.

Lei parve sorpresa, ma dopo un leggero tentennamento strinse la mano - forse ancora sperava che, accontentandolo, poi si eclissasse: «Alice Lewis.» replicò, burbera. L'altro, stringendole la mano minuta di rimando, si ritrovò a pensare che fosse carina malgrado il modo di parlare o l'espressione che ti rivolgeva.

Forse, si disse, semplicemente non era abituata a fare amicizia?

«Come Alice nel Paese delle Meraviglie?» chiese - che domanda idiota e scontata.

Anche lei parve trovarla particolarmente stupida: «Quanti imbecilli ancora me lo chiederanno per il resto della vita?» sbottò infatti. Oz non parve offeso, però.

«Ma Alice di Carroll è un bel personaggio.» le fece notare.

Lei alzò il libro, rivelando proprio quello di cui stava parlando l'altro: «Alice di Carroll è semplicemente fuori di testa.» commentò.

Oz rise, indicando la copertina: «Però ti piace no? Altrimenti non lo leggeresti.» osservò acuto, troppo per i gusti della ragazza. Con un leggero rossore ad imporporarle le guance, spostò lo sguardo sulle pagine del libro a cui teneva il segno: «Tsk, rompiscatole.»

«Alice non trattarmi maleee!» si lamentò falsamente, prolungando la "e" finale come un bambino.

«Zitto, servo, mi deconcentri!»

«Ma come servo?»

«Ho deciso che sei il mio servo, se non ti sta bene levati! Mi stai disturbando!» ribatté lei innervosita da quel tipo assurdo che di tanta gente proprio lei doveva prendere di mira quella mattina.

Lui rise: «Oh beh. Se servo è il modo con cui Alice dice "amico", va bene!» esclamò stupidamente, rimanendole vicino e passando il resto della mattinata in sua compagnia.

Avevano pranzato insieme, unendosi al tavolo di Noah e Marcus - che, sebbene fosse sembrato meno nervoso della sera prima, non era certo meno sboccato, o così Oz aveva notato.

Nel pomeriggio si era invece separato da Alice; sua sorella Ada si era offerta di mostrargli almeno come raggiungere i posti principali della scuola, come la biblioteca o l'infermeria.

Oz aveva però assicurato alla maggiore di non doversi preoccupare certo delle aule delle sue lezioni: la comodità di avere un compagno di stanza dello stesso anno era anche quella.

Per i primi giorni avrebbe seguito Noah per i corridoi molto in stile cagnolino, e alla fine di certo avrebbe memorizzato i diversi percorsi per conto suo.

Percorrevano ora proprio uno dei corridoi per raggiungere l'atrio, chiacchierando: «Ah, aspetta.» lo richiamò lei indicandogli una porta che stavano oltrepassando proprio in quel momento.

«Cos'è?» domandò lui osservandola incuriosito.

«La stanza dove si riuniscono i capo dormitori, i vice capo dormitori e i capoclasse per discutere di quello che riguarda gli studenti. So che devi ancora parlare con lo studente a capo del dormitorio maschile, quindi penso che domani lo troverai qui.» assicurò.

Annuì, riprendendo a camminare ed informandosi riguardo che tipo fosse questo studente di cui non solo Ada, ma anche Aedan del terzo anno gli aveva in qualche modo presentato come qualcuno indubbiamente rigido e severo, seppur disponibile.

Mentre ormai svoltavano entrambi l'angolo, addentrandosi in un corridoio che si incrociava a quello, la porta che ai fratelli Bezarius era parsa chiusa, venne aperta ulteriormente, rivelandosi quindi già schiusa in precedenza.

«Dunque sarebbe lui.» commentò, atono. Le braccia incrociate al petto, la figura slanciata era poggiata con la schiena contro il muro, poco distante dalla porta che aveva aperto.

«Sì, si tratta del fratello di Ada Bezarius, che è nel mio dormitorio.» asserì pacatamente una voce femminile, le labbra incurvate in un sorriso rilassato, lo sguardo sull'altro.

Il viso voltato lateralmente e lo sguardo ancora sul corridoio ormai deserto, il ragazzo annuì impercettibilmente: «Cosa consigli di fare?»

«Per il momento, credo tu dovresti solamente conoscerlo come tutti gli altri, fratello. Fintanto che Aedan lo tiene d'occhio, non pensi sia sufficiente?» replicò, nel tono una sfumatura di bonario divertimento.

Spostò lo sguardo su di lei, annuendo: «Darò disposizioni ad Aedan perché continui ad occuparsene.» concluse quindi, aprendo del tutto la porta.

«Credo sia la scelta più giusta.» assicurò lei.

 

 

Quando raggiunsero l'atrio, la prima cosa che notarono sia Ada che Oz fu un vociare concitato dovuto ad alcuni studenti che occupavano l'ampio spazio che ospitava l'entrata dell'edificio.

Sembrava che la loro attenzione si fosse concentrata principalmente verso il centro, appena dopo il portone. Incuriosito Oz si avvicinò al gruppo di studenti più vicino, che aveva l'aria divertita.

Ada lo imitò, riconoscendo poco lontano Karin, alla quale si rivolse: «Karin, che succede?» domandò, una nota di preoccupazione nella voce.

L'amica, voltandosi e riconoscendola ridacchiò sommessamente: «Nulla di allarmante, Ada. I fratelli Nightray sono appena rientrati con gli studenti andati via per il week-end.» spiegò con semplicità.

Oz portò istintivamente lo sguardo verso il centro, dove anche gli occhi di tutti gli altri erano fermi.

«Ti era stato chiesto di tornare a casa, perché continui a fare di testa tua?»

«Non stressarmi, cugino, hai fatto il tuo compitino da bravo bambino, non vedo perché mai dovrei tornare in una casa non mia!»

«Perché per i tuoi comodi sono altre persone a finire di mezzo, mocciosa!»

«Mocciosa a chi, sottospecie di cane ammaestrato?!»

«Chi sarebbe il cane ammaestrato?!»

«Ti do due indizi: ce l'ho davanti e si chiama Gilbert Nightray!»

«Se sei rimasta alla stessa civilizzazione dell'età della pietra e non riconosci l'educazione non è certo colpa mia!»

Oz fissò la scena di un Gilbert molto diverso da come lo ricordava - l'aspetto fisico poteva essere simile, con i semplici cambiamenti canonici della crescita, ma il carattere era senza dubbio più irascibile di quanto lo ricordasse - e di una Alice che, a quel punto, era chiaro fosse la cugina dei Nightray di cui gli aveva accennato Noah.

A guardarli discutere così animatamente - con il ricordo, seppur vago, di un Gilbert timido e piagnucolone - Oz non sapeva se essere sorpreso, o se ridere di gusto.

Certamente non si era aspettato di essere chiamato in ballo, né che il primo incontro con Gilbert sarebbe avvenuto in maniera tanto rocambolesca.

Nei suoi piani, quella mattina, non aveva considerato Alice evidentemente.

Adocchiandolo chissà come fra i tanti studenti, la moretta aveva puntato il dito contro di lui: «Servo, vieni a dare una lezione a questo coso!» aveva quindi esclamato, facendo voltare in sua direzione non solo il "coso" - ossia Gilbert - ma anche buona parte dei presenti.

Quanto ad Oz, lui si era limitato ad indicare perplesso se stesso con il dito, come se non fosse sicuro di aver capito.

Riportando lo sguardo su di loro, incrociò quello di Gilbert: gli occhi dorati sembravano aver appena visto un fantasma. O qualcuno che, poco ma sicuro, non si aspettavano di vedere, soprattutto non così presto.

«...Oz?» chiamò, il tono basso, l'espressione stupita.

 

 

 

Note e ringraziamenti

Per quanto riguarda questo capitolo, l'unica spiegazione che serve credo sia riguardo Alice XD

Per il cognome, ho dovuto inventarne uno e mi è venuto spontaneo dargli il cognome che coincide con il nome dell'autore del libro "Alice in Wonderland" (Lewis Carroll) peraltro citato nello stesso capitolo.

 

La parentela con Gilbert... non ho proprio resistito XD

Dovendo e volendo ricreare l'atmosfera idiota nei loro litigi, ho optato per renderli cugini per poter far sì che le regole di buona educazione che (teoricamente) dovrebbero aleggiare a Latowidge non intaccassero il rapporto dei due.

Spero non vi incasini troppo XP

 

Innanzitutto un ringraziamento generale a chi ha letto (commentando e non) il primo capitolo. Vi ringrazio <3

In particolare, rispondo alle recensioni di:

 

LitaChan: ti ringrazio, e sono felice di sapere che mi seguirai X3 Per quanto riguarda l’ambiente scolastico, senza fare spoiler ti dico solo: tienilo bene d’occhio XD

 

artemis89: wow, addirittura catturato, grazie *-* Il nemico comune X°D Vedremo quanto impiegheranno prima di perire contro la scuola, allora. Quanto a Noah, non si sa cosa combinerà, ma la certezza è questa: saranno guai, visto il soggetto XD

 

Doremichan: è una liberazione sapere che la descrizione iniziale di Latowidge abbia dato un’idea di come è fatta la scuola. Essendo io una che predilige l’introspezione alla descrizione, su quest’ultima devo sempre fare il doppio dell’attenzione XD

Sono contenta che Noah abbia riscosso tanto successo, cosa che non mi aspettavo affatto sinceramente.

Inizialmente Gilbert non doveva nemmeno apparire in questo capitolo, ma c’è stato un cambio di programma XP

 

Yoko891: riguardo le virgole ne abbiamo già parlato in altra sede, quindi non mi ripeto anche qui xD

Già, i pochi personaggi per una trama scolastica sono l’unica vera pecca di questo adattamento. Ma suvvia, i nuovi personaggi tu già li conosci XD *indica Noah, Aedan, Karin e compagnia bella*

Break è inquietante, ma tutti gli altri docenti (o quasi) non sono da meno *muore*

Per Glen e Jack, penso ci vorrà ancora un po’, ma tu vivi dei miei spoiler, quindi… :3

 

makotochan: ed ecco il secondo capitolo che attendevi scodinzolante! E non è quel Noah, GYA. XD

Nel leggere la tua recensione ammetto che la prima cosa che ho pensato è stata: ah. Ma perché, io cambio stile da oneshot a longfic?

Forse perché sono l’autrice non noto il cambio di stile? XD Comunque, spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto. Grazie di seguirmi <3

 

ShAiW: Ed eccoti accontentata, è apparso anche Gil, per gli altri Nightray boys ci vorrà ancora qualche capitolo perché appaiano tutti XD

Eeeeh, i due tipi che parlano saranno avvolti dal mistero ancora per un po’: l’unica cosa che posso dire, è che non sono gli stessi due ignoti di questo capitolo XP

Bellissimo il tuo “OzGil OzGil OzGil OzGil” XDD Ora si sono incrociati, staremo a vedere u.u

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Capitolo 3
*** Ricordi il mio nome? ***


Ricordi il mio nome

Ricordi il mio nome?

 

«...Oz?» lo chiamò, l'espressione stupita.

Per contro, Oz non ne aveva una meno sorpresa, malgrado fosse perfettamente a conoscenza del fatto che Gilbert era lì a Latowidge.

Alzò la mano, come a fargli segno che lo aveva visto e riconosciuto, il sorriso leggero sulle labbra.

«Il mio servo è venduto.» sentì commentare ad Alice, grato alla schiettezza dell'altra che lo aveva appena riscosso dalla matassa informe e fin troppo intricata dei propri pensieri.

Rise, avvicinandosi di qualche passo: «Scusami, scusami Alice!» canticchiò andando in suo soccorso - o fingendo di farlo, visto che non ce ne era reale bisogno.

Lei, imbronciata e con le braccia incrociate al petto, voltò il viso dall'altra parte ostentando una certa offesa. Oz ridacchiò appena, sentendosi addosso lo sguardo di Gilbert.

Alzò il proprio, dunque, per cercare di capire cosa ci fosse di strano in lui: poteva spiegarsi la sorpresa iniziale, ma Gilbert sembrava di fronte al suo peggiore incubo - certo, da piccolo ammetteva di avere un tantino esagerato quando giocavano insieme, ma...

«Tutto ok, Gil?» chiese, il diminutivo che gli sfuggì fra le labbra prima che potesse ragionarci o fermarsi. Era così istintivo e suonava così familiare che, realizzò, anche sforzandosi non avrebbe saputo chiamarlo in nessun altro modo.

Fin dai suoi primi ricordi Gilbert era sempre "Gil".

Lo vide abbozzare un sorriso leggero: «E' tutto a posto, solo... è davvero una sorpresa.» ammise.

Gilbert sembrava qualcuno che non era tanto stupito dalla presenza dell'altro in quanto studente di Latowidge, ma una persona perplessa che non trovava proponibile il fatto stesso che fosse lì. Pur formulando questo pensiero, Oz scosse la testa: se c'era qualcuno a cui non voleva fare un torto attribuendogli pensieri certamente non suoi, era proprio l'altro ragazzo che ora stava nuovamente discutendo con Alice.

«Comunque il discorso è chiuso.» sentì dire alla ragazza, mentre Gilbert assumeva di nuovo l'aria seccata e irritata di prima: «Intanto smetti di chiamarlo "servo".»

«Non vedo perché non dovrei chiamarlo con il suo nome, tsk!»

«Perché è persino parte di una famiglia più importante della nostra e della tua, quindi non credo proprio dovresti, mocciosa viziata!»

«Ma sta zitto, Monnalisa!»

Oz, in tutto quello, si sentì picchiettare su una spalla; voltandosi, vide Noah che gli faceva cenno di allontanarsi e seguirlo, dirigendosi verso Marcus poco distante.

Incerto, alternò lo sguardo fra Noah e Gilbert ancora vicino ad Alice. Lui - probabilmente avendo visto la manovra del compagno del biondo - annuì impercettibilmente mentre Alice tentava ben poco elegantemente di piazzargli un calcio negli stinchi.

Oz ridacchiò appena, annuendo di rimando e seguendo quindi Noah. Raggiunsero insieme Marcus, in disparte e poggiato contro la parete. Quando li notò avvicinarsi, posò lo sguardo chiaro su Noah - Oz notò che sembrava seguirne i movimenti in ogni istante e con estrema naturalezza, come se fosse un compito assolto per tanto tempo e che, semplicemente, proseguiva anche in quel momento.

Poi, come se avesse constatato che era tutto nella norma, lo spostò inaspettatamente su Oz; il biondo soppesò la sensazione che gli dava. Non era esattamente a suo agio, ma nemmeno quel tipo di soggezione rivolta ad una persona più grande o che inquieta particolarmente.

D'altra parte, non era da lui pensare così tanto solo per rivolgere la parola a qualcuno. Tese la mano, con più naturalezza possibile: «Ciao, l'altra sera eri un po' di fretta, perciò... Oz Bezarius.» si presentò.

Marcus parve studiarne la mano con aria neutra; non strinse quella del biondo, ma rispose con un atono: «Marcus Wellesday-Keynes.»

Pareva una prassi di cui non gli interessava granché.

Noah stroncò sul nascere il silenzio imbarazzato che minacciava di crearsi da subito: «Mamma mia che casino eh? Scusa se t'ho tirato via, Oz, ma meglio che non ti conoscano tutti come quello che fa il servo di Lewis sai?» ironizzò, prendendolo bonariamente in giro.

Oz annuì divertito, mentre Noah si rivolgeva a Marcus, pur mantenendo ancora lo sguardo sulla scena: «Certo che oggi era pure più movimentato del solito, eh Marcus?»

«Quando mai i Nightray non fanno casino.» commentò, facendo ridere il fratellastro di gusto: «Però i tipi come Alice dovrebbero piacerti, no?»

«Convinto tu.» replicò laconico. Oz notò che Marcus, malgrado il linguaggio più adatto ad uno stalliere che non ad un figlio di buona famiglia, sembrava utilizzarlo solo quando proprio era furioso, come la sera prima.

Altro aspetto curioso, era che non importava quante parolacce dispensasse al mondo: Noah sembrava sempre scambiarli per complimenti - come facesse era un mistero.

Proprio il compagno di stanza, ora, batteva una pacca sulla spalla del fratellastro: «Un modo carino di dire che ti sta simpatica, stai migliorando sai?» lo prese bonariamente in giro, l'aria spensierata come se non avesse un solo problema al mondo.

Marcus non replicò nulla, lasciandolo alle sue convinzioni. L'altro, quindi, si rivolse ad Oz con un che di soddisfatto nel sorriso che gli rivolse: «Possiamo abbandonarti con la certezza che non ti ficchi nei guai, Oz?» chiese divertito.

Il biondo finse di pensarci su: «Mah, non lo so... e se mi annoio? Qualcosa dovrò pur fare per occupare il tempo.» finse di osservare casualmente, gli occhi chiari sull'amico. Noah gli fece l'occhiolino con aria complice: «Impara, Oz. Si fa casino davvero solo quando il capo dormitorio non c'è. E probabilmente è già tornato anche lui come il tuo amico.» gli fece notare, voltandosi e incamminandosi per il corridoio, levando solo la mano in aria e agitandola appena come saluto.

Marcus si era avviato quasi subito dietro di lui senza una parola.

Sospirò, stiracchiandosi: era presto per rientrare già in dormitorio, e supponeva che non fosse una grande idea andare a cercare Alice o Gilbert al momento. Ada l’aveva persa di vista nella confusione, invece.

«Oz Bezarius?» sentì chiamare, voltandosi sorpreso verso la voce alle proprie spalle.

La figura che vide era sconosciuta: si trattava di uno studente, palesemente più grande. E, Oz ne fu subito certo, di un altro Paese date le diverse peculiarità dell’aspetto.

I capelli erano chiari, identici a quelli di Xerxes Break tanto che, se solo i lineamenti non fossero stati totalmente diversi, avrebbe potuto facilmente pensare ad un parente dato il colore raro. Leggermente lunghi sia per quanto riguardava la frangia che la nuca, erano completamente lisci. Gli occhi, appena coperti da qualche ciuffo, erano dorati e dall’espressione di serio distacco.

In parte, l’aria che aveva gli ricordava proprio Marcus: un’eleganza innata in qualsiasi gesto, anche il più semplice come muovere qualche passo verso di lui.

Indossava la divisa del collegio in perfetto ordine e il nastro nero che si intravedeva sotto il colletto della camicia lo identificava come uno studente del quinto anno.

Anche se Oz aveva istintivamente annuito, comunque, nel passargli accanto quel ragazzo – parecchio più alto di lui, dal fisico slanciato e ben allenato – pronunciò un leggero: «Scusami un momento.» passando oltre.

Poco dopo fu chiaro che si stesse dirigendo proprio verso l’atrio; Oz lo seguì, indietro di qualche passo. Osservò i primi studenti notarlo e farsi più calmi, spostandosi appena. Quando il ragazzo più grande fu vicino al centro, occhieggiò Alice e Gilbert: «Nightray e Lewis, non è questo il luogo per dei litigi. Tornate nei vostri dormitori con calma, per favore.» disse, il tono che non era di rimprovero o con inflessioni particolari, ma possedeva quella naturale autorità che – seppure non palesava gli ordini come tali – ti impediva di ribattere comunque.

Il biondo, dalla sua posizione, intravide sia Gilbert che Alice annuire. Il ragazzo annuì appena rivolgendosi al resto degli studenti: «E voi, tornate pure alle vostre attività.» disse in aggiunta, mentre già alcuni scemavano in diverse direzioni.

Dopo qualche istante speso a controllare che la tranquillità fosse stata ripristinata, Oz lo vide dirigersi nuovamente verso di lui, fino a raggiungerlo.

«Scusami l’attesa.» disse solamente, lo sguardo fermo su di lui. Oz scosse la testa, una sensazione strana nei suoi confronti a cui non sapeva dare un nome preciso. L’altro non parve notarlo, e se lo aveva fatto non lo dava comunque a vedere. Tese la mano verso il più piccolo.

«Sirjan Kolstoj. Sono il capo dormitorio.» si presentò, tono cortese ma non eccessivamente coinvolto.

Dal nome, non fu difficile confermare la deduzione avuta: certamente quel ragazzo era straniero. Ad ogni modo, Oz gli strinse prontamente la mano, seppure leggermente impacciato: «Piacere, Oz Bezarius.» disse.

Sirjan annuì appena: «Aedan ha avuto l’impressione che non sapessi quando fosse più opportuno incontrarci. Ho pensato di venire io direttamente.» rivelò.

Prima che Oz potesse aggiungere qualcosa, Sirjan gli indicò l’uscita dell’edificio centrale, ormai quasi del tutto sgombra, con un gesto elegante della mano: «Vogliamo uscire e parlare con calma?» chiese, ma Oz aveva la sensazione, mentre lo seguiva, che anche volendo non avrebbe potuto o saputo rifiutare.

 

 

«E quindi ti ha praticamente rapito.» osservò tranquillamente Noah, mentre cercava di dare un senso all’accoppiata “fascia” e “capelli”. Lotta personale che – come aveva detto ad Oz – affrontava eroicamente ogni mattina. In quel momento, mentre si guardava con aria critica, parlava ad un Oz in bagno che presumibilmente si stava lavando i denti.

Almeno a giudicare dall’incomprensibile: “e Fihrian mi fa riahompanato in dormithohio”, che Noah con prontezza di spirito aveva tradotto in un “e Sirjan mi ha riaccompagnato in dormitorio”, pregando Oz di parlare solo quando capire cosa diceva non avrebbe comportato la conoscenza di lingue morte.

Quando finalmente Oz fu uscito dal bagno, Noah stava finendo di trafficare con i libri della scrivania del biondo. Quest’ultimo lo guardò senza capite, mentre l’altro gli metteva praticamente in mano una borsa.

«E questa?» chiese Oz, muovendo qualche passo per seguire l’altro già alla porta; aprendola, Noah gli rivolse un sorriso furbo: «La borsa con i libri che ti servono per oggi. Ma vedi di non abituarti a questo trattamento, eh?» lo prese in giro uscendo.

Mentre avanzavano per i corridoi, Noah aveva insistito per non dire nulla sulla prima lezione della giornata. Anche a mensa, dove avevano mangiato al tavolo con sua sorella Ada, Alice e Marcus, Noah aveva fatto in modo che nessuno dicesse nulla – convincendo Ada ed Alice. Quanto a Marcus, lui aveva mangiato senza parlare molto.

Alla fine, Oz si era dovuto arrendere al fatto che sarebbe stata una lezione a sorpresa: l’unica cosa che Noah gli aveva concesso era stato dirgli la materia poco prima che lui, Oz ed Alice raggiungessero l’aula. Il compagno infatti, aveva ridacchiato con un: «Spero che ti piaccia la matematica, Oz!» aveva esclamato, varcando la soglia.

L’unico motivo per il quale Oz non lo aveva seguito subito, era stato che Alice lo aveva trattenuto tirandolo appena per la manica; voltandosi, le aveva sorriso istintivamente: «Cosa c’è?» chiese, incuriosito dal gesto più che altro.

«I miei cugini.» esordì lei: «Li conosci tutti?» domandò a bruciapelo.

Anche se perplesso, Oz scosse la testa: «No, soltanto Gil.» assicurò. Non seppe dirlo con certezza, ma l’espressione di Alice a seguito della sua risposta era stata un misto tra il seccato e il… sollevato, sì.

«Bene.» aveva decretato, raggiungendo a sua volta l’ingresso dell’aula: «Gilbert è tonto, quindi mi sta bene. Ma stai lontano da Vincent!» decise. Oz fece per ribattere, ma lei puntò il dito contro di lui, quasi con fare accusatorio.

«Guarda che è un ordine, eh?!» ribadì, per poi entrare in classe, lasciando Oz poco distante dalla porta e abbastanza confuso. Non era la prima a dargli l’idea che Vincent Nightray – che lui non aveva presente neanche visivamente oltretutto – fosse uno dal quale bisognasse stare lontani.

O quantomeno, sembrava che per lui – Oz – dovesse essere quasi una regola in aggiunta alle altre della scuola che valevano per tutti. Comunque, si limitò a liquidare il tutto con un sospiro leggero ed una scrollata di spalle, entrando finalmente anche lui in aula.

Ampia e con i banchi doppi perfettamente allineati, la stanza era… oh sì, non c’era altra spiegazione. Quella era sicuramente, senza alcun dubbio, la sala di ritrovo di una setta o qualcosa di simile.

L’aria di adorazione che si elevava quasi al soffitto – e dire che bassissimo non era – sembrava esattamente quella che un branco di adepti della tal religione potrebbe riservare al suo solo ed unico Dio.

Ebbene: sostituiamo le studentesse di sesso femminile – escluse un paio, forse, tra le quali militava Alice – ai fedeli adepti e un uomo che mangia un lecca lecca seduto sulla cattedra con le gambe accavallate al presunto dio.

Perfetto.

«Benvenuto alla prima di tante lezioni del professor Xerxes.» sentì mormorare da Noah, che notò seduto poco distante. Con la mano gli indicava il posto vuoto accanto a sé, che Oz velocemente occupò. Il professor Xerxes – altresì conosciuto come “il lancia palline” – sembrava completamente a suo agio, nonché abituato a quella scena.

«Ti avevo vagamente accennato quanto questi fan club dei vari docenti fossero strabilianti, amico mio?» sentì osservare a Noah in un modo che ricordava un vecchietto che parla dei bei tempi andati e di quanto le nuove generazioni siano cambiate.

Non poté non ridere, Oz, mentre il docente riportava la classe all’ordine – no. Non è una battuta.

«Bene, bene, abbiamo anche un nuovo arrivo che Keynes si è preoccupato di rapire di già!» canticchiò allegro. Noah alzò il pugno in aria, non certo per segnalare al docente la sua collocazione nell’aula, quanto più come un gesto di esultanza: «Ovvio, prof, tutti i migliori passano da me!» scherzò su, nel tono la consapevolezza di poterselo permettere con Break.

Quello infatti non lo richiamò, né altro: scese con un gesto suo malgrado elegante dalla cattedra, aggirandola per raggiungere la lavagna dove scrisse con caratteri enormi “Insiemi”.

Noah sbuffò divertito.

Una voce nell’aula, alla loro sinistra e avanti di qualche banco richiamò quasi annoiata: «Quello è il programma del primo, signore.» mentre urlettini di sottofondo che pronunciavano qualcosa come “awww, ha sbagliato di nuovo” arrivavano dai primissimi banchi.

Oz pensò che fosse meglio – o più salutare? – concentrarsi sulla persona che aveva parlato, ma qualcosa lo distrasse nuovamente dal suo intento. Al richiamo del compagno – la voce gli era parsa palesemente maschile – il docente aveva cancellato la lavagna fischiettando ed ora sulla superficie scura il gesso recitava “Funzioni”.

E un oggetto non identificato, che poi si rivelò essere un astuccio o simili, era volato contro Break.

Accompagnato dalla soave voce che era stato impossibile non riconoscere come quella di Alice: «Imbecille di uno pseudo professore quello è il programma di terzo, non farci perdere tempo!» aveva sbottato seccata e irritata per quella che, probabilmente, era una scena che si ripeteva ogni mattina.

Mentre un coro di voci offese per tale oltraggio si levava dai primi banchi, Oz si era voltato verso Noah: «Fa sempre così?» chiese.

«Oh, non ha ancora dato nemmeno un decimo del meglio di sé, ti assicuro.» disse l’altro senza riuscire a smettere di ridacchiare sommessamente.

Oz fece appena in tempo a voltarsi per portare lo sguardo sul docente, per vedere che sì. La bambolina di dubbio gusto ed origine che dal primo incontro con Break era stata sulla spalla dell’uomo, parlava.

Oh, se parlava.

E sembrava avere un repertorio non indifferente di prese per i fondelli oltretutto.

Proprio ora, infatti, aveva un interessante botta e risposta con il docente: «La piccola Alice si è arrabbiata di nuovo.» aveva osservato quello casualmente, nemmeno fosse una novità.

«Alice è sgraziata, sgraziata, sgraziataaaa! Resterà senza marito, Break?» chiese impertinente la bambolina.

Vide il docente assumere un’aria quasi scioccata – ma l’ombra del sorrisetto che persino Oz riusciva a scorgere, gli suggerì che no. Non era scioccato per nulla.

«Suvvia, Emily.» si rivolse alla bambola con aria di rimprovero: «Non sta bene distruggere le illusioni di una giovane fanciulla quando è quasi in età da marito.» le fece presente.

Osservò Alice.

Tornò su Emily.

Sorrise: «Oh beh, magari quando sono proprio dei casi tanto disperati…» ammise, lo stesso tono casuale mentre Alice già inveiva e faceva per raggiungere la cattedra per mettergli le mani addosso – e no. Non per chissà quali intenti osceni da quartiere a luci rosse.

«Eeeh, mi sa che pure oggi facciamo poco e niente!» sentì gongolare Noah al suo fianco.

Se tutte le nozioni erano su quel genere sia in quanto a difficoltà che a mole di lavoro, Oz supponeva di cominciare ad intravedere i tanto decantati lati positivi di Latowidge.

 

 

Alla lezione – potevano davvero definirla tale? – del professore Xerxes, ne erano seguite altre due: Chimica, a cura del docente Daniel Wayne, e Filosofia affidata ad Alexis Coleman.

Mai Oz aveva visto due persone tanto diverse l’una dall’altra a distanza di sole due ore: Daniel Wayne era stato – nel suo sostituirsi a Break per le proprie ore di lezione – come essere colpiti in pieno da un cubetto di grandine particolarmente grande. Oppure, avere uno scontro frontale con un iceberg; sì, il secondo esempio calzava di più.

Indubbiamente di bell’aspetto: capelli scuri, neri, dal taglio corto e scalato, appena disordinato forse. Occhi grigi come il cielo in tempesta, l’espressione più cortese che riservavano era l’arroganza di chi si astiene dal dire “tu, comune mortale, non osare respirare la mia stessa aria”, solamente perché il docente sapeva che sarebbe stato preso per matto.

Anche lui munito del suo stuolo di fan, il primo “aww” che era volato era stato liquidato con un gelido: «Un altro verso di dubbia origine e chi lo ha fatto arriverà ad odiare le reazioni chimiche grazie al sottoscritto.»

Estremamente giovane, era stato un ex studente prodigio, ed ecco spiegato perché a soli ventiquattro anni fosse già professore di un istituto come Latowidge.

Dopo le due ore di chimica dove nemmeno Noah aveva fatto casino, Alexis Coleman aveva dato il cambio al collega. Capelli biondi e sguardo ceruleo capace di far sciogliere anche la neve in pieno inverno, era entrato canticchiando una canzoncina tragicamente simile al famoso motivetto: “London bridge is fallin’ down”, ma con parole diverse tra le quali Oz aveva sentito più o meno distintamente “pallina”, “vola e va” e “Rufus”.

Il che, aveva osservato, lasciava supporre che la canzoncina in questione parlasse dell’episodio a cui aveva assistito alla colazione del giorno prima.

Dirigendosi a mensa per la pausa pranzo, Noah aveva insistito col non volergli rivelare nulla degli altri docenti: «Che gusto c’è se ti rovino la sorpresa?» aveva obiettato al broncio del biondo.

Così avevano mangiato tutti insieme – lui, Noah, Marcus e Ada. Alice, invece, chissà dov’era finita – e nel pomeriggio molti avevano deviato verso la biblioteca, come Noah. Ada, invece, aveva assicurato di avere del tempo e di non avere urgenza di studiare, essendosi avvantaggiata in vista dell’arrivo del fratello lì a scuola.

Così, si erano attardati in mensa, preferendo non uscire in giardino – le nuvole grigie, aumentate già nella tarda mattinata, minacciavano ora pioggia.

«Ti trovi bene, fratellino?» chiese Ada con tono pacato, una vena di dolcezza nella voce. Oz, che picchiettava distrattamente con un dito sul tavolo, annuì sorridente.

«Sì, sì. Noah fa da guida, con la differenza che rispetto a chi lo fa per mestiere, lui è molto più divertente quando racconta le cose.» assicurò. Ada rise, una risata allegra.

«Noah è sempre stato così anche quando Karin me lo ha presentato la prima volta, l’anno scorso.» raccontò, catturando quasi nell’immediato l’attenzione del fratello: «Noah è qui dal primo anno?» chiese infatti Oz.

La sorella annuì: «Sì. È arrivato qui l’anno scorso, regolarmente. Ha sempre avuto l’atteggiamento spensierato di adesso. È una persona che sa metterti facilmente a tuo agio. Io non l’ho mai visto giù di morale.» ammise, rallegrandosene.

Oz sorrise come un genitore orgoglioso del proprio figlio e dei suoi risultati. La sorella proseguì: «Però non ho saputo subito che Marcus fosse il fratello. Sembra che Noah lo presenti come tale solo quando la conversazione lo rende necessario.» osservò, pensierosa. Oz tacque qualche istante, l’espressione simile a quella della sorella.

«Forse,» azzardò: «è perché non sono proprio fratelli. A me ha detto che è il fratellastro, e che i genitori non sono ancora sposati.» ammise.

Ada annuì: «Già, magari è per questo. Non lo sapevo, quindi mi sembrava strano, ma così ha più senso.» aggiunse con un sorriso. Il fratello, in ogni caso, preferì non fare altre domande riguardo il compagno di stanza.

Noah non aveva mai accennato a nessun problema riguardo l’unione di suo padre e la madre di Marcus; e, ora che ci faceva caso, non aveva nemmeno fatto domande ad Oz sulla propria famiglia.

Era stato come se l’unica informazione utile ed interessante fosse che aveva una sorella e che, sapendolo già , non ci fosse stato bisogno di fargli altre domande.

Forse, si era detto, non c’è davvero un motivo per cui non lo presenta subito come fratello.

Se anche c’era, comunque, sentiva che forzarlo a spiegarglielo con domande pressanti era un torto che per nessuno motivo avrebbe voluto rivolgere a qualcuno. Men che meno a Noah.

 

«Fratello?» sentì la voce di Ada, appena ovattata.

Cercava quasi di allontanarsene ma, al tempo stesso, qualcosa gli diceva di tendere a quella voce. Tuttavia, le sue gambe non davano cenno di volersi muovere.

Né le sue braccia.

Né alcuna parte del corpo che sentiva intorpidito.

«Gli dia tempo, signorina. I… stanno ancora…»

Cosa? Chi stava facendo ancora cosa?

«Oz?»

Era Ada, sì. Senza alcun dubbio.

«Oz…?»

Piangeva?

«Oz?! Fratello!»

Perché non riusciva ad alzarsi da lì?

Perché Ada…

 

Si sentì scuotere, anche abbastanza forte.

Intontito dalla classica e familiare sensazione di torpore del primo risveglio, Oz sbatté un paio di volte le palpebre, mettendo a fuoco l’anonima superficie in legno di un tavolo.

Il viso, prima poggiato alle braccia incrociate sul suddetto ripiano, si alzò appena cercando di focalizzare dove si trovasse.

Ma, anziché trovare il resto di una stanza – qualunque essa fosse – incontrò un altro viso dall’aria preoccupata. Non ci volle molto perché lo identificasse con quello di Gilbert.

Quasi riscosso dal sonno solo in quel momento, sbatté nuovamente le palpebre come se lo avesse accarezzato il dubbio che l’altro fosse qualcosa di molto simile ad un miraggio.

Quando fu ormai ovvio che non era così, poté lasciare spazio alla sorpresa: «Gil?» chiamò, il tono leggermente basso e arrochito per il sonnellino fuori programma che aveva fatto.

L’altro, sospirò palesemente sollevato: «Come pensavo stavi solo dormendo.» mormorò, la preoccupazione che sfumava velocemente in quell’unica frase. Oz lo osservò interrogativamente.

Aveva pensato che instaurare un discorso con Gilbert sarebbe stato molto più complicato, in qualche modo: invece sembrava che, da casa Bezarius, l’altro non se ne fosse mai andato.

Sorrise con la sua solita indole spensierata – a volte anche piuttosto fuori luogo, come non mancavano di ricordargli: «È successo qualcosa?» chiese, inclinando il capo lateralmente, di poco.

Gilbert lo osservò come chi è fortemente combattuto tra il prenderti a sberle e mettersi lì con la santa pazienza a spiegare un concetto affrontato almeno dieci volte: «Ho incrociato Ada entrando in mensa, che mi ha detto che ti eri addormentato al tavolo. Ha detto di non volerti svegliare e mi ha chiesto se potevo farlo io quando fossi andato via.» spiegò sbrigativo.

Oz lo osservava senza cogliere il motivo di quella preoccupazione e Gilbert parve leggergli nel pensiero.

«Ti agitavi nel sonno. Parecchio.» chiarì in un borbottio burbero.

Oz, l’espressione inizialmente sorpresa, sorrise apertamente: «Gil si è preoccupato per me!» canticchiò, allegro. Vedere Gilbert che arrossiva e mutava la sua espressione da burbera ad agitata, gli suggerì che in fondo, era sempre lo stesso.

Anche se il cognome era un altro, e non viveva più con loro.

Sorrise – istintivamente – con una certa nostalgia a quella considerazione ora così evidente davanti ai suoi occhi. Decise di essere magnanimo e cavarlo d’impaccio: ma solo in occasione dell’essersi ritrovati. Poi poteva tornare a divertirsi con le sue reazioni esagerate – chissà se vedendo i gatti piangeva ancora!

«Ti ringrazio. Non ricordo benissimo il sogno, ma…» lasciò in sospeso.

Vecchio vizio, vecchia abitudine.

Di nuovo bugie.

Istintive, naturali.

«Non lo ricordi?» lo interrogò quasi sospettoso Gilbert.

Scosse la testa con un sorriso allegro: «Molto vagamente.»

Mezza verità.

«Solo le sensazioni, forse.»

Verità; come il sentirsi soffocare, il sentirsi impossibilitati a muoversi.

Fermi per l’ennesima volta ad un punto di non ritorno; forse, non voleva tornare indietro. Probabilmente – ma cosa gliene dava la certezza, poi? – sapeva cosa ci avrebbe trovato, indietro.

Sicuramente non gli sarebbe piaciuto.

Sicuramente, non gli piaceva già ora.

«Sai, sono rimasto un po’ sorpreso, Gil.» ammise, dondolando appena le gambe nell’ormai solito gesto meccanico. Se indicasse nervosismo o l’incapacità di stare fermo, non era dato saperlo.

«Per cosa? Per Alice?» chiese automaticamente l’altro. Oz scosse la testa ridendo: «No, non proprio, anche se non pensavo ora avessi tanti parenti!» ammise palesemente divertito.

Ed era quasi certo di aver intravisto Gilbert imbronciarsi, anche se solo per un attimo.

«Comunque no, non proprio per Alice.» aggiunse, riprendendo il discorso. Toccò a Gilbert guardarlo confuso, stavolta.

«Allora cosa?» lo incalzò infatti.

«Gil, tu… ricordavi ancora il mio nome?» chiese, quasi ingenuamente, lo sguardo sincero – e Dio solo sapeva se questo non era raro. Non guardava Gilbert, vergognandosi di quella domanda e della debolezza che, con essa, si era concesso. Proprio lui che cercava di non mostrarne: almeno non dove Ada potesse vederle, e preoccuparsene.

Ma Gilbert, che chissà perché e in quale modo aveva sempre avuto la risposta adatta quando ancora viveva a casa Bezarius, non fece domande. Né si mostrò perplesso da una richiesta oggettivamente così stupida, o di poca importanza.

Sorrise semplicemente: «Certamente. Anche tu ricordavi il mio, no?» replicò come se fosse la cosa più ovvia del mondo, una delle rare promesse che fai da bambino e riesci a ricordare, mentre tutte le altre cadono inesorabilmente nel dimenticatoio.

Ridacchiò, il fare impacciato nascosto dietro la risata leggera.

«Oh, Bezarius junior.» sentì dire, poco distante da sé senza aspettarselo affatto. Motivo per il quale il sussulto, seppur lievissimo, c’era stato.

Voltandosi appena, incrociò una figura poggiata al muro e vicina al loro tavolo: chissà da quanto era lì, poi. Lo osservò come se cercasse nel registro della memoria dove lo aveva già visto.

Capelli biondi, lunghi e tenuti comunque sciolti, malgrado forse non fosse granché pratico: la frangia, leggermente lunga, sfiorava gli occhi senza tuttavia coprirli.

Fu impossibile non concentrarsi su di essi: dissimili, di diverso colore. Dorato uno, carminio l’altro.

La sorpresa che si dipinse sul volto di Oz fu sincera davvero, stavolta, mentre l’altro si avvicinava fino a giungere alle spalle di Gilbert. Poggiò una mano sul tavolo, con eleganza, sorridendo proprio al biondo.

Non gli porse l’altra, tuttavia.

«Vincent Nightray. Non ti spiacerà se ti rubo mio fratello, vero?»

 

 

 

 

Note e ringraziamenti

Note particolari non ne ho, se non che forse ci sarà qualche errore non corretto.

Ho voluto lasciarvi il terzo capitolo perché domani vado in vacanza (finalmente) e non tornerò prima del 9 agosto ^^

Passiamo ora ai ringraziamenti.

 

Makotochan: drogata! XD come già ti accennai, il rapporto che lega Noah e Oz per ora (o sospetto, tragicamente, anche in futuro) è la stupidità intrinseca. Non escludo che possa unirli qualcos’altro in futuro, ma… Marcus è amabile, lo so, ringraziamo tutti Yoko per averlo creato <3 *ama*

Eccoti accontentata, comunque: Vince è apparso! XD

 

Doremichan: non abituatevi alla velocità di postaggio, è un incantesimo che non so quanto durerà! XD *anche se questo, forse, non dovrebbe dirlo l’autrice* Carissima, è sempre un piacere leggerti fra le recensioni <3

Sei il mio personale riscontro sull’IC, che ho sempre il dubbio di non mantenere del tutto, o non mantenere affatto. Come Alice, che devo dire è stata istintiva, più che studiata XP

Per quanto riguarda la fama di Vincent, come anche il perché Oz debba essere tenuto sotto controllo, verranno spiegate ma penso non nei prossimi capitoli. Ma chissà, magari mi prende la follia XD

 

LitaChan: ti ringrazio dei complimenti <3 Come ho già detto, per Marcus ringraziamo Yoko. Quando a Noah, continuo a stupirmi del suo successo XD *fa un metaforico pat pat a Noah* In virtù di questo, però, ho accarezzato l’idea di dargli un ruolo che non sia la semplice guida/compagno di stanza di Oz.

Quindi chissà, vedremo ^-^

 

ShAiW: santo cielo creo dipendenza XD

Spero seriamente che il capitolo sia stato abbastanza interessante anche se, da autrice cattiva, non ho approfondito molto questo loro primo incontro XP

Quanto a Noah e Oz, sì, decisamente solo da amici: in caso contrario, temo Oz morirebbe presto per mano di terze persone XD

Ti prego, non unirti al Docenti Fan Club di questo capitolo: sono odiose! Magari creane un altro ù.ù

 

Yoko891: Questo capitolo deve averti ispirata particolarmente <- sinceramente parlando: manco un po’ XD

Sarà che ci sto facendo attenzione (se questo terzo sarà uno scatafascio, sai in quali condizioni versavo mentre scrivevo e correggevo XD). Sono contenta che Alice sia in un buon IC <3

Per gli autografi, suvvia: lo sai che per te ho sempre tempo u.u

 

Un ringraziamento speciale, infine, a quella santa donna della mia docente di giapponese.

Sensei, se non ci fossi tu a farmi lezione in facoltà con la marionetta, come avrei mai potuto giostrarmi Emily a lezione? <33

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Capitolo 4
*** Divieto ***


Divieto

Divieto

 

 

«Vincent Nightray. Non ti spiacerà se ti rubo m io fratello, vero?»

Oz lo osservò confuso, ma annuì istintivamente. Vide l’altro sorridere, un incurvarsi di labbra che non sapeva definire con esattezza: se fosse di scherno – sembrava la cosa più probabile – o semplicemente divertito, non era possibile dirlo.

Gilbert aveva inclinato appena il capo indietro, pur non avendo realmente bisogno di guardare l’altro per riconoscerlo. Assunse un’espressione indecifrabile: «Vince…?» chiamò, per attirarne l’attenzione.

Vincent abbassò lo sguardo, il sorriso sempre sulle labbra: «Gil, puoi venire con me?» disse, senza dare ulteriori spiegazioni.

Oz – non ne era certo – notò una sfumatura di panico, quasi, nello sguardo di Gilbert. La stessa sfumatura che, qualunque cosa la causasse, lo aveva portato ad alzarsi con un movimento appena frettoloso, quasi non volesse far aspettare troppo il minore.

«Sì, va bene, arrivo subito.» mormorò, fissando l’altro che tornò con lo sguardo su Oz: «Piacere di averti conosciuto, ci si vede per i corridoi.» disse con semplicità, avviandosi alla porta con passo tranquillo, fermandosi poco oltre la sogli in attesa del moro.

L’attenzione di Oz fu riportata su Gilbert proprio da quest’ultimo: «Scusalo. Probabilmente avevo promesso di aiutarlo in qualcosa e l’ho dimenticato.» buttò lì con un sorrisetto appena impacciato. Oz annuì, l’incurvarsi di labbra più ampio e allegro dell’amico: «Non scappi mica dalla scuola.» lo prese bonariamente in giro.

Gilbert annuì impercettibilmente, per poi avviarsi alla porta e raggiungere Vincent.

Oz li osservò allontanarsi finché non sparirono dalla sua vista uscendo definitivamente dalla mensa; con un sospiro leggero – e forse ancora mezzo assonnato – si alzò stiracchiandosi, decidendosi ad uscire anche lui: per quanto fosse una fregatura, i compiti non si facevano da soli.

Ed era meglio che li consegnasse fatti, a Break. Sia mai che inventasse metodi di tortura, nel tempo libero.

 

Dopo la prima settimana di studi in quella scuola, pur dovendo ancora incrociare uno o due docenti del suo corso a causa di un paio di lezioni saltate, Oz era certo di una cosa: all’ottima preparazione dei docenti, lì, si accostava una follia dilagante.

Passi per il professor Xerxes, che faceva lezione con una marionetta sulla spalla, tirava gessi con il preciso intento di prenderti in pieno e insinuava sottilmente dalla cosa più banale alla più infame delle calunnie.

Gli uomini cinici, al mondo, esistono; così si era detto Oz.

Passi per un uomo dal sorriso gentile e il temperamento costantemente allegro come il professor Coleman: certo, cantava che il ponte di Londra cadeva affondando con la stessa allegria di un bambino a cui piazzano davanti le caramelle, ma in fondo non era male. Almeno insegnava senza traumatizzarti l’esistenza – se escludiamo, appunto, la “canzoncina del buongiorno”, come l’aveva chiamata Noah.

E sì, c’era Daniel Wayne, che se avesse potuto avrebbe volentieri dato fuoco a tutti loro ogni volta che volava un fiato fuori posto – di solito, aveva comunque notato Oz, si arrabbiava quando erano apprezzamenti nei suoi confronti. Chissà perché, poi.

Il povero Reim Lunettes sembrava un uomo costretto a lavorare là dentro perché – era l’unica spiegazione – nella vita precedente doveva aver accumulato una quantità tale di peccati che glieli facevano scontare tutti ora e con gli interessi. In effetti, il docente di Letteratura era sicuramente il più normale ed incline alla professione di insegnante. Non odiava gli studenti, non minacciava di scioglierli con l’acido – non che fosse accaduto, ma ormai Oz si aspettava di tutto – ed era cortese ogni volta che un alunno aveva una difficoltà.

Di Charlotte Baskerville, poteva dire poco: era arrivato con un abbondante se non catastrofico ritardo alla sua lezione e il loro massimo dialogo era stato un “mi scusi il ritardo”, la cui frase di risposta era stata un “prego, si accomodi pure in biblioteca e alla prossima lezione”.

Forse giusto la nota di follia nel suo canticchiarlo era un po’ parsa strana; ma almeno non gli aveva tirato nulla, né fatto intendere che in un momento di noia vivisezionarlo sarebbe stato un dilettevole passatempo.

Fatte queste premesse, era impossibile preoccuparsi davvero di un'ennesima lezione, benché non conoscesse ancora il docente di Storia; anche per questo ora si avviava in aula, insieme a Noah e Alice, l'aria ancora un po' assonnata e tipica di chi fa le stesse cose ogni giorno, seguendo la sua abituale routine.

Occhieggiò Alice - che ancora mangiucchiava un toast sopravvissuto alla colazione in mensa - senza farsi notare: non le aveva parlato del breve incontro con Vincent Nightray, e a quanto pareva nemmeno il più grande ne aveva fatto parola. Lo aveva dedotto dal fatto che la castana era tranquilla e non aveva accennato a nessuno dei cugini per tutta la settimana.

A distrarlo fu una pacca leggera di Noah, sul quale spostò lo sguardo chiaro, vedendolo fargli l'occhiolino con un leggero cenno del capo ad Alice; Oz non capì esattamente cosa quello sguardo dovesse significare, ma non aveva senso chiedere spiegazioni ora, per di più incuriosendo la moretta.

«Allora, la prima settimana è stata troppo traumatica?» lo interrogò l'amico, osservandolo. Oz scosse la testa: «No, anzi. Solo sembrava...»

«Un posto più serio.» concluse Noah per lui, ridacchiando: «Lo so, è questo il bello.» aggiunse.

Alice, al loro fianco, fece schioccare le labbra con fare infastidito; entrambi la osservarono incuriositi.

«E' solo pieno di idioti.» sbuffò, Noah che cercava di non scoppiare a ridere, Oz che lo imitava. Era stato fin troppo chiaro che Alice odiasse a morte il professor Xerxes e che lui trovasse nel prenderla in giro un divertimento intrinseco del quale non poteva fare a meno.

In effetti, ad essere proprio sinceri, Oz si chiedeva ancora se ci fosse un docente con il quale Alice andasse un minimo d'accordo. Al momento solo Coleman sembrava avvicinarsi a tale privilegio.

Quando furono in aula, presero posto in quelli che ormai erano i posti fissi: Noah e Oz, come sempre, tendevano ad occupare insieme un banco della fila centrale. E spesso era verso gli ultimi - si dormiva meglio, e sì. Noah Keynes passava molto tempo a dormire.

Alice invece sedeva sempre vicino alla stessa ragazza, che inizialmente Oz non aveva notato: alta quanto Alice, c'era qualcosa che gliela ricordava in qualche modo, anche se non era una somiglianza eccessiva come quella di due sorelle.

Noah aveva sopperito alla sua mancanza di informazioni - cosa che ormai sembrava essere la sua occupazione principale: gli aveva detto che si trattava di uno dei servitori di casa Nightray, di Vincent per essere precisi. Noah non aveva ancora capito se le sedeva accanto perché era una delle poche della casata con cui Alice andasse d'accordo, o se lo faceva perché dovesse tenerla d'occhio per conto della famiglia.

Oz era rimasto perplesso: non capiva perché mai i cugini o gli zii dovessero tenere d'occhio Alice. Certamente la compagna era un po' impulsiva - e manesca - ma non cattiva, di questo il biondo era certo.

«Oz» lo chiamò Noah, attirando la sua attenzione e distogliendolo dalle sue considerazioni: «se vuoi un consiglio, per le prossime due ore cuciamoci la bocca.» avvisò con una risatina nervosa. E detto da Noah, di seguire una lezione, rasentava il ridicolo.

Oz comunque annuì incerto: «Il professore è così severo?»

«Abbastanza, ma più che di lui devi preoccuparti della professoressa di Musica e Arte. Sono fratello e sorella, e ti assicuro che lei te le fa scontare una per una.» disse annuendo convinto - e risultando un po' buffo, in verità.

 

Non ci era voluto molto perché il docente entrasse in aula.

Oz, benché lo vedesse per la seconda volta, rimase nuovamente colpito dal suo aspetto - e, se solo non fosse stato un ragazzo, avrebbe capito del tutto il perché dell'esistenza del suo fan club.

Non erano solo i capelli lunghi e lisci, di un rosso particolarmente scuro e lasciati per di più sciolti ad attirare l'attenzione. Né gli occhi di un castano-rossiccio non ben definito che si posavano fissi e penetranti su qualsiasi cosa, pur mantenendo un'espressione di freddo distacco - forse era uno dei punti che lo rendeva affascinante?

Oz supponeva che ciò che attirasse di più l'attenzione, nel docente di Storia, fosse il portamento: di connaturata eleganza, stava dritto guardando sempre avanti a sé, a testa alta. Lasciava trasparire una certa arroganza e l'assoluta convinzione che non ci fosse nulla che potesse davvero interessarlo. Indossava, per di più, abiti diversi da quelli che aveva visto indossare a Break e Reim, e che Oz aveva inizialmente creduto la divisa per i docenti.

Convinzione venuta meno quando aveva visto Daniel Wayne con abiti tutti suoi, Alexis Coleman vestire di bianco come gli studenti, o con colori piuttosto chiari che con la divisa nera non c'entravano nulla.

Rufus Barma, aveva abiti che ricordavano ad Oz ambienti di festa o di alta società, comunque. Di sicuro,  fasciavano il corpo del docente rendendolo attraente alla popolazione femminile.

Oz aveva supposto che si trattasse di un uomo serio e che non amava perdere troppo tempo, ed effettivamente la sua ipotesi era stata confermata: si era infatti seduto dietro la cattedra prendendo il registro e facendo l'appello.

Non era stato un elencare dei nomi frettoloso, ma con il giusto tempo perché ogni studente potesse rispondere: finito con quello, aveva domandato ad Oz a quale punto del programma di storia fosse arrivato con i suoi precedenti studi.

Il biondo aveva scoperto di essere indietro di un paio di decenni, non di più e Barma aveva semplicemente pronunciato un: «In tal caso questo pomeriggio lei sarà impegnato con me, alle quattro in quest’aula.» dopo il quale non aveva aspettato repliche - segno che non aveva scelta, il biondo, oltre l’eseguire.

La prima immagine che aveva avuto di Rufus Barma in mensa, era stata quella di un uomo con ben poca pazienza: immagine che durante la lezione non poteva essere più smentita.

Il docente, infatti, aveva tenuto la lezione con il completo silenzio degli studenti; la sua pecca era che sembrava annoiarsi a morte di trattare qualsiasi avvenimento o periodo storico, e trasmetteva quella flemma anche a loro.

Così accadeva che uno studente, perplesso da alcuni punti, gli si rivolgesse con un: «Professore, ma la rivolta che scatenò la guerra e fu dimenticata, come si concluse?»

Rufus Barma, che trovava più interessante e divertente picchiettare con la matita sulla cattedra piuttosto che spiegargli l'intera rivolta, osservava in maniera distaccata il povero alunno di turno e il massimo della sua risposta era un'unica parola.

«...strage.» diceva. E non seguiva altro, se non la voce di un alunno incaricato di leggere dal libro l'argomento del giorno.

Comunque, pensava Oz, non era male.

 

 

Alla fine delle normali ore di lezione, l'unica docente che non aveva ancora conosciuto era la sorella di Rufus Barma; a mensa aveva chiesto qualche chiarimento a Noah, che ormai sembrava aver dimenticato il suo proposito di fargli conoscere tutti i docenti solo durante le ore di lezione.

O magari si era stancato di fare il misterioso - e delle pressanti domande del biondo, che sapeva essere una piaga se voleva. E senza nemmeno impegnarsi troppo.

Oz sperava soltanto che non stesse facendo un'eccezione per questa donna solo per la sua presunta pericolosità: la cosa poteva, in quel caso, rivelarsi inquietante.

«Hai detto che insegna Musica e Arte?» aveva quindi domandato a Noah mentre mangiavano, al tavolo con loro Ada - che parlava con Karin, Sally e Clifton in quel momento - e Marcus, che stranamente a quella richiesta aveva alzato lo sguardo dal piatto prestando un minimo di attenzione.

Noah annuì: «E il galateo.»

«...il cosa?»

«Baciamano, parti dalla forchetta di destra... cose così. Il Galateo. Insomma, tu che sei figlio di buona famiglia non per caso, dovresti avere pure un'infarinatura, no?» spiegò alla meno peggio Noah.

«E come fa a fare tre materie da sola?» lo interrogò Oz, lasciando stare quel che restava nel suo piatto del porridge e prestando attenzione al compagno: «Le fa a rate.» se ne uscì Noah con espressione seria.

«Stai scherzando?»

«No, no. Cioè, le buone maniere te le rifila sempre; non sai che palle: "Keynes, potrebbe gentilmente smettere di sedersi come se dovesse mungere una mucca?". Scusami tanto, se non dormivo su un letto di piume e mangiavo con sei forchette diverse quand'ero un ragazzino.» sbottò indispettito, facendo ridacchiare Oz.

«Poi il resto del corso è diviso a metà, perché non tutti suonano uno strumento. Tipo a me al massimo puoi affidare un campanellino, ma oltre chiedi troppo. E allora tiene corsi di Arte la mattina, e di Musica il pomeriggio.» concluse la spiegazione.

Oz annuì, pensandoci su; Noah parve pensarci solo in quel momento: «Ah, già! E te che farai?» chiese. Il biondo rimase qualche istante in silenzio.

«Penso musica. Qualcosa me l'hanno fatta studiare a casa.» ammise. Noah schioccò le dita, in un gesto classico di chi ha mancato l'obiettivo di poco: «Peccato! Sarà l'unico corso che facciamo divisi.» affermò. Oz lo guardò stupito: «Fai arte?!»

«Te l'ho detto che al massimo suono il campanello!» ricordò: «E poi scusa, cos'è quell'aria sorpresa? Non mi credi capace?» insinuò, l'aria offesa.

Oz ridacchiò, specie quando Marcus, inaspettatamente, parlò: «Sicuramente Bezarius non potrebbe mai pensare che la tua grazia da bisonte ti sarebbe d’intralcio nel fare l'artista, Noah.» se ne uscì ironico.

Il fratello s'imbronciò, guardandolo: «Questo non è carino da dire, sai?»

«Paragonarti a un bisonte non è un complimento? Mi fai crollare una certezza...»

«Maaarcus!» si lamentò Noah, allungando infantilmente la vocale mentre Oz, Ada e gli altri tre ridevano di gusto e l'albino si limitava ad ignorare le proteste del minore.

 

Dopo il pranzo, Oz era andato in giardino per un pisolino; aveva pensato di chiamare Alice e passare il tempo con lei, ma non l'aveva trovata. E non aveva visto molto Gilbert in giro, supponendo che fosse impegnato con le lezioni.

Aveva quindi deciso di approfittare dell'ombra e dell'aria fresca per far passare le ore che mancavano alla lezione supplementare con Rufus Barma.

Si stava giusto guardando intorno - Noah lo aveva detto: la posizione strategica dell'albero era il punto focale per un buon riposino! - quando una voce già sentita, anche se non esattamente familiare lo aveva chiamato.

Voltandosi, sotto un albero non troppo distante riconobbe il capo dormitorio - Sirjan, giusto?

Attirandone l'attenzione, ora gli faceva cenno di avvicinarsi; Oz si diresse quindi verso di lui, rimanendo lì in piedi, a pochi passi di distanza. Seduto sull'erba, la schiena dritta poggiata contro il tronco, una gamba era stesa e l'altra piegata. Aveva un libro fra le mani, ma Oz non riuscì a leggerne il titolo da lì.

Sirjan alzò lo sguardo su di lui: «Ti rubo del tempo, chiedendoti di sederti?» domandò, il tono pacato. Oz scosse la testa, la sensazione di soggezione sempre presente: per quanto non fosse tipico di lui provarne, con Sirjan era qualcosa di istintivo.

Si sedette al suo fianco sull'erba, e il più grande riportò silenziosamente lo sguardo sul libro; Oz lo imitò per riflesso.

«Cosa leggi?» domandò quasi per prassi.

«L'Immoraliste.» replicò atono, segnando il punto in cui era arrivato mentre Oz sbirciava sulle pagine cercando di essere meno indiscreto possibile; scorse delle parole francesi: «Conosci il francese?» chiese, nel tono una sfumatura a metà tra curiosità e un leggero stupore.

Sirjan, osservandolo dopo aver chiuso il libro, incurvò le labbra in un sorriso appena accennato: «Tra le altre lingue, sì.» commentò.

Se lo avesse detto chiunque altro, avrebbe potuto pensare che fosse particolarmente arrogante malgrado fingesse di nasconderlo: invece, non sapeva esattamente perché, su Sirjan sembrava una componente particolare del suo carattere, ma non un vizio spiacevole.

Abbozzò un sorriso di rimando: «E' noioso?»

«Non eccessivamente avvincente. Curioso, in qualche modo.» replicò il più grande. Prima che Oz potesse fare altre domande, lui stesso lo anticipò: «Riesci a seguire le lezioni?»

«Sì, tutte. Una compagna di mia sorella mi ha anche offerto ripetizioni, se serviranno. E tra poco Barma mi aspetta per mettermi in pari col programma.» concluse.

«Hai studiato privatamente?»

«Già.»

«La studentessa di cui hai accennato, ho ragione di supporre che si tratti di Karin Hamilton del quarto anno.» lo sorprese Sirjan. Lo osservò perplesso.

«Come lo sai?»

«Sono in contatto con il capo dormitorio femminile, e so che Hamilton spesso aiuta gli studenti più giovani. Credo sia nella sua indole, o che si diverta.» concluse con naturalezza.

Oz annuì: la sensazione che, effettivamente, gli aveva dato quella ragazza era quella di una persona gentile di natura. Uno di quei tipi che non saprebbero fare del male nemmeno ad un mosca.

«C'è un motivo per cui mi hai chiamato?» domandò Oz per spezzare il silenzio che si era creato - e che aveva la sensazione fosse lo stato che aleggiava in maniera permanente intorno a Sirjan.

Non sembrava uno di molte parole, anche se era un tipo diverso da Marcus, che a malapena sentiva parlare a pranzo o a colazione.

Sirjan sembrava dare corda solo a discorsi che lo interessavano particolarmente.

«Sembravi vagare senza meta. Ho pensato che potesse interessarti avermi a tua disposizione per il tempo che hai prima della lezione con Barma.» replicò con l'espressione di chi la sa lunga, ma si limita a darti informazioni in base alla domanda che fai, senza andare oltre.

Oz non comprese del tutto la frase, ma non fece domande in proposito; preferì sfruttare la possibilità.

«Tu e Aedan siete amici?» se ne uscì senza un vero motivo: era semplicemente la prima cosa che gli era venuta in mente. E il moro, in effetti, non lo aveva più incrociato nemmeno per i dormitori.

«Non esattamente. Mi aiuta nelle questioni del dormitorio.» replicò Sirjan: «Perché?»

«Così. Quando ci siamo parlati sembrava venire per conto tuo, e poi quando ci siamo conosciuti l'hai nominato dicendo che ti aveva riferito più o meno cosa ci eravamo detti.» spiegò Oz, facendo mente locale.

Vide Sirjan sorridere nuovamente in quel modo appena accennato: «E questo ti ha fatto pensare fossimo amici?» indagò.

Oz si ritrovò a rispondere sulla difensiva, appena imbronciato: «Che c'è di male?» borbottò. Fu quasi sicuro di sentire uno sbuffo con cui l'altro stava camuffando un leggero ridacchiare.

«Parliamo, ma non spesso e delle stesse cose come fanno gli amici di vecchia data. Ma considerando che tipo è Aedan, forse potresti definirmi suo amico per quel poco che ci diciamo.» ammise, criptico.

E bastava quello, per svegliare la curiosità di Oz; si sporse appena in avanti, come per guardarlo meglio: «In che senso?» domandò.

«Aedan Shaye nasce guardia del corpo e studia qui solamente per quello. L'unico motivo per il quale avanza di anno come gli altri studenti è che ha una preparazione superiore ai programmi di studi del collegio da quando è entrato.» spiegò, lo sguardo che restava puntato davanti a sé, senza soffermarsi su nulla in particolare.

«Nasce guardia del corpo?»

«Ci sono famiglie così. Non hanno il patrimonio delle casate importanti, ma spesso succede che abbiano un'antica tradizione di esperti in quel campo. I figli vengono istruiti nell'autodifesa fin da bambini. Aedan ha iniziato molto presto per quel che ne so: armi bianche, difesa corpo a corpo. E ha un'istruzione fuori dal comune per la sua età: al primo anno dava del filo da torcere agli studenti diplomandi.» concluse con un sorrisetto divertito.

Oz era sorpreso: quel ragazzo, forse anche perché avevano parlato ben poco, non gli era sembrato qualcuno così. Inoltre, quel tipo di vita a lui così estraneo suonava strano.

«Perché studiare tanto se poi doveva venire in un collegio?» chiese senza capire.

«Perché da quando gli è stato affidato il suo protetto, se così vogliamo chiamarlo, quel ragazzo è diventato incapace di concentrarsi su qualcos'altro. Lui non segue le lezioni, è solo presenza fisica.» ironizzò.

Oz tacque, pensieroso; forse sbagliava, ma gli sembrava un modo di vivere piuttosto triste. Di certo, quell'Aedan doveva avere un'abnegazione invidiabile. O qualcosa di simile.

Rimasero in silenzio per una buona porzione di tempo, e quando Sirjan ruppe il silenzio, fu dopo aver dato un'occhiata all'orologio da polso.

«Credo sia ora di avviarti dal professor Barma.» gli suggerì. Imitandolo nel controllare l'orario, notò che mancava poco all'inizio della lezione supplementare.

Si alzò, dandosi qualche pacca sui pantaloni per togliere i pochi fili d'erba rimasti addosso: «Grazie della chiacchierata, ci... vediamo in giro.» salutò, dopo qualche attimo di incertezza. Si era voltato per avviarsi, ma si sentì trattenere per una manica, senza strattoni.

Si voltò perplesso, abbassando lo sguardo su Sirjan.

«Ho dimenticato di dirti una cosa riguardo il regolamento che l'ultima volta mi era passata di mente.» rivelò, l'espressione di seria autorità come quando lo aveva incrociato nell'atrio.

«Le stanze dell'ultimo piano dell'edificio scolastico sono vietate. Non entrarci, sarei costretto a fare rapporto a chi di dovere, ed è sempre un compito che preferisco evitare.» concluse.

Il tono era quello a cui Oz, già dalla prima volta, aveva trovato difficoltà dire di no. Annuì meccanicamente e l'altro gli lasciò la manica, incurvando leggermente le labbra.

«Ci vediamo, allora.» replicò solo in quel momento al suo precedente saluto.

Oz si avviò, la sensazione assurda e immotivata che ci fosse qualcosa che non andava.

 

 

La lezione supplementare con Barma era stata senza infamia e senza lode - ma certamente noiosa.

La storia di per sé non lo appassionava particolarmente e la flemma -  nonché assenza di voglia di spiegare - di Rufus Barma non era d’aiuto. Dopo un'ora e mezza lo aveva congedato, dandogli appuntamento per la stessa ora e lo stesso giorno della settimana seguente.

Quando Oz era uscito dall'aula dove si era tenuta quella lezione, aveva trovato Noah ad aspettarlo, seduto per terra e con la schiena poggiata alla parete, nel bel mezzo di uno sbadiglio da record.

Avevano girato senza un luogo particolare dove dirigersi, chiacchierando. Noah sembrava appena più accigliato del solito, cosa strana a cui Oz non era abituato. Anche se forse, parlare di abitudine quando si conoscevano da così poco, non era esatto.

«Tutto bene?» aveva chiesto istintivamente. Inizialmente l'altro aveva assicurato che era tutto a posto, col solito sorrisetto che sfoggiava quasi ventiquattro ore su ventiquattro.

Alla fine, mentre prendevano posto anticipatamente in mensa - ancora semivuota - non era più riuscito a trattenersi: «Oh e va bene, ce l'ho con Marcus.» borbottò, incapace di tenerselo per sé.

In un momento di perplessità, ad Oz venne da sorridere: per quanto lo avesse già inquadrato in quel senso, puntualmente Noah riusciva a mostrarsi più sincero di quanto già non fosse apparso fino a quel momento.

«Con Marcus?»

«Sì, perché è antipatico.» se ne uscì, infantilmente imbronciato e offeso: «Non è vero non sono affidabile. Certo, non sarò l'esempio di buone maniere e non sarò mai il primo del corso della Barma. E sì, non ho la stessa eleganza di Marcus quando cammino, e corro per i corridoi. E dormo in biblioteca. E faccio le scivolate sui corrimano. Ma questo non vuol dire che non posso riuscire in qualcosa di raffinato come e meglio di voi figli di papà!» concluse, incrociando le braccia al petto e gonfiando appena le guance, proprio come un bambino.

Oz rise, non riuscendo proprio ad evitarselo: un po' per l'elenco di abitudini che contraddiceva in partenza la sua protesta, un po' per quell'offesa ostentata e che non era granché tipica di lui - o almeno, non degli aspetti di Noah che aveva visto.

Infine, rideva perché l'altro era onesto, talmente tanto che non era neanche capace di tenere per sé quell'infantile indignazione, anche se magari poteva andare a discapito della sua immagine - di cui sembrava curarsi meno del minimo necessario.

«Cosa c'è di divertente?» lo interrogò, fissandolo. Oz cercò di calmare il riso prima di rispondere: «E' che non mi aspettavo che anche tu sapessi offenderti.»

«Certo che mi offendo!» sbottò l'altro, portando entrambe le braccia sul tavolo; si imbronciò nuovamente: «Per le cose che dice Marcus mi offendo eccome.» aggiunse in un borbottio.

«Rivalità tra fratelli?» tirò ad indovinare Oz.

Noah scosse la testa, individuando il fratellastro che faceva il suo ingresso in mensa: «Al contrario. Proprio perché non c'è rivalità fraterna tra noi mi offendo.» replicò, non chiarendo di molto la cosa in realtà.

Oz stava per aggiungere altro, che Marcus li raggiunse: non si sedette, tuttavia. Si limitò ad un cenno ad Oz, spostando poi l'attenzione su Noah.

«Stasera finisco un progetto, quindi ci vediamo domani.» disse semplicemente, l'aria effettivamente un po' scazzata come chi, di finire quel progetto, ha la voglia sotto le scarpe.

Noah perse il cipiglio offeso nello stesso momento in cui la frase finì: «Non ceni?»

«Ho mangiato un boccone prima.» si limitò a dire il maggiore.

Oz vide il compagno di stanza sospirare, come un bambino la cui attesa per qualcosa di importante è stata resa inutile. Il broncio, quello che Noah sembrava assumere in maniera naturale - diverso da quello di poco prima, ostentato volutamente - tornò sul suo viso.

«Va bene, allora ci vediamo domani a colazione.» borbottò.

Oz non seppe se essere sorpreso o aspettarsi il gesto di Marcus: optò per osservarlo, semplicemente, mentre portava una mano fra i capelli di Noah, senza aggiungere molto altro.

«Buonanotte.» pronunciò solamente, allontanandosi dal tavolo.

Quando fu uscito di nuovo, Noah si alzò: «Vado a prendere la cena, se ti accontenti delle mie scelte prendo anche per te.» assicurò con un sorrisetto.

Oz annuì, un po' perplesso, osservandolo andare verso il bancone in fondo alla sala.

 

 

Perché accidenti fosse lì quando, non più tardi di poche ore prima, il capo dormitorio stesso gli aveva espressamente comunicato il divieto di recarvisi, non lo sapeva.

Doveva forse maledire la sua curiosità, i pessimi scherzi, il tempismo fuori luogo e chissà cos'altro.

Dopo cena Noah aveva insistito per andare in biblioteca a portare qualcosa a Marcus, rivelandosi più apprensivo di una madre in certi casi; ovviamente, il sottile dettaglio che non si potesse portare in biblioteca del cibo - sempre ammesso che Marcus non fosse nella sua stanza - non era nulla per Noah Keynes.

Oz aveva pensato di cercare Ada, ma a metà strada era stato fermato da niente di meno che Vincent Nightray; assicurando che andavano nella medesima direzione - dopo aver sostenuto di aver visto Ada poco prima - si era detto disponibile ad accompagnarlo per fare due chiacchiere.

Erano saliti ai piani superiori, seguendo il percorso più breve che conduceva alla biblioteca.

La conversazione con lui non era stata chissà quanto particolare: c'erano stati commenti sui docenti, su come Oz si trovasse. Avevano appena accennato a Gilbert - ah, Gil è a casa Nightray richiamato da nostro padre, ma tornerà tra oggi e domani  - e qualche chiacchiera sull'altro fratello, Elliot.

«Forse lo conoscerai al corso di Musica.» aveva commentato Vincent. Oz lo aveva trovato una compagnia tutto sommato piacevole, confuso sempre più dalla raccomandazione di Alice.

Non sembrava pericoloso.

«Ah, ma quest'area non è vietata?» chiese, riconoscendo la scala che portava all'ultimo piano.

Vincent lo guardò perplesso: «Non ci sono aree vietate a scuola. Ovviamente gli alloggi dei docenti e i loro uffici, se non sei accompagnato da loro.» osservò.

Oz lo fissò perplesso: «Ma il capo dormitorio ha detto...»

«Kolstoj? Strano che si confonda proprio lui, che conosce a memoria il regolamento.» disse, e Oz era quasi sicuro di aver sentito una sfumatura canzonatoria in quell'affermazione.

Mentre aspettava che Vincent prendesse quel che gli serviva da un'aula - ho pensato non avessi fretta, torno subito, ok? - si era poggiato alla parete lì in corridoio.

Quando si era accorto di essere arrivato davanti alla porta di una stanza diversa, addirittura in un differente corridoio, aveva sbattuto le palpebre un paio di volte senza capire.

Come ci era arrivato, esattamente?

«Meglio che me ne vada prima di...»

Non andartene!

Si fermò sul posto, gelato da quella voce che sembrava rimbombare per tutto il corridoio, anziché provenire da una stanza precisa. Si guardò intorno istintivamente, senza trovare nessun altro.

Se Vincent Nightray era in vena di scherzi - perché era palese che fosse uno scherzo stupido - non aveva voglia di farlo divertire. Mosse qualche passo indietro.

Aspetta, aspetta!

Di nuovo. E non vedeva nessuno; mosse qualche passo in avanti, verso la porta chiusa di fronte alla quale si era ritrovato, come un sonnambulo che passa da un posto all'altro senza ricordare di averne percorso la distanza che li separa.

«Chi c'è?» chiese, nel tono una nota seccata. Era quasi evidente che, chiunque fosse l'artefice di quello scherzo mal riuscito, fosse nella stanza da prima o vi fosse arrivato in qualche altro modo.

Magari erano due aule comunicanti.

«Vattene.» sentì sibilare.

Non andare via!

Scosse la testa, confuso: dicevano di rimanere, poi di andare via. Sarebbe stato logico andarsene, ma le gambe - fastidiosamente pesanti senza un motivo preciso - non collaboravano con l'impulso di voltarsi e allontanarsi.

Allungò dunque la mano fino alla maniglia, posandovela e facendo una leggera pressione per abbassarla e aprire la porta. Non durò molto, appena un istante di vuoto.

Poi, il dolore alla testa più acuto e insopportabile che avesse mai provato; qualunque istinto di gridare avesse, il dolore era così pressante da mozzargli il fiato prima ancora che potesse lasciar uscire la voce.

Non riusciva a muovere un passo, a lasciare la maniglia, quasi non sapeva più definire i contorni, la vista fastidiosamente offuscata.

La cosa che percepì più nettamente quando la testa ormai sembrava dovesse letteralmente spaccarsi in due, fu uno strattone che lo fece indietreggiare, permettendogli finalmente di mollare la presa sulla maniglia.

Riconoscere la figura fra lui e la porta non fu proponibile; la forte differenza fra il dolore acuto protrattosi fino ad un istante prima e la totale assenza di rumori di quel momento, gli aveva causato un giramento di testa tale che l'ultima cosa che fu in grado di cogliere fu qualcuno - probabilmente la figura che non aveva messo a fuoco - che gli evitava il brutale contatto con il pavimento mentre cadeva svenuto.

«Tieni quel ragazzino lontano da qui.» sibilò furiosa la voce al di là della porta.

Aedan, Oz alla meno peggio tra le braccia, occhieggiò la superficie lignea senza particolare espressione, eccezion fatta per una sfumatura irritata, forse.

«Non sono questi i patti a cui sei sceso.»

«Conosce i suoi patti! E quello lì non deve avvicinarsi a noi!» sibilò ancora.

Seguì il silenzio, mentre Aedan portava lo sguardo su Oz, privo di sensi; occhieggiò poi il corridoio, caricandosi il biondo in spalla e alzandosi per portarlo altrove.

Avviandosi verso le scale, sposto lo sguardo verso la porta.

«Non chiamarlo più qui da te.» mormorò piano, inudibile quasi. Non ci fu risposta.

Nessuna udibile, almeno.

 

 

 

Note

Olè, in ritardo ma santifichiamo tutti la giornata con i parenti di Ferragosto che mi ha fatto sfornare il capitolo in quattro ore XD

Per quanto riguarda questo capitolo, la nota riguarda il nome di Reim: c'era anche la versione "Liam", ma io non ho ancora capito quale sarebbe quello ufficiale e quale la ri-adattazione dell'anime o delle scan. E siccome a dire "Liam Lunettes" io mi inceppo la lingua, ho deciso che sarà Reim <3 *ama quell'uomo*

 

Un grazie a tutti coloro che leggono, in particolare a:

 

Doremichan: ...scriverò una Guscio x Tartaruga, lo giuro XD

Per quanto riguarda la Monnalisa, è semplice: la mia demenza mi porta a battute simili che puntualmente rifilo al pg di turno. Insomma, mi esce naturale e di getto XD Sono felice di aver mantenuto l’IC anche quel capitolo *sospira sollevata* Per quanto riguarda Noah e Marcus… kukuku (si sarà notato da questo capitolo?) c’è qualcosa che nascondono, vedremo se ti aggraderà quando uscirà fuori ù.ù

Quanto a Vincent, ho in programma di mantenerlo più IC possibile, perciò si suppone rimarrà sempre il nostro amato psicotico con manie ossessivo-compulsive XD

 

LitaChan: nyaaa, felice che ti sia piaciuto anche il precedente capitolo <3

Purtroppo ammetto che Oz è la mia maggiore preoccupazione ogni sacrosanto periodo in cui appare – e lo tratto da protagonista, il che è drammatico.

Non so mai se lo sto tenendo IC, maledetto :° *sbatacchia Oz*

Non ho praticamente fatto apparire Gil qui *-*” Spero che non sarò odiata per questo XD

 

Agito: sono un po’ in ritardo, ma ecco il nuovo capitolo ^^ Ti ringrazio per il tuo parere sull’IC, si fa quel che si può come si suol dire XD

E mi togli un gran peso con il commento riguardo Noah e Marcus: loro, come gli altri nuovi personaggi che ci sono, ero restia ad utilizzarli se non fosse stato per la trama che mi richiedeva parecchi personaggi – che Pandora non mi ha fornito a sufficienza XP

Spero tu possa apprezzare anche questo capitolo e grazie per i complimenti alle altre fanfic ^^

 

makotochan: …tu sei folle XD *muore sulla recensione*

Contenta del tuo entusiasmo per Vincent, spero continui anche nelle sue apparizioni di questo capitolo ù_ù”

Quanto ad Adam, dubito di far apparire l’uomo nero e cattivo qui. Ho già tanti danni che girano per questa scuola (basti vedere la descrizione dei docenti di questo capitolo XD) fra prof e persone-ignote-di-cui-ancora-non-conoscete-l’identità.

E lo so che mi odi per quei pezzi in cui non capisci nulla: ma lo sai che io mi diverto <3

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Capitolo 5
*** Perché sei qui? ***


Perché sei qui

Perché sei qui?

 

 

I primi rumori che riuscì a cogliere, arrivarono alle orecchie che Oz non era ancora pienamente cosciente. Attutiti e vaghi, non avrebbe saputo determinarne né la direzione da cui provenivano, né la distanza.

Sicuramente qualcuno aveva bisogno di spostarsi ripetutamente, perché c'era un rumore di passi dalla cadenza sempre uguale che era ora più vicino, ora più lontano; le voci erano poche, e basse abbastanza da non essere riconoscibili.

«Aedan lo ha portato qui.»

«Sta aspettando fuori.»

«Il capo dormitorio ha detto...»

Gli arrivavano discorsi diversi che non avevano un senso logico per lui, ancora in fase di risveglio. Si concentrò sulla sensazione di qualcosa stretta nella propria mano: sembrava un'altra mano.

Poi, si sentì sfiorare la fronte delicatamente: «Dovresti andare a riposare, l'infermiera dice che ha solo perso i sensi.» percepì e, forse per la sua familiarità, riconobbe la voce come quella di Ada. La mano che stringeva la sua rafforzò la presa.

«Non dormirei comunque. Tu sembri stanca, vai pure. Rimango io.» assicurò.

«Ma Gil...»

«Insisto, Ada.» troncò il debole tentativo dell'altra.

Riconosciute due delle persone presenti, si sforzò di aprire gli occhi: non voleva che Ada si preoccupasse, tanto meno che lo facesse Gilbert. Inizialmente nessuno dei due notò Oz aprire gli occhi lentamente, cercando probabilmente di mettere a fuoco la stanza.

Ad accorgersene, fu qualcuno che inizialmente non riuscì a focalizzare: un paio di occhi distaccati lo osservavano. Poco dopo, nel campo visivo di Oz rientrò anche Break Xerxes.

«Oh, il signorino Oz si è ripreso!» osservò, Rufus Barma al suo fianco che si limitava ad alzare gli occhi al cielo.

Alle sue parole, Ada e Gilbert spostarono immediatamente lo sguardo su di lui, entrambi preoccupati. La sorella fu la prima a sorridere, il sollievo evidente sia nell'incurvarsi di labbra, sia negli occhi chiari: «Fratellino...» mormorò, osservandolo. Oz le sorrise.

«Il capo dormitorio sarà lieto di sapere che stai meglio.» disse Break, facendo deviare su di lui l'attenzione del biondo. Gli tornò in mente tutto insieme: la chiacchierata con Sirjan, il divieto che gli era stato dato, la chiacchierata con Vincent, la porta, la voce, il dolore alla testa.

Una figura che non aveva fatto in tempo a mettere a fuoco: «Dove...?» accennò a chiedere, guardandosi intorno.

«In infermeria» rispose subito Ada, con tono pacato: «Shaye ti ha trovato svenuto in corridoio e ti ha portato qui. Poi siamo stati avvisati dai capo dormitorio.» spiegò brevemente. Oz annuì appena, ancora stordito. Aedan lo aveva solo trovato o era anche la persona che non aveva visto bene prima di svenire?

«Ora sto bene.» assicurò alla sorella con un sorriso rassicurante: «Vai a riposare, Ada.» suggerì. Lei parve incerta, sulle prime; Gilbert, che aveva taciuto fino a quel momento, annuì appena.

«Stai tranquilla, rimango io.» aggiunse alle parole del biondo.

Ada sorrise, tranquillizzata: «Va bene. Mi raccomando, riposati d'accordo?» disse, una lieve sfumatura di preoccupazione ancora presente nel tono di voce. Oz annuì, il rossore appena diffuso sulle guance quando l'altra si chinò appena sfiorandogli la fronte con le labbra.

Quando fu uscita, il biondo notò che la porta era stata lasciata aperta: non essendo troppo distante da essa con il letto, non fu difficile per lui notare Aedan sulla soglia, in silenzio. Fece per dire qualcosa – invitarlo ad entrare per chiedergli spiegazioni probabilmente – ma l’altro scosse appena la testa.

«Parleremo quando sarai uscito.» disse solo, ed usò quella stessa frase come congedo, in aggiunta un leggero chinare il capo. Oz abbassò la mano che aveva alzato istintivamente verso il ragazzo come ad enfatizzare il bisogno di parlargli, l’aria delusa.

Gilbert sembrò notarla senza sforzo e strinse impercettibilmente la presa sulla mano di Oz, che non aveva ancora lasciato; il biondo alzò lo sguardo, sorridendo quasi subito sebbene in maniera leggera e non col solito ampio incurvarsi delle labbra. La sua attenzione fu poi riportata sui docenti dalla voce di Barma.

«La presidenza le giustifica un’assenza per domani, signor Bezarius. Ne usufruisca per rimettersi in sesto.» riportò solamente, il tono senza particolari inflessioni.

Intonazioni che, nel pieno del suo spirito di animatore di feste mancato, Break Xerxes aggiunse per proprio conto: «Mi raccomando, non peggiorare eh, signor Bezarius?» se ne uscì, il finale un palese scimmiottare l’altro docente. Oz sperò che fosse un augurio di pronta guarigione anche quello.

Quando entrambi i professori furono usciti – c’erano voluti una decina di minuti in cui Xerxes aveva avuto il bisogno psico-fisico di fare l’idiota per dire due cose in croce all’infermiera – Oz si lasciò ricadere con la testa sul cuscino, con un sospiro.

Fu allora che si accorse della mano di Gilbert ancora nella propria. Alzò lo sguardo sul moro, che lo osservava: «Cosa ci facevi con Vincent?» fu la prima cosa che gli chiese.

Nessun “ero preoccupato”, nessun “sicuro di stare bene?”; Oz si imbronciò: «Tu cosa fai con i compagni di scuola, Gil?» chiese, una punta di ironia nella voce. Lo vide scuotere appena la testa, senza spostare però lo sguardo da lui.

«Oz, dico sul serio. Non è bene che tu vada in giro con lui.»

«Ma l’amore familiare è proprio una prerogativa dei Nightray, o è Vincent che si attira addosso l’odio?» se ne uscì, spontaneo. Insomma, da quando era lì sia Gilbert che Alice – gli unici altri due Nightray o parenti del biondo che aveva incrociato – non avevano fatto altro che dirgli di non avvicinarsi a lui.

Senza un motivo; almeno gli avessero dato quello – e fosse stato valido.

Tacquero entrambi per diversi istanti, Oz fissando il più grande, Gilbert mantenendo lo sguardo sul materasso, quasi stesse cercando la risposta alla domanda dell’altro.

Il biondo sospirò, rilassandosi contro il cuscino: lo capiva che Gilbert era semplicemente preoccupato.

Con ogni probabilità sia lui che Ada erano stati avvertiti del suo crollo nel corridoio da Aedan o da uno dei due docenti rimasti fino al suo risveglio. E, non per essere cattivi, ma faticava seriamente a decidere chi dei tre avesse più tatto.

«E’ solo» riprese, anche se avrebbe dovuto forse esordire con uno “scusami”, ma ehi, parliamo di Oz Bezarius: «che da quando sono arrivato, non ci sono stati che divieti. E nessuno di voi mi ha dato una spiegazione anche solo vaga. Tu ed Alice mi avete detto di stare lontano da Vincent Nightray come se fosse un pazzo assassino, ma il motivo? Noah lo stesso, ha solo accennato ad una “cattiva reputazione” e tanti saluti.» borbottò.

Insomma, la cosa più crudele che Vincent gli aveva fatto fino a quel momento era stata accompagnarlo in giro per l’edificio scolastico.

«E anche Aedan e Sirjan. Loro mi dicono che un’area della scuola è vietata, poi Vincent mi dice che non ce ne sono, di aree vietate nella scuola. A parte alloggi e uffici privati dei professori. A chi dovrei credere, Gil?» lo interrogò infine, lo sguardo chiaro sul moro.

Mentre lo aveva lasciato parlare, Gilbert aveva alzato appena un sopracciglio sentendo nominare Noah: era probabile che fosse lo stesso di cui gli aveva accennato Ada, il compagno di stanza di Oz.

Ma cosa ne sapesse questo Noah della “cattiva reputazione” di Vincent o cosa intendesse per “cattiva reputazione”, questo non lo sapeva e non lo immaginava. Non era certo per motivi come “è una cattiva compagnia” che voleva tenere il fratello minore lontano da Oz.

Scosse appena la testa: di cosa intendesse questo fantomatico Noah, si sarebbe preoccupato quando ce ne sarebbe stato bisogno – anche se sperava non accadesse. Non era cosa per lui.

«Prometto di dirti la verità, ma ora riposati.» disse solamente rivolto al più piccolo, spostando altrove lo sguardo.

Cos’era, una presa in giro?

«Gil…»

«Per favore, Oz.» insistette, stringendo la presa sulla mano – da quanto teneva la sua? – quasi ad enfatizzare la sua richiesta: «Te lo dirò, ma non adesso.» promise di nuovo.

Oz tacque, muovendo appena la mano in quella dell’altro, che allentò la presa per permettergli di sistemarsi nel letto.

Lo lasciò coricarsi come preferiva – su un fianco, dandogli le spalle come quando da bambino si arrabbiava con lui.

«’notte.» gli sentì pronunciare prima che cadesse di nuovo il silenzio.

Gilbert sospirò; voleva solo che Oz aspettasse, che gli desse tempo.

Il tempo necessario per inventare una bugia.

 

 

Il giorno dopo Oz aveva passato l’intera mattinata tassativamente in infermeria come Rufus Barma gli aveva consigliato – o meglio, comunicato.

Era stato di una noia mortale: tutti avevano lezione, perciò non c’era nessuno oltre l’infermiera che potesse costituire una compagnia. Una donna cortese e gentile, ma pur sempre impegnata e in età avanzata: per quanto Oz tendesse a chiacchierare anche coi muri quando si impegnava, non poteva certo passare il tempo a parlare di uncinetto e punto croce.

Era da poco scattata l’ultima ora di lezione, quando la porta dell’infermeria si era inaspettatamente aperta: alzando istintivamente lo sguardo dal libro che aveva racimolato – gli occhi dolci da cucciolo sperduto avevano un certo ascendente sulla povera infermiera – Oz si sorprese di incontrare la figura di Aedan.

Non indossava la giacca della divisa, quindi era totalmente visibile la camicia bianca. Con la mano sinistra teneva la manica destra arrotolata sopra il gomito e Oz poté intravedere solo in quel momento un taglio piuttosto profondo che sanguinava e delle bende srotolate alla meno peggio, probabilmente proprio dal moro.

L’infermiera gli si era subito fatta vicina, l’aria preoccupata.

Aedan vi aveva risposto con uno sguardo non troppo coinvolto – e Oz si chiese, con un taglio sanguinante che probabilmente faceva anche male, come fosse possibile – e un semplice: «La ferita si è riaperta.»

Cosa, peraltro, che la donna poteva vedere da sola.

La sentì sbuffare leggermente, ma più rassegnata che seccata: «Shaye, ti avevo detto che era meglio tu evitassi le lezione per non urtare col braccio da qualche parte.» osservò con un’accennata severità nel tono, facendogli cenno di prendere posto su uno dei letti liberi mentre andava a prendere l’occorrente.

Aedan spostò lo sguardo sui suddetti letti, riconoscendo allora la figura di Oz che sorrise lievemente di rimando.

Benché senza ricambiare il sorriso, Aedan si diresse verso il letto accanto a quello del biondo prendendovi posto; Oz notò che teneva il braccio più o meno sopra le gambe, come se preferisse sporcarsi i pantaloni che macchiare le lenzuola.

Sorrise con più convinzione, spostando poi l’attenzione sul braccio senza dire nulla.

Fu Aedan a riportarlo bruscamente alla realtà: «So che hai delle domande. Le puoi fare, se vuoi.» disse. Oz, non aspettandoselo, lo guardò incerto prima di abbozzare un sorrisetto e portare la mano a grattarsi appena la nuca: «Non hai detto che avremmo parlato appena fossi uscito da qui?» lo incalzò.

Aedan lo fissò, senza cambiamenti di espressione troppo evidenti: «Tu non segui le regole.» fu la spiegazione che diede e che – ad essere sinceri – seccò un poco Oz.

Sapeva molto di ironia, quella frase dell’altro.

Non disse nulla comunque, vedendo riapparire l’infermiera con le bende e il disinfettante necessario. Osservò in silenzio tutta l’operazione finché non ebbe fasciato di nuovo il braccio di Aedan con garze pulite, assicurandosi di non stringerle troppo causandogli fastidio o dolore.

Si alzò, quindi, andando a mettere a posto il tutto probabilmente e lasciandoli soli.

Seguì ancora del silenzio, visto che Aedan non sembrava intenzionato a cominciare un discorso.

Fu Oz, come era prevedibile, a rompere quella fasi di stallo: «Chi ti ha detto che ero lì?» chiese, riferendosi chiaramente al corridoio dove Aedan lo aveva trovato. Il moro alzò finalmente lo sguardo su di lui, ponderando una risposta.

«Nessuno. Ero lì e ti ho visto.» rispose, più sincero di quanto Oz si aspettava, francamente.

«Mi hai visto svenire?»

«Ti ho visto deambulare, fermarti e poi svenire.» lo corresse.

Oz si sentì confuso per un attimo; in sostanza, allora, Aedan doveva aver sentito la stessa voce che lui ricordava – un po’ a fatica e troppo vaga per attribuirla a qualcuno.

«Perché eri lì?» chiese dunque, provando a cambiare domanda per capire qualcosa in più che già non sapesse lui stesso. Aedan lo osservò, nuovamente, facendo una pausa breve prima di rispondere.

«Dovevo essere lì.» fu la replica che fece istintivamente alzare gli occhi al soffitto ad Oz. Che razza di risposta era “dovevo essere lì”? Era vaga quasi quanto un banalissimo ed infantile: perché sì.

«Risponderai così a tutte le domande che ti farò?» sbottò ironicamente, osservandolo quasi offeso, come se Aedan lo stesse volutamente prendendo in giro pur avendo capito che il biondo cercava conferme nelle sue risposte.

Ma il moro scosse la testa: «Dipende dalla domanda che mi fai. E questo è il modo di rispondere che conosco.»

«Vago e inconcludente?»

«Essenziale.» lo corresse.

Oz non poté trattenere uno sbuffo divertito: quell’Aedan era parecchio strano, ma diceva cose tali con un’espressione talmente convinta che ti passava subito il sospetto che lo stesse facendo di proposito. Anche se forse, qualche volta, era davvero così.

«Come te lo sei fatto?» chiese, indicando il taglio ora coperto dalle bende.

«Non posso dirtelo.» rispose semplicemente il moro, osservando prima la fasciatura e poi tornando su Oz che lo fissava perplesso e incuriosito al tempo stesso: «Perché non puoi?» domandò.

«Ci sono cose che non posso dire.» fu la facile e immediata risposta.

«Dipende da te?»

«No, dagli ordini che ho.» concluse, cogliendo impreparato Oz. Gli tornava in mente il discorso fatto con Sirjan a proposito di Aedan e del fatto che fosse una guardia del corpo che faceva lo studente a Latowidge senza averne davvero bisogno e solo per affiancare il suo protetto.

Non riusciva a capire del tutto, però, il bisogno di avere guardie del corpo. Capiva che Latowidge pullulasse di figli di buona famiglia, ma non capiva quale fosse il grande pericolo in un collegio. Eppure, non era solo Aedan; dalle parole di Noah, era parso chiaro che anche i Nightray ne avessero.

Si disse che preferiva di gran lunga la situazione sua e di Ada, che erano studenti normali, senza nessuno che li controllasse ogni secondo e gli rimanesse appiccicato.

«Sirjan mi ha detto che sei una guardia del corpo.» se ne uscì: «Te l’ha detto la persona che proteggi, di stare lì nel corridoio dove mi hai trovato?» azzardò.

Aedan parve pensarci su, come se il fatto che Sirjan avesse parlato di lui e di cosa faceva non fosse stato previsto. La cosa comunque non sembrava certo turbarlo profondamente: probabilmente, si disse Oz, era qualcosa che se anche usciva allo scoperto, non era problematica agli occhi dell’altro.

«Non me lo ha detto Ethan.» disse, rivelando anche il nome della persona a cui faceva da guardia del corpo: «me lo ha ordinato Sirjan.» aggiunse.

Ora Oz poteva concedersi di mostrare del tutto la sorpresa a quell’uscita.

Avrebbe avuto senso se fosse stato il “padrone” che Aedan serviva, ad ordinarglielo: ma che fosse Sirjan, per quanto capo dormitorio, perdeva un senso logico. D’altra parte, era quasi sicuro che se avesse chiesto chiarimenti ad Aedan, questi non glieli avrebbe forniti.

«Fai tutto quello che ti ordina?»

«Se non va contro gli ordini di Ethan, che hanno la precedenza.» replicò.

Oz si sentiva in qualche modo seccato da quell’atteggiamento, anche se effettivamente non lo riguardava: ma l’essere così sottomessi ad ordini degli altri, era una cosa che lui non avrebbe mai sopportato e non capiva in quale modo potesse farlo qualcun altro, in questo caso Aedan.

Spostò lo sguardo dal moro, senza sapere esattamente cosa dire: supponeva che quello fosse un argomento sul quale in nessun modo si potesse trovare un punto d’accordo.

Ciò che però non ricordava del discorso di Sirjan era il fatto che Aedan avesse un’intelligenza sviluppata; alla quale, a giudicare dalla frase che gli rivolse in seguito, era sinonimo di ottimo intuito.

«Non chiederti il perché. È una cosa che non potresti capire.» disse, il tono quasi secco, come se quella domanda gliel’avessero rivolta molte volte e tutte quelle che aveva risposto non fosse stato capace di spiegarsi.

«Sei qui solo per eseguire gli ordini di Sirjan o di questo Ethan, quindi? Di essere uno studente non ti interessa nulla, per questo Sirjan dice che non ti circondi nemmeno di amici?»

«Gli amici non mi servono.» fu la risposta che diede, come se fosse ovvio.

«E Sirjan?»

«Gli servo.»

«E non ti infastidisce che sia solo questo?!» sbottò, fissandolo senza capire come potesse parlarne così, come se non importasse.

Parve seccare Aedan, quella domanda; Oz non ne era certo, ma gli sembrava di aver visto quell’espressione costantemente neutra accigliarsi appena.

«Cosa ti insegnano come prima cosa?» se ne uscì il moro. Oz, senza capire, mormorò un “parlare” piuttosto dubbioso.

«E cosa ti dice più spesso la tua famiglia?» lo interrogò di nuovo, come se gli stesse pazientemente insegnando un concetto che avrebbe dovuto apprendere già tempo prima.

Oz tacque, facendo mente locale per un attimo: aveva una situazione tutta particolare, lui, e non ricordava bene sua madre che era venuta a mancare parecchio tempo prima. Ma Ada, che da sorella maggiore aveva assunto anche un po’ la figura materna, la ricordava chiaramente.

«…che mi ama.» borbottò, le parole d’affetto della sorella che più di una volta erano state basilari, necessarie a dir poco.

«Io ho imparato a combattere. E poi mi hanno detto: “la tua vita non vale nulla”.» fu l’aspra replica di Aedan mentre si alzava, e se ne andava.

 

 

L’indomani Oz era tornato a frequentare le lezioni come stabilito.

Noah era andato a prenderlo in infermeria la mattina, ed Oz gli era stato grato di non aver fatto domande. Conoscendo la natura curiosa di Noah, era certo che se aveva taciuto era stato per un qualche riguardo verso di lui.

Rufus Barma, primo docente di quella mattinata di lezioni, gli aveva fissato un incontro per sostituire quello mancato il pomeriggio prima, dopodiché la lezione era stata né più, né meno apatica della norma.

Il che diventava problematico quando, a seguire, avevi lezione con Xerxes: la sonnolenza che ti eri portato dietro dalla tua stanza e che aveva avuto il controllo su di te per tutta la lezione di Barma, infatti, veniva traumaticamente spazzata via dal docente albino e dalle sue lezioni tutt’altro che calme e rilassanti.

Fortuna voleva che l’insegnante avesse una sola ora con la classe di Oz quel giorno, e che alla sua materia seguissero due ore di filosofia – non che quella fosse una materia che ti faceva sbellicare dalle risate, ma Coleman aveva il potere di renderla divertente anche quando il suicidio era una soluzione rosea, piuttosto che ascoltare certe teorie.

Anche quel giorno il docente non si era smentito; l’argomento della lezione – Zenone – era l’insieme di teorie più astruse e inverosimili che Oz avesse mai sentito fino a quel momento.

Ma Achille che non riusciva a superare la tartaruga le batteva tutte (1): da qualsiasi punto di vista la osservasse, Oz non lo riteneva possibile. Così Coleman, dall’alto della sua indole folle, aveva insistito per dare la dimostrazione pratica della teoria. Ciò aveva comportato che lui – impersonando una tartaruga che per avanzare saltellava -  obbligasse Oz a fermarsi ad una certa distanza tutte le volte, in quanto sfigatissimo Achille del caso, per spiegare il tutto alla classe.

Alla fine delle due ore di lezione – tra le quali c’era stata la pausa di quindici minuti canonica – Oz si ripromise di non chiedere mai più spiegazioni al professor Coleman utilizzando l’espressione: “non è possibile”.

Quando lui, Noah e Alice uscirono dall’aula, quest’ultima stava “sottilmente” prendendo in giro Oz per la scenetta a cui la sua domanda aveva dato vita.

Fu Noah ad interromperli – anche se era il primo a riderne divertito: «A questo punto, Oz, io ed Alice ti salutiamo.» se ne uscì. Oz lo guardò perplesso e Noah ridacchiò picchiettando piano sulla sua testa, fingendo di bussare.

«Ohi, “arte” e “lezioni separate” ti dicono qualcosa?» lo apostrofò divertito.

Oz fece la linguaccia: «Spiritoso.» ribatté, interrotto su una qualsiasi possibile aggiunta dalla voce di Alice, che si era fermata poco dietro di loro. Voltandosi, la vide di fronte ad un’altra ragazza: del loro stesso anno, era quella che Oz aveva sempre visto sedere accanto ad Alice a lezione. I capelli chiari e a caschetto erano lasciati sciolti a sfiorare quasi le spalle; gli occhi, di cui non riusciva a definire il colore da lì, erano apaticamente puntati su Alice che le parlava seccata.

«Almeno ai corsi diversi lasciami in pace!» sbottò irritata.

L’altra, vide Oz, non replicò lasciando che Alice le desse le spalle e, sorpassando Noah, proseguisse lungo il corridoio.

Quando Oz notò entrambi – Noah che aveva seguito la castana quasi subito – sparire in un altro corridoio dopo aver voltato l’angolo, tornò con gli occhi chiari sulla figura della ragazza, che sembrava fissare il punto in cui era scomparsa Alice, come incerta se seguirla o meno.

Le si avvicinò, l’espressione amichevole come il tono con cui le si rivolse: «Sei un’amica di Alice?» chiese, deducendo la cosa più ovvia che si potesse ipotizzare dai suoi atteggiamenti in aula.

Lei posò lo sguardo su di lui, come se lo avesse notato solo in quel momento, senza espressione particolare – gli ricordava Aedan, a ben pensarci – esordendo infine con un: «Tu chi sei?» al quale Oz ridacchiò.

Le porse la mano: «Oz Bezarius, anche io sono amico di Alice, anche se lei mi chiama “servo”.» ammise.

La ragazza alternò lo sguardo dalla mano tesa del biondo al suo viso; non la strinse: «Echo è una serva, anche se tu la chiami "amica".» disse solamente, facendo per voltarsi e andarsene. Oz, sorpreso e incuriosito, la seguì quasi subito.

«Aspetta, piccola Echo!» chiamò, con quel nomignolo astruso tirato fuori sul momento da chissà dove. L'altra si fermò voltandosi a guardarlo, seria.

«E' Echo.» disse perentoria.

Ma figurarsi se Oz mollava così facilmente.

«Echo come?»

«Echo e basta.»

«Dovrai pur avere un cognome sull'iscrizione!» obiettò, il sorriso ancora ad incurvagli le labbra.

Lei parve pensarci su: «Echo risulta come Nightray, ma non lo è. E' Echo e basta.» ribadì, concludendo il discorso diplomaticamente per i suoi standard fino a quel momento.

Oz parve ricollegare qualcosa tra le sue parole alla presentazione dei Nightray fornita da Noah il primo giorno e mantenne il sorriso: «Quindi sei una servitrice dei Nightray?» chiese conferma anche se, mentalmente, sostituiva a "servitrice" "guardia del corpo". Echo, semplicemente, annuì. Dopo poco, fu lei stessa a parlare: «Echo deve andare.» fu il semplice congedo dopo il quale si avviò.

Oz mosse appena la mano in segno di saluto: «Ci vediamo a lezione Echo!» esclamò, il tono allegro.

 

 

Entrò nella stanza, chiudendosi la porta alle spalle e spostando quindi l'attenzione sulle due figure presenti; come sempre, trovò lei vicino alla finestra, lo sguardo che vagava oltre il vetro e il sorriso leggero ad incresparle le labbra.

Dietro la scrivania, individuò Sirjan: un braccio mollemente poggiato sul bracciolo della sedia, l'altro sul tavolo. Riconoscendolo appena entrato, incurvò leggermente le labbra in un sorriso quasi invisibile.

La voce che richiamò il moro, tuttavia, fu quella della ragazza nella stanza: «Come sta il tuo braccio Aedan?» domandò, il tono gentile e pacato mentre lo osservava e gli faceva cenno di sedersi.

Il moro preferì rimanere in piedi: «E' solo un graffio.»

«Piuttosto profondo se basta poco perché, pur protetto da una fasciatura, si riapra in così breve tempo sanguinando tanto da farti guadagnare un breve soggiorno in infermeria.» osservò Sirjan casualmente.

Ma, Aedan lo sapeva, non c'erano parole che il più grande pronunciasse per caso. Lo studiò qualche istante, sulla difensiva.

Di nuovo, la voce femminile lo costrinse a spostare lo sguardo da Sirjan: «Non c'è bisogno di mentire tra noi. Sappiamo tutti e tre cos'è successo, dopotutto.» commentò in tono pacato, lo sguardo sul moro. Indicò il suo braccio: «Non te lo sei forse procurato proteggendo il più giovane dei Bezarius?» chiese. Aedan annuì appena e Sirjan si alzò, aggirando la scrivania.

Raggiunta anche lui la finestra, parlò fissando il giardino fuori di essa: «Ricorda qualcosa?»

«Sembra di no, non da quanto mi ha detto.» replicò il più giovane.

«Allora di certo rammenta fin troppo. Ad ogni modo, l'errore è stato mio.» ammise Sirjan.

«Non è certo che ricordi le voci.» fece notare Aedan. Sirjan lo osservò, un sorriso ironico sulle labbra: «Per esperienza so che se così non fosse, non ti farebbe domande.» spiegò semplicemente, spostando lo sguardo sulla ragazza seduta.

«Cosa ne pensi, sorella? E' Vincent Nightray che dovremmo tenere d'occhio?» domandò. L'altra scosse la testa, tornando con lo sguardo all'esterno della stanza.

«Non credo, non ancora. Vincent Nightray conosce ciò che stiamo nascondendo non solo ai Bezarius, ma a tutte le famiglie dell'alta società se così vogliamo definirla. Ma non conosce il metodo per raggiungerlo e, oltretutto, non è suo interesse che si venga a sapere. Al contrario, vuole nasconderlo quanto noi. Pertanto non credo sia sensato per ora tenere d'occhio lui e credo che Oz Bezarius dovrebbe avere la priorità.» replicò esponendo il suo punto di vista sulla questione.

Sirjan annuì e tornò con l'attenzione su Aedan: «Per ora continua a sorvegliare il minore dei Bezarius allora.» ordinò soltanto.

Aedan lo osservò in silenzio; optò per tenere la domanda per sé, come tante altre volte in cui aveva taciuto da quando "lavorava" con e per Sirjan.

Perché proprio quei due conoscessero la vicenda, i particolari, le persone da cui doveva essere tenuta lontana, nascosta sotto strati di bugie.

Perché proprio in quella scuola.

Perché proprio i Kolstoj.

 

 

Oz, che si era ripromesso di coinvolgere Echo nel loro "trio" non appena l'avesse vista a lezione - anche se probabilmente Alice all'inizio non sarebbe stata contenta - pensò che sì, se aveva avuto la fortuna di incrociarla quello stesso pomeriggio, non poteva che essere destino.

Dopo il pranzo passato con Noah pieno di risvegliati istinti omicidi verso la docente di Arte - ci manca solo che mi spari "signor Keynes, non tiene il pennello da pittura in maniera educata" e giuro su Dio che le piazzo insetti nella zuppa! - un Marcus che sottolineava quanto il fratello fosse rumoroso e una Alice la cui massima preoccupazione era spolpare il pollo preso per pranzo, Oz aveva deciso di cercare Gilbert.

Non aveva certo dimenticato che l'altro gli aveva promesso una spiegazione!

Era stato vagando, per l'appunto, che aveva visto Echo in giardino da sola.

Sorrise meccanicamente, avvicinandosi al punto dove era seduta e salutandola con tono allegro. Le porse la mano per aiutarla ad alzarsi, giustificando il tutto con un: «Andiamo a fare una passeggiata?» spontaneo come se per loro fosse una prassi e non si conoscessero sì e no da mezza giornata.

Echo osservò la mano perplessa, spostando poi lo sguardo nuovamente su Oz: «Perché sei tanto fissato con Echo?» domandò senza girarci troppo intorno. Il biondo ridacchiò: «Vorrei esserti amico.» fu la risposta quasi immediata.

La cosa parve spiazzarla: «E perché?»

«Mmh...» sembrò pensarci su lui. Sorrise più ampiamente: «Perché sei anche amica di Alice e siamo compagni di corso e stare tutti insieme sarebbe più divertente.» concluse, come se fossero motivazioni ovvie e quasi scontate.

«Tu conosci padron Gilbert, vero?» se ne uscì lei, cambiando totalmente discorso. Oz la osservò confuso per un attimo, dopo il quale fece cenno di sì con la testa: «Sì, ci conosciamo da un po'.» rispose, vedendo Echo accettare finalmente la mano rimasta tesa verso di lei fino a quel momento e alzarsi.

«Se sei amico di padron Gilbert, allora Echo non può essere sgarbata con te.» fu la spiegazione che diede. Oz non commentò; gli bastava che avesse accettato, in fondo: «Sai dov'è Gil?» chiese poi.

Lei scosse la testa ed Oz assunse un'aria offesa: «Come al solito ti serve e non si trova!» sbottò, senza lasciare la mano di Echo e avviandosi verso l'edificio scolastico.

Echo guardò la mano che non veniva lasciata, nuovamente perplessa dall'atteggiamento del biondo: «Perché la tieni ancora? Echo sa camminare da sola.» puntualizzò.

Oz rise divertito: «Lo so, ma la tengo lo stesso se non ti spiace, piccola Echo.» fu la risposta quasi scontata.

«Fa lo stesso. Ed è solo Echo.»

«Ma piccola Echo è più carino!»

«E' solo Echo.»

«Uffaaa...» si lamentò Oz, arrendendosi - ma solo per il momento, ovvio.

Camminarono per un po' in silenzio, controllando la mensa e l'atrio, proseguendo poi per i posti più nelle vicinanze. Si dirigevano in biblioteca senza aver ancora intravisto nemmeno l'ombra di Gilbert, che ad Oz venne in mente.

«Echo» la chiamò, benché fosse effettivamente al suo fianco: «chiami Gilbert "padrone" perché sei la sua guardia del corpo o il servitore personale?» domandò incuriosito.

Da quando lui e Gilbert si erano incontrati a Latowidge, non si erano praticamente mai detti nulla riguardo a cosa fosse accaduto in quegli anni.

Per quanto ne sapeva Oz, quindi, tutto poteva essere.

Echo, però, scosse la testa: «Echo è affidata e serve padron Vincent. Però deve comunque rispettare anche padron Gilbert e padron Elliot.» spiegò. Oz non trovò riscontri riguardo quell' "Elliot", ma fu facile supporre che si trattasse del fratello più piccolo di Gilbert. Magari Noah glielo aveva anche nominato e lui non lo ricordava.

«Per questo sei qui a scuola Echo? Per stare affianco a Vincent?» chiese, quasi cercando conferma che molti studenti non fossero davvero lì per studiare ma solo per proteggere i veri e propri studenti di Latowidge.

Echo, mantenendo lo sguardo davanti a sé, annuì: «Per eseguire gli ordini di padron Vincent.» specificò. Oz tacque, continuando ad avanzare e raggiungendo in breve l'angolo che dava sul corridoio della biblioteca. Fece per voltarlo, ma l'altra lo trattenne. Si voltò verso di lei, l'espressione interrogativa sul volto.

«Echo deve rientrare.» disse lei, il tono apatico.

Oz annuì con un sorriso, lasciandole la mano: «Ci vediamo a cena, oppure domani!» la salutò allegro, facendo per avviarsi.

«Oz Bezarius?» si sentì chiamare da lei, costretto nuovamente a voltarsi verso la ragazza: «Tu non sei un servitore. Echo pensa che tu non sia come gli studenti normali. Allora perché mai sei qui?»

 

 

«Che cattiva, chissà come ci è rimasto male quando glielo hai chiesto.» commentò, il tono carico di un'ironia quasi sadica. Chinò appena il capo, ignorando diverse ciocche di capelli biondi che andarono a nascondere parte del viso; quasi un attore nascosto dal sipario al pubblico presente.

Sfiorò il collo della ragazza tenuta in grembo con le labbra, il tocco e la stretta sulla sua vita in qualche modo possessivi. Ma non per affetto.

«Sei stata brava, Echo.» sussurrò. La più piccola rabbrividì appena, il rossore ad imporporarle le guance.

«Padron Vincent» mormorò: «ora Echo cosa deve...?»

«Shhht.» la interruppe lui: «Ora noi resteremo a guardare per un po', Echo.»

 

 

 

 

Note (e avviso)

Ossia quel "(1)" che avete trovato alla lezione di Coleman. Giusto una breve spiegazione per rendere la lezione e la follia di quell'uomo vagamente comprensibili XD

La teoria di cui parlano è una delle poche di Zenone (o almeno delle poche che si studiano di solito). "Achille e la tartaruga", sostiene che se la tartaruga parte prima di Achille, lui per raggiungerla deve prima arrivare dove si trova lei e poi superarla.

Il problema è che la tartaruga continua a muoversi, quindi lui non la raggiunge e non la supera mai: è una cosa che non prende in considerazione la velocità, ma la distanza e i canoni con cui la si deve percorrere.

Quindi immaginate il professore che salta e obbliga Oz a fermarsi in mezzo all'aula quando raggiunge il punto in cui Coleman-tartaruga era prima.

Fine XD

Non chiedetemi perché mentre scrivo questa longfic mi tornano in mente le lezioni di filosofia di 3 anni fa. Non lo so *si prepara ad essere trucidata con dolore*

 

Quanto all'avviso avrete notato già da voi che non pubblico più ogni due giorni ma a intervalli più ampi (e, per ora, ancora accettabili XD): credo che sarà sempre così, da ora in poi, perché ricominciano università, esami, lavoro e sport. Ma cercherò di mantenere aggiornamenti umani (non sarebbe la prima volta che un ficwriter - e nello specifico io - scrive la notte *-*").

 

E ora, ringraziamenti <3 Come sempre grazie a chi legge e in particolare a chi recensiona:

 

Gioielle: mi assumerò le responsabilità di averti reso vitale chiamare Gilbert “Monnalisa” XD

Dunque, per quanto riguarda Marcus e Noah, posso dirti che lo scoprirete solo leggendo XP (e non darvi spoiler è una sofferenza. Io chiacchiero troppo). Quanto a Jack e Glen posso essere un po’ più indulgente dicendovi che sicuramente appariranno (non fosse altro che tra i personaggi ho scritto “un po’ tutti” XD).

Per le scene GilOz, ve le sto facendo davvero penare, lo so y_y E so che il poco che c’è stato qui forse non vi appaga, ma siate fiduciose ù.ù Per l’IC non sei ripetitiva, a me fa sempre piacere avere conferma visto che i lettori sono l’unico riscontro ^^ E per Sirjan… beh, aspetto il tuo giudizio dopo questo capitolo XD

 

LitaChan: aw, ti ringrazio per i complimenti <3

Noah quando si impegna sa essere anche più pucchoso di così XD *non sa se sia un bene o un male* E chissà che con questo capitolo io non ti abbia chiarito un po’ chi è più sincero fra Vincent e Sirjan X°°D

Per le voci, soffrirete ancora un po’ ù_ù Se vi consola, però, potete sbizzarrirvi sulle varie possibilità XD

Musica… Elliot… *divaga volentieri con lei sbavando* coff. xD

 

 

ShAiW: tranquilla, anche se hai saltato il precedente il tuo parere fa sempre piacere <3

Dunque, dunque… ormai non mi stupisco più di vedere che tutte considerate canon la MarcusNoah XD E non ci sono molti complimenti che mi facciano felice come riuscire a far risultare almeno vagamente simpatico un personaggio che un lettore prima sopportava poco o magari odiava <3 *felice*

Quanto all’abbondare dei docenti fighi, lo so, lo so… ma è la Mochizuki che li disegna così, eh, io mi limito a descrivere come li vedo XD *ghigna malignamente perché essendo l’autrice conosce sviluppi vari* kukuku +.+

Il padrone di Aedan per ora medito di lasciarlo rimanere un nome e nulla di più (come in questo capitolo); quanto a Elliot e Reo, pazienta ancora un po’ x3

 

 

makotochan: siccome ti conosco da tanto, mi prendo la libertà di dirti che le tue recensioni iniziano ad inquietarmi x° *paura* comunque lo sappiamo che Oz è tutto particolare, io non mi sorprendo del fatto che si fidi (se di fiducia si può parlare) di Vincent XD *lei non si stupisce di nulla ormai*

Sono contenta che ti piaccia Rufus, perché tengo particolarmente a quell’uomo *-* Quanto allo sbadiglio di Noah, suvvia: quel ragazzo nasce per essere scemo anche nelle scene pesanti XD

Visto che ti era piaciuto Aedan, confido che l’approfondimento di questo capitolo sia stato di tuo gradimento ù.ù

 

 

Yoko891: wiiiih, le virgole al loro posto! *__* *festeggia* XD

Non so quanto dovrei preoccuparmi dell’IC di Vincent, considerando che lo muovo senza pensarci troppo (e quindi si suppone mi venga naturale) ma lo prendo sicuramente per un complimento almeno come ficwriter *-*

Sapevo che avresti sbavato su Sirjan e beh, a volte anche possedere gli spoiler non conta ù_ù *specie se sono su storie di Shichan, che ogni tanto cambia trama* XD

Le lezioni di Break sono il bene incarnato sulla Terra *muore* e cercherò di descriverne qualcuna di più se lo spazio e la trama permetteranno, perché sono la prima che si diverte a scriverle XD

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Capitolo 6
*** Quello che sono ***


Quello che sono

Quello che sono

 

 

«Shhht.» la interruppe lui: «Ora noi restiamo a guardare per un po', Echo.»

La più piccola tacque, limitandosi ad annuire; azzardò a scostarsi dal biondo solo quando vide la maniglia della porta abbassarsi, segno che Gilbert stava rientrando - dato che quella era la camere dei due.

Vincent allentò la presa sulla sua vita, permettendole di alzarsi dalle proprie gambe e sistemarsi lateralmente mentre Gilbert, varcata la soglia, si richiudeva la porta alle spalle.

Quando spostò lo sguardo sulla stanza, incrociò quello di Vincent: le gambe accavallate l'una sull'altra, un braccio poggiato sulla gamba, l'altro piegato a sorreggere il volto.

Un sorriso quasi infantile - così simile al primo che gli aveva rivolto, e a tutti gli altri a seguire - gli increspava le labbra.

«Bentornato, fratello.» lo salutò, il tono vellutato quasi. Gilbert sentì un leggero brivido, ma dissimulò la cosa avvicinandosi e avanzando nella stanza con un: «Grazie.» poco più che mormorato. Il biondo non si mosse, limitandosi ad osservare i movimenti del maggiore.

«Eri a studiare, Gil?» domandò, il tono curioso come quello di un bambino.

Il moro, avvicinatosi al letto annuì, togliendo la giacca della divisa: «Ho avuto un recupero con Wayne.» replicò. Vincent ridacchiò: «Non sei proprio bravo a dire le bugie, Gil, proprio come quando eravamo piccoli. Wayne non dà ripetizioni.» gli fece notare.

Gilbert lo guardò smarrito per un attimo: «Puoi chiedere al professore, se non mi credi.» commentò burbero.

Vincent si stiracchiò, coprendo uno sbadiglio con la mano: «Non glielo chiederò. Io mi fido di te, Gil.» disse, una contraddizione con l'appunto rivolto al fratello un attimo prima.

Il maggiore alzò appena gli occhi al soffitto, senza farsi vedere e sospirando piano. Vincent era sempre così: non importava che fosse suo fratello o che lo conoscesse da anni; non lo capiva, era imperscrutabile e questo a Gilbert non piaceva.

Non era mai piaciuto; inquietante prima, scomodo poi. Terrificante, a volte.

«Gil, cosa c'è che non va?» mormorò, molto più vicino senza che lui se ne fosse accorto, visto il tono di voce ora alle proprie spalle.

Anche questa sua mania di avvicinarsi silenziosamente senza motivo era una cosa a cui Gilbert non si sarebbe mai abituato. Si voltò bruscamente, già bofonchiando un "niente" quando sentì che la propria mano era stata fermata vicino al fianco da quella del fratello.

Lo osservò confuso, senza capire, mentre Vincent portava la mano libera all'altezza del colletto della camicia del maggiore: «Vince, cosa...?»

«Gil, è davvero un bene per te avvicinarti di nuovo ai Bezarius?» sussurrò, il tono sottile che quasi si insinuava direttamente nella sua testa. Gilbert sgranò appena gli occhi, portando la mano che non era tenuta dall'altro ad afferrare il polso che era praticamente all'altezza del suo collo.

«Questo che significa, Vince?!» sbottò, nel tono quasi il timore di scoprire l'ennesimo colpo di testa del minore.

Non sarebbe stata certamente la prima volta.

Il biondo sorrise, pacato; lo conosceva, quel modo di sorridere rivolgendo lo sguardo a lui, Gilbert.

Vide il viso del fratello avvicinarsi impercettibilmente e, per riflesso, allentò la presa sul suo polso: l'altro non raggiunse mai il volto del moro. Semplicemente, prese il nastro della divisa tenuto sotto il colletto della camicia e lo tirò appena, sciogliendo il nodo.

«Non significa nulla, Gilbert. Solo, mi preoccupo per te.» replicò con naturalezza, allontanandosi da lui e lasciandogli la mano.

Tirò appena su il nastro che gli aveva tolto, come per segnalargli l'unico vero motivo dei suoi movimenti: «Dovresti fare un bagno Gil, sembri davvero teso.» aggiunse poi.

Malgrado il tono non fosse di scherno, Gilbert non poté fare a meno di sentirsi come se per l'ennesima volta Vincent si fosse preso gioco di lui.

Echo era uscita dalla stanza silenziosamente già da prima.

 

 

 

Occhieggiò il corridoio per essere sicuro che non fosse troppo trafficato. Se non altro, la scelta di tornare in dormitorio prima di cena era stata abbastanza sensata: solitamente gli altri studenti approfittavano del pomeriggio - quando non avevano lezioni di Musica o ripetizioni - per studiare o rilassarsi in giardino finché c'era bel tempo.

Sospirò appena, facendo capolino con la testa nel corridoio e percorrendolo per un po' fino a raggiungere la porta della sua stanza.

L'aprì, scivolando nella camera e richiudendo subito l'uscio alle proprie spalle; si poggiò contro la superficie lignea con un sospiro lento, sollevato.

«Noah?»

...Ecco. Oz in camera era un'eventualità che non aveva effettivamente preso in considerazione.

Alzò appena la testa, cercando il biondo con lo sguardo ed individuandolo sul proprio letto: probabilmente, fino ad un attimo prima era sdraiato, magari a riposare viste le mani che facevano perno sul materasso per tenersi su.

«Scusami, riposavi?» chiese, il tono con quel sottofondo divertito di sempre, solo appena più roco.

Lo sguardo abbastanza allarmato di Oz gli suggerì che la penombra della stanza non aveva aiutato nel suo intento di evitarsi delle domande sul suo stato. Il biondo, d'altra parte, non era da biasimare: osservando con attenzione il viso di Noah, era stato impossibile non notare il livido sullo zigomo sinistro che diventava lentamente più evidente, né il sangue - seppure pochissimo - che usciva da labbro.

Decisamente malridotto.

«Che ti è successo?!» chiese Oz, alzandosi del tutto e avvicinandosi al compagno, il tono e l'espressione preoccupati. Noah abbozzò un sorrisetto: «Tranquillo, sto bene...» borbottò.

Oz assunse un'aria fra l'arrabbiato e quella sfumatura di preoccupazione di poco prima: «Come può andare bene con la faccia in quello stato?!» gli fece notare quanto la sua bugia fosse inutile data l'evidenza.

Lo sentì ridacchiare, ma in breve divenne un tossicchiare leggero mentre Noah si avvicinava al proprio letto, sedendovi quasi come fosse una liberazione.

«Va tutto bene, è un po' la norma.» ammise, lasciando Oz di stucco.

Non era lì da molto, era vero, e proprio per questo non poteva sapere cosa fosse normale e permesso a Latowidge e cosa no; ma nemmeno nelle scuole di più basso livello il bullismo era visto di buon occhio, perciò non capiva come fosse possibile che in una scuola dove molti studenti avevano persino la guardia del corpo personale potesse essere "la norma".

«...vado a chiedere del ghiaccio in infermeria.» decise Oz, avvicinandosi alla porta ma sentendosi trattenere per la giacca.

Noah ne aveva afferrato un lembo ed ora lo fissava con l'espressione più seria che gli avesse mai rivolto da quando Oz lo aveva conosciuto.

«Se vai in infermeria ci mettiamo tutti nei guai. E non mi aiuteresti.» sottolineò. Tanto bastò ad Oz per desistere e sostituire l'opzione ghiaccio ad un asciugamano bagnato con l'acqua fredda nel bagno della loro stanza.

Quando ne uscì, lo porse a Noah che si lasciò guidare fino al punto del viso offeso, tenendo poi lui stesso il panno premuto contro lo zigomo.

Lasciando che se ne occupasse da solo per essere certo di non fargli troppo male, Oz si ritrovò a guardare le mani di Noah: non presentavano la minima sbucciatura, né erano arrossate o davano in qualche modo ad intendere che oltre ad averle prese le avesse anche date.

«Erano tanti?» domandò prima di potersi zittire.

Noah lo guardò sorpreso, chiedendosi forse da dove gli fosse uscita quella domanda, fra tante possibili: «Non più del solito. Non sono mai più di tre o quattro, darebbero nell'occhio.» replicò semplicemente.

Oz strinse appena i pugni: «Non li picchi perché ti tengono fermo?» mormorò, la frangia che copriva lo sguardo. Noah lo osservò, quasi studiandolo prima di dargli una risposta.

Sospirò piano - un leggero gemito; i bastardi dovevano aver dato un colpo alle costole un po' più forte di quanto si era aspettato - allungando la mano libera a scompigliargli appena i capelli.

Quando Oz alzò lo sguardo, lo vide sorridere con la solita sfumatura allegra negli occhi: «Non picchio con le mani, ma questo non significa che i miei piedi non siano efficienti. Comunque, sicuramente ne do meno di quante ne prendo. Ma va bene così.» commentò.

Oz si sedette a sua volta, osservandolo in silenzio per un po', Noah che di suo non diceva nulla: era strano, vedere l'altro silenzioso quando normalmente era quello che spesso li riuniva anche solo con una battuta particolarmente stupida.

L'altro si accorse dello sguardo del biondo e lo incrociò volutamente con il proprio, sorridendo: «Cosa vuoi sapere?» chiese, quasi leggendogli nel pensiero. Oz non se ne stupì troppo, perché a conti fatti Noah era la persona che viveva più a contatto con lui a Latowidge. Senza contare che si era dimostrato intuitivo fin dall'inizio.

«Non vorrei farti domande. Tu non me ne hai fatte.» puntualizzò.

Noah scosse la testa: «Tu vuoi farmi domande, ma vuoi sdebitarti perché io mi sono astenuto quando sono venuto a prenderti in infermeria. E' diverso da "non volerle fare". Non mi piace la falsa cortesia, Oz, quindi fammi tutte le domande che vuoi. Al massimo, non ti risponderò, no?» gli fece notare, malgrado tutto una sfumatura quasi divertita nel tono.

Oz abbozzò un sorriso per riflesso più che per altro: «Hai detto che è la norma. Da quanto...?»

«Tipo da metà dell'anno scorso.» replicò semplicemente, come se non riguardasse lui.

«Marcus lo sa?» fu, non sapeva nemmeno lui perché, la cosa che gli venne spontaneo chiedere. Noah ridacchiò appena, ma somigliava più ad un tic nervoso che non ad un'espressione di divertimento.

«Lo sa eccome. Ti ricordi che la prima volta che lo hai visto usciva dalla nostra stanza, con un linguaggio da stalliere?» disse, ricordo al quale Oz annuì quasi subito: «Era arrabbiato. Anche quel giorno mi avevano preso di mira, ma avevo appuntamento con lui e quindi non hanno potuto fare grossi danni.» spiegò.

Oz, facendo mente locale, ricordava che non aveva effettivamente segni visibili quel giorno.

Noah sospirò: «Si arrabbia perché non le do indietro. E si infuria perché non gli permetto di pestarli al mio posto.» concluse.

Il biondo lo osservò, prestando la massima attenzione alle sue parole; gli sfuggivano ancora molte cose però.

«Perché fai così? Perché ce l'hanno con te?» domandò, quasi infantilmente forse. Noah si prese più tempo per rispondere, pausa durante la quale tamponò un paio di volte lo zigomo.

«Non ti ho mai raccontato di come siamo diventati fratellastri io e Marcus, vero?» chiese retoricamente, apparentemente sembrava cambiare discorso. Oz optò per non insistere e lasciare che parlasse solo delle cose che si sentiva di dirgli, quindi scosse la testa.

«Marcus è di buona, anzi ottima famiglia. Mio padre e mia madre sono di origini modeste. Mia madre se n'è andata di casa che avevo, boh... nove anni tipo.» iniziò, l'altro che non interrompeva volutamente, pendendo dalle sue labbra come se quello fosse un racconto estraneo ad entrambi.

«Papà ha sempre fatto il fotografo. Ha conosciuto lei quando fu incaricato di fotografare dei suoi quadri: mamma faceva la pittrice.» continuò: «Non sto a dirti come si sono sposati perché è banale e noioso, erano due persone come tutte le altre. Lei spesso doveva allontanarsi per dipingere cose nuove: voleva girare il mondo ed erano un sacco giovani anche quando sono nato io, quindi diciamo che è comprensibile.» ammise, come se mentre raccontava analizzasse per la prima volta la situazione contemporaneamente al suo narrarla ad Oz.

Che, da parte sua, rimaneva semplicemente in silenzio a guardarlo ed ascoltarlo.

«Quando i tuoi sono due che dovrebbero viaggiare entrambi per il lavoro, le possibilità non sono tante. Ti prendi una balia, uno dei due rinuncia oppure fai crescere tuo figlio dai nonni.» fece notare.

Oz si chiedeva quale delle tre opzioni fosse toccata a Noah; lui parve leggergli quella curiosità dall'espressione che aveva in viso. Sorrise: «Papà prese una pausa e rimase a casa.» chiarì.

«Però» riprese: «un bambino non lo può crescere un genitore solo. Se ci sono problemi, come di tipo economico, non ci puoi fare tanto. Ma non stavamo messi così male. Solo... mamma è sempre stata una ragazzina egoista. Non è mai cresciuta, e di sacrificare la felicità degli altri per la sua soddisfazione professionale, non le è mai interessato. Tutto il mondo, per lei, valeva meno della sua stupida arte.» disse, le parole più negative e severe che Oz gli avesse mai sentito pronunciare.

Persino le invettive contro la docente di Arte, sembravano commenti cattivi ma vuoi l'espressione buffa, vuoi quel qualcosa di divertito sempre presente nel tono, non erano mai da prendere seriamente.

Invece, notò Oz, non solo il tono ma anche l'espressione lasciavano intendere che non c'era nulla di cui ridere ora. Nulla su cui Noah stesse scherzando.

«Suo marito valeva meno. Suo figlio, valeva meno.» ricominciò, ridestando l'attenzione di Oz: «E' andata via che avevo nove anni. Se mi chiedono cosa ricordo di lei, io ricordo una stronza che quando suo figlio le ha chiesto di restare gli ha voltato le spalle, ha chiuso la porta e non è più tornata.» concluse, il tono risentito.

Sospirò piano, come se cercasse lui stesso di ritrovare una certa imparzialità prima di proseguire.

Sembrò calmarsi in poco tempo: «Papà mi ha cresciuto da solo e poi ha incontrato la mamma di Marcus. Di suo padre non so molto, però. Comunque si piacciono e allora un giorno papà li ha portati a casa. Marcus mi ha odiato per parecchio tempo: se diceva "buongiorno", io e papà veneravamo almeno sei divinità di diverse religioni ogni mattina.» ammise divertito.

Oz si ritrovò a ridacchiare sommessamente, senza poterselo evitare: «Comunque ora andate d'accordo.» gli fece notare. Noah annuì con un sorriso soddisfatto, e Oz non faticava a credere ed immaginare che per molto tempo quella di piacere a Marcus fosse stata una missione, per lui.

«Papà da quando sta con Cecile, la mamma di Marcus, è felice. E anche a me la nuova famiglia piace. Perciò, siccome sono qui per merito delle loro origini nobili, non voglio essere di peso o farli vergognare di me.» ammise, un sorriso impacciato che Oz vedeva per la prima volta.

Noah era sempre sembrato uno che non si vergognava di nulla.

«Se mi metto a fare rissa, sicuramente incolperanno me. Non importa anche se dico che non ho iniziato io. Se mando Marcus a fare rissa, potrebbero non punirlo, ma il nome dei Wellesday non penso ne gioverebbe. Perciò, le prendo e lascio stare. E ovviamente mi dico che prima o poi si stancheranno da soli.» aggiunse, come un particolare ultimo ma non meno importante del resto.

Oz era confuso tra la sorpresa e l'assurdità della cosa.

«Ma perché dovrebbero incolpare te?!» chiese, quasi all'improvviso. Noah ridacchiò: «Tu sei un tipo onesto su queste cose, sennò non me lo chiederesti nemmeno.» esordì senza dare una vera spiegazione sul momento.

«Perché c'è una gerarchia qui dentro. Non sembra, e se non lo sai o non ci sei in mezzo non la vedi. Ma se ti dicono che nelle scuole come questa trattano tutti nello stesso modo, allora stai sicuro che ti raccontano una balla Oz. Qui dentro più è importante la tua famiglia, più te la cavi. Specie l'anno scorso, che il capo dormitorio non era Sirjan. Adesso con lui è un po' più vivibile.» ammise.

Oz, mentalmente, riconsiderò Sirjan dopo il discorso avuto con Aedan in infermeria.

«Ma io sono di origini umili e questo non cambia.»

«E questo che significa?!» se ne uscì, irritato da quel punto di vista che sembrava venire in direttissima dal Medioevo.

«Forse non ha importanza per te.» gli fece notare, un sorriso quasi soddisfatto nel constatarlo: «Ma a molti interessa. E le mie origini, non si cambiano in nessun modo, nemmeno se Marcus ha un cognome che comprende anche il mio, o se i nostri genitori risulteranno mai sposati e non solo come coppia che vive sotto lo stesso tetto.» concluse.

Oz si morse appena il labbro inferiore: giorno dopo giorno, scopriva cose di Latowidge che la rendevano sempre più una scuola forse ritenuta fra le migliori, ma a che lui sembrava quasi invivibile e piena solo di cose assurde e di regole altrettanto insensate.

Tornò con lo sguardo su Noah, titubante sul fargli o no la domanda che gli ronzava in testa; gli venne però spontaneo: «Hai detto che senti tua madre... dopo le prime volte che ti hanno preso di mira, non hai pensato di andare a vivere con lei e lasciare Latowidge?» domandò.

Forse era una richiesta stupida, o banale.

Noah scosse la testa: «Mai. Non andrei mai a vivere con lei nemmeno per tutti i titoli nobiliari del mondo. Io ero piccolo e visto quanto l'ho odiata man mano che crescevo, forse sono quello che se l'è cavata meglio. Ma mio padre, lui era distrutto. E lei non si è nemmeno mai preoccupata di chiedere come stava o come sarebbe stato se fosse partita e lo avesse lasciato.» sbottò.

Quell'argomento, era probabilmente l'unico davvero in grado di far arrabbiare Noah Keynes.

Oz stava quindi per cambiare discorso con un'altra domanda che spostasse l'attenzione dalla donna, che Noah lo precedette.

Si strinse istintivamente nelle spalle: «Non dovrei arrabbiarmi ancora adesso, non se davvero la odiassi come dico. Ma io rivedo mia madre anche quando lei non mi chiama al telefono e la mia mente associa la voce ad un viso. La stupida capacità che gli altri chiamano "dono", di tenere un pennello da pittura in mano e saperlo usare decentemente per me è una maledizione. E' come se, continuamente, mi dicessero: tu sei come tua madre.» se ne uscì, cogliendo Oz di sorpresa.

Quell'associazione di idee tra due persone che probabilmente in comunque avevano solo l'aspetto, o come nel caso di Noah un'abilità, gli faceva chiudere lo stomaco quasi fino a star male: «Se puoi smettere... allora perché continui a dipingere?» domandò quasi istintivamente, senza riflettere.

Noah parve sorpreso dalla domanda, ma non a lungo.

Tolse l'asciugamano dal viso, poggiandolo per terra alla meno peggio per non bagnare il materasso.

«Io odio l'arte. Ma tanto più cerco di allontanarmi da essa, tanto più mi dico... che sono solo questo. Io sono solo quello che so dipingere. Non so eccellere in nessun'altra cosa che questa. E allora, anche se mi ricorda mia madre e quello che ha fatto, che ci posso fare? Anche se mentre dipingo ogni tanto resto imbambolato a guardare un quadro con la voglia di distruggerlo e rompere la tela, che ci posso fare?» cominciò, e parlava talmente a ruota libera e le parole erano così sincere e rassegnate al tempo stesso che anche volendo, Oz non lo avrebbe mai interrotto.

«So che in realtà sono come lei. Mi spaventa pensare che potrei aver ereditato da lei anche questo, che un giorno mi sveglierò e farò le valigie e anche io abbandonerò tutto e tutti come un egoista. Ma... cosa potrei farci, ormai? Siamo già uguali. Abbiamo già quella stessa passione.» mormorò, zittendosi come se non ricordasse cosa veniva dopo.

Come se si fosse perso un pezzo di storia.

«Tu però sei ancora qui.» disse Oz, senza preavviso, cogliendo di sorpresa l'altro: «Anche se odi tua madre, dipingi ancora. Anche se sarebbe più facile andarsene, tu sei qui giusto?» chiarì, osservandolo serio, convinto delle proprie parole.

Noah, dopo un attimo di smarrimento, abbozzò un sorriso: «Sì, sono qui.» replicò, il tono più tranquillo, come se l'altro gli avesse appena mostrato una via d'uscita.

Oz sorrise incoraggiante: essere depresso, non era mai stato da lui e non era adatto nemmeno all'amico.

«Vuol dire che hai una ragione per rimanere.» concluse.

Noah, quasi inaspettatamente ridacchiò: «Oh, sì che ce l'ho.» ammise divertito, come se Oz con quelle parole gli avesse fatto tornare in mente un particolare piuttosto interessante.

E diciamocelo: Oz Bezarius e la curiosità andavano a passeggio insieme ogni giorno, praticamente.

«Cosa?» fu quindi l'ovvia domanda.

Noah si sporse verso di lui con fare complice, anche se non c'era nessun altro in stanza con loro: «Modestamente, Marcus ha smesso di odiarmi quando l'ho beccato che mi osservava mentre dipingevo.» se ne uscì.

 

 

Obiettivamente, non c’era alcun dubbio sul fatto che tutta quell’ansia da parte sua fosse in qualche modo patetica. Ma, come si soleva dire: l’importante era esserne coscienti. E, in ogni caso, da quando aveva saputo che Oz avrebbe studiato a Latowidge incontrandolo nell’atrio, Gilbert aveva messo in conto che di preoccuparsi per il più piccolo non avrebbe potuto farne a meno.

Quando per molti anni servi una famiglia e i suoi componenti, l’istinto di proteggerli rimaneva per sempre: non bastava essere adottati e, improvvisamente, divenire un loro pari. Ed era probabilmente questo uno dei principali motivi per cui era bastato sentir dire a Noah – Ada gli aveva proposto di mangiare con loro, visto che Vincent non era sceso in mensa – che Oz era rimasto in camera dicendo di non sentirsi tanto bene, perché lui impiegasse ben poco a congedarsi dai compagni per tornare in dormitorio.

E ora, il respiro appena velocizzato dal passo svelto, sostava davanti alla porta della stanza del biondo. La osservò come se dovesse fargli chissà quale confessione mistica, dopodiché bussò piano, incerto. Il dubbio che Oz stesse già riposando c’era; non colse nessuna risposta dall’interno.

Bussò appena più forte: «Oz?» chiamò piano, il giusto perché si sentisse nella stanza.

Ci volle poco perché la porta si socchiudesse aprendosi verso l’interno e la testa di Oz facesse capolino, lo sguardo chiaro sorpreso di trovare il più grande lì: «Gil, che ci fai qui?» chiese infatti.

Gilbert sorrise, l’espressione innegabilmente sollevata: se era in piedi, non stava troppo male. Oltretutto, per quel poco che vedeva con la luce del corridoio non era eccessivamente pallido.

«Riposavi?» domandò. Oz scosse la testa, aprendo un po’ di più la porta.

«Posso entrare?» chiese quindi, mentre Oz si scostava già aprendo del tutto l’uscio per lasciarlo passare. Prima di richiudere, il biondo accese la luce allungando la mano per raggiungere l’interruttore.

Gilbert sbatté un paio di volte le palpebre.

«Eri al buio?» osservò, perplesso. Oz ridacchiò: «Perché, ancora ti spaventa come quando eravamo più piccoli?» scherzò su prendendolo in giro e notando un inconfondibile rossore sulle guance dell’altro.

Non commentò per chissà quale miracolo.

«Come mai se qui, Gil?» domandò invece, andandosi a sedere sul bordo del proprio letto facendo cenno all’altro di imitarlo. Gilbert si sistemò ai piedi dello stesso materasso, portando quindi lo sguardo sul biondo.

«Noah, il tuo compagno di stanza.» disse inizialmente: «Ha detto che… non ti sentivi bene.» concluse. Oz sorrise, chinandosi appena in avanti verso di lui.

Gilbert, osservandolo senza capire, ebbe una sensazione di dejà-vu; strana, fu il modo in cui la etichettò. Ricordava poco e in maniera piuttosto frammentaria gli ultimi anni a casa Bezarius e quelli subito dopo, ma la sensazione che fosse un movimento abituale quello di Oz era quasi una certezza. Prendendo in considerazione il se stesso di allora, più timido e incerto – e certamente più incapace di adesso – non era difficile immaginare che Oz usasse quel modo di sporgersi verso di lui quando, troppo imbarazzato o mortificato, abbassava tanto lo sguardo e il capo da rendere il viso poco visibile.

Ora, però, era diverso. Benché lui, in qualche modo, fosse rimasto il Gilbert bambino e ansioso di un tempo.

«Cosa c’è?» borbottò fissando Oz di rimando. L’altro ridacchiò: «Ti stai di nuovo preoccupando troppo, Gil. Vero?» disse in quella che, tuttavia, sembrava una domanda retorica.

Nel chiederglielo, aveva portato la mano sulla testa del moro, scompigliando quasi impercettibilmente i capelli con quel vizio di invertire i ruoli che aveva sempre avuto, come se il minore dei due fosse Gilbert e non Oz.

Sorrideva, Oz; lui sorrideva sempre.

Poteva ingannare chiunque: Noah, che lo conosceva da relativamente poco anche se meglio di qualunque altro compagno lì a Latowidge. Alice, di cui Gilbert ancora non comprendeva il legame con il biondo.

Oz mentiva, e lo faceva bene: lui stesso era stato spesso raggirato e preso in giro bonariamente per la sua incapacità di distinguere le sue bugie dalla verità.

Non aveva un senso logico, dubitare adesso fra le tante volte che c’erano e ci sarebbero state: eppure, l’afferrargli lentamente il polso, senza movimenti bruschi ma con fermezza, fu un movimento del tutto naturale.

Oz ne fu inevitabilmente sorpreso e sbatté le palpebre un paio di volte, l’espressione perplessa.

«…Cosa c’è, Gil?»

«Dimmelo tu. Cosa c’è, Oz?» replicò serio, il tono calmo. Non era arrabbiato, solo confuso.

Oz, per contro, lo era certamente più di lui: «Non c’è nulla che non va.»

«A parte che stai male?» domandò, appena più un’insinuazione stavolta. Oz assunse un’aria contrariata: non gli piaceva quando qualcuno era così guardingo nei suoi confronti.

Significava che le sue bugie, la sua finzione e il suo “va tutto bene” avevano un falla da qualche parte, e che lui non la vedeva.

«È solo un malore, Gil.»

Il moro sospirò fra il rassegnato e il paziente. Fissò l’altro, lasciando che per qualche istante regnasse il silenzio: «Cosa c’è?» chiese di nuovo, insistente forse.

Oz tacque, spostando lo sguardo altrove; era inutile continuare a mentire con un Gilbert così intestardito, anche se parlare non gli andava a genio per niente. Optò per un compromesso accettabile.

Non era necessario raccontare tutta la verità.

Ma, per contro, le parole di Echo non lo avevano lasciato in pace per un attimo: in parte, anche l'aver ascoltato il racconto di Noah, l'aver visto con cosa l'amico conviveva e come lo faceva, lo aveva messo quasi a disagio.

La certezza dell'altro nell'affermare chi fosse aveva scatenato troppe cose alle quali Oz aveva sempre, vigliaccamente, evitato di pensare.

Cosa fosse in grado di fare e cosa no, per esempio. Cosa volesse fare, così diverso da cosa si doveva fare e dagli aspetti che un giovane di buona famiglia dovesse possedere e dimostrare al resto del mondo. L'aspettativa, ad Oz non era mai piaciuta.

Le speranze che gli altri riponevano in lui, le aveva sempre ignorate, fingendo di non conoscerle; fuggire e non essere legati a nessun obiettivo era facile, lo era sempre stato.

Aveva iniziato a scappare l'ultima volta in cui aveva cercato di rispondere positivamente a quello che ci si aspettava da lui. Non avrebbe ricominciato.

Anche se significava non avere alcun punto di arrivo, e improvvisare una vita intera nemmeno fosse un gioco di cui si inventavano le regole sul momento.

«...Oz?» si sentì chiamare nuovamente, tornando alla realtà e scuotendo appena la testa.

«Gil... non sono uno studente normale, io?» se ne uscì, senza un senso logico o un motivo, senza nemmeno rispondere alla domanda di Gilbert.

O almeno, non direttamente.

Il più grande lo osservò e per un attimo sentì qualcosa di fastidioso, da qualche parte nella sua testa: era una scena vista. Era un Oz che conosceva, quello che non lo guardava e gli faceva domande che apparentemente non stavano né in cielo, né in terra.

Era un Oz che non voleva rivedere, che poteva persino non piacergli - se solo lui fosse stato in grado di provare quel tipo di sentimento negativo verso il biondo.

«Cosa vuol dire?» domandò perplesso.

Ma bastava quella richiesta semplice e legittima, per far sì che Oz alzasse fra loro lo stesso muro che non aveva mai fatto avvicinare nessuno negli ultimi anni. Ridacchiò.

E significava sempre altre bugie, questo.

«Lascia stare, non...»

«Perché quando si tratta di me sembra quasi che io sia obbligato a risponderti e invece, quando sono io a volere delle spiegazioni fai sempre così?!» sbottò il moro, fissandolo e tirando leggermente il polso verso di sé, come ad enfatizzare quanto detto.

Oz alzò lo sguardo su di lui, d'improvviso irritato senza sapere perché: «Così come?!» replicò, fissandolo eloquentemente, come se fosse Gilbert a doversi scusare.

Per una volta il moro non vacillò - così diverso dal passato e dal Gil bambino che si sarebbe certamente scusato subito, mortificato addirittura: «Così come stai facendo. O menti, o ridi, o non rispondi e basta. Cosa c'è da ridere dopo avermi chiesto se sei normale?!» chiese quindi, ma nel tono che avrebbe dovuto essere almeno irritato quanto il suo, Oz riconobbe la cosa che meno avrebbe voluto notarvi.

Gilbert era di nuovo preoccupato a causa sua.

«E' solo...!» iniziò convinto, facendo però il grave errore di soffermarsi col proprio sguardo su quello di Gilbert. Non era più il bambino che, sebbene più grande di lui, era facile da raggirare con un bugia ben architettata. E non era nemmeno più il ragazzino, servitore di casa Bezarius, che si lasciava intimorire da quasi ogni cosa.

Non era più qualcuno che lui, Oz, potesse tenere lontano con quel muro invisibile che si portava dietro da anni.

Spostò lo sguardo: era come ammettere di essere stato in qualche modo sconfitto, stavolta.

«Perché sono qui a Latowidge, Gil?» mormorò, il tono un misto di diverse cose, che Gilbert non riuscì a riconoscere subito del tutto.

«Ma...?»

«E' perché sono di buona famiglia? O deve esserci per forza un motivo particolare per ognuno di noi?» continuò Oz, interrompendo qualsiasi domanda Gilbert avesse iniziato a porre.

«E' un collegio normale, questo? Perché non sembra affatto. Regole che spuntano fuori dal nulla, guardie del corpo che hanno la mia età e sono convinte che la loro vita non vale niente se non per proteggere il padrone o chiunque decida di dargli ordini per un motivo qualsiasi. Servitori che non sembrano nemmeno avere una personalità loro e che mi dicono che non capisco, e che vengono a chiedermi perché sono qui, come se...» fece una pausa, l'espressione che si era contratta in un cipiglio che era un misto tra l'irritato, il confuso e il panico forse.

«Come se non fossi adatto a starci. Come se... nessuno di loro si aspettasse uno come me qui.» concluse, vergognandosi di un lato così debole e di esserselo lasciato sfuggire di mano.

Non era da lui lamentarsi, non era da lui mostrarsi preoccupato, non importava quanto la situazione fosse grave.

Gilbert aveva ascoltato con attenzione, cercando di capire dove volesse andare a parare con quelle parole ma, al tempo stesso, quasi perdendosi.

E la sua ultima frase, ai suoi occhi era apparsa quasi come un'accusa: perché anche lui, vedendolo a Latowidge, si era chiesto cosa ci facesse lì.

Forse con meno cattiveria, sicuramente senza la minima intenzione di smuovere l'animo di Oz a quel modo, ma ci aveva pensato.

«Gil, cosa mi stai nascondendo?» se ne uscì il biondo, che in quella pausa in cui era calato il silenzio aveva osservato il più grande fissare un punto imprecisato, senza rispondere.

Gilbert portò lo sguardo su di lui: «Oz, neanche io mi aspettavo che tu venissi a studiare qui.» rivelò in un mormorio.

Oz, dopo un primo istante di sgomento che non riuscì a non mostrare, tirò via la mano dall'ormai indebolita presa di Gilbert: «Perché no?» domandò, nessun tremolio o simili nella voce.

Il moro sospirò, lentamente, abbassando appena lo sguardo: «E' solo che... anche Jack--»

«Non voglio ascoltare!» lo interruppe bruscamente l'altro prima ancora che finisse la frase. Gilbert tacque, l'espressione mortificata - dopotutto, non cambiava niente, mai.

Oz spostò lo sguardo altrove, facendo per alzarsi: se era quello il punto, se era di quello che voleva parlare, allora non aveva niente altro da dire a Gilbert. Avrebbe riposato e il giorno dopo sarebbe tornato a lezione, lì a Latowidge. Non importava quanti altri ancora avrebbero chiesto "perché era lì".

Gilbert lo aveva immediatamente seguito con lo sguardo nel vederlo alzarsi, notandolo barcollare poco dopo. Gli fu accanto praticamente subito, senza quasi accorgersi di quel movimento venuto spontaneamente.

In piedi, sorresse il più piccolo - le mani sulle spalle, per evitargli quel barcollare, la schiena di Oz appena a contatto con il suo stomaco più o meno.

«Ehi.» chiamò piano, vedendo l'altro restio a quel contatto muoversi in modo tale da allontanarsi. Si accigliò, approfittando per una volta di avere più forza del biondo e facendo pressione con la mano sulla spalla.

Lo voltò in modo tale da guardarlo in viso, ma non ne aveva realmente bisogno: seppur goffamente, lo aveva stretto in un abbraccio.

«Non sto dicendo che non puoi stare qui, o che non ti voglio a Latowidge. Nessuno dice questo, Oz.» borbottò. L'altro, rimasto immobile in quella stretta così "da Gilbert", si rilassò lentamente per poi annuire, lasciando affondare il viso nella stoffa della divisa del maggiore.

Inspirò lentamente, prima di mormorare un: «Lo so...» il tono che lasciava intendere a Gilbert che, senza ombra di dubbio, Oz si era imbronciato.

Si concesse un sorriso sollevato, che Oz non poté vedere.

 

 

Nel silenzio della stanza, la melodia lenta del pianoforte che si trovava a quello stesso piano dell'edificio scolastico arrivava appena ovattata dalla distanza, ma non per questo meno bella di quanto fosse.

Seduto accanto alla finestra che, complice il buio anche all'esterno lasciava una volta tanto le tende aperte senza il rischio che entrasse troppa luce, mantenne lo sguardo sul giardino. Il "compagno" - era quasi ironico chiamarlo a quel modo, ma non lo interessava più di tanto un semplice appellativo - taceva immobile e in ascolto.

Incurvò le labbra in un sorrisetto ironico, senza dire nulla comunque.

La melodia durò ancora qualche attimo per poi avviarsi alla chiusura del brano ed, infine, cessare ripristinando il silenzio.

Rimase immobile, di suo; fu l'altro ad alzare appena il viso, spostando lo sguardo su di lui: «E' bella.» commentò soltanto.

Si concesse uno sbuffo fra l'annoiato e il sarcastico: «E' una musica di quasi dieci anni fa.» sottolineò, come se questo ne sminuisse la bellezza. Dall'altro capo della stanza sentì provenire un ridacchiare poco sommesso.

«E un semplice studente la conosce?»

«E' un mio vecchio amico.» ironizzò. L'altro schioccò le labbra e lui non se ne stupì: era sempre stato permaloso e poco incline ad essere tenuto all'oscuro delle cose.

«Allora chi--»

«Taci.» ordinò perentorio, benché nel tono non vi fossero sfumature seccate o irritate. L'altro tacque, sebbene di malavoglia, e il compagno alla finestra tornò a rilassarsi visibilmente. La melodia, da qualsiasi stanza provenisse, stava ricominciando.

«Voglio ascoltare quanto migliorerà fino a quel giorno.» spiegò, anche se l'altro non l’aveva domandato. Ma sapeva lo stesso che una spiegazione la gradiva sempre.

«E' anche lui un umano stupido.» fu l'irritato parere che venne dato come risposta.

«A questo proposito» disse, richiamando a sé l'attenzione dell'altro - solo perché la melodia era stata interrotta bruscamente dopo un passaggio completamente errato - senza guardarlo: «voglio che mi liberi di qualcuno che mi sta seccando particolarmente.» comunicò.

L'altro drizzò le orecchie: finalmente qualcosa di vagamente interessante.

«Chi?»

«Vincent Nightray.»

 

 

 

 

Note

Per la vostra immensa gioia (e per la mia che mi complico la vita, come se la trama fosse poco complessa di suo *__*") il capitolo finisce così ù.ù

Non ci sono note particolari per questo capitolo, a parte il mio invito a segnalarmi eventuali OOC di Oz o Gil perché davvero, muoverli in questo capitolo è stato un parto >.> (sarà che comincio ad accusare la stanchezza dello scrivere la notte *come al solito*?)

 

Passiamo ai ringraziamenti <3

 

Yoko891: ...come ho già detto, sull’IC di Gil (e Oz) non sono molto convinta stavolta x° quindi mi affiderò al giudizio tuo e degli altri lettori *-*”

Sono contenta per Rufus <3 E anche che il precedente capitolo sia risultato scorrevole e per questo piacevole da leggere. Spero che questo lo sia altrettanto X3

 

Gioielle: come ti accennai in altre sedi… la SirjanAedan no, per l’amor di Dio *muore ripetutamente* Felice comunque che Aedan susciti interesse (ai personaggi originali sono sempre affezionata. Le mie creature *coccola*) e man mano sto cercando di dare spessore anche agli altri, come Noah in questo.

Per le scene GilOz… ce la posso fare XD Dai che vi ho aggiunto quel-qualcosa-di-non-definito VinceGil XD *non glielo aveva chiesto nessuno, ma vabbé*

Jack per ora almeno è stato nominato, non c’era Marcus ma consoliamoci (?) c’era Noah XD

Ti ringrazio di seguirmi sempre, spero che anche questo capitolo sia stato di tuo gradimento <3

 

 

LitaChan: e io non posso che ringraziare ogni commento ^^ come detto, spero di aver sopperito un po’ almeno alla nostalgia per Noah ù.ù

Sempre gentilissima, cuccati anche tu l’abbraccio da fan quale sei *-*

 

 

Un grazie particolare anche a chi so che legge fisso (qui o in altre sedi) e mi supporta <3 Ally e Riza, grazie <3

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Capitolo 7
*** Un brano che non gli appartiene ***


Un brano che non gli appartiene

Un brano che non gli appartiene

 

 

Goccia. Forse pioggia.

Cadenza ritmica, come una stessa nota ripetuta milioni e milioni di volte.

Suono irregolare, poi; singhiozzi.

Si volta verso destra, la vista confusa, annebbiata.

«Oz? Sono venuta a trovarti.» è poco più di un mormorio ma lo sente. Si volta dall'altra parte, e nel suo campo visivo rientra una ragazza.

Capelli biondi, l'unica cosa che distingue e che gli serve per capire: Ada.

E, d'altra parte, c'è una consapevolezza - che non sa da dove viene, ma è lì - che gli suggerisce che non potrebbe essere nessun altro all'infuori di lei.

Nessun altro viene in quel posto.

«Come stai, fratellino?» la sente mormorare di nuovo.

La testa pesante e la lingua impastata dal sonno e qualcos'altro - di poca importanza, perché non lo ricorda - non gli concedono altro che un mugolio di assenso che lui avrebbe preferito tradurre in un saluto.

O in un'offesa.

Chissà perché Ada gli scatena quelle sensazioni tanto diverse.

Volergli dire che va tutto bene, e l'attimo dopo desiderare di ferirla.

Non sa perché funziona così, ma può abituarsi anche a quello. Lui può abituarsi a tutto, ormai.

«Ti annoi un po', vero Oz?» chiede, quasi lo sussurra come se non fosse certa che l'altro - lui - sia sveglio o ancora mezzo addormentato.

Mh, eccolo lì: l'istinto di farle male, di farla piangere. Non deve necessariamente alzarsi.

Sa che basta molto meno con lei, lo ha assimilato passivamente durante le loro chiacchierate precedenti a quella.

Ma vuole aspettare, vuole darle una possibilità. Annuisce, comprendendo dal suo sguardo che attende una risposta da lui. Lei sorride: quello è un motivo per cui spesso rinuncia all'istinto avvertito poco prima. Perché il sorriso di Ada gli ricorda un po' quello della madre.

Parla ancora, lui l'ascolta: "Oz, ti saluta lo zio Oscar" - e lui annuisce - "Sai fratellino, ieri Dina ha dormito sul tuo letto. Le manchi, credo" - e lui annuisce - "Dopo forse passerà Gilbert, sai Oz?".

Ed eccola, quella molla che spesso non sa proprio trattenere; e allora, pigramente, la lascia scattare. Forse l'ha cacciata via, sì.

O forse ha di nuovo detto quella frase che ha il potere di spezzare Ada, come se fosse una cosa davvero fragile - esattamente quello che è.

Qualcun'altro è entrato ma non scorge bene chi - maledetta vista appannata.

Goccia, singhiozzo, singhiozzo, singhiozzo, il suo nome e acqua sul dorso della mano.

«Vattene da qui!» qualcuno deve aver proprio alzato la voce, a giudicare dal silenzio che scende poi.

Forse è chi entrato, o forse è stato proprio lui? Si dice che poi non ha tanta importanza.

Ada sta piangendo di nuovo.

 

Si alzò di scatto a sedere, la fronte madida di sudore e il respiro appena affannato: classici aspetti di un risveglio improvviso da un sonno agitato.

Inspirò più volte, cercando di placare il respiro e regolarizzarlo del tutto, mentre una mano saliva ad asciugare la fronte. Ad un sguardo vago, notò il pigiama fradicio e appiccicato al corpo; passò una mano sugli occhi, sostandovi come se dovesse ulteriormente svegliarsi.

Era stato un sogno allucinante, con quella pressante sensazione di voler ferire a tutti i costi Ada. Assurdo e spaventoso, ecco cos'era: come se qualcosa dentro di sé odiasse sua sorella - che stupidaggine, si disse.

Il respiro ora più calmo, fece appena in tempo ad alzare lo sguardo che vide Noah uscire dal bagno: un asciugamano bianco lo copriva dalla vita fin quasi alle caviglie, mentre teneva l'altro intorno al collo, un lembo portato ad asciugare i capelli.

Lo fissò sorpreso: «Porcaccia miseria, Oz, sei bianco come un cencio!» osservò, facendoglisi più vicino.

Sembrò studiarlo per qualche attimo: «Tutto ok, sì?» chiese conferma, domanda alla quale Oz annuì debolmente.

«Sì, sì, ho solo... dormito male.» mormorò in risposta. Noah storse appena il naso: «Dovresti farti dare qualcosa in infermeria, Oz. Saranno tre giorni che ti svegli nello stesso stato e guarda che io non ti prendo in braccio stile Shaye se mi crolli in corridoio, eh?» ironizzò, ma nella battuta Oz riconobbe un consiglio dato più o meno seriamente.

Erano effettivamente tre notti che dormiva uno schifo, ma non aveva accennato ai sogni perché effettivamente la prima notte non ne aveva fatti - o comunque non li ricordava. Quello della sera prima era più confuso, ma ricordava dei frammenti e le sensazioni erano più o meno le stesse di quello che lo aveva svegliato bruscamente quella mattina.

Sospirò piano, preferendo cambiare argomento rispondendo con un semplice: «Mh.» per chiudere quel discorso. Osservò Noah, che si sedeva sul bordo del proprio letto e si frizionava energicamente i capelli per togliere il grosso dell'acqua.

Erano passate due settimane da quando lo aveva ritrovato con uno zigomo pesto e aveva poi parlato con Gilbert - non aveva ben capito come Noah avesse nascosto in che stato fosse, ma l'aveva fatto bene perché nessuno gli aveva fatto domande quando per qualche giorno non si era presentato a lezione.

Appena era stato meno visibile o era stato possibile farlo passare per qualcosa di diverso dal risultato di una rissa, il compagno era tornato a frequentare normalmente.

«Come stai?» se ne uscì Oz, tanto per evitare quel fastidioso silenzio che lo portava a concentrarsi sul quella mezza specie di incubo fatto.

Noah gli sorrise: «Tutto bene, ho la pellaccia dura. Giusto un po' di fastidio in zona costole, ma è accettabile e visto la velocità con cui passa magari ho avuto fortuna e non me le hanno incrinate. Sto migliorando nella difesa, yeah.» se ne uscì. Oz ridacchiò: ormai aveva rinunciato a rivedere Noah serio come quando aveva accennato a sua madre.

In parte, pensava, era meglio così: preferiva di gran lunga quando l'amico era costamente allegro e ottimista.

«Tu piuttosto» lo riportò alla realtà la voce di Noah: «parlo sul serio quando dico che dovresti fare qualcosa. Dormire poco non ti farà bene, a lungo andare.» riprese il discorso di poco prima. Oz annuì, rivolgendogli un sorriso leggero: «Va bene, se continua chiederò in infermeria.» promise.

Noah parve soddisfatto e abbandonò l'asciugamano con cui aveva frizionato i capelli fino a quel momento sullo schienale della seggiola alla propria scrivania. Si diresse quindi di fronte all'armadio, aprendolo e iniziando ad indossare la divisa: «Il bagno è libero, comunque.» comunicò.

«Ti sei svegliato presto...» osservò stupito Oz, adocchiando la sveglia: un Noah in anticipo di quasi un'ora rispetto a quando uscivano per fare colazione in mensa non era né più, né meno di un miracolo. L'altro ridacchiò, lasciando sbottonati i primi bottoni della camicia - li chiudeva sistemando anche il nastro sempre dopo colazione, per comodità: «Beh, che c'è? Mica hai l'esclusiva sull'insonnia.» lo prese in giro, tornando alla propria divisa mentre Oz si chiudeva in bagno con uno sbuffo divertito.

 

 

Le lezioni di quella mattina erano state relativamente leggere: un'ora di Coleman per iniziare, a cui erano seguite una di Xerxes e una di Charlotte Baskerville. Dopo l'intervallo, Wayne li aveva deliziati con una trentina di reazioni chimiche con la pretesa che le finissero tutte entro l'ora di lezione e dopo c'era stata l'oasi di salvezza, altresì conosciuta come: "letteratura" e "Lunettes".

Presto avrebbero fatto quell'uomo - che non aveva dato compiti quel giorno - santo. Altroché.

Il pranzo era stato più o meno tranquillo: Ada non si era unita a loro, rimanendo al tavolo con i compagni di corso per organizzare dei gruppi di lavoro. Anche Marcus non c'era, il che aveva dato luogo a molte meno battute - visto che il fratello di Noah era anche quello che ironizzava di più sul compagno di stanza di Oz.

Quest'ultimo aveva intravisto Gilbert al tavolo con Vincent e, al fianco di quest'ultimo, c'era Echo immobile ed in silenzio se non rare volte in cui l'aveva vista interpellata proprio dal biondo.

Alla fine, quindi, si erano ritrovati a mangiare insieme solo Oz, Noah ed Alice. La presenza di quest'ultima, comunque, l'aveva lasciato perplesso: non perché non la volesse, ovviamente.

Ma, quando poco dopo che avevano iniziato a mangiare Oz aveva notato un paio di persone aggiungersi al tavolo di Gilbert - ah, quelli. Uno è il terzo fratello, l'altro il servitore - il minore dei Bezarius si era chiesto perché Alice, cugina di Gilbert e quindi anche degli altri due, non fosse con loro.

Era un po' che la osservava di sottecchi, quando Alice batté sonoramente le posate sul tavolo puntando lo sguardo su Oz: «Se hai qualcosa da dire, dilla e basta!» sbottò innervosita, probabilmente notando le sue occhiate già da prima.

Sorrise a mo di scusa: «Non arrabbiarti, Alice.» disse inizialmente, osservandola mettere il broncio e borbottare contrariata contro di lui e un generico vizio di fissare la gente come degli imbecilli.

«Alice» ne richiamò l'attenzione, il tono morbido, come quando si cerca di rassicurare qualcuno prima di una domanda particolarmente difficile o indiscreta, magari: «come mai non mangi con loro?» domandò infine, un cenno leggero verso il tavolo occupato dai Nightray.

Lei lasciò stare quel che era rimasto nel piatto dell'arrosto, alzando lo sguardo su di lui in un misto di sorpresa e fastidio probabilmente.

Non si aspettava la domanda e, a giudicare dall'espressione e dal tono con cui parlò, ne avrebbe fatto volentieri a meno: «Non mi piacciono.» replicò sbrigativamente.

Oz parve assolutamente insoddisfatto da quella risposta: «Ma Alice, sono i tuoi parenti.» le fece notare, come se quello rendesse meno valida e credibile la sua risposta. La ragazza lo fulminò con lo sguardo, neanche a dirlo: «Non dipende certo da me. Anzi.» sottolineò, ironica.

Oz lanciò un'occhiata al tavolo dov'era Gilbert con i fratelli, osservandoli: non conosceva quello che si era aggiunto dopo che avevano preso da mangiare, ma Vincent gli era parso... beh, non così invivibile, ecco.

Sbatté un paio di volte le palpebre quando si rese conto che proprio il biondo stava muovendo la mano in cenno di saluto in sua direzione: sorrise un po' impacciato, imitando il gesto in risposta e notando Gilbert voltarsi in sua direzione mentre Vincent gli diceva qualcosa - probabilmente gli indicava proprio Oz.

Il terzo fratello dava le spalle al tavolo del più piccolo, impegnato in una conversazione con il servitore.

Aveva appena notato un sospiro da parte di Gilbert - pareva rassegnato, più che altro - quando si sentì scuotere e si ritrovò faccia a faccia con Alice quando si voltò nuovamente.

«Non ti avevo detto che con Vincent non dovevi starci?» lo interrogò come un vero padrone che sgrida il servitore. Oz ridacchiò nervosamente - Noah, notò, li osservava con un sorriso divertito - gli occhi chiari sulla ragazza: «Ma Alice...»

«Non mi piace!» lo interruppe lei sul nascere: «Vincent è uno che sembra soltanto una brava persona. Non lo sopporto, non mi piace e lo odio. Ecco perché non sto al tavolo con loro e tu che sei il mio servitore voglio che faccia lo stesso. Non stare con lui, capito servo?!» concluse quello che aveva tutta l'aria di essere un rimprovero.

Oz la osservò inizialmente perplesso, perché quello scherzoso "servo" sembrava ora preso sul serio ma, soprattutto, quella storia di Vincent Nightray stava diventando assurda davvero.

Stava per rispondere quando, casualmente, lo sguardo andò a posarsi sul grande orologio della mensa: non era in ritardo, ma prima della lezione di musica doveva passare in dormitorio a prendere l'occorrente.

Si alzò, quindi, senza preoccuparsi di quanto aveva lasciato nel piatto e bevendo il resto dell'acqua rimasta nel bicchiere. Sorrise sia verso Noah che verso Alice: «Vado prima di arrivare in ritardo.» disse, aggirando il loro tavolo e allungando una mano per scompigliare appena i capelli di Alice.

Le rivolse un ampio sorriso: «Ti prometto che farò attenzione, Alice, perciò stai tranquilla e non stare imbronciata.» si raccomandò, il tono gentile. Avviandosi all'uscita della mensa, non poté vedere Alice non più accigliata ma con un broncio che la rendeva quasi tenera, il rossore appena evidente sulle guance.

«Stupido Oz.» borbottò, mentre Noah sorrideva in sua direzione: «Vero, però se te lo ha promesso non infrangerà la parola data, no?» le fece notare.

Lei alzò lo sguardo sul compagno, non proprio convinta: «Come fai ad esserne così sicuro?»

«Ovvio» se ne uscì, facendole l'occhiolino: «perché Oz è proprio questo tipo di persona, giusto?» disse, come se fosse una spiegazione valida.

Alice sbuffò leggermente, ma annuì.

«E poi, se riesce persino a fare sciogliere te, Ali--» iniziò, ma concluse la frase con un gemito dolorante.

Aveva scordato che l'altra fosse un'esperta di calci sugli stinchi.

 

 

Era arrivato nell’aula di musica con un buon anticipo e ne aveva approfittato per sistemarsi ad un banco della fila centrale, occhieggiando qualche compagno o compagna che lo avevano preceduto e in attesa degli altri e della docente.

Quest’ultima non aveva impiegato molto ad arrivare, dall’alto della sua puntualità; non era la prima volta che Oz la vedeva – aveva già fatto con lei altre lezioni – ma ogni volta osservarla era istintivo. Era senza dubbio una bella donna: i lineamenti del viso erano morbidi e aggraziati, la pelle di porcellana quasi. Gli occhi, di uno scuro color cioccolato sembravano costantemente rivolti alla controparte con estrema cortesia – o forse, nel suo caso, era consigliabile definirla “educazione”, visto il tipo di docente.

I capelli, piuttosto lunghi e dello stesso colore rosso sanguigno del fratello, erano tenuti in perfetto ordine talvolta da un chignon ben tirato, oppure in un’elegante acconciatura che gli permetteva di lasciarli sciolti senza che le infastidissero lo sguardo o risultassero una pettinatura sciatta e poco consona.

Quello che affascinava Oz – al di là dell’innegabile bell’aspetto – era la somiglianza con il docente di Storia: Miranda Barma, sorella gemella di Rufus Barma, sembrava più il suo alter ego che non una parente.

E non era solamente l’aspetto fisico, ma anche l’atmosfera che sembrava aleggiare intorno ad entrambi, con la sola differenza che l’uomo tendeva ad un’apatia quasi inespugnabile mentre – lo aveva provato il primo giorno – la donna era attenta al minimo rumore o particolare fuori posto.

Ma per il resto, la sensazione che contraddirli due volte sullo stesso argomento avrebbe potuto scatenare una reazione non troppo piacevole, era la medesima con tutti e due.

Come accadeva nella divisione di molte delle aule di studio, l’intero corso di musica era condiviso dal primo e dal secondo anno: Oz aveva intravisto in aula Echo, poco prima che la docente entrasse, ma la ragazza si era seduta ad un banco vicino alle finestre e di conseguenza aveva evitato di chiamarla.

L’inizio della lezione era stato piuttosto lento, ma il biondo aveva appreso che era sempre così: la prima parte delle due ore veniva dedicata alla correzione o allo studio degli spartiti – a seconda che si trattasse di compiti o di nuovi brani da imparare – che richiedeva un certo tempo ed era una porzione di tempo terribilmente noiosa.

Nella seconda parte, invece, la docente sedeva dietro la cattedra e lasciava che gli studenti si esibissero nel pezzo precedentemente assegnato e studiato.

Oz non era stato entusiasta: aveva preso lezioni di pianoforte, era vero, ma non vantava un’elevata cultura musicale e le poche lezioni fatte risalivano alle basi e non erano state degne della sua completa attenzione.

Risultato: suonare in pubblico non era così divertente come potesse sembrare.

Sospirando di sollievo quando il primo nome si rivelò non essere il suo e in attesa che il compagno approntasse il flauto traverso da suonare, prese a picchiettare leggermente sul banco, in maniera distratta.

«Signor Bezarius?» si sentì chiamare, fermando istintivamente le dita e alzando lo sguardo chiaro. Incontrò quello della docente, le labbra piene incurvate in un leggero sorriso ironico: «Sono lieta di sapere che si applica tanto nei miei esercizi da aver assimilato il ritmo di un metronomo nelle sue stesse dita, ma le saremmo tutti grati se aspettasse il suo turno per dimostrarci le sue doti nel seguire il ritmo che, ne sono certa, ci strabilieranno tutti.» lo riprese.

Oz arrossì leggermente, annuendo mentre dalle ultime file veniva qualche eccesso di risatina.

La docente non parve preoccuparsene e non aggiunse altro, dando il via al compagno vicino alla cattedra perché suonasse il brano.

Dopo di lui e altri studenti, ad Oz era stato richiesto un brano diverso, assegnatogli dopo che alla prima lezione era parso evidente che il suo livello e quello della classe non erano omogenei fra loro. Fu senza infamia e senza lode.

Assai diverso dal seguente - e ultimo - suonato da una primina che Noah non aveva avuto modo di indicargli o presentargli e che, quindi, aveva conosciuto direttamente al corso. Di una famiglia di alta levatura, sebbene non pari ai Nightray o ai Bezarius, la ragazza che ora si stava esibendo con il violino si era presentata come Sharon Reinsworth.

Decisamente carina - ad essere sinceri era stata la prima cosa che aveva notato - aveva lunghi e lisci capelli di un castano chiaro, legati in una coda alta che lasciava libere le ciocche più corte davanti. Gli occhi, color nocciola, erano sempre sorridenti e gentili, come il leggero incurvarsi di labbra.

Era nuova anche lei essendo del primo anno, quindi si erano ritrovati a conversare con una certa facilità, come se fossero stati vecchi compagni di scuola, probabilmente perché entrambi nella stessa condizione di adattamento alla scuola e agli altri compagni.

Per quel che ne sapeva era figlia unica e quindi la sola erede del suo casato; suonava il violino e, proprio in quel momento, si avviava alla conclusione della melodia lenta e bellissima che aveva suonato dall'inizio.

L'archetto si muoveva elegante e leggero sulle corte del violino, tenuto fermo dalla pressione leggera del mento della ragazza sul legno e dalla mano che ne teneva l'altra estremità.

Con un ultimo passaggio dalle note malinconiche, il brano si chiuse; la classe applaudì con un certo entusiasmo e la stessa docente Barma si rivolse a Sharon con un sorriso compiaciuto: «I miei complimenti signorina Reinsworth, un'ottima padronanza delle note e delle pause. Confido di poter contare su di lei per il saggio che si tiene comunemente ogni anno qui a Latowidge.» concluse.

Oz vide Sharon annuire e fare un lieve inchino, tornando poi al proprio posto accanto ad Oz.

Pochi minuti dopo, la docente li congedò qualche istante prima che la campanella segnasse l'effettiva fine delle lezioni.

 

 

Si era attardato con Sharon dopo la lezione, parlando del più e del meno: lei si era detta disponibile ad aiutarlo in musica almeno per ciò che riguardava strettamente gli spartiti e la parte teorica. Il biondo le era grato, visto che di certo non poteva chiederlo a Noah - date le premesse di saper suonare al massimo un campanello...

Il tempo era volato, tanto che dalla fine delle lezioni - le quattro del pomeriggio - erano passate quasi due ore e mezza senza che nessuno dei due se ne accorgesse quasi. L'aveva accompagnata fino all'ingresso del suo dormitorio, dopodiché era rientrato nel proprio.

Percorreva ora il corridoio, nei pressi della sua stanza. Raggiunta la porta, poggiò la mano sulla maniglia, facendo una lieve pressione per abbassarla e spingendo l'uscio verso l'interno, aprendo e varcando la soglia.

Rimase in silenzio, notando Noah già in stanza: sul proprio letto, il compagno di stanza aveva ancora la divisa scolastica, eccezion fatta per il nastrino - che abbandonava sempre volentieri appena poteva - e per i primi bottoni della camicia lasciati aperti.

Quasi del tutto sdraiato sul materasso, sopra di lui stava Marcus, il viso ad una distanza piuttosto esigua da quello del fratellastro.

Oz sbatté un paio di volte le palpebre, sorpreso e perplesso - e non a torto.

Noah aveva spostato lo sguardo su di lui così come Marcus, entrambi immobili; fu il minore dei due a parlare mettendo fine a quel silenzio che, data la posizione decisamente fraintendibile sua e di Marcus, era senza dubbio imbarazzante al momento.

«Ohi Oz.» salutò, il tono un po' impacciato - era vero che Noah non si vergognava di nulla, ma insomma - il sorrisetto sempre al suo posto sulle labbra.

Oz rimase in silenzio, senza sapere esattamente cosa dire o se fosse il caso di fare dietro front in silenzio, o scusarsi per il disturbo e andarsene fingendo di non aver visto nulla.

Ma dall'alto della sua ingenuità aveva fatto i conti senza Noah: a lui ci voleva ben poco a togliersi da quell'impaccio che non faceva proprio parte del suo carattere.

«Direi che è il caso di chiarire qualcosina, ne?» chiese retoricamente, Marcus che non sembrava granché turbato dalla presenza di Oz, tanto da non darsi nemmeno la pena di cambiare posizione e alzarsi.

Oz annuì impercettibilmente - o forse si era mentalmente detto di farlo ma non lo aveva applicato. Noah spostò lo sguardo da lui a Marcus, per tornare poi di nuovo sul biondo: «Facciamo che te lo presento di nuovo.» se ne uscì.

Toccò ad Oz passare lo sguardo dall'uno all'altro, fissandosi sul compagno di stanza proprio mentre questi riprendeva: «Lui è Marcus, il mio teorico fratellastro se i genitori mantengono l'intento di sposarsi e qualcosa di molto più simile a...» indugiò qualche istante «boh, un fidanzato?» se ne uscì con tutta la naturalezza del mondo, lo sguardo che sembrava cercare conferma in Marcus - come se fosse umano, in tutto ciò, non essere nemmeno sicuri di quello.

Oz, perplesso e parecchio confuso, non disse nulla ma non poté fare a meno di ridacchiare quando scorse Marcus alzare lo sguardo al soffitto a quella domanda, con l'espressione di chi è tentato di mettersi a pregare e chiedere al primo Santo che gli presterà attenzione perché tutto ciò sia toccato proprio a lui.

Noah, forse incoraggiato da quel ridacchiare di Oz sospirò appena sollevato e Oz lo notò. Stava per aprire bocca, ma Noah lo precedette: «Non perché non mi fidassi di te!» chiarì subito riguardo il proprio sospiro. Bofonchiò qualcosa a cui Oz non prestò troppa attenzione, muovendo appena i piedi aventi e indietro di pochi centimetri, ancora incerto sul da fare.

Marcus parve capire l'antifona - o stancarsi della situazione di stallo - e si alzò, Noah che lo osservava senza capire quasi quanto Oz.

Una volta in piedi accanto al letto, si limitò ad un: «Ci vediamo giù a cena.» dopo il quale si chinò, posando le labbra su quelle di Noah in un bacio casto. Si avviò quindi alla porta, lo sguardo che per un attimo aveva sostato su Oz, ma che quest'ultimo non era riuscito a capire - sempre che vi fosse un qualche significato.

Dopo che la porta si fu richiusa alle sue spalle, Oz e Noah tacquero qualche istante: ma Noah Keynes non era fatto per tacere, men che meno se persino lui era preda di un raro momento di imbarazzo.

«Ti autorizzo a pensare tipo: "e meno male che all'inizio Marcus lo odiava".» se ne uscì, il tono un misto di imbarazzo e divertimento, e quest'ultimo stava già avendo la meglio sul primo.

Noah si stiracchiò, l'espressione soddisfatta per quanto cercasse di nasconderlo - se stava cercando di farlo - lasciandosi ricadere pigramente sul materasso e facendo un cenno leggero ad Oz di sedersi: «Meglio se ti racconto il resto della storia, mi sa.» decise.

 

 

Quando era rientrato dalla mensa con Noah, quella sera, era praticamente crollato addormentandosi quasi subito; si poteva dire che avesse fatto appena in tempo a togliere la divisa ed indossare il pigiama.

Si era svegliato nel cuore della notte, però: quei sogni senza un minimo senso logico - non che di solito i sogni lo avessero, quel fantomatico senso che cercava lui, ma dettagli - lo stavano seriamente facendo innervosire.

Quasi non aveva più speranza di farsi una dormita che potesse durare dalla sera quando prendeva sonno, alla mattina quando suonava la sveglia senza interruzioni.

Aveva occhieggiato Noah al suo fianco che dormiva della grossa, il lenzuolo scomposto e smosso probabilmente proprio dal compagno – sebbene involontariamente – durante il sonno.

Rinunciando subito a svegliarlo - non lo avrebbe fatto comunque: cos'era, un bambino spaventato da un incubo? - aveva optato per andare a fare quattro passi nella sala comune al piano inferiore, probabilmente nella speranza che una camminata gli facesse tornare il sonno abbastanza perché potesse nuovamente crollare come qualche ora prima. Perciò, recuperato l'orologio da taschino per occhieggiare l'ora - non che Sirjan perdesse il sonno per controllare chi dormiva, ma... magari Aedan sì - era uscito dalla stanza.

Stava avanzando per uno dei corridoi che portavano alle scale, quando l'aveva sentita: lenta e ovattata, lontana e coperta dalle mura degli edifici che c'erano di mezzo.

Una melodia per pianoforte.

Non aveva voluto crederci, lì per lì: di certo, si era detto, il sonno arretrato e la sua mente gli giocavano dei pessimi scherzi. Infilando la mano nella tasca della felpa indossata sopra il pigiama, aveva sentito il freddo metallo dell'orologio da taschino a contatto con le proprie dita.

Prima di potersi rendere conto di quanto fosse folle e stupido - per non parlare del fatto che era decisamente contro le regole della scuola - si era ritrovato a percorrere il sentiero che conduceva dal suo dormitorio all'edificio scolastico.

Entratovi, somigliava ad un pazzo: ansimando appena per il passo abbastanza sostenuto mantenuto fin lì, si era mosso per i corridoi interni completamente alla cieca.

Non si stupì, quindi, quando si ritrovò davanti ad un'aula senza riuscire a registrare subito di quale si trattasse, poiché non aveva fatto attenzione al percorso.

Alzando lo sguardo, individuò in breve tempo la targhetta che identificava la stanza come l'aula di musica.

Tacendo, ascoltava la melodia che non si era interrotta ed ora era molto più alta e percepibile grazie alla porta accostata e non del tutto chiusa.

Deglutì a vuoto, muovendo appena un passo avanti, titubante; alzò istintivamente la mano verso la porta, sebbene nella sua mente non vi fosse la minima intenzione di spingere per aprirla o di entrare.

Tanto meno voleva fare rumore e far sì che l'occupante della stanza, che era certamente anche la persona che stava suonando, si interrompesse a causa sua.

Sospirò ad un passaggio particolarmente bello e quasi si tradì sussultando ad una brusca interruzione, con quel tipico suono grave di quando si posano senza riguardo le mani su un pianoforte nervosi per l'errore commesso,  che spesso si ritiene grossolano.

«Maledizione!» sentì imprecare dall'altra parte della porta.

Si riscosse, inclinando la testa il tanto che bastava a dare una sbirciatina all'interno; nello stesso momento, una seconda voce estranea quanto la prima arrivò all'orecchio di Oz.

«Elliot, così prima o poi sveglierai qualcuno.» mormorò in tono pacato.

«Non seccarmi anche tu, Reo!» sbottò l'altro, palesemente innervosito da qualcosa più che dalla persona che era con lui nell'aula.

Oz riuscì ad intravedere la figura al pianoforte, illuminata dalla poca luce che filtrava dall'esterno: lo riconobbe come il terzo dei fratelli Nightray indicato da Noah.

Spostando lo sguardo verso la persona che si stava avvicinando ad Elliot, vi scorse quella del servitore visto anche in mensa; lo notò posargli con gentilezza la mano sulla spalla: «Non è colpa tua.» disse solamente, senza che Oz potesse capire il senso di quella frase.

Vide Elliot sospirare profondamente - lo intuì più che altro dal lento alzarsi e abbassarsi del torace - piegandosi appena in avanti dopo aver chiuso il coperchio del pianoforte e avervi poggiato i gomiti.

Per quel che riuscì ad intravedere Oz, aveva portato almeno una mano alla tempia - l'altra, da quella posizione, non era visibile.

«Non ne posso più. Impazzirò.» lo sentì lamentarsi frustrato: «Quelle maledette immagini non se ne vanno. Questo stupido brano che nessuno mi ha mai insegnato è come se si bloccasse sempre nello stesso punto. Non funziona niente, niente, maledizione!» lo sentì aggiungere, l'irritazione palese nella voce anche a quella distanza e anche se non stava urlando.

Vide il moro, in piedi, sospirare e ritrarre la mano: «Perdere la calma non ti aiuterà, Elliot. E sei tu che hai composto Lacie, giusto? Perciò--»

Non ascoltò il resto, ritraendosi dalla porta come se questa lo avesse spintonato via o fosse di colpo divenuta incandescente.

Indietreggiò fino a trovarsi più o meno a metà corridoio, lo sguardo confuso, quasi perso: non poteva essere. Forse solo il nome era simile, sì.

Forse - per chissà quale caso impossibile - quel ragazzo conosceva qualcuno di nome Lacie e aveva voluto dedicargli la canzone.

O magari, era un nome casuale.

Oppure... oppure...

Si voltò quasi di scatto - per sua fortuna senza eccessivi rumori - sentendosi toccare leggermente il gomito. Gli occhi chiari, ancora persi nello sguardo incredulo e confuso avuto fino a quel momento, inquadrarono una figura più bassa di lui.

Una ragazza dall'aspetto familiare senza che l'avesse mai vista prima: lunghi capelli chiari - non riusciva a definire il colore solo con la poca luce esterna che entrava dalla finestra - e lo sguardo gentile rivolto a lui. Davanti alle labbra piegate in un leggero sorriso cortese, stava il dito indice, facendogli palesemente cenno di non fare rumore.

Ad occhio e croce, era più grande di lui: la vide invitarlo a seguirla con un gesto della mano e muoversi solo quando lui riuscì almeno ad annuire.

La seguì lungo il corridoio senza una parola: tenne lo sguardo basso sull'orologio da taschino che aveva estratto dalla tasca senza quasi accorgersene.

Si fermò appena in tempo per non cozzarle contro quando furono di fronte ad una porta: «Potresti aprire tu, per cortesia? E' un po' complicato per me.» ammise con un sorriso leggero.

Oz annuì impercettibilmente, aprendo la porta e lasciando comunque che lei entrasse per prima e facendo lo stesso quando la ragazza lo invitò con un cenno.

Richiuse la porta alle proprie spalle.

«Accomodati pure dove più ti aggrada.» asserì lei, Oz che rimaneva fermo ad osservarla mentre si avvicinava alla finestra.

Con qualche manovra che a lui parve un po' complessa e a cui lei sembrava invece abituata, la vide girare la sedia a rotelle sulla quale sedeva e sistemarsi compostamente, le mani in grembo.

Oz si sedette dunque sulla prima poltroncina libera della stanza; rimase in silenzio senza sapere cosa dire, incapace di concentrarsi su qualcos'altro in quel momento.

Aveva più di una domanda che gli ronzava in testa e nessuno a cui chiedere. Fu lei a venirgli incontro: «Qualcosa ti turba?» chiese.

Oz alzò lo sguardo: era cosciente del fatto che, in quel momento, gli si leggesse tutto in faccia probabilmente, perciò non si stupì di quella domanda.

Non vi rispose, comunque; forse quella ragazza gli aveva evitato di essere beccato a spiare o da qualcuno che potesse controllare che gli studenti non fossero fuori oltre il coprifuoco, ma non sapeva nemmeno chi era.

«Riguarda Elliot Nightray?» le sentì aggiungere e si concesse una sorpresa leggera. Lei - se ne era accorta? - sorrise appena più ampiamente.

«Perdonami, ho davvero dimenticato le buone maniere.» esordì, dando una leggera spinta alle ruote della sedia fino a raggiungerlo, posizionandosi di fronte a lui compatibilmente con la disposizione delle altre poltroncine.

Tese una mano fra loro: «So che hai avuto modo di conoscere mio fratello, ma di certo è la prima volta che io e te ci incontriamo, signor Bezarius. Sono Alyster Kolstoj.» si presentò.

Oz registrò l'informazione collegandola in un baleno alla sensazione di conoscere già quel viso: ora che ci faceva attenzione e che in più aveva saputo anche il nome e il cognome della ragazza, appariva a dir poco evidente la somiglianza tra lei e Sirjan.

«Siete...?»

«Gemelli, sì.» replicò con un sorriso divertito prima che lui potesse finire la domanda.

Tacque, osservandola e stringendole la mano senza troppa enfasi - notò che era piccola e sembrava estremamente fragile.

Scosse appena la testa: sapeva che Alyster era comunque un capo dormitorio, anche se del settore femminile.

«Sono nei guai per il coprifuoco, giusto?» incalzò. Non voleva perdere tempo con una ramanzina, o la spiegazione di una punizione che sicuramente ci sarebbe stata.

La vide riportare con tutta calma la mano in grembo, nella posizione composta di poco prima.

«Non necessariamente.»

 

 

 

 

Note

Yay! E con Alyster ho almeno finito le apparizioni di pg esterni a PH XD *si rende conto di essere ancora lontana dalla fine*

L'unica nota per questo capitolo è questa: Miranda Barma *ama quella donna* ho pensato fosse sensato renderla gemella di Rufus. Questo perché nelle poche tavole in cui è apparsa mi è sembrato che avessero un tratto del viso quasi identico (magari nel manga è sua madre XD).

Dunque, ecco spiegato il perché della parentela *-*”

Altro avviso (brevissimo, giuro!): è probabile che, tempo qualche altro capitolo per avvicinarmi al grosso di questa trama, il rating si abbasserà da arancione a giallo.

...magari a voi non fregava nulla saperlo, ma sempre meglio dire tutto XD

Ed ora, ringraziamenti!

 

 

Gioielle: ...mamma che recensione lunga *O* Allora. Sì, la scena VinceGil era voluta ù.ù” ed è sempre divertente far vacillare le convinzioni delle lettrici <3 *bastarda*

Per quanto riguarda la parte di Noah, ci tenevo molto per una serie di motivi (oltre al fatto che è uno dei pg più “miei”, essendo originale): fra tutti, lui era “il trampolino di lancio”, perché è il primo di cui faccio l’introspezione fra tutti quelli che hanno problemi in questa fic (e siccome sono masochista, ce l’hanno quasi tutti un problema >.>). Quindi lieta che ti sia piaciuta <3

La scena tra i piccioncini, contenta che sia stata IC XD E Oz, beh, quel moccioso più è triste più è (relativamente) facile da muovere *-* *sadica*

Ed ecco a te spiegato chi era a suonare (tanto lo so che ci eravate arrivati tutti al fatto che era Elliot XD *l’unico che suona in tutto PH, quasi*

 

 

Yoko891: nuuu, non devastarti, chiedo perdono çOç *muor*

La parte col lessico migliore è quella che ho scritto di notte, assonnata e per pura inerzia… il che potrebbe dare da pensare. Parecchio.

So che vi sto uccidendo con queste scene di gente senza nome che parla, ma abbiate fede: spiegherò tutto, lo giuro. *toglie lampada da interrogatorio puntata contro se stessa*

Salvaguarda i tuoi neuroni, per l’amor di Dio xD

 

 

LitaChan: Wiiih *-* Lo ammetto: sentirmi dire che muovo bene Vincent Nightray mi fa gongolare, c’è poco da fare XD (il che è indice di gravi problemi mentali, ma soprassediamo, suvvia). Sono contenta che il capitolo ti sia piaciuto e che, nonostante rispetto agli altri ci fossero più parti con i sentimenti di mezzo, io sia riuscita a renderli abbastanza chiari senza impelagarmi in accozzaglie insensate XD

E Oz quando è “meno Oz” è uno dei miei passatempi prediletti *inserire faccina da fic-writer folle qui*

Quanto a Jack, gioite: non c’è da aspettare ancora molto almeno per sapere dov’è XD

 

 

AliceOfAbyss: piacere di averti fra i lettori <3 Ti ringrazio dei complimenti, e di seguire la fanfic ovviamente ù_ù (e Break PUO’ *_*)

Spero che anche questo capitolo sarà di tuo gradimento <3

 

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Capitolo 8
*** Mio fratello ***


Mio fratello

Mio fratello

 

 

Fu innegabilmente sorpreso da quella risposta.

Era stato talmente sicuro che l’altra gli avrebbe confermato che era nei guai, facendo seguire alla sua replica la punizione per aver violato il coprifuoco e – conseguentemente – il regolamento, che la risposta che invece lei gli aveva fornito con aria quasi divertita lo aveva completamente spiazzato.

E, a quanto sembrava, anche la sua aria più che perplessa rendeva ilare Alyster che rise sommessamente, una mano educatamente portata a coprire la bocca.

Si imbronciò senza quasi accorgersene: insomma, lui pensava di essere nei guai, non era carino ridere!

«È così divertente?» borbottò senza proprio poterlo tenere per sé – probabilmente, conoscendo il soggetto, non vi si era nemmeno applicato più di tanto.

Alyster scostò la mano, la risata che era andata sfumando ma il sorriso ancora al suo posto: «Scusami, capisco la sorpresa.» asserì, lo sguardo che si manteneva su di lui.

La vide muoversi, i movimenti quasi per nulla impacciati malgrado – o così credeva – non fosse facile spostarsi con l’ingombro di quella sedia su cui stava la ragazza. Seguendola con lo sguardo la notò raggiungere la porta e accendere la luce dall’interruttore.

Ora che la visibilità era notevolmente aumentata, poté notare che i capelli lunghi erano dello stesso colore di quelli del fratello, ma sembravano quasi più belli – ma era probabile che fosse la lunghezza a dare quell’impressione.

Ciò che attirò di più l’attenzione di Oz non fu tanto il viso dalla pelle chiara e dai lineamenti dolci, né il corpo esile ma ben proporzionato. Gli occhi, notò, erano diversi da quelli di Sirjan: benché fossero gemelli, quel particolare era diverso. Malgrado la forte somiglianza tra i due, gli occhi di Alyster non erano dorati come quelli del fratello, ma di un caldo rosso carminio.

Come quello di Vincent, si ritrovò a pensare senza un vero motivo.

Forse, aveva fatto quell’associazione di idee solo perché Vincent Nightray era l’unica altra persona a cui avesse visto quel colore degli occhi. Era indubbio, comunque, che era la sola cosa che accomunasse il mezzano dei Nightray e la ragazza di fronte a lui in quella stanza.

Fu proprio la voce di Alyster, tornata più o meno di fronte a lui, a distrarlo da quelle osservazioni: «Hai l’aria stanca.» fece notare, semplicemente. Niente più di una constatazione.

Oz mantenne lo sguardo chiaro su di lei, come se stesse cercando di scoprire qualcosa al di là delle parole: «Hai detto che non sono necessariamente nei guai. Da cosa dipende?» la incalzò invece, acuto.

Era stordito da tante cose, ma non gli era sfuggita la sua risposta di poco prima.

Lei sorrise quasi ammirata da quella richiesta: «Dalle tue intenzioni.» replicò pacatamente. Oz si ritrovò ad alzare appena un sopracciglio senza capire.

«…Cioè?»

«Eri lì per fare qualcosa di male?» domandò. Gli sembrava assurdo anche il solo pensare di dover davvero rispondere, ma lo fece forse più per riflesso che per altro: «Beh, no, però…»

«Allora non sei nei guai.» concluse lei con naturalezza.

Oz si sentì più confuso di prima: «Ma… ma potrei anche aver mentito!» se ne uscì – non che fosse sua abitudine mettersi i bastoni fra le ruote da solo, semplicemente era troppo assurdo che la capo dormitorio che doveva controllare che il regolamento venisse seguito, si limitasse a credere sulla parola.

Era ovvio che chiunque avrebbe detto di no, al suo posto, anche mentendo!

Lei però si limitò ad osservarlo senza capire: «Oh, hai forse mentito?» domandò. Oz si chiese se potesse esistere una persona tanto ingenua.

«No, ma intendevo dire…»

«Allora, come dicevo è tutto a posto, giusto?» lo incalzò lei, interrompendolo nuovamente.

Il biondo rimase a bocca aperta senza nulla da dire – e non era certo frequente che accadesse.

Non capiva se Alyster davvero si limitasse a credere a quello che le persone come lui – o in condizioni analoghe – le dicevano, o se desse solo l’impressione di farlo e in realtà avesse spie ed osservatori sparsi per la scuola.

Ok, forse l’ultima ipotesi era un tantino irreale.

Decise di lasciar perdere, poggiandosi contro lo schienale del divano e rilassandosi contro di esso: «Ma sei davvero la sorella di Sirjan?» si lasciò sfuggire, geneticamente incapace di pensare prima di parlare o di tenersi qualcosa per sé quando sarebbe stato il caso di farlo.

Alyster ridacchiò: «Come mai me lo chiedi?» domandò. Oz spostò lo sguardo da lei alla stanza in un’occhiata generica e superficiale: «Sapendo che anche tu eri capo dormitorio pensavo foste severi allo stesso modo.» replicò casualmente. In realtà Sirjan non gli aveva assegnato punizioni né altro, ma stava praticamente parlando a casaccio.

Non aveva voglia di pensare: bastava concentrarsi il minimo indispensabile per una chiacchierata superficiale come sarebbe stata la loro, in fondo.

«Elliot Nightray è un ottimo pianista.» se ne uscì la più grande. Oz la fissò, stranito: che cosa c’entrava con Sirjan?

Forse Alyster lo notò, ma non mutò più di tanto espressione, limitandosi a rivolgergli un sorriso gentile: «Credevo tu lo ascoltassi per questo.» aggiunse.

«Non ero lì intenzionalmente. Non sapevo nemmeno che qualcuno suonasse di notte, a scuola, o che fosse permesso.» ribatté, l’espressione un misto fra il seccato e l’imbronciato.

Non sapeva nemmeno lui come definire l’attuale stato d’animo: era indubbiamente sorpreso e confuso, ma c’era qualcosa di mezzo che non riusciva proprio a capire cosa fosse. Era simile, molto simile alla sensazione di fastidio e delusione che si prova nell’essere in qualche modo traditi.

«Capisco.» riprese Alyster, distraendolo di nuovo: «Posso chiederti, allora, come mai eri lì?» aggiunse.

Oz indugiò qualche attimo, gli occhi chiari su di lei: «Lo chiedi come capo dormitorio?» fu la risposta – anche se era una domanda e non la spiegazione che probabilmente la ragazza si aspettava.

Non parve indispettita, però: «Te lo chiedo come una persona incuriosita. Non è frequente che qualcun altro giri per scuola a quest’ora, a parte Elliot Nightray.»

«E a parte te.» osservò il biondo con un sorriso leggero – non di scherno, ma nemmeno troppo definito in qualcosa di preciso.

«A volte fatico a dormire.» ammise: «Ad ogni modo, se credi che la mia sia stata una domanda indiscreta me ne scuso, e puoi ovviamente rifiutarti di rispondere.» aggiunse, gentile tanto che il pessimo umore in cui stava lentamente scivolando l’altro non lo avvolse del tutto ancora.

Si strinse nelle spalle, quasi sentendosi a disagio per quel modo di fare della più grande: «Ho dormito male anche io.» borbottò in risposta, affondando le mani nelle tasche della felpa e tornando a contatto con il freddo metallo dell’orologio da taschino. Quasi fosse stata una doccia fredda, gli tornò in mente cosa lo avesse attirato e, subito dopo, tanto turbato.

«Alyster» riprese quasi subito, come se di punto in bianco avesse una certa fretta e necessità di avere una risposta: «la melodia che stava suonando Elliot Nightray… ecco…» lasciò in sospeso una domanda che, pensandoci obiettivamente, era del tutto insensata.

La vide inclinare appena il capo lateralmente, incuriosita da quell’interrogativo che l’altro non aveva concluso. Oz deglutì a vuoto – nemmeno fosse sotto tortura, poi – per poi riprendere: «Ho sentito mentre l’altra persona gli diceva che era stato lui a comporla. L’ha davvero…?»

«Oh, intendi Lacie?» lo interruppe lei, deducendo il resto della frase da sola e senza obbligarlo a concluderla, visto che sembrava abbastanza difficile per lui.

Oz sussultò appena, quasi impercettibilmente forse: annuì.

L’espressione di Alyster si fece seria, benché i lineamenti non ne risultarono particolarmente induriti: «Come mai questo dubbio? Ne ricordi una simile ma di un diverso compositore?» domandò pacata, osservandolo, senza tradirsi con gesti nervosi o tremolii di voce.

Segno che non lo chiedeva per rimanere sulla difensiva.

Oz strinse la presa sull’orologio da taschino: non stava accusando Alyster di niente e con ogni probabilità quella poveretta cercava solo di capire il suo discorso che, obiettivamente, ad occhio esterno doveva sembrare folle e inconcludente. Tuttavia, la sensazione di essere preso in giro come se ogni persona che gli si parava di fronte sapesse cose che a lui erano sconosciute, era quasi pressante.

Stava diventando paranoico, non c’era dubbio.

Non rispose alla domanda di lei, estraendo l’orologio dalla tasca e facendolo scattare: aprendosi, iniziò la melodia del carillon che vi era incorporato. Identica a quella suonata al pianoforte dal minore dei Nightray, solo con un suono ovviamente meno limpido e chiaro, la sua bellezza e la nostalgia delle note erano le medesime.

Alyster era passata ad osservare l’orologio, in silenzio, seguendo gli occhi chiari del biondo che quasi l’avevano accarezzato con lo sguardo.

La ragazza lasciò sfumare la propria espressione in un misto tra comprensione e dispiacere, approfittando dell’attenzione di Oz rivolta solo all’oggetto che aveva tra le mani: sembrava un bambino completamente perso il cui unico punto di riferimento era quella melodia che ora, suonata da un altro, lo faceva vacillare terribilmente.

«So che non l’ha composta lui. Anche se dice il contrario, so che non può essere sua.» ruppe il silenzio il biondo, lo sguardo che però non andò su Alyster. Da parte sua, lei non mutò la propria espressione, tacendo e lasciando che lui parlasse volontariamente, senza tempestarlo di ulteriori domande su quell'argomento che evidentemente non era gradito.

La sua attenzione si spostò sull'orologio da taschino fra le sue mani, ancora aperto lasciando che la melodia continuasse a diffondersi nella stanza come unico rumore oltre il ticchettio del pendolo in un angolo.

Inaspettatamente, fu Oz a parlare: «Mio fratello ha costruito quest'orologio. Era una cosa che gli veniva bene e che gli piaceva fare.» disse, sorprendendo un poco Alyster.

«Ha composto anche la melodia?» fu l'ovvia domanda. Il più piccolo scosse la testa: «Un suo amico.» replicò soltanto.

Alyster rimase immobile e in silenzio, inizialmente; l'espressione indecifrabile, si chinò appena verso di lui sfiorandogli la mano che non teneva l'orologio con la propria: «Non potrebbe averla insegnata quell'amico al signor Nightray?» domandò.

Oz alzò per la prima volta lo sguardo dall'oggetto nella propria mano, spostando le iridi chiare su di lei: «Quando mio fratello ha costruito questo era giovane e lui e il suo amico non andavano a casa dei Nightray quando erano studenti.» mormorò.

Alyster ritirò la mano, riportandola in grembo e stringendo appena un lembo di stoffa: si rifiutava di fare altre domande di cui conosceva già la risposta e che non avrebbero fatto altro che mettere in difficoltà l'altro.

A che pro, se non otteneva altro che informazioni di cui sia lei che Sirjan erano a conoscenza?

Perché infierire sul passato di qualcuno, quando non era necessario farlo?

«Perché?» lo sentì mormorare, chiudendo di scatto l'orologio ed interrompendo bruscamente la melodia mentre riponeva l'oggetto nella tasca dov'era rimasto fino a poco prima.

«Perché la conosce?» riprese: «Se nessuno può insegnargliela, dove ha imparato? Com'è possibile se mio fratello Jack... è morto?»

 

 

Uscito ad un’ora decisamente tarda attirato dalla melodia che poi lo aveva portato all’aula di musica, quando era rientrato dopo una lunga chiacchierata con Alyster, erano quasi le cinque del mattino.

Non che non fosse stanco, ma pensare di dormire era impossibile, figurarsi riuscirci.

Rientrato nella stanza in silenzio e bene attento a non svegliare Noah, si era sdraiato sul letto senza togliere la felpa visto che era fin troppo sveglio; si era stupito di quanto accaduto con Alyster.

Aveva sempre rifiutato di parlare della morte del fratello da quando era accaduto: non che non fosse di dominio pubblico. Quando si è parte di una famiglia anche solo minimamente in vista, non si poteva sperare che un avvenimento simile non passasse da bocca a bocca, finendo per essere una questione pubblica anziché il dolore personale e circoscritto ai parenti come avrebbe dovuto.

Non aveva mai sopportato le condoglianze fatte per dovere e non perché sentite: un modo insopportabile di insinuarsi nel dolore altrui fingendo di comprenderlo, macchiando la memoria di chi se ne andava e lasciando affondare nella disperazione chi lo piangeva. Perché non puoi consolare, se non provi lo stesso dolore.

Non si poteva cercare di risollevare nessuno, se non si sapeva esattamente ogni minima ferita che quel tipo di sofferenza poteva infliggere.

…Nemmeno a Gil lo aveva detto.

Lui che adottato dalla famiglia Nightray per ricongiungersi al fratello di sangue se ne era andato prima della morte di Jack, benché Oz avesse sempre saputo che Gilbert sarebbe stato uno dei pochi a poter davvero capire, non aveva mai desiderato affrontare l’argomento nemmeno con lui.

Strinse appena il lenzuolo tra le dita: perché proprio con Alyster? O meglio, perché proprio con una persona che nemmeno lo conosceva, che al massimo poteva sapere di lui i dati presenti nello schedario dell’archivio scolastico?

Sospirò pesantemente, seccato.

Tutta quella debolezza, così caratteristica della sua casata da quando Jack se n’era andato, aveva promesso di non lasciarla mai più intravedere a nessuno.

Al padre che, da uomo rigido e austero, era apparso al funerale come qualcuno che aveva passato la sua vita a testa bassa subendo ogni genere di sopruso. Qualcuno così diverso dal genitore e dall’uomo che era sempre stato.

A sua sorella Ada, più grande di lui e più piccola di Jack, una madre improvvisata per Oz e l’unica figura femminile verso la quale il padre avesse rivolto lo sguardo da anni prima fino a quel momento, dopo la scomparsa prematura della moglie.

In nessun caso, a nessuno di loro – si era ripromesso – avrebbe mostrato quanto un fratello poteva mancare, dopo la sua morte.

Se non era in grado nemmeno di mantenere quel proposito e quel dolore per sé, come poteva sperare di essere di sostegno ad Ada?

Se la prima persona che incontrava – non era importante chi fosse – era in grado di abbattere difese tenute in piedi per anni, allora che senso aveva?

Non era più importante che fosse Alyster, che fosse Sirjan o che si trattasse dello stesso Gilbert: nessuno. A nessuno doveva permettere di sfiorare quella parte che non voleva più mostrare.

Per quante gentilezze potessero rivolgergli, per quanta comprensione potessero decantare, aveva promesso… aveva giurato che—

«Nh… Oz?» sentì chiamare dalla voce assonnata di Noah al proprio fianco, sussultando appena per la sorpresa.

Non fu mai così felice di essere nel buio più completo e ringraziò mentalmente l’abitudine di Noah di tirare le tende delle finestre prima di andare a dormire.

Nel silenzio e nell’oscurità, lo sguardo al soffitto, non si mosse: «Mh?» fu l’unico segno che diede all’altro.

Gli parve di sentirlo sospirare: «Sei tornato, per fortuna.» fu l’unica cosa che disse e alla quale non aggiunse nulla.

Né un “buonanotte”, né un “potevi avvisare che uscivi”.

Solo il sollievo di sentire che era di nuovo in stanza e che quindi, presumibilmente, non era nei guai.

In breve colse il suo respiro farsi di nuovo regolare, segno che si era addormentato; si girò su un fianco, dandogli le spalle e affondando una parte del viso nel cuscino.

 

 

 

Il giorno seguente e quelli dopo ancora, li aveva passati capendo sempre meno di quello che ascoltava a lezione.

Molte volte Noah lo aveva coperto quando, durante le spiegazioni, voltandosi per osservare il compagno trovava il biondo a braccia conserte sul banco e addormentato.

La notte, vuoi lo stesso sogno che più o meno tendeva a ripetere sempre scenari analoghi, vuoi il vizio che aveva preso di non dormire e sgattaiolare all’aula di musica quando riusciva a cogliere la melodia di Lacie prima di prendere sonno, le ore di riposo erano drasticamente diminuite.

E lui non era certo un vampiro, né nulla del genere.

Una delle ultime volte che era andato ad ascoltare di nascosto la musica suonata da Elliot, aveva nuovamente incontrato Alyster che quasi ad imitazione della volta precedente lo aveva di nuovo invitato a seguirla nella stessa stanza.

Avevano parlato meno quella notte, ma la ragazza si era detta preoccupata per quell’assenza di sonno da parte del compagno più giovane; Oz aveva inizialmente taciuto, senza sapere bene come replicare.

«Vorrei chiedere ad Elliot Nightray come conosce Lacie.» se ne era poi uscito, confessando quell’idea che già da qualche giorno aveva per la testa ma che, fino a quel momento, non aveva mai messo in pratica.

Alyster aveva sospirato appena, lasciando che un sorriso cortese le incurvasse le labbra rivolgendosi a lui: «Elliot Nightray non è facile da avvicinare.» aveva detto, confondendolo.

Non gli era parso una persona che tenesse tutti a debita distanza, anche se effettivamente lo aveva osservato quando era quasi sempre solo con il servitore – di cui ancora ignorava il nome, oltretutto.

Alyster sembrava aver colto quella confusione e si era spiegata meglio: «Non è in buoni rapporti con i Bezarius. Anche Ada, che ne è una compagna d’anno e di corso, non è ben vista da lui.» aveva rivelato.

Era stato innervosito dalla cosa: sua sorella era una persona modesta e gentile, difficilmente non piaceva a qualcuno o faticava a farsi ben volere. Poteva essergli indifferente, forse, ma addirittura non andargli a genio… – magari non era obiettivo, in quanto fratello, ma lì per lì non ci aveva pensato.

Aveva sbuffato contrariato, strappando una risata leggera alla ragazza: «Questo non significa che sia inavvicinabile.» aveva sottolineato. Oz era rimasto perplesso da quelle parole: «Ma hai appena detto che non è in buoni rapporti con la mia famiglia.» le aveva fatto notare.

Lei non aveva dato segno di ripensarci, come se avesse parlato senza riflettere: al contrario, aveva semplicemente annuito con un sorriso.

«Non c’è problema. Ci sono incontri che nessuno può decidere di evitare o meno, non pensi?» era stato il modo in cui si era congedata, visto che dopo poco lo aveva invitato a tornare a dormire in modo che l’assenza di sonno non influenzasse la sua salute.

Da quel loro incontro era passata una settimana e raramente l’aveva incontrata per i corridoi nei cambi d’aula, senza la possibilità di parlarle.

Quella mattina, aveva seriamente preso in considerazione di non presentarsi a lezione: aveva sonno e la stanchezza iniziava ad infierire più pesantemente del solito sul suo fisico.

Una settimana - di più, in realtà - con i ritmi poco umani che aveva avuto avrebbe distrutto chiunque: lo stesso Noah gli aveva saggiamente consigliato di rimanere in stanza, offrendosi di comunicare lui stesso ai docenti il motivo della sua assenza.

Tuttavia, alla fine ci aveva rinunciato e si era recato a colazione sotto lo sguardo quasi di rimprovero del compagno di stanza - e suvvia. Era comico anche solo pensarlo, Noah con l'espressione severa.

Sospirò, entrando nell'edificio scolastico e attraversando l'atrio con la stessa vitalità di un bradipo pesantemente assonnato e svegliato in anticipo dal letargo. Intravide Noah vicino alla soglia della mensa, dove gli aveva chiesto di aspettarlo quando l'altro aveva annunciato che intanto si avviava, precedendolo.

Lo stipite della porta fu una sorta di oasi di salvezza: si sentiva così spossato e stanco, che una qualsiasi superficie a cui poggiarsi era a dir poco bene accetta.

«Che senso ha venire a lezione così?» sottolineò Noah, forse infantilmente. Oz lo guardò con un sorrisetto divertito, quasi di sfida: «Non dirmelo. Ti eri preparato per prendere appunti per me, sacrificandoti ad andare a seguire la lezione di musica della Barma?»

«...l'ho detto io che stai benone. L'ho detto, vero?» se ne uscì, facendo ridere il biondo. Certo che Noah doveva proprio avere un rapporto drammatico con Miranda Barma.

«Allora ho fatto bene a non darti retta.» lo prese in giro Oz, muovendo un altro passo per entrare in mensa.

Non seppe se fu la voce – riconoscibilissima – o la presa più o meno salda attorno alle spalle a fermarlo. In ogni caso, quando inclinò appena il capo indietro per sincerarsi di chi fosse, ebbe la conferma di non aver sbagliato rispetto a quando si era affidato semplicemente alla voce che aveva pronunciato un burbero e quasi infastidito: «Dovresti dargli retta ogni tanto, invece.»

Sorrise comunque, come se non avesse colto il rimprovero – considerando il soggetto, era assai più probabile che lo avesse bellamente ignorato facendo finta di non ascoltarlo – rimanendo con la testa appena inclinata indietro per poter guardare un Gilbert dall’espressione tipica di chi ha intenzione di sgridarti ma non ne è capace.

«Gil.» salutò semplicemente, il braccio del ragazzo attorno alle spalle, la schiena appena a contatto col corpo dell’altro: «Non sto male.» sottolineò.

Se la sua speranza era che, a quel punto, Gilbert lo avrebbe lasciato andare si sbagliava: l’altro quasi non si mosse di un millimetro, se si escludeva il sopracciglio leggermente alzato in risposta alle sue parole.

Spostò dunque l’attenzione su Noah: «Lo riaccompagno io in dormitorio, puoi avvisare tu i professori?» domandò un po’ burbero, nel modo solito che aveva di rivolgersi alle persone con cui non aveva confidenza – e si poteva tranquillamente dedurre che fossero molte più di quelle con cui invece parlava liberamente.

Noah rivolse un sorrisetto furbo ad Oz, tipico di chi alla fine l’ha avuta vinta in qualche modo e annuì poi all’indirizzo di Gilbert: «Nessun problema, ci penso io. Tu tienilo sotto chiave, eh?» rispose, agitando appena la mano verso Oz come un bambino per poi voltarsi ed entrare del tutto in mensa.

Oz si imbronciò, rivolgendo al più grande un’occhiata eloquente: «Gil, perché devo tornare in…» iniziò, ma Gilbert lo zittì in uno dei suoi rari momenti di decisione irremovibile.

«Noah mi ha detto che non dormi decentemente, che esci di notte a volte anche per qualche ora e che continui a seguire le lezioni. Aspetti di collassare o cosa?» chiese, brusco. Oz si zittì, indispettito.

Non gli piaceva quando Gilbert faceva così – ovvio, non era comodo se l’altro cominciava a tenergli testa e Oz non vi era mai stato abituato, dunque non sapeva come vincere quei loro “scontri verbali” dove il più grande rischiava quasi di avere la meglio.

«Ho solo dormito poco, Gil, non ho una malattia mortale.» se ne uscì.

Maledicendo se stesso per la stupidità che a volte proprio non sapeva controllare, a quanto sembrava.

Sentì la presa di Gilbert farsi più salda per riflesso alle proprie parole – non tanto forte da soffocarlo, ovviamente – prima che l’allentasse considerevolmente, lasciando scendere la mano fino al polso di Oz che prese senza tante cerimonie, avviandosi verso l’uscita e trascinandoselo dietro.

E dire che lui, più di tutti, avrebbe dovuto evitare discorsi simili. Lui che aveva passato il tempo chiuso in una stanza ad osservare suo fratello indebolirsi sempre di più, fino al momento in cui non era stato più in grado di muoversi, non avrebbe dovuto ironizzare con tanta superficialità su una cosa del genere.

Lui che ancora aveva nella mente l’espressione di Jack che tentava di tranquillizzare Oz ed Ada all’inizio.

Guarirò in fretta, altroché!, aveva ripetuto fin dalla prima volta in cui stare al letto si era rivelato molto meno doloroso che tentare di alzarsi in piedi.

A metà del sentiero che collegava la scuola al dormitorio maschile, sentì la mano di Gilbert stringere la propria: alzò istintivamente lo sguardo su di lui, notando che però continuava a fissare di fronte a sé.

«Gil…?» chiamò – capiva quando c’erano volte in cui toccava a lui scusarsi. Ma il più grande si limitò ad aumentare il passo leggermente, raggiungendo l’entrata del dormitorio e guidandovi il minore all’interno.

Forse bloccato da quell’assenza di risposta e temendo un po’ – da qualche parte nella sua testa – che il moro si fosse arrabbiato, non disse altro finché non furono davanti alla stanza sua e di Noah.

Racimolò la chiave dalla tasca, facendo scattare la serratura e aspettandosi di essere lasciato lì; ma Gilbert non era davvero cambiato di una virgola, probabilmente non sarebbe mai cambiato almeno da quel punto di vista.

Senza lasciare la mano, fu il primo ad entrare in stanza, sorprendendo il minore e tirandoselo dietro – di nuovo, nemmeno Oz fosse incapace di muovere un passo senza di lui.

Il moro parlò solo quando ebbero chiuso la porta alle proprie spalle.

«Non sono arrabbiato.» esordì, portando Oz a chiedersi se in quegli anni una delle poche cose cambiate non fosse stata la capacità di Gilbert di leggergli nel pensiero o simili – una volta quasi impossibile per il più grande. Non senza farsi raggirare con la stessa facilità di un calzino.

«So che è solo il sonno, che non hai nulla. Ma sei già svenuto in un corridoio… e non voglio vederti nemmeno con la febbre solo perché fai sempre finta di stare bene come adesso.» mormorò.

Nel tono c’era la preoccupazione tipica del suo carattere gentile, l’indecisione di chi vorrebbe dimenticare qualcosa ma non osa farlo per rispetto alle persone che fanno parte dei suoi ricordi, e la paura.

Il timore di vedere qualcosa ripetersi, qualcosa che non vorresti nemmeno potesse esistere come possibilità.

Oz non aveva l’abitudine di rivolgere cattiverie a nessuno, men che meno a Gilbert: ma quella domanda, che sibilante gli aveva attraversato la mente, sfuggì dalle sue labbra senza che potesse evitarlo.

«Hai paura che finisca come Jack, Gil?» mormorò piano, udibile solo per il completo silenzio nella stanza.

Il maggiore sussultò appena, alzando lo sguardo quasi di scatto su Oz; strinse i pugni.

Oz non lo guardava: gli occhi chiari erano posati sulla propria scrivania senza realmente vederla, e sembravano per nulla toccati dalla propria stessa domanda.

Non era possibile. Non era davvero possibile.

«Perché?! Perché ne parli come se non ti interessasse, come se non fosse affar tuo o Jack non fosse tuo fratello?! Perché devi costantemente nascondere tutto persino a me?!» sbottò, scuotendolo per le spalle.

Infantilmente, il punto era quello, il succo del discorso tutto lì.

Egoisticamente, non voleva che mentisse anche a lui.

«Perché non posso essere preocc—»

«Io non so fare altro che mentire!» sbottò, il tono improvvisamente più alto, misto tra rabbia, debolezza e frustrazione: «Cosa vuoi che faccia, Gil?! Non è vero che non mi interessa! E quando non ti mento, succede questo.» sottolineò con tono quasi accusatorio.

Gilbert lo fissò interrogativo e Oz deviò lo sguardo – forse, pensò il maggiore, lui non era… degno?

«Non posso… conoscere le tue verità?» soffiò appena, tanto che aveva dubbi sul fatto di essere udibile all’altro.

Calò un silenzio pesante per diverso tempo, senza che nessuno dei due facesse particolari movimenti o si degnasse di dire qualcosa.

Poi, senza un motivo apparente, senza che fosse possibile capire in quale senso lo intendesse, Oz mormorò un semplice: «Mi dispiace.»

Se gli dispiacesse per le parole rivolte a Gilbert, o se si stesse scusando per la scelta di mentire anche a lui, non era intuibile.

«Non ci sono verità di me che non conosci già. Solo… » indugiò; “Solo, non sai dei sogni”.

“Solo, non conosci gli ultimi anni della mia vita”.

“Solo, c’è qualcosa che non voglio condividere con nessuno”.

C’erano tanti “solo” che avrebbero potuto concludere quella frase: ma era innegabile che, qualunque avesse scelto di pronunciare, avrebbe ferito Gilbert. E così era già abbastanza.

Alzò lo sguardo repentinamente, avvertendo il dorso della mano del maggiore sfiorargli inaspettatamente una guancia: leggermente, come quando si sfiora qualcosa di cristallo e si teme di romperla, magari facendola cadere per disattenzione.

Lo vide chinarsi appena, senza spostare la mano. Oz osservò interrogativamente quei movimenti, finché Gilbert non fu con il viso più o meno all’altezza del suo: «Non fa nulla, se non vuoi parlarmene ora.» mormorò, il tono rassicurante che aveva sempre apprezzato in Gil fin da quando viveva alla tenuta dei Bezarius.

Una carezza così leggera, a seguire, che ebbe il dubbio di essersela immaginata: «Pensa solo a riposare. Rimarrò qui per tutto il tempo.» promise.

 

 

L’unico rumore che percepisce, è lo scoppiettare tipico del fuoco: più rumoroso di quello che l’inverno brucia nel camino, più luminoso di un falò all’aperto.

“Incendio” è la parola che la sua mente elabora quasi con naturalezza, senza il minimo panico che si dovrebbe avvertire lì, all’altezza dello stomaco, in una morsa quasi dolorosa mentre non riesci a pensare in quale direzione sia meglio fuggire.

O chi chiamare, chi salvare.

La mente è completamente lucida, per quanto la sensazione di essere in un posto in qualche modo estraneo e familiare al tempo stesso sia quasi palpabile.

Osservare da spettatore, eppure essere cosciente di trovarsi proprio lì.

Avanza: i passi sono regolari, mossi senza la minima fretta. Sanno già che direzione prendere, come se avessero vita propria, anche se non trova la destinazione tra i propri pensieri.

Come se fosse già programmato, dove andrà.

Sente qualcosa di fastidiosamente umido sulla guancia e la mano vi si posa meccanicamente: allontanandola in modo che rientri nel proprio campo visivo, vi ritrova una traccia di sangue.

Non si sente turbato, nemmeno quando abbassando lo sguardo a terra incontra solo corpi, e sangue e la spada al suo fianco macchiata dal medesimo colore carminio.

Non c’è panico, quasi un’insana soddisfazione, mentre ancora cammina sotto l’arcata che lo sta conducendo ovunque abbia deciso di recarsi: alla sua sinistra, la grande balconata dà sul cortile.

Fiamme alte che bruciano i pochi rami degli alberi che, più elevati, erano sfuggiti fino a quel momento al loro destino che li vedrà divenire cenere come il resto delle chiome cui appartenevano.

La spada stride appena a contatto con il pavimento di pietra, ma non si cura di alzarla subito, quasi ricercando compagnia in quel rumore; volta l’angolo e per un attimo la luce gli infastidisce la vista.

Nessuno a terra, nessuno tranne un unico, singolo corpo che visibilmente ancora respira: a fatica, pesantemente.

Avverte il proprio incurvarsi di labbra: mentalmente lo deride già.

«Povero, stupido essere umano.» è quello che sussurra la propria voce, ma nel silenzio quasi irreale sembra persino che le parole possano rimbombare.

Il corpo a terra si muove appena, ma esce un verso incomprensibile e forse anche strozzato.

Non se ne preoccupa. Non è affar suo.

Si avvicina di un passo: «Perché non imparate mai?» domanda, come se per un solo istante potesse davvero interessargli la risposta.

«Perché non imparate quando è il momento di non cercare più la verità?» sente se stesso aggiungere, la spada che punzecchia appena il corpo, in un macabro gioco per passare il tempo quasi.

Ha la sensazione del proprio sguardo e della propria espressione che si induriscono.

Il tono che sente – il proprio? – lo è certamente.

«Devo ucciderti, Vincent?»

 

 

 

Dire che la voce aveva impiegato pochissimo a spargersi, sarebbe stato un eufemismo.

L’unica cosa su cui si potevano avere dei dubbi, era l’aspetto che si era venuto a sapere per primo: se fosse stato il fatto che Vincent Nightray era stato ferito nei confini della scuola, se fosse stato l’allarmante avviso che il colpevole non era stato visto da nessuno e tanto meno individuato o se la prima voce a girare fosse stata quella che ad aver dato l’allarme era stato Elliot Nightray.

Oz e Noah lo avevano saputo da Alice: la mattina seguente all’incidente, Gilbert non si era presentato infatti e Sirjan e Alyster Kolstoj aveva annunciato la sospensione delle lezioni almeno momentaneamente.

Oz era stato tentato di chiedere ad Ada di accompagnarlo in infermeria: al di là delle parole di Alice riguardo a Vincent e di quanto questi potesse essere o meno qualcuno da evitare, un compagno fino a quel momento per nulla diverso dagli altri era rimasto ferito – seppure non fosse nulla di mortale, avevano assicurato i docenti.

Ma oltre tutto questo, Oz si chiedeva come stesse Gilbert; forse stupidamente, non sapeva immaginare la preoccupazione del moro per il fratello minore e voleva vederlo.

Era quasi ironico, che finissero per restare l’uno accanto all’altro quando un fratello – era stato così per Jack, ora era Vincent – versava in condizioni non proprio ottimali.

Tuttavia, qualunque piano avesse in mente Oz, dopo la colazione e l’annuncio dei due capo dormitorio era stato praticamente bloccato da Aedan sulla soglia della mensa.

Alzando lo sguardo interrogativamente, aveva scorto quello del moro, indifferente come sempre: «Dove stai andando?» aveva chiesto.

Oz non aveva nemmeno fatto in tempo a finire la frase “in infermeria”, che l’altro l’aveva interrotto: «Alyster ti vuole parlare.» aveva detto soltanto, sorprendendo Oz.

La ragazza si stava avvicinando in quel momento, e il biondo poté notare Sirjan dietro di lei: ad un’occhiata più attenta, vide che spingeva lui stesso la sedia a rotelle della sorella.

L’espressione di Alyster, tuttavia, sebbene mantenesse i suoi tratti cortesi che l’avevano caratterizzata dal primo incontro che avevano avuto, lasciava trasparire una nota preoccupata e l’aria di chi ha urgenza di parlare di un argomento piuttosto serio.

Fu forse quello a trattenerlo lì quando il primo istinto anche dopo le parole di Aedan era stato voltarsi e andarsene.

«Scusami, Oz.» esordì Alyster, osservandolo: «Probabilmente vuoi raggiungere il signor Nightray, ma ho bisogno di parlarti.» rivelò senza eccessivi giri di parole. Oz alzò appena un sopracciglio, confuso.

La osservò, cercando di estrapolare qualcosa dall’espressione o dallo sguardo di lei, ma non vi riuscì.

«Però Alyster, io…» tentò, interrotto dalla mano di lei che aveva preso la sua.

«Lo so. Ma mi hai detto di voler chiedere qualcosa ad Elliot Nightray su quella melodia, giusto? Hai detto che era composta da un amico di tuo fratello, è così?» chiese conferma, riassumendo cose che si erano detti.

Oz, sebbene appena infastidito dal fatto che sia Aedan che Sirjan potessero ascoltare quella “confessione” che aveva fatto solo a lei, annuì.

Lei fece lo stesso.

«Glen Baskerville.» disse con voce ferma. Oz sgranò appena gli occhi, le mani lungo i fianchi che si strinsero appena sulla stoffa dei pantaloni: «Cosa…?»

«L’amico di tuo fratello Jack.» chiarì lei senza mezzi termini: «Era Glen Baskerville, giusto?»

Annuì meccanicamente, ma il pensiero si fossilizzò su un unico interrogativo: se conosceva già suo fratello tanto da sapere una cosa come quella, perché aveva fatto domande a lui?

Vide Alyster sospirare piano, per poi rialzare lo sguardo su di lui: sembrava voler evitare di parlare e al tempo stesso essere consapevole di doverlo fare comunque.

Sirjan, dietro di lei, taceva con lo sguardo su Oz, mentre Aedan sembrava più che altro controllare che i pochi e sporadici studenti attardatisi lì in mensa non cercassero di cogliere il loro discorso.

«Glen… cosa c’entra Glen Baskerville, ora?» mormorò senza sapere bene cosa pensare.

«Pensiamo che l’aggressione a Vincent Nightray sia in qualche modo collegata a lui.» ammise, uno sguardo veloce al fratello, quasi a giustificare quel “noi” sottinteso nella frase.

Oz assunse un’aria incredula: «Ma Alyster, Glen—»

«È morto tempo fa?» lo interruppe Sirjan, il tono non particolarmente toccato dall’affermazione. Guardò Oz, come se il resto fosse ovvio e lo dicesse a parole solo per farlo contento.

«Sì, lo sappiamo.»

 

 

 

 

Note

E fuori altri due pg da far apparire *-* *sì, praticamente sta facendo il countdown* XD

Vi autorizzo ad odiarmi per aver fatto apparire praticamente già morti Jack e Glen x° Non so quanto possa essere consolante, ma non verranno mollati nel dimenticatoio ora che si sa che fine hanno fatto.

…no, non vi consola vero?

 

 

Ringraziamenti

 

Gioielle: Oz egoista, Oz egoista *festeggia* xD idiozie a parte, sì, posso confermarti che ci stiamo avvicinando al lato “dark” della storia. O almeno, quel “drammatico” tra i generi della longfic comincia ad avere un senso XD

Sono contenta di aver mantenuto Alice IC e che ti sia piaciuta Sharon (anche se io non la sopporto e la tentazione di farla sparire dalla circolazione è stata forte *-*”); Miranda Barma può e basta. Io che scrivo non vedevo l’ora di trattarla XD *se la sognava da mesi quella battuta*

Finalmente ‘sto benedetto inciucio MarcusNoah *muor* e suvvia. Marcus è quello che è e Noah io continuo a dirvelo che è stupido, siete voi che non mi prendete sul serio! XD

E, come ti ho già detto, non posso che gongolare del fatto che ti piaccia Alys <3

 

 

LitaChan: imminente futuro, recente passato, nulla di tutto questo, sadismo dell’autrice… chi può dirlo cos’era quel sogno? ù_ù *lei potrebbe, ma ovviamente non lo farà*

E’ sempre un piacere leggerti tra le recensioni e quanto ad Oz… quel ragazzo non ha self-control. Secondo me era troppo shockato per fare una scenata XD *e dire che le scrive lei, le scene, poi*

Elliot è sfigato. Basta vedere che gli combina la Mochizuki: e chi sono, io, per cambiare il destino di quel povero pg pucchoso? Che sia sfigato anche da me, suvvia ù.ù

 

 

Yoko891: *pulisce la bava* su, su, riprenditi xD

Questo capitolo forse è un pelo più lungo, per il resto mi sono orgogliosamente mantenuta sempre sulla stessa lunghezza (è stato casuale, ma farlo sembrare una cosa voluta fa figo!) v_v

Brava, ama Elliot che quel povero pg ha bisogno di affetto ç___ç!

Spero di avervi ridato una dose di Gil in questo capitolo XP

 

 

Makotochan: …tu sei malataaaa XD *scuote*

Tralasciando tutti i commenti VinceGil che mi hai rifilato (tanto ti sfoghi in separata sede, inutile discuterne in questa risposta x°), Aedan… beh. E’ anche meno sfigato di quanto avrebbe potuto (lo sai quando mi diverto a traumatizzare i pg originali <3); quanto Oz e l’etero stai tranquilla: se anche fosse (e non è. Decisamente no.) piuttosto che con Sharon lo accoppio con una sedia a dondolo u.u

Amiamo tutti la Barma in armonia XD E felice ti siano piaciuti i vari risvolti <3

 

AliceOfAbyss: grazie dei complimenti, nya <3 E… sìììì çOç L’unica che mi dà soddisfazione e non aveva sgamato fin dall’inizio Marcus e Noah XD *muor*

Spero che anche questo capitolo sia stato di tuo gradimento (non c’era Reo, ma strapazzo a dovere Elliot per compensare xP).

Piano piano dissiperò i vostri dubbi *ci spera, almeno*

 

 

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Capitolo 9
*** Oltre quel che vedi ***


Ho sognato di te

Oltre quel che vedi

 

Chi ti comprende,

 chi vede “solo te”,

non sono solo io.

Di sicuro.

 

 

Spostò lo sguardo alternativamente da Sirjan ad Alyster più di una volta.

Quasi si sentiva ottuso, e la cosa lo avrebbe in qualche modo infastidito se non fosse stato troppo occupato a dare un senso alle parole dei due fratelli.

Approfittando della mensa ormai completamente deserta, Sirjan si mosse verso la panca vicina, lasciando l’impugnatura per spingere la sedia a rotelle della sorella e prendendovi posto. Con un cenno, invitò Oz a fare lo stesso.

Il biondo, tuttavia, rimase in piedi lì dov’era: «Se è una presa in giro… non è divertente.» asserì, parlando finalmente dopo diversi minuti di totale silenzio. Sirjan alzò appena un sopracciglio: «Non ho l’abitudine di prendere in giro le persone, men che meno in momenti simili e su argomenti del genere.» lo riprese, severo malgrado il tono di voce fosse morbido.

Oz strinse appena la stoffa dei pantaloni fra le dita in quello che sembrava essere divenuto un tic nervoso: «Ma lo hai detto tu stesso che Glen Baskerville è morto. E lo so perché è morto nello stesso periodo di mio fratello. Perciò cosa c’è, a Latowidge fate resuscitare i defunti?» insinuò con arroganza mista all’irritazione.

Non era divertente, non lo era proprio per nulla.

E non capiva perché Sirjan insistesse su qualcosa di oggettivamente impossibile come quella, né perché Alyster – e presumibilmente anche Aedan – gli dessero spago.

Sirjan, comunque, non rispose per le rime: socchiuse gli occhi per qualche istante, come se stesse cercando le parole. Dopodiché, si alzò nuovamente in piedi dirigendosi verso Aedan ancora sulla soglia della mensa. Vi sostò il tempo necessario a pronunciare un: «Riaccompagna tu Alyster, per cortesia.» riprendendo quindi a camminare del tutto intenzionato – apparentemente – ad andarsene.

Istintivamente, Oz lo richiamò indietro: il capo dormitorio si voltò, l’espressione neutra come era sempre stata – o come Oz aveva sempre avuto modo di vederla – con un’unica eccezione. Gli occhi dorati, che ora erano fissi sul biondo erano severi e quasi sprezzanti.

Oz sussultò senza poterlo evitare: mai aveva visto a Sirjan uno sguardo simile, mai rivolto a nessuno, nemmeno quando era capitato che dovesse sgridare qualche altro studente o riportare all’ordine un gruppo particolarmente confusionario.

«Una ragione.» lo sentì dire, riscuotendosi e assumendo un’aria interrogativa, senza capire cosa intendesse. La voce di Alyster che richiamò Sirjan con un “fratello” fu sostituita quasi subito dal ragazzo che si spiegò meglio: «C’è una ragione valida per la quale dovrei perdere del tempo spiegandoti quello che ho detto? Nel momento in cui ironizzi, vuol dire che non hai intenzione di accettare un’opinione esterna.» chiarì, lo sguardo che non abbandonava Oz.

Il capo dormitorio mosse un ulteriore passo verso l’uscita: «Forse, semplicemente non sei adatto. Forse sei tu, quello che non è degno di conoscere le verità altrui.» concluse, proseguendo senza più voltarsi e sparendo ben presto alla vista, probabilmente diretto all’infermeria.

Oz era rimasto senza parole: al di là del discorso in sé che Sirjan gli aveva rivolto, al di là del tono che pur essendo di rimprovero manteneva comunque quell’insopportabile nota neutra come se non gli importasse mai davvero di nulla, il biondo era stato quasi gelato dalla sua conclusione.

La domanda che Gilbert gli aveva rivolto, il suo timore di non essere degno di ascoltare la verità di Oz e di essere meritevole solo di bugie, Sirjan lo aveva decretato qualcosa di cui lui stesso era “colpevole”. Come se – assurdamente – il più grande avesse ascoltato di nascosto il discorso fra lui e Gilbert e glielo avesse volutamente rivoltato contro.

«Oz…?» tentò Alyster, avvicinandosi a lui. Venne bloccata quasi subito, non tanto dai gesti quanto dalla replica del biondo: «Non voglio ascoltare.» disse.

Alzò lo sguardo, senza però portarlo sulla ragazza: «Vado in infermeria.» comunicò soltanto, avviandosi quasi seguendo i passi di Sirjan fatti per uscire dalla sala. Nel passare accanto ad Aedan, quest’ultimo non mosse un dito per fermarlo, né disse nulla.

In breve, fu nel corridoio che portava all’infermeria.

 

 

Entrarvi si era rivelato molto più difficile di quanto aveva pensato: per questioni di discrezione, era stato permesso l’ingresso solamente ai famigliari o a chi fosse stato autorizzato da loro.

Quando Oz era arrivato nei pressi della porta per accedervi, aveva trovato Noah che veniva nella direzione opposta affiancato da Marcus – che era più probabile avesse accompagnato il fratello, piuttosto che fosse lì per Vincent.

Il compagno di stanza aveva spiegato che avevano entrambi accompagnato una Alice piuttosto reticente che ora era dentro insieme a Gilbert e la servitrice di Vincent stesso – Echo – che aveva riportato solo qualche graffio superficiale e nulla di allarmante. Ada si era allontanata poco prima per andare a richiamare il terzo fratello, Elliot Nightray, mandato a riposare senza possibilità di replica dall’infermiera per evitare che collassasse a causa della tensione accumulata.

«Io ho preferito non entrare, non è che li conosco granché di fatto. Però tu sei amico di Gilbert, no? Vedi te.» aveva aggiunto Noah, lasciando che Oz bussasse alla porta dell’infermeria.

Da lì, l’esperienza traumatica non era stata incrociare Gilbert dopo quella specie di discussione che avevano avuto, né la vista di Vincent Nightray – non solo perché da lì non lo vide affatto, ma anche perché in ogni caso non era comunque ridotto così male.

Era stato Elliot Nightray che con passo marziale e palesemente innervosito aveva raggiunto a sua volta l’infermeria irritato dalla presenza di Ada Bezarius poco dietro di lui, a creare confusione.

Quando Ada, individuando Oz poco più avanti lo aveva richiamato apostrofandolo come “fratello” e era stato quindi chiaro chi fosse, Elliot aveva assunto un’aria persino più irritata di prima e aveva affrettato il passo. A nulla era valso il richiamo di Gilbert dopo che il minore dei Nightray aveva allontanato malamente Oz dalla porta precludendogli l’entrata.

«Non pensare nemmeno vagamente di entrare qui dentro.» aveva sibilato Elliot contro un Oz inizialmente perplesso e poi senza dubbio infastidito da quell’atteggiamento. L’altro però sembrava non averlo notato, ignorando qualsiasi reazione potesse provenire dal biondo e avvicinandosi all’entrata dell’infermeria per varcarne la soglia. Gilbert si era fatto da parte, ma aveva poggiato una mano sulla spalla del fratello minore: «Elliot…»

«Non mi toccare.» aveva sbottato quello senza alcun tentennamento in proposito o preoccupandosi di rivolgersi al fratello maggiore: «Quello lì è un Bezarius, e non c’entra nulla con noi.» aveva quindi infierito.

Era stata la prima volta che Oz, prima di poter rispondere lui stesso a tono, aveva visto Gilbert assumere un’espressione arrabbiata mentre afferrava alla meno peggio per il bavero il fratello, spingendolo non troppo violentemente ma abbastanza forte da farlo finire contro lo stipite della porta all’altezza del quale ancora si trovavano.

Nello stupore generale, compreso quello del biondo, Gilbert aveva guardato Elliot rabbioso: «Ritira quello che hai detto e scusati. Adesso.» aveva praticamente ordinato.

Il minore dei Nightray era stato inizialmente sorpreso e poi confuso: ma non era durata abbastanza da sostituirsi all’espressione arrabbiata che era tornata al suo posto in breve tempo. Aveva infine allontanato il fratello in malo modo, con un gesto a metà fra lo stizzito e il disgustato quasi: «Perdonami fratello. Dimenticavo che eri e rimani vergognosamente il servo dei Bezarius e non un membro dei Nightray.» aveva sputato fuori, cogliendo di sorpresa persino Gilbert, malgrado il moro sembrasse in qualche modo abituato a parole o discussioni simili con Elliot.

Oz non aveva potuto dire la sua: Elliot Nightray era scomparso oltre la soglia dell’infermeria rivolgendogli solo un’ultima, breve occhiata quasi d’odio.

A quel punto era sembrato saggio a tutti lasciare quel corridoio: così Oz si era avviato con Ada verso i dormitori, preceduto di poco da Noah e Marcus.

Non era servito a molto, durante il loro camminare fianco a fianco, il tentativo di Ada di convincerlo che Elliot Nightray era probabilmente solo teso e agitato per l’accaduto e che normalmente era una persona affidabile e gentile. In alcun modo Oz avrebbe potuto crederci, non dopo la scena che si era verificata.

Era stato però ancora più innervosito dal non riuscire a mettere totalmente le parole della sorella da parte: era vero, certo, che il minore dei Nightray aveva praticamente sostenuto senza il minimo riguardo alla cortesia e all’educazione il fatto che ritenesse la famiglia Bezarius poco meno che feccia.

Ma, d’altra parte, era altrettanto vero che proprio Oz era la persona che poteva essere più incline di chiunque altro a pensare che Elliot non fosse davvero così. O almeno, non del tutto.

Lui che lo aveva osservato di notte suonare una melodia che mandava entrambi in confusione nello stesso modo, proprio Elliot che non riusciva a dormire – come lui; Elliot che si sentiva quasi impazzire – esattamente come lui…

Non riusciva a non pensare che forse, c’era qualcosa che non andava.

Che forse, in un modo che in realtà non sapeva immaginare lui stesso, c’era qualcosa che doveva capire di lui per raccapezzarsi con quell’incidente e le parole di Sirjan ed Alyster.

Per questo, quando era rientrato nella propria stanza – trovandola vuota: probabilmente Noah era da Marcus, a ben pensarci – aveva tirato nuovamente tutte le tende, concedendosi una dormita fatta come si doveva.

Non era importante che lo odiasse e che a sua volta Oz trovasse quell’Elliot molto lontano dall’essergli simpatico: ci avrebbe parlato e lo avrebbe quindi avvicinato.

Non era importante che Alyster lo avesse giudicato difficile, specie per lui che era un Bezarius: non aveva altra scelta in ogni caso.

 

 

La teoria era sempre stata una bella cosa, ma non sempre combaciava con la pratica, né le congetture lo facevano con la realtà.

Ma Oz Bezarius non si arrendeva certo così facilmente solo perché di cinque tentativi per avvicinare Elliot Nightray non solo non ne era riuscito nemmeno mezzo, ma era difficile giudicare quale fosse andato peggio.

Doveva ammettere, però, che non era nemmeno tanto facile: le lezioni erano un’occasione improbabile, essendo loro di due anni diversi e non avendone in comune.

Durante gli intervalli, poi, Elliot sembrava svanire nel nulla, oppure era in mensa al tavolo con il suo servitore: in ogni caso, però, non era avvicinabile - non senza attirare su di te l'attenzione di tutti quelli che erano lì a mangiare, ovviamente.

Alla fine, perciò, aveva optato per il metodo più diretto - e potenzialmente più letale data la predisposizione del minore dei Nightray ad avere a che fare con lui.

Fece un sorrisone verso l'impiegata nella segreteria - diversa da quella che lo aveva accolto il primo giorno - richiudendosi la porta alle spalle: aveva ottenuto il numero di stanza di Elliot e Reo Nightray in maniera relativamente facile.

La tattica era sempre la stessa da anni, dopotutto: sorridi e sii carino, il resto verrà da sé.

Non si diresse subito alla stanza, comunque, ma preferì dirigersi in mensa a cenare vista l'ora. Probabilmente non li avrebbe trovati comunque in camera, perciò era inutile perdere tempo ad andare e tornare.

Dopo aver lasciato vagare lo sguardo per qualche istante appena arrivato nella sala, individuò il tavolo dove sedeva Noah: notò che Marcus era al suo fianco, com'era prevedibile. Di fronte a lui stava Alice e affianco a lei c'era - sorprendentemente - Echo.

Stupito dalla sua presenza, li raggiunse comunque prendendo posto all'altro lato di Alice. Fu Noah il primo a rivolgersi a lui: «Ohi Oz.» fu il saluto che gli rivolse, accompagnato dal solito sorriso allegro che pareva praticamente onnipresente sul suo viso.

Oz sorrise di rimando, cercando di non badare almeno inizialmente all'atmosfera tesa fra le due ragazze del tavolo e prestando attenzione al compagno di stanza: «Alla fine Vincent Nightray non ha nulla di mortale, proprio come avevano detto. Una ferita, un po' profonda ma lo lasceranno tornare a lezione tra tipo due giorni.» spiegò, dedicandosi poi con amore ad un boccone del suo doppio hamburger - insudiciato di un miscuglio di salse discutibili.

«Come lo sai?»

«Agente segreto Keynes sempre al tuo servizio. Ho abbordato l'infermiera.» disse annuendo convinto.

Occhiata eloquente di Marcus.

«Ovviamente scherzavo. Ho solo chiesto al professor Lunettes.» chiarì quasi immediatamente. Oz ridacchiò divertito, alzandosi per andare a prendere qualcosa da mangiare: neanche due passi che Alice l'aveva seguito con aria seccata.

Attese di essere abbastanza lontano dal tavolo per parlarle: «Va tutto bene?» chiese quasi ingenuamente - perché era ovvia la risposta.

Lei lo degnò di un'occhiata con la quale si soffermò su di lui per pochi e brevi istanti: «Per niente. Quella mi sta appiccicata.» replicò, incrociando le braccia al petto.

Oz prese dell'insalata, passando a setacciare la zona carne: «Intendi dire la piccola Echo?» domandò quasi casualmente.

Alice lo guardò a dir poco perplessa: «...la "piccola Echo"? Ma che nome è?!» lo riprese, ma il biondo si limitò a ridacchiare mentre si appropriava di ben due cotolette panate.

«E' solo un soprannome, anche se mi ha detto di non utilizzarlo.» ammise, allungandosi per recuperare anche dell'acqua e un paio di tovaglioli.

«Sfido io.» lo riprese nuovamente, sarcastica: «Comunque sì, lei. Davvero degna tirapiedi di Vincent.» sibilò irritata. Oz sospirò, alzando lo sguardo al soffitto istintivamente: «Non dirmi che Vincent riesce a farti arrabbiare anche mentre è chiuso in infermeria.» la prese bonariamente in giro.

Se non gli volò via di mano il vassoio con tutto ciò che ci aveva messo allo spintone che gli diede Alice, allora fu sicuro che avrebbe avuto una carriera assicurata come equilibrista del circo. La guardò stralunato, senza minimamente capire il perché del gesto: «Ma... Alice...?»

«Che cavolo ci trovi da ridere, eh?!» sbottò lei arrabbiata, il tono alto senza minimamente preoccuparsi di iniziare da subito ad attirare su di sé gli sguardi degli studenti più vicini.

«Perché vuoi a tutti i costi fidarti di Vincent, perché devi credere alla sua buona fede e non alla mia?! Perché segui sempre quei due del quinto anno, sparisci, te ne vai in giro con mio cugino e non credi a me quando ti dico che è pericoloso?! Non permetto a nessuno di prendermi in giro, o di lasciarmi da sola o di prendermi per stupida! Non te lo permetto, è chiaro servo?!» si sfogò, il tono alto che aveva fatto sparire il chiacchiericcio della sala facendola cadere in silenzio ovattato e carico di sorpresa e curiosità di chi li osservava.

Oz l'aveva osservata per tutto lo sfogo sorpreso, senza capire cosa avesse fatto esattamente per farla arrabbiare tanto.

«Alice...» tentò, ma lei parlò di nuovo interrompendolo: «Non ti voglio ascoltare!» ribatté dandogli le spalle e iniziando ad allontanarsi.

Avrebbe potuto seguirla, certo: posare il vassoio sul primo ripiano disponibile, correrle dietro e scusarsi o chiedere spiegazioni. Ma non lo fece.

Non perché non ci tenesse: semplicemente perché Echo lo fece prima di lui. E suppose che seguire entrambe, visto il tipo di rapporto che c'era fra loro, non fosse proprio consigliabile ora.

Perciò dopo cena era tornato velocemente in dormitorio, dirigendosi direttamente alla stanza di Elliot e Reo Nightray senza passare dalla propria: quando aveva bussato, non aveva risposto nessuno, quindi probabilmente li aveva preceduti.

Aveva preferito non aspettare davanti alla porta perché, da qualunque punto di vista si osservasse la cosa, fare le poste a qualcuno davanti alla sua stanza era losco. E dubitava anche che avrebbe aiutato ad intavolare una conversazione civile con Elliot Nightray, visti i presupposti dai quali partivano.

Così era tornato in stanza, dandosi un po' di tempo per essere certo di trovarvi qualcuno.

Spostò lo sguardo sulla sveglia del proprio comodino, leggendo l'orario: le dieci di sera; probabilmente ora almeno uno dei due gli avrebbe aperto, giusto?

Racimolò quindi la felpa dal letto, indossandola sopra la maglia semplice che aveva messo quando si era cambiato togliendo la divisa: uscì in corridoio, percorrendolo per dirigersi verso le scale ma proseguendo anziché scenderle verso il piano inferiore.

Controllò di tanto in tanto i numeri delle stanze, fino ad individuare quello che gli interessava: un sospiro, mentre una mano nella tasca della felpa si stringeva sull'orologio da taschino, bussando quindi un paio di volte alla porta con la mano libera.

Non ci volle molto, questa volta, perché l'uscio si aprisse verso di lui rivelando un ragazzo moro e dall'apparenza buffa - o così sembrava ad Oz: i capelli neri, scompigliati e abbastanza lunghi da toccare le spalle erano, insieme agli occhiali dalla montatura tonda e leggermente spessa, i segni di riconoscimento che aveva personalmente affibbiato a Reo Nightray.

Quest'ultimo, ancora in divisa, gli rivolse un'occhiata interrogativa: «Signor Bezarius, giusto?» disse, prendendo Oz appena in contropiede per la verità. Non ne attese la risposta comunque: «Serve qualcosa?» aggiunse.

Oz, dopo un attimo di sorpresa e di silenzio, annuì: «Ah, sì... cercavo Elliot Nightray.» articolò alla meno peggio. Vide il moro portare una mano a sorreggere appena il mento in una buffa posizione pensosa - riflesso dell'espressione.

«Elliot adesso non è in stanza.» rivelò. Probabilmente, senza accorgersene Oz doveva aver assunto un'espressione delusa, perché Reo abbozzò un sorriso leggero - anche se Oz non lo notò - e aggiunse: «Vuoi che gli dica qualcosa?» domandò.

Oz alzò lo sguardo, scuotendo subito la testa: «No, no!» disse quasi frettolosamente - visto quanto lo amava Elliot, già si immaginava la reazione sapendo che era andato a cercarlo.

«Anzi, non dirgli proprio che sono passato, tanto lo cercherò poi per conto mio, ecco, sì.» concluse.

 

 

Il primo pensiero quando, svegliato da un leggero bussare aveva guardato l’orario della sveglia prendendo coscienza del fatto che erano le tre di notte, fu chi diamine potesse rompere a quell’ora improponibile.

Guardando lateralmente, aveva distinto appena la sagoma di Noah dormire della grossa, senza riuscire davvero a sorprendersene e arrendendosi all’idea che avrebbe dovuto alzarsi lui.

Malgrado il torpore del sonno, riuscì a non inciampare – in un particolare slancio di lucidità si ripromise di minacciare Noah di fargli ingoiare tutta la roba che lasciava in mezzo – raggiungendo indenne la porta. La socchiuse, affacciandosi leggermente per vedere fuori.

Di certo, avrebbe reputato più plausibile trovarsi fuori dalla porta il professor Xerxes in vestaglia, pantofole e orsetto di peluche sottobraccio che non Reo Nightray come invece accadde.

Indossava pantaloni sicuramente appartenenti al pigiama e una felpa un po’ grande per lui: i capelli erano arruffati – più del solito – l’espressione calma come qualche ora prima.

«Scusa l’ora.» esordì, quasi banalmente. Oz scosse la testa cercando di abbozzare un sorriso – era plausibile che i suoi muscoli facciali si sforzassero anche col cervello in stato semi comatoso come in quel momento. Ma dai neuroni non poteva pretendere lo sforzo di articolare una frase coerente.

Comunque, Reo non pareva aspettarsela: «Pensavo di farmi accompagnare. Puoi uscire adesso?» chiese, perfettamente a suo agio.

Oz lo guardò perplesso: «Adesso?» fece eco. Non potevano parlare, per esempio, in mensa – e ad orari umani?

Reo annuì, per nulla smosso dalla perplessità dell’altro: «Sto raggiungendo Elliot nell’aula di musica. Volevi parlargli, giusto?» se ne uscì con tutta la naturalezza del mondo.

Oz decise: quel tipo non aveva tutte le rotelle al posto giusto.

D’altra parte, però, a lui serviva di parlare con Elliot Nightray: «Non credo che di notte sia meno irritabile o più disposto a parlare con me.» commentò, memore dello stato di frustrazione in cui l’altro versava tutte le notti in cui lo aveva spiato, a volte anche in compagnia di Alyster.

Reo inclinò appena il capo lateralmente: «Perché?» chiese quasi ingenuamente. Oz puntò lo sguardo altrove: «Odia i Bezarius, no?»

«Decisamente.» replicò senza la minima esitazione il moro, quasi obbligando a Oz a chiedersi se ci fosse o facesse solo finta.

Qualsiasi replica o eventuale congettura, però, fu interrotta proprio da Reo: «Elliot ha chiamato il tuo cognome.» rivelò, criptico.

«…cosa? Quando?»

«Stanotte. Mentre dormiva.»

Trovò il fatto che Elliot Nightray lo chiamasse nel sonno un misto di molte cose che oscillavano da “strano” ad “assurdo” a “improbabile” – sicuramente le più quotate. Preso però dalla curiosità di conoscerne il motivo, sempre che ce ne fosse uno, lasciò Reo ad aspettare lì sulla porta il tempo di recuperare al volo una felpa e l’orologio da taschino, dopodiché uscì chiudendosi la porta alle spalle, piano.

Nell’oscurità quasi completa della stanza, l’unico rumore percettibile dopo che il biondo fu uscito fu un sospiro.

«Esce di nuovo.» mormorò un Noah più che sveglio, ricevendo come risposta il solo rumore prodotto dal fruscio delle lenzuola sotto le quali si era mosso per sistemarsi in modo tale da dare le spalle al letto di Oz.

 

 

Raggiunsero l’aula di musica in breve tempo, il tragitto percorso quasi in completo silenzio. Se non avesse saputo che dentro c’era il minore dei Nightray, Oz l’avrebbe considerata vuota: non proveniva alcun rumore dall’interno, men che meno quello del suono del pianoforte. Non vi erano luci accese, neanche fioche: la poca illuminazione era tutta dovuta all’esterno e alle tende non tirate.

Quando lui e Reo entrarono insieme, Elliot sedeva di fronte al pianoforte come in procinto di un’esecuzione, ma guardava fuori. Dal momento che il moro non disse nulla per palesare la sua presenza, Oz lo imitò; in ogni caso, pochi istanti dopo fu Elliot stesso a voltarsi.

Se la sua espressione fu più sorpresa, spaesata, irritata o semplicemente passò velocemente per tutti e tre gli stadi, Oz non seppe dirlo: tuttavia, il minore dei Nightray prima di prendersela con lui si voltò verso Reo con l’aria di chi non sa da quale ramanzina o rimprovero iniziare ma sta velocemente risolvendo quel dramma interiore.

«E questo cosa dovrebbe significare, Reo?» chiese a metà fra un sibilo e un pessimo tentativo di ostentare una certa calma. Oz portò istintivamente lo sguardo sul moro, che non sembrava turbato granché né dal tono, né dall’espressione dell’altro.

«Voleva parlarti.» diede come spiegazione Reo, Oz che si sentì improvvisamente chiamato in causa. Elliot, qualsiasi opinione avesse in mente in proposito, non sembrava intenzionato a cambiare idea; spostò lo sguardo sul biondo, l’aria eloquente: «Che vuoi?» fu l’unica cosa che gli concesse, senza l’ombra di un qualsivoglia tatto o la vaga intenzione di farsi perdonare per la sfuriata dell’infermeria.

Oz si accigliò, sentendosi improvvisamente per nulla invogliato a parlare con quel tizio: assunse un’aria arrogante, quella che da sempre era sfruttata e rivolta a chi si mostrava fin troppo superbo per essere trattato con cortesia.

«La canzone che suoni, Lacie, chi te l’ha insegnata?» chiese, senza girarci troppo intorno visto che non aveva nessuna intenzione di stare lì più del dovuto. Considerando poi che Elliot sembrava più che desideroso di vederlo andare via il prima possibile. Tuttavia, l’espressione del castano mutò nella più sincera sorpresa.

Le braccia che si erano incrociate al petto, allentarono la tensione perdendo automaticamente la posizione rigida: «Cosa ne sai tu di Lacie?» lo interrogò, fra il guardingo e il confuso, probabilmente convinto di non essere mai stato udito o che nessuno conoscesse quello che lui considerava un segreto.

«Ti ha ascoltato spesso di nascosto quando suoni la notte.» se ne uscì a sorpresa Reo, il tono pratico e placido, come se fosse normale spiare la gente ad orari come quelli e, a volte, anche più tardi.

La reazione di Elliot e Oz fu comica: a discapito dell'apparente antipatia reciproca, si voltarono contemporaneamente verso il moro, entrambi con espressione incredula, esclamando all'unisono un «Che cosa?!»

Si scambiarono un'occhiata, dopodiché Elliot fu il primo a tornare sul coetaneo: «Se ti eri accorto che ci spiava perché non me lo hai detto?!»

«Se ti eri accorto che ero fuori perché non mi hai cacciato?!» se ne uscì quasi subito Oz.

Nuova occhiata fra di loro, infastiditi entrambi dallo scimmiottare dell'altro - o quello che pareva tale.

Reo, nuovamente, sembrava per nulla toccato dalla cosa: «Non faceva nulla di male, ascoltava e basta. E c'era qualcun'altro, vero?» chiese rivolto unicamente ad Oz che, sorpreso, si ritrovò ad annuire istintivamente.

«Alyster.» disse, senza specificare il cognome. Elliot sbuffò, ma più del solito fare antipatico, era uno sbuffo più simile a quelli che si fanno nelle discussioni di poco conto con un amico di vecchia data: «Alyster, ovvio.» commentò quasi distrattamente.

Oz si accigliò appena: era stato il primo a non ascoltare Alyster l'ultima volta che la ragazza gli si era rivolta, ma questo non implicava che lei non gli piacesse, anzi.

«Cos'è, ti è antipatica anche lei?» chiese, una nota sarcastica che non si era dato troppo la pena di nascondere, tutt'altro.

Nuovamente, intervenne Reo visto che Elliot si era voltato dall'altra parte con uno "tsk", per niente intenzionato a rispondere a quella domanda - o provocazione: «Alyster e Sirjan hanno dato il permesso ad Elliot di utilizzare l'aula di musica in qualsiasi momento per esercitarsi.» spiegò brevemente.

Oz inarcò un sopracciglio. Reo parlava come se suonare di notte fosse normale: con un permesso simile, non poteva usufruire dell'aula in un'ora del giorno normale?

«L'ho composta io.» li interruppe la voce di Elliot, sulla difensiva.

Ad Oz non occorreva una spiegazione per capire che si riferiva al brano che gli aveva sempre sentito suonare: «Non è vero.» replicò, sicuro.

Il minore dei Nightray si voltò a guardarlo con aria seccata: «Vuoi saperlo meglio di me?» ironizzò, fissandolo. Il biondo estrasse l'orologio tenuto nella tasca della felpa dove aveva anche affondato la mano da quando aveva seguito Reo, come se temesse di perderlo e cercasse di evitarlo tenendo sempre la mano a contatto con il metallo dell'oggetto.

Impiegò ben poco a farlo scattare, lasciando che la melodia del carillon si diffondesse per l'aula vuota e silenziosa.

Si aspettava quasi che Reo non facesse una piega, ma avrebbe scommesso su un'espressione stupita da parte di Elliot, o anche arrabbiata nel caso avesse stupidamente ipotizzato un averlo copiato a sua insaputa.

Invece, Elliot parve più che altro preda di quella confusione data dal timore per qualcosa: «...chi te l'ha dato?»

«Mio fratello.»

«Jack Bezarius? Tuo fratello era Jack Bezarius?!» esclamò incredulo. Toccò ad Oz, contro ogni sua previsione, essere stupito. Aveva accennato ad un fratello, certo, ma da uno che sembrava odiare tanto il suo casato non si aspettava certo la conoscenza del loro albero genealogico. A prescindere dal fatto che la levatura della sua famiglia gli imponesse o meno di conoscere quelle altrui.

Senza che Oz se ne accorgesse Elliot si era alzato, avvicinandosi a lui e le sue mani strinsero le proprie braccia scuotendolo: «Jack Bezarius era tuo fratello?!» ripeté come se ora, dalla risposta a quella domanda dipendesse chissà cosa.

Oz annuì, ancora confuso da quella reazione: vide gli occhi del più grande dilatarsi appena per lo stupore e poi assumere una connotazione tipica di quando, finalmente, tutto quadra.

«...Che schifo di ironia.» commentò.

Oz lo osservò, lo sguardo che si fece nuovamente deciso: Elliot aveva avuto la sua risposta, ma anche lui ne voleva una.

«Perché conosci Lacie?» ripeté quindi la domanda, testardo.

Sentì la presa sulle braccia allentarsi e vide Elliot allontanarsi indietreggiando sui propri passi: «...la conosco, e basta. Nessuno me l'ha insegnata.» dichiarò, lasciando un Oz interdetto e insoddisfatto, che si sentì preso in giro.

«Come si può conoscere qualcosa e non sapere come—»

«Ahi, ahi, signori abbiamo deciso di svegliare tutta la scuola?» fu la voce canzonatoria che interruppe la frase del biondo che, come Reo ed Elliot, si voltò istintivamente in sua direzione.

Sulla soglia, la spalla poggiata allo stipite della porta e le braccia incrociate al petto, stava Xerxes Break: espressione divertita, sorrisetto sarcastico, aveva abiti comodi addosso che non sembravano però né un pigiama, né tanto meno una vestaglia - quella accompagnata dall'orsacchiotto di peluche nelle preoccupanti ipotesi di Oz in stato di coma cerebrale.

Tacquero tutti e tre, fissandolo: se anche Reo ed Elliot avevano il permesso di stare lì, lo stesso non si poteva dire per il biondo.

Break stesso lo sottolineò quasi subito, pur rivolgendosi prima agli altri due: «Signor Nightray» esordì, lo sguardo su Elliot nello specifico «l'arte la divorerà presto se comincia a perdere il sonno per suonare. Avrà pure il permesso richiesto dalla signorina Kolstoj, ma io sono un uomo scientifico, l'arte non la capisco.» ammise con falso tono di scusa, come se fosse cosciente di quella mancanza imperdonabile ma si fosse rassegnato a non poterci fare nulla ormai.

«In altre parole, se dorme durante le mie lezioni la punirò comunque ♥!» spiegò con lo stesso tono con cui normalmente si dava un premio, anziché minacciare ben poco velatamente di punire qualcuno.

Elliot non disse nulla, scambiandosi uno sguardo con Reo per poi annuire all'indirizzo di Break: «Sì signore.» pronunciò solamente, avviandosi all'uscita dell'aula, passando accanto al docente. Reo, dietro di lui, parve indeciso osservando Oz quasi a fargli cenno di seguirli.

«Non preoccupatevi, riaccompagnerò personalmente il signor Bezarius tra poco!» assicurò fin troppo pimpante per quell'ora di notte. Oz rimase fermo, osservandoli uscire entrambi e sparire oltre la soglia.

«Bene, vogliamo avviarci?» sentì dire al docente, che si era rimesso ben dritto in piedi e aveva ostentando un gesto da perfetto gentiluomo per invitarlo ad uscire e a seguirlo.

Oz chiuse con un gesto veloce l'orologio rimasto aperto fino a quel momento, interrompendo la Lacie suonata dal carillon e portando l'oggetto di nuovo al sicuro in tasca.

Infine, seguì Break.

 

 

Oz di certo non si era aspettato che Break lo riaccompagnasse davvero in dormitorio e subito: se così fosse stato, non avrebbe avuto senso mandare avanti i due Nightray. Avrebbe potuto congedarli tutti e tre o, in alternativa, accompagnarli insieme senza dividerli.

D'altra parte, era stato evidente solo all'ultimo che il docente non lo stesse conducendo in dormitorio come si aspettava: più precisamente, era apparso ovvio quando avevano deviato non verso le scale che conducevano all'atrio dell'edificio scolastico per uscire, ma verso quelle che portavano al corridoio che dava all'unica e autentica area privata della scuola.

Gli alloggi personali dei docenti.

La porta alla quale rallentarono per soffermarvisi di fronte fu la quarta che Oz contò dalla prima sulla quale aveva notato una targhetta dal nome noto - quella di Alexis Coleman per la precisione.

L'alloggio di Xerxes Break, se lo era aspettato in qualche modo grottesco o almeno eccentrico: non era facile immaginare un ambiente sobrio accostato all'immagine tutt'altro che nella norma del docente che si portava una bambola di pezza sulla spalla - che, a proposito, ora non notava.

Contro ogni previsione, la stanza in cui erano entrati era a pianta quadrata e costituiva un ambiente elegante e completamente nella norma: non era una superficie eccessivamente ampia, ma nemmeno claustrofobica.

Le pareti, in legno scuro come il mobilio che comprendeva un tavolino al centro, un paio di sedie e alcuni mobili per lo più posizionati lungo le pareti o agli angoli, erano interrotte in un solo punto dall'orologio a pendolo che addossato al muro costituiva l'unico elemento che saltava davvero all'occhio.

Sulla parete immediatamente di fronte alla porta era collocata una finestra, ora con le tende tirate: sulla sinistra, una libreria di medie dimensioni e divisa in sei scaffali dava colore alla sala con le copertine dei volumi che ospitava.

Lungo la parte subito a destra della porta vi era quello che ad Oz parve uno schedario forse un po' vecchio stile, dato che era anch'esso in legno.

Dalla parte opposta, notò una seconda porta: «Quella conduce alla mia camera da letto.» canticchiò Break mentre si chiudeva l’uscio alle spalle e portava un indice alle labbra nel classico segno di non fare troppo rumore o di tacere.

«Emily dorme.» specificò - e Oz suppose che tutto l'arredamento normale servisse a bilanciare le stranezze caratteriali di cui l'uomo decisamente era fornito.

Ad un suo cenno verso la sedia, si accomodò prendendovi posto mentre il docente si avvicinava all'unico mobile che Oz non aveva notato entrando, formato da due cassettoni e un paio di sportelli che formavano un armadietto di piccole dimensioni.

Break si chinò, aprendo entrambe le ante e frugando all'interno: ne tirò fuori due tazzine sui rispettivi piattini e due cucchiaini, che andò a posare sul tavolo. Facendo lo stesso percorso avanti e indietro, recuperò la teiera e dei biscotti.

Motivò l'assurdità di avere del thé pronto a quell'ora con un semplice: «Ho sempre la mia scorta di thé pronto in qualsiasi momento. Non si sa mai chi viene a trovarti!» come se fosse normale.

Oz lo fissò perplesso, occhieggiando l'orologio a pendolo della stanza: «...vengono a trovarla alle quattro meno un quarto di notte?» chiese con il tono di chi non ci crede nemmeno se gli viene dimostrato scientificamente.

Break versò il thé per entrambi, accomodandosi sull'altra sedia e bevendone un generoso sorso prima di degnarsi di rispondere: «Chissà.» disse soltanto.

Oz alzò lo sguardo al soffitto, stufo: quella sembrava proprio la sera in cui tutti avevano deciso di eludere le sue domande nei modi più snervanti.

«Allora, signor Bezarius... anzi, facciamo signor Oz così evitiamo confusione?» insinuò sottilmente ed Oz non dovette impegnarsi più di tanto per immaginare con chi potesse confonderlo.

Annuì mentre Break faceva tintinnare appena il cucchiaino contro la tazzina: «Bene, dunque era nell'aula di musica perché...?» lo incalzò senza troppi giri di parole. Oz osservò il proprio thé, come se dovesse suggerirgli qualcosa.

Alzò poi lo sguardo, un ampio sorriso entusiasta sulle labbra: «Elliot Nightray è un pianista eccezionale, ecco perché. Mia sorella è del suo anno e me ne aveva parlato. Visto che anche io faccio parte del corso di musica e studio il piano, non ho saputo resistere la prima volta che ho sentito la musica per puro caso!» spiegò, nel tono una malcelata ammirazione per il compagno più grande.

Break aveva mutato la sua espressione prima nello stupito, poi in un palese sarcasmo che non si degnava comunque di nascondere del tutto qualcosa di molto simile all'irritazione, seppur latente.

Poggiò la tazzina sull'apposito piattino, sistemandosi con il gomito sul tavolo, la mano a fare da sostegno al viso: «Che ragazzino inquietante.» fu la prima replica che gli rivolse.

Oz sbatté un paio di volte le palpebre, confuso.

«Il modo in cui menti lo è. Però è quasi divertente notare come speri che io ci caschi e ti creda come uno stupido qualsiasi, signor Oz.» lo sfotté apertamente, il tono allegro come se parlassero di un argomento piuttosto divertente.

Oz si concesse una sorpresa più accentuata nella propria espressione: fino a quel momento, soltanto Gilbert si era dimostrato in grado di capire quando mentiva e malgrado ciò spesso riusciva ad ingannarlo comunque. Ma non gli era mai capitato che un perfetto sconosciuto al pari del docente se ne accorgesse così facilmente, come se lui - Oz - non fosse stato mai capace di raccontare frottole.

Probabilmente, Break si rese più o meno conto di cosa avesse mandato il biondo in confusione. Ridacchiò, prendendo un biscotto e addentandolo: «Più ingenuo di quanto pensassi.» commentò senza preoccuparsi di tenerselo per sé.

«Casualmente» riprese, lo stesso tono di infantile derisione: «ero fuori dall’aula da un po’. Ti servono delle informazioni dal signor Nightray, ma lui non vuole dartele.» riassunse quasi canticchiando e snervando Oz.

«Se è così perspicace, perché sono qui a bere thé?» insinuò, arrogante.

«Ma il thé non l’hai nemmeno sfiorato.» fece notare l’altro, quasi imbronciato e come se il vero fulcro della questione fosse quello.

Oz, forse più spazientito che altro, prese la tazzina e bevve un sorso del contenuto, posandola poi di nuovo sulla superficie lignea e tornando con lo sguardo quasi di sfida su Break, come un bambino che fa i capricci per non darla vinta all’adulto.

Break mangiò con tutta calma il biscotto precedentemente addentato e un altro subito dopo. Si rilassò quindi contro lo schienale della sedia, le mani intrecciate fra loro e mollemente adagiate all’altezza dello stomaco: «A metà del primo anno del signor Nightray, la signorina Kolstoj che sicuramente anche tu avrai avuto modo di conoscere signor Oz, espose una richiesta al corpo docenti.» iniziò, mescolando la formalità data dall’appellativo “signor” alla totale noncuranza dell’etichetta dandogli del tu come se fossero amici di vecchia data.

«Chiese di accordare ad Elliot Nightray il permesso di usufruire personalmente dell’aula di musica quando preferiva. A qualsiasi ora, ovviamente tranne quelle in cui serviva per le effettive lezioni. Permesso accordato ancor prima di metterlo ai voti, naturalmente.» assicurò con un tono appena stizzito.

Oz fu incuriosito da quella sfumatura nella voce del docente, degnandolo di un’attenzione degna di questo nome per la prima volta. Se lo notò o meno, Break non lo diede comunque a vedere.

«Così, il signor Nightray suona spesso di notte e a orari improponibili. Molti non se ne accorgono, se dormono già e a quanto pare non è stato il tuo caso.» fece notare, portando l’occhio libero dall’ostruzione dei capelli sullo studente: «Quindi, quel brano che suona non è suo, eh?» notò poi con falsa casualità nel tono di voce, ridestando Oz dal torpore in cui si era ritrovato nell’ascoltarlo, avido delle informazioni che lo studente più grande gli aveva palesemente negato.

«Come…?»

«L’orologio che avevi.» spiegò direttamente senza attendere la fine della domanda: «Un oggetto interessante devo dire, ma non cattura del tutto il mio interesse. Però ti do un consiglio, signor Oz» concesse, lo sguardo di sa anche troppe cose «Non fissarti troppo e non far suonare quel gingillo per la scuola di notte. Magari non sei l’unico interessato al brano di Lacie.»

Quasi contemporaneamente alla conclusione da parte dell’altro il biondo si era alzato in piedi, la sedia che aveva grattato a terra nel movimento ben poco aggraziato del biondo: «Nessuno conosce Lacie, nessuno che è in questa scuola e non ha conosciuto Jack la può conoscere. Perciò… perciò chi mai dovrebbe essere interessato?!» sbottò, il solito autocontrollo ostentato in tante bugie e false espressioni di spensieratezza ora dimenticato chissà dove.

Break non si alzò, né gli fece alcun cenno di calmarsi e tornarsi a sedere.

Sorrise, semplicemente, un sorriso di arroganza e consapevolezza: «Il tuo "nessuno" non sembra poi così vero.» insinuò di nuovo, sottilmente, andando oltre la difesa che Oz aveva sempre posto tra sé e tutti gli altri.

«Oppure devi convenire con me che il signor Nightray e io, fossimo anche solo noi due, siamo esulati da questo fantomatico, infantile e illusorio “nessuno”.» concluse.

Oz uscì definitivamente sbattendo la porta alle proprie spalle pochi istanti dopo.

Break tornò a rilassarsi sulla sedia, con sospiro: «Ah, che moccioso problematico.» commentò ad alta voce in quello che sembrava uno dei suoi classici dialoghi con Emily, benché ora la bambola non fosse sulla sua spalla come al solito.

«Che adulto assolutamente infantile.» fu il commento di rimando che gli arrivò all’orecchio. Break sorrise con furbizia, senza bisogno di voltarsi per sapere a chi appartenesse la voce: «Detto da uno che non conosce la parola tatto non posso prendere sul serio il rimprovero.» replicò beffardo.

Non si diede la pena di voltarsi o girare la sedia per fronteggiare il suo interlocutore, cogliendone i passi attutiti dalla moquette e lasciando che fosse lui a fare la strada dalla porta della sua stanza che si era aperta all’uscita dello studente.

In breve tempo, infatti, fu facile per Break inquadrare la figura ora davanti a sé: abiti comodi ed informali al posto di quello che sarebbe stato un sensato pigiama data l’ora, i capelli legati in una coda che impedisse alla maggior parte delle ciocche di andare ad infastidirgli il volto.

«Non mi fingo amichevole, Xerxes, al contrario del tuo nauseante buon viso a cattivo gioco.» ribatté un Rufus Barma dall’aria apatica malgrado le parole abbastanza taglienti.

Break ridacchiò, come se gli avesse fatto un complimento inaspettato anziché un appunto poco gentile: «Riesco ad indorare la pillola a differenza tua.»

«Sì, ho notato la profonda utilità della cosa con il signor Bezarius.» rinfacciò il docente di storia, fissando l’altro eloquentemente.

«E tu avresti saputo dirglielo meglio? Figurarsi, professor Barma, me lo immagino proprio: Bezarius, presente il tuo fratello crepato anni fa? Ecco, tanto per dirtelo, guarda che sei l’unico imbecille che non sa nulla di lui, praticamente.» lo scimmiottò, imitandone il tono duro e affilato.

Ridacchiò nuovamente: «Sicuramente l’avresti toccato fino alla commozione, Ruf.» ironizzò infine.

«Non chiamarmi "Ruf". Sai che non lo sopporto quasi quanto non sopporto te, Xerxes.» sibilò, il viso talmente vicino che i nasi si sfioravano. Break ridacchiò, osservandolo come se la posizione assunta dall'altro fosse una cosa abituale: le mani poggiate ai suoi lati, sulla parte in legno della sedia per poggiare le braccia e leggermente piegato in avanti, Rufus aveva avvicinato repentinamente il viso al suo. Lo sguardo severo come suo solito, le ciocche più corte dei capelli scivolate in avanti a circondargli appena il viso.

Break si sistemò sulla sedia non con nervosismo, al contrario con naturalezza: nel movimento, nel suo farsi leggermente più avanti verso il viso dell'altro per provocazione, le labbra quasi si sfiorarono.

Lasciò che le proprie venissero incurvate da un sorrisetto malizioso: «Ma tu mi sopporti eccome, professor Barma.» insinuò, quell'appellativo formale assolutamente in contraddizione con l'atteggiamento e la situazione in cui si ritrovavano in quel momento.

«Hai un'idea della sopportazione tutta tua, come al solito d'altronde.» rimbeccò Rufus, senza muoversi di un centimetro o cambiare espressione.

«Oh, andiamo.» lo riprese Break: «Non puoi pensare davvero di essere credibile visto che vieni al letto con me.» parlò chiaro, senza nemmeno un vago pudore.

Rufus lo osservò, lasciando cadere il silenzio per qualche istante. Gli diede quindi le spalle, tornando sui propri passi verso la porta che dava nella stanza dell'alloggio, quella da cui era venuto.

«Parola mia, Xerxes, fai perdere la fiducia nel genere umano.» fu il suo unico commento, mentre oltrepassava la soglia senza preoccuparsi di chiudersi o meno la porta alle spalle.

Break ridacchiò, prendendo la tazza deciso a finire il thé: «Sì, ti raggiungo subito in camera, Ruf

 

 

Non era stato disposto ad ascoltare una parola di più, ma convenne mentalmente che andarsene a quel modo non era stata una mossa intelligente: non sapeva se avrebbe avuto altre occasioni di parlare privatamente col docente senza destare sospetti trattenendosi, ad esempio, dopo le lezioni. E, d'altra parte, era ormai ovvio che Break Xerxes sapesse molto più di quanto insinuasse o rivelasse in merito a quella faccenda.

Se ciò fosse dovuto al suo conoscere i Nightray al dir fuori del suo ruolo a Latowidge o a qualche altro personale privilegio, Oz non lo sapeva. L'unica cosa chiara, ora, era che le parole del docente sembravano quanto mai vere ad ogni passo che faceva per allontanarsi dall'alloggio di Break.

Non poteva più sperare che nessuno sapesse di Jack o di Lacie: Elliot conosceva il brano, Sirjan e Alyster addirittura insinuavano che dietro l'aggressione di Vincent ci fosse Glen - indiscutibilmente deceduto anni prima come lo stesso Jack - dando prova di sapere più di quanto non volessero dare a vedere o intendere.

Troppe cose diverse da quanto aveva sempre creduto, troppe cose complicate che si aggiungevano a qualcosa di cui non voleva parlare e che aveva sperato egoisticamente di dimenticare: convincersi che la morte di Jack era stato qualcosa di naturale per quanto crudele o doloroso e rimanere fermo a quella convinzione senza che altri mille fattori andassero a dimostrargli in qualche modo il contrario.

Cosa che, invece, stava lentamente accadendo: informazioni contraddittorie che non facevano che confonderlo e nient'altro che estranei.

«Che sguardo triste.» sentì dire, sussultando al commento inaspettato, il corridoio apparentemente deserto. Il tono non era stato compassionevole, al contrario quell'unica frase era stata quasi canticchiata.

Si voltò più volte per cercare la fonte di quella voce, riuscendo ad individuarla solo quando il suo possessore fece capolino dall'angolo. Oz osservò sorpreso la figura di Alice muoversi in sua direzione e fermarsi al centro del corridoio, a diversi passi da lui.

«Alice?» chiamò, perplesso. I corridoi della scuola sembravano ormai, per assurdo, più trafficati di notte che di giorno.

Lei ridacchiò: «Alice» ripeté «che nome nostalgico, non trovi?» chiese, il tono sfumato di infantile divertimento, come se stessero giocando.

Oz la osservò senza capire: non solo per la domanda retorica che gli era stata rivolta, ma anche per l'abbigliamento di lei che non indossava la divisa così come non si trattava nemmeno del pigiama.

Un abito chiaro, di quelli che avresti immaginato ad una festa d'alta società o indossato nella propria tenuta come si conviene ad una signorina per bene.

Indubbiamente inadatto ad un corridoio di scuola a ridosso dell'alba: «Sei venuto a giocare con me? Me l'avevi promesso!» la sentì parlare nuovamente, ritrovandosi ad essere ancora più confuso dalle sue parole quando per lei sembrava essere tutto più chiaro.

«Alice... saranno quasi le cinque, ormai.» le fece notare. Lei girò su se stessa, imitazione di una ballerina immaginaria, come quelle nei cofanetti dei carillon tradizionali.

Un gesto innocente e allegro come quello di una bambina.

«Non importa, possiamo giocare, nessuno si arrabbierà con noi!» esclamò sicura, avvicinandosi del tutto e prendendo le mani di Oz nelle proprie: «C'è il nostro posto segreto, quello dove giochiamo sempre! Lì non viene nessuno, lo sai, no?» insistette, tirandolo appena per indurlo a seguirla.

Oz, senza riuscire a capire esattamente perché Alice d'improvviso si comportasse in maniera così strana, la seguì lasciandosi guidare da lei. I suoi passi incerti seguivano quelli sicuri della ragazza che ora lo precedeva di poco, dandogli le spalle e tenendogli solo una delle mani prese prima tra le sue.

Quando Oz riconobbe il posto in cui Alice lo aveva condotto, erano ormai a pochi passi dalla porta: la stessa davanti alla quale aveva perso i sensi una volta, intravedendo una figura che si era poi rivelata essere quella di Aedan.

Si fermò bruscamente, tirando quindi Alice involontariamente per l'improvvisa immobilità: «Alice non entriamo lì.» si lasciò sfuggire fra le labbra, benché lui per primo non capisse il motivo preciso della propria affermazione. Era più una sensazione che la reale consapevolezza di non doversi trovare lì.

Lei si voltò, lo sguardo deluso sul biondo: «Perché? Mi avevi promesso che mi avresti fatto compagnia.» gli fece notare, nel tono lo stesso broncio che Oz poté notare sul viso della ragazza.

Fece per replicare, ma lei lo tirò ancora: «Per favore.» aggiunse, come se d'improvviso dalla presenza di Oz oltre quella porta dipendesse la sua vita.

«Alice... non possiamo entrare lì.» tentò, rimanendo fermo e, anzi, quasi ritraendosi invitandola ad allontanarsi.

Lei gli lasciò repentinamente la mano, quasi scottata: «Perché?! Perché anche tu vuoi lasciarmi da sola?!» esclamò all'improvviso, il tono più alto.

Oz la osservò, a metà fra l'ormai familiare sensazione di confusione e un lieve ma persistente panico che prendeva lentamente forma: «Io non ti sto lasciando so—»

«Perché preferisci anche tu Vincent e Gilbert a me?! Sei un bugiardo, un bugiardo, un bugiardo!» strillò, indietreggiando lentamente verso la porta fin quasi a sfiorarla con la schiena. Oz fece un passo avanti, per afferrarle un polso e allontanarla, ma tutto ciò che accadde fu ricevere un repentino e inaspettato colpo in pieno stomaco che lo sbalzò indietro.

Portò la mano al punto colpito, il respiro mozzato e gli occhi appena sgranati in un misto di sorpresa e dolore.

Alzò lo sguardo, cercando chi poteva averlo colpito - perché era impossibile che fosse stata Alice - ma qualcosa spinse violentemente la sua testa verso il pavimento.

Sentì un sapore ferroso in bocca - con ogni probabilità si era morso il labbro nell'impatto improvviso.

«Hai fatto piangere Alice!» sentì sibilare con rabbia sopra la propria testa, qualcosa - quasi sicuramente una mano - a tenerlo con la guancia contro il marmo del piastrellato.

«C-Chi...?» tentò, provando al tempo stesso ad alzare la testa e inquadrare la figura che aveva parlato. L'unico risultato ottenuto fu sentire la spinta contro il proprio capo farsi più forte e ferma: «Hai fatto piangere Alice e questo Cheshire non te lo perdona!» fu l'unica risposta che arrivò o che riuscì a registrare.

Alice, di cui intravedeva solo i piedi dalla sua posizione, ridacchiava inquietantemente: «Bravo Cheshire... tu sei l'unico di cui possa fidarmi, l'unico a cui voglio veramente bene.» asserì, il tono fino ad allora innocente, velato di una sfumatura maliziosa.

«...Ora perché non me ne liberi, Cheshire? Di questa persona disgustosa che preferisce altri a me?» la sentì ordinare, colto di sorpresa.

Perché un cambio tanto repentino, e perché sembrava totalmente fuori di testa così?

Gli arrivò all'orecchio il sogghigno di quel tale che lo teneva fermo, Cheshire, ed era certo non fosse un buon segno cogliere la mano alzarsi - per poi abbattersi nuovamente su di lui.

Con ogni probabilità, la sensazione che non fosse di buon auspicio si sarebbe tramutata in una realtà piuttosto dolorosa, se non avesse colto un gelido: «Fermati.»

Chiunque lo avesse pronunciato, pensò, doveva essere spaventoso; Cheshire si era fermato, la mano - se lo avesse visto avrebbe certamente trovato più appropriato definirla "zampa" - a mezz'aria.

Oz, che aveva chiuso istintivamente gli occhi pronto al colpo, li riaprì lentamente sentendo due mani afferrarlo per le spalle e tirarlo su: non era il massimo della delicatezza, ma certamente lo stava allontanando da quel tipo.

Quando riuscì a focalizzarne la figura, dovette ammettere che l'aggettivo "grottesco" che aveva sempre associato a Xerxes Break era stato inadeguato: quello lì, quel Cheshire lo era molto di più.

Dall'aspetto umano ad un primo e superficiale sguardo, non poteva sembrare ancora così "ordinario" quando si notavano le zampe artigliate al posto delle mani, le orecchie dritte da gatto che facevano capolino fra i capelli e la coda ondeggiante alle sue spalle.

Cos'era, uno scherzo di Halloween in ritardo di qualche giorno?

Lo sguardo si spostò casualmente - o forse no - sulla figura di Alice: sembrava indispettita per l'interruzione, ma in qualche modo anche timorosa. La vide indietreggiare e, dopo pochi passi, letteralmente sparire, divenendo sempre più trasparente come un ricordo che sbiadisce pian piano perdendo lentamente i particolari fino a dissolversi del tutto.

Stava per dire qualcosa, ma una delle due mani che lo tenevano per le spalle glielo impedì, poggiandosi sulla sua bocca: «Shhht.» gli sussurrò una voce direttamente all'orecchio verso la quale si voltò, sorprendendosi di riscoprire Aedan alle sue spalle.

Chi invece aveva fermato Cheshire avanzava ora dal lato opposto a quello verso cui si era voltato Oz, oltrepassando lui ed Aedan e rivolgendosi al felino con lo stesso tono con il quale lo aveva interrotto.

«Qui qualcuno non segue le regole, e questo mi rammarica.» osservò e, quando fu visibile anche per Oz, lui vi riconobbe Sirjan.

Un Sirjan diverso da quello autoritario ma cortese sempre incrociato e, persino, diverso da quello che lo aveva duramente giudicato in mensa parlando dell'aggressione di Vincent e dell'incredulità dello stesso Oz.

Lo sguardo che stava rivolgendo a Cheshire non conosceva nemmeno una sfumatura di cortese educazione: lo osservava come se fosse l'essere più disgustoso su cui avesse posato gli occhi.

E, al tempo stesso, con l'arrogante superiorità di chi sa di essere intoccabile.

Cheshire, sulla difensiva e soffiando - non fosse stato per la situazione, le analogie sempre più marcate con un vero gatto sarebbero apparse buffe - ricambiò quell'occhiata con astio: «Quello non dovrebbe essere qui. Cheshire protegge Alice e quello schifo lì non deve avvicinarsi! Questi sono i patti, Cheshire li ricorda ma gli esseri umani lo dimenticano!» ribatté aspramente, le parole di disprezzo rivolte ad Oz.

Forse avrebbe proseguito, così come probabilmente Oz avrebbe dovuto sentirsi ferito o almeno offeso da quegli insulti. Tuttavia, entrambi furono interrotti dal tono di Sirjan, non meno gelido e carico di disgusto come poco prima lo erano state le sue parole e i suoi sguardi.

«Se tu sei ancora in questa scuola è perché ti è stato permesso. Non è un tuo diritto, è la pietà altrui che te lo consente. Non sei nella posizione più adatta a dettare condizioni ed esprimerti in quei termini.» esordì, ma non sembrò avesse finito lì.

Un passo verso Cheshire, prima di riprendere: «Tu, che non sei umano, non dovresti nemmeno camminare sul suolo dove siamo noi eppure ti è concesso. I patti? Parli di patti e tu per primo non ne rispetti. Ma forse, ho preteso troppo: un animale non può ragionare al pari di un essere umano.» commentò tagliente e impietoso.

Cheshire mosse un passo indietro, ancor più istintivo di un umano com’era naturale che fosse. Oz lo vide aprire bocca per parlare, ma la voce di Sirjan lo interruppe: non si alzò di tono, ma fu come se avesse urlato.

«Non osare ribattere.» gli sibilò contro, gli occhi ridotti a due fessure che lo osservavano dall’alto in basso.

Un altro passo verso Cheshire: «Sono stanco, capisci? Ne abbiamo abbastanza dei vostri capricci e non sono disposto a tollerare altri disordini in questo posto. Restate al vostro posto e noi staremo al nostro. Non voglio che altri studenti vengano feriti, toccati o che semplicemente vi vedano. Soprattutto tu, che mi sembri soggetto ad un atteggiamento impulsivo e decisamente poco consono. Mi sono spiegato, o hai bisogno che io lo ripeta, Cheshire?» chiese, osservandolo eloquente.

Oz vide l’interpellato appiattirsi contro la porta, fino ad attraversarla come solo un fantasma avrebbe potuto, sparendo quindi alla loro vista.

La mano di Aedan ancora a coprire la sua bocca, Oz mugugnò appena per indurlo a toglierla; ma Aedan guardava alternativamente Sirjan e la porta.

Quest’ultimo fissava il punto in cui era sparito Cheshire; solo cercando il capo dormitorio con lo sguardo lo notò: le labbra, strette in un’espressione ostile, erano ora incurvate leggermente.

C’era sarcasmo, in quell’espressione e al tempo stesso un disgusto persino maggiore di quello rivolto al felino.

Voltò le spalle alla porta, senza guardare Oz né Aedan, a cui rivolse un semplice gesto dopo il quale il moro allontanò finalmente la mano dalle labbra del più piccolo, aiutandolo a tirarsi su.

Sirjan sorpassò di nuovo entrambi, fermandosi pochi passi più avanti: non si voltò, ma parlò dando le spalle alla porta.

«Cheshire, riferisci un messaggio da parte mia.» esordì e non sembrava una richiesta quanto un ordine: «La prossima volta che uno studente di Latowidge verrà sfiorato al di fuori di quella vostra stanza, farò sparire quella porta.» assicurò.

Solo allora si voltò, ma il tanto che bastava a guardare la porta da sopra la propria spalla: «E ovviamente, porta i miei cordiali saluti al signor Baskerville.» concluse, allontanandosi senza più guardarsi indietro.

 

 

Note

In primis: la frase in corsivo in apertura è del manga Full moon wo sagashite di Arina Tanemura.

 

Detto ciò, sono schifosamente in ritardo ma avevo avvisato, vero? *-*” *come se fosse una giustificazione*

Lo so, lo so. Alcuni di voi si sono persi a dare di stomaco in un apposito sacchetto: perché sì, ho la consapevolezza che sono una delle poche (…o l’unica?) amante della RufusBreak. Ma non ho resistito ç_ç” *li adora*

Per il resto, beh, spero che il capitolo sia di vostro gradimento (e ci ho messo di più, ma è più lungo: mi perdonate? XD) e di aver mantenuto una parvenza di IC *fissata*

 

 

LitaChan: eh, ho sofferto a farli morti ma mi si ricollegava a tutto il resto ç_ç *indica matassa della trama alla sua sinistra* sono contenta comunque che sia risultato ben giostrato all’interno di quanto rivelato finora <3 E Jack fratello di Oz è uno dei miei sogni proibiti su PH, ergo era doveroso XD

Per i tuoi dubbi su Glen e Elliot, ahimé, devo farti attendere ancora un po’, ma l’intento è far venire tutti i nodi al pettine come si suol dire quindi non disperate: presto o tardi tutto sarà rivelato u_u

 

AliceOfAbyss: come detto, per Vince aspettiamo anche se adesso almeno sapete chi lo ha aggredito XD *indica un coso con le orecchie da gatto a caso*

Ma nu, perché meglio Jack morto çwç? *muor*

Sì, viva i personaggi stupidi *w* e sono felice che ti piacciano sia Noah che Alyster <3

Ho fatto un po’ penare per questo capitolo, ma spero ti piacerà come i precedenti x3

 

Gioielle: sapevo mi avresti ucciso volentieri per aver fatto Jack già morto u.u ma, come ti ho detto, avrà comunque un suo ruolo ùwù

Non posso che ringraziarti per il giudizio su Alyster, e per quanto riguarda la scena GilOz… lieta che sia risultata sensuale *-*” *tecnicamente è casuale, ma non diciamolo*

Sì, l’idea di parallelismo tra Vincent e Jack (ovviamente per il capitolo, perché molte analogie fra loro non le trovo xD) era voluto e sono felice sia arrivato sia anche solo in minima parte x3

Il quartetto Jack-Glen-Elliot-Oz è una cosa talmente intricata che io per pianificare (che parolone…) i capitoli sto sputando sangue quindi non so proprio bene come rispondere alle vostre intuizioni. Certo è che il genere drammatica là negli avvertimenti non è casuale *_*”

 

Makotochan: non sono crudele, è Vincent che non si fa i fattacci suoi e finisce nei guai XP (ma questo lo capirete poi, forse).  Grazie anche a te per i complimenti su Alyster che, come Noah, sta piacendo più di quanto avessi immaginato o osato sperare <3

Sapevo ti sarebbero piaciute le scene col pianoforte, mentre per Oz è un parto ogni sua parola e il fatto che sia il protagonista non aiuta: ma, il giudizio è vostro, se vi piace sono contenta e cercherò di farvelo piacere fino alla fine (anche quando mente XD).

…sarebbe un miracolo: io non ho mai avuto un tratto distintivo nello stile °A° ma il complimento è graditissimo ovviamente <3

E sì, lo so che mi odi: pensa che con ‘sti sogni ne avrete ancora per un po’, quindi ricorda che mi nutro sempre volentieri del tuo odio ù_ù *baka*

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Capitolo 10
*** Arte ***


Arte

Arte

 

Ma quanto più penso ai sentimenti delle persone,

tanto più mi paralizzo,

e non riesco a muovermi.

 

 

Un silenzio irritante era caduto e continuava ad aleggiare da quando Sirjan li aveva guidati alla stanza in cui Oz era già stato altre volte, la stessa in cui il biondo si era ritrovato a chiacchierare con Alyster a quegli assurdi orari notturni in cui si incontravano.

Aedan lo aveva sorretto per un po', i muscoli dell'addome doloranti per i colpi ricevuti da Cheshire: Sirjan, di qualche passo avanti a loro, non si era mai voltato e li aveva semplicemente preceduti.

Entrando, nella stanza avevano trovato Alyster: aveva detto di essersi preoccupata, non trovando Sirjan in camera e che per questo aveva controllato se non fosse tornato lì per terminare qualche documento da consegnare il giorno dopo alla presidenza.

Dopo quello, però, non avevano più aperto bocca: Aedan, già naturalmente silenzioso, si era sistemato vicino alla finestra, guardando fuori per tutto il tempo benché non ci fosse nulla da vedere.

Oz, stanco e dolorante era stato fatto accomodare sul divano, mentre Alyster gli aveva disinfettato più che altro i punti colpiti sul viso.

Sirjan, infine, si era seduto dietro la scrivania e non aveva proferito parola.

Erano quindi in quella situazione di stallo da abbastanza tempo ormai perché il cielo iniziasse a schiarirsi, fuori, lasciando pian piano sopraggiungere l'alba.

Oz stava per alzarsi deciso ad andarsene - stanco abbastanza da convincersi di poter rischiare di addormentarsi anche in piedi e contro una colonna dell'atrio della scuola - quando Sirjan si sistemò sulla sedia attirando la sua attenzione.

Assunse un'aria pensierosa, l'indice che sfiorava il labbro inferiore per abitudine: «Aedan.» chiamò, lo sguardo dorato che si spostava sulla figura del moro che distoglieva in quel momento, per la prima volta, l'attenzione dall'esterno.

«Torna pure alla tua stanza in dormitorio. Io e Alyster penseremo ad eventuali provvedimenti per la sicurezza e te lo faremo sapere.» assicurò, concedendosi solo dopo l'annuire di Aedan di incurvare le labbra in sorriso lieve ma cortese: «Scusami per averti tenuto in piedi finora, e scusami con il tuo compagno di stanza per tutto il lavoro che ti affido.» aggiunse e Oz fu quasi stupito di quanto palese fosse stato il cambiamento d'espressione, considerando l'umore che sembrava essere pessimo da quando lo aveva sentito rivolgersi a Cheshire.

Semplicemente, lo sguardo e il tono gelido di prima che avevano reso Sirjan un'altra persona, sembravano completamente scomparsi in favore della solita espressione cortese anche se distante.

Aedan si limitò ad annuire una seconda volta, prima di uscire dalla stanza.

Quando ebbe richiuso la porta alle proprie spalle, Sirjan portò lo sguardo su Oz che avvertì su di sé anche l'occhiata di Alyster, sebbene più discreta. Il più grande sospirò appena, stancamente: «Preferirei di gran lunga rimandare le spiegazioni a domani, trattandosi di un discorso complesso e vista l'ora e la stanchezza. Tuttavia, ho idea che non ne saresti contento.» osservò, rimanendo in silenzio e in attesa di una conferma da parte di Oz.

Il biondo abbassò per un attimo lo sguardo, le mani che stringevano appena il tessuto dei pantaloni. Quando rialzò gli occhi verdi, fu per portarli al proprio fianco, cogliendo la mano di Alyster sfiorargli con gentilezza la spalla. Incrociò lo sguardo della ragazza, notando che gli stava sorridendo seppur lievemente: «Puoi chiedere, ti diremo tutto quello che possiamo dirti.»

«Che, in ogni caso, significa che non possiamo rivelarti tutto.» fece subito eco Sirjan.

Alyster portò lo sguardo su di lui, l'espressione tra il preoccupato e il dispiaciuto: «Ma fratello...» tentò, interrotta dal gemello.

«Ci sono cose che nemmeno noi conosciamo di Oz Bezarius.» disse Sirjan, lo sguardo che dalla sorella si spostava sul biondo: «E ci sono cose che lui non può sapere di noi.» decretò, alzandosi e avvicinandosi alla poltrona di fronte a quella su cui sedeva Oz.

Una volta preso posto lì, focalizzò la sua attenzione proprio sul biondo: «Questo non ti vieta di fare domande. Dico soltanto che ad alcune sarò costretto a rispondere in maniera vaga, o che ad altre non potrò affatto fornirti una spiegazione.» concluse, tacendo e lasciando il tempo ad Oz di pensare.

Quest'ultimo tacque a sua volta, ma non parve ragionarci troppo su in realtà: di domande ne aveva, non aveva bisogno di formularne ora.

«Quel tipo, quello con le orecchie da gatto... non è umano, giusto? E allora cos'è?» chiese per iniziare, puntando le iridi chiare in quelle di Sirjan, deciso ad ottenere finalmente delle spiegazioni - sperando di fare le domande giuste.

Notò lo sguardo di Sirjan indurirsi appena, o così parve: sembrava davvero che quel tipo, chiunque fosse, non gli andasse a genio.

«Quello è Cheshire.» esordì, pronunciandone il nome, il tono di voce che malgrado la palese antipatia per il felino manteneva un'inaspettata inclinazione neutra: «Credo che la spiegazione più semplice su cosa sia preveda come risposta "spirito".» aggiunse, Oz che era in parte sorpreso e in parte no; che Cheshire non fosse umano era stato piuttosto chiaro dall'aspetto fin dall'inizio.

Sirjan riprese: «Ci sono spiriti e spiriti, ma credo che affrontare questa spiegazione alle cinque del mattino, dopo una notte insonne e un'esperienza come la tua non sarebbe né utile, né salutare. Dunque, a meno che non sia un punto focale per le spiegazioni che vuoi, eviterei di approfondire.» spiegò.

Oz tacque, lasciando cadere il silenzio tra loro. Alyster non aveva aperto bocca se non all’inizio e Sirjan sembrava per una volta davvero intenzionato a rimanere a sua completa disposizione. Il biondo sospirò appena, alzando nuovamente lo sguardo su Sirjan: «Perché ce l’ha con noi di Latowidge?» domandò, serio.

Sirjan sospirò a sua volta, ed Oz ebbe la sensazione di aver fatto una domanda scomoda; tuttavia, l’altro rispose ugualmente: «Non è una questione di studenti della scuola, in realtà. O almeno, non reputo Cheshire qualcuno che apprezzo particolarmente, ma devo dargli atto del fatto che non è mai stato violento finora.» premesse.

Oz, per ovvi motivi, faticava a crederlo: «Il problema» riprese Sirjan «credo sia nella singola persona. Tu, per essere completamente sinceri.» ammise.

Oz assunse un’aria sorpresa: «Ma non lo avevo mai incontrato prima!» obiettò.

Sirjan lo osservò qualche istante in silenzio, per poi portare lo sguardo verso la finestra: «Non è esattamente di quel che hai fatto a Cheshire che dovresti preoccuparti.» consigliò.

«Ma ti dico che non gli ho fatto niente!»

«Appunto.» confermò Sirjan, spiazzando il più giovane: «Quello che cerco di dirti è che Cheshire è solo un custode. Probabile, pertanto, che in quanto tale esegua ordini più che prendere iniziative proprie.» osservò in quello che, a giudicare dall’espressione stupita di Alyster in quel momento, era un pensiero involontariamente espresso ad alta voce che normalmente Sirjan avrebbe tenuto per sé.

«E questa persona chi è?» domandò – prevedibilmente – Oz.

Sirjan alzò lo sguardo su di lui: «Non posso dirtelo.» replicò, ed Oz parve risvegliarsi a quella risposta che non ammetteva repliche. Per un attimo, gli era passato di mente l’ammonimento iniziale di Sirjan e aveva di conseguenza dimenticato che c’erano domande alle quali il capo dormitorio non avrebbe risposto.

Rimase in silenzio, di nuovo: con ogni probabilità, Sirjan non avrebbe risposto nemmeno se avesse domandato a cosa o chi Cheshire faceva da custode.

Optò quindi per un’altra richiesta: «Quella ragazza… non era Alice, vero?» chiese, lo sguardo non più su Sirjan che, invece, aveva portato gli occhi dorati quasi a studiarlo.

«No, non era Alice Lewis.» replicò, Oz che si rilassava impercettibilmente senza rendersene conto lui stesso. Almeno fino a quando non si rese conto di cosa la risposta potesse effettivamente significare.

Se Cheshire era uno spirito, era probabile che anche quella ragazza così simile ad Alice lo fosse; inoltre, non aveva negato nemmeno di chiamarsi proprio “Alice”, e lo aveva definito addirittura un nome nostalgico.

«Quella ragazza cos’è?» domandò quindi, trattenendo impercettibilmente il respiro: se Sirjan avesse risposto con “spirito” a quella domanda, avrebbe significato che Alice – che fosse o meno il suo nome non era importante ora – doveva necessariamente essere morta.

«Non posso risponderti.»

«Perché no?!» sbottò Oz, alzandosi in piedi istintivamente e senza preavviso; Alyster gli posò gentilmente una mano sul braccio, guidandolo a sedersi di nuovo: «La signorina Lewis sta bene.» assicurò «E la sua salute non dipende dalla ragazza che hai incontrato.» lo rassicurò, intuendone la preoccupazione.

Oz si sedette nuovamente, calmandosi e sentendosi in un certo senso a disagio: non capiva come ci riuscisse, ma Alyster sembrava leggere con facilità ogni sua espressione.

Al di là di un suo probabile – ed ormai innegabile – intuito, però, Oz temeva che fosse dovuta anche al fatto che con lei si ritrovava ad abbassare inevitabilmente la guardia.

Scacciò quel pensiero, concentrandosi nuovamente su Sirjan, scoprendo che sembrava non aver mai distolto lo sguardo da lui.

«Hai altre domande?» chiese il più grande, ancora tranquillo; Oz ci pensò su, come se trovare domande che il capo dormitorio non potesse eludere fosse divenuta una vera e propria sfida.

Parve trovarla, o almeno essere convinto di averlo fatto: «Prima hai detto a Cheshire che non volevi più sentire di studenti che avevano avuto a che fare con lui… a chi è successo?» chiese, osservandolo deciso ad ottenere una risposta, non importava quanto vaga sarebbe stata.

Meglio del silenzio, comunque.

Non gli sfuggì l’occhiata che Sirjan rivolse ad Alyster prima di rispondere, ma si impose di mantenere l’attenzione sull’altro: «Non hai saputo tu stesso di un’aggressione avvenuta ultimamente?» fu la semplice ed incalzante risposta che gli fornì.

Oz per un attimo fu spaesato da quelle parole che non si era aspettato; poi, fu colto da un collegamento improvviso che, una volta formulato gli parve così ovvio da sentirsi uno stupido a non averci pensato da solo.

«Vincent?!» esclamò incredulo, notando Sirjan annuire. Ancora sorpreso Oz parve riflettere quasi febbrilmente: «Ma tu mi avevi detto che c’entrava Glen Baskerville.» gli fece presente.

Il silenzio cadde nella stanza, come se Sirjan stesse cercando le parole più adatte per fare chiarezza su quel punto; contrariamente a quanto Oz si aspettava, però, non fu la voce di Sirjan a riempire il silenzio della stanza. Al contrario, furono gli inattesi rintocchi del pendolo all’angolo, al primo dei quali Oz sobbalzò appena, non aspettandoselo.

Sirjan sospirò, portandosi una mano a massaggiare le tempie; si rivolse quindi al biondo: «E’ una questione lunga ed estremamente delicata» esordì «che non è il momento di affrontare ancora. Men che meno alle sei del mattino, dopo una notte come quella passata.» spiegò, il tono pacato ma palesemente stanco.

«Oltretutto» riprese «non ho l’autorità per decidere se dirtelo o meno.» ammise, rivolgendo di nuovo un’occhiata alla sorella. Questa volta ad Oz venne spontaneo girarsi a guardarla, ma non vide altro che il solito sorriso gentile che la ragazza gli aveva rivolto dal primo istante in cui si erano visti: «Sirjan ha ragione. Abbiamo tutti bisogno di riposare.» consigliò con dolcezza.

Oz annuì – era così familiare la sensazione che provava nei confronti di Alyster, da non riuscire a fare a meno di fidarsi di lei – riportando l’attenzione su Sirjan quando questi parlò.

«La prima volta che te l’ho accennato, l’avevo detto nella prospettiva con cui si dà un consiglio.» iniziò, l’espressione seria: «Te lo dico nuovamente, come un ammonimento stavolta.» chiarì, alzandosi ed avvicinandosi alla scrivania e poggiandosi al bordo.

Portò lo sguardo su Oz: «Stai lontano da quell’area della scuola, Oz Bezarius.» pronunciò. Oz, alzatosi a sua volta per avviarsi alla porta, abbassò istintivamente lo sguardo pur annuendo.

Aprì l'uscio, oltrepassandone la soglia e facendo per richiuderselo alle spalle, quando sentì qualcosa tenerlo aperto. Voltandosi, notò che Sirjan teneva la maniglia dall’altra parte, tirando leggermente verso di sé.

Oz lo guardò interrogativamente senza capire, lasciando la maniglia dal proprio lato; Sirjan, dall’altro, la socchiuse di poco: «Volevo solo consigliarti di farti una bella dormita e di riprendere le lezioni dopodomani. Buonanotte.» disse, Oz che sorrise appena augurandogli la buonanotte a sua volta.

Si stava voltando per andarsene, quando la voce di Sirjan lo raggiunse di nuovo: «Ah, signor Bezarius» disse «se mi costringerà a farle di nuovo presente quel divieto, la prossima volta il mio sarà un ordine.»

 

 

Dire che lo spostamento dalla stanza in cui aveva parlato con i fratelli Kolstoj al dormitorio era avvenuto per pura forza di inerzia sarebbe stato dire poco. Inspiegabilmente, aveva sentito la stanchezza arrivare tutta insieme e aveva tirato un sospiro di sollievo quando – il sole appena sorto – aveva messo finalmente piede in camera.

Aveva aperto e richiuso la porta piano, in modo da non svegliare Noah – era ancora presto, ancora più se si considerava il personalissimo fuso orario dell’altro.

Date queste considerazioni, quindi, non poté non stupirsi di trovare il diretto interessato sveglio e seduto alla scrivania.

In divisa.

Con un libro e l’aria di uno che sta studiando.

Il primo pensiero fu di avere le allucinazioni, e il secondo di aver dimenticato un compito in classe fissato per quel giorno – unico motivo di disperazione che poteva indurre Noah a studiare a quell’ora.

Per la terza ipotesi era troppo stanco, quindi rinunciò a formularla.

Avanzò fino a raggiungere il letto, sedendovi e godendosi una leggera ed iniziale sensazione di benessere nella zona degli arti inferiori. Si voltò quindi ad osservare Noah di spalle: «Noah, sei sveglio?» chiese, il dubbio lecito; Noah dormiva ovunque e nelle posizioni più astruse.

«Sì che sono sveglio.» replicò, il tono abbastanza reattivo. Oz si tolse le ciabatte con le quali aveva vagato per tutta la notte: «Sono le sei.» osservò, ancora perplesso.

«Lo so, ho l’orologio sulla scrivania.» disse l’altro senza muoversi più di tanto dalla propria posizione.

Oz abbozzò un sorrisetto dei suoi – forse, complice la stanchezza, se Noah si fosse voltato avrebbe riconosciuto senza sforzo una sfumatura incerta in quell’incurvarsi di labbra.

Nel mentre, spostandosi sul letto, Oz raggiunse il comodino sul quale depositò l’orologio da taschino: «Come mai studi a quest’ora?» chiese, riuscendo ad imprimere una nota divertita nel tono. Vide le spalle di Noah alzarsi e abbassarsi appena più lentamente e dedusse che si fosse trattato di un sospiro: «Perché alle quattro e mezza di notte ho rinunciato a cercare di addormentarmi.» replicò, chiudendo il libro e sostituendolo ad un quaderno.

Oz inclinò appena la testa di lato, senza capire: era chiaro comunque che Noah avesse notato la sua assenza, se era sveglio da tanto. Vedendolo rimanere ancora di spalle, Oz immaginò che stesse leggendo appunti sul quaderno: si tolse quindi la felpa, deciso a saltare le lezioni in favore di una bella dormita.

Si stava infilando sotto le coperte quando il compagno si rivolse a lui, senza guardarlo: «Reo Nightray aveva qualcosaa di così improrogabile da dire di non poter aspettare di vederti oggi a mensa?» chiese, il tono poco curioso - e per questo così poco da Noah.

Oz sbatté un paio di volte le palpebre, sorpreso dalla domanda: «Scusa, ti abbiamo svegliato?» chiese, senza rispondere a quella che gli era sembrata una domanda piuttosto retorica.

Solo allora Noah si voltò, rivelando un'espressione fredda che non gli si addiceva affatto: «Sì.» disse semplicemente, come se ormai non gli importasse comunque. Oz, al contrario, ne fu dispiaciuto: non voleva che il suo continuo uscire di notte creasse problemi a Noah.

«Scusami.» esordì dunque, sorridendogli: «Non mi ero accorto di fare tanta confusione. Ci starò più attento.» promise, e se aveva voglia di aggiungere qualcos'altro non gli fu possibile.

«Io ci ho pensato.» se ne uscì Noah «Mi sono davvero impegnato a capire che bisogno hai di uscire quasi ogni notte e perché i Nightray sembrano essere diventati la tua ossessione.» spiegò, fissandolo. Oz sgranò gli occhi, incredulo.

Non solo Noah non era mai stato tipo da fare domande riguardo quello che faceva, ma non era mai sembrato così... infastidito.

«I Nightray non sono la mia ossessione.» rimbeccò, in qualche modo scosso dall'atteggiamento del compagno di stanza. Noah, per contro, gli rivolse un'occhiata che sembrava sottolineare la completa assenza di fiducia in quelle parole, consci entrambi del fatto che non si trattava della verità.

«Esci la notte per spiare Elliot Nightray. Direi che posso permettermi di chiamarla ossessione. Quando sei a pranzo con noi, spesso finiamo a parlare di Vincent. Hai persino discusso con Alice per questo. Se mi sbaglio, smentiscimi.» lo sfidò senza scostare lo sguardo dal biondo, sempre più confuso.

Qual'era il punto della questione? Cosa voleva che dicesse, Noah?

«Io... ho solo bisogno di sapere una cosa da Elliot Nightray, tutto qui. E con Vincent ho parlato solo qualche volta.» obiettò Oz sulla difensiva.

Noah tacque qualche istante, quasi studiandolo: «E devi chiederglielo di notte.» sottolineò, palesemente ironico. Oz colse quella sfumatura e si accigliò: «Che problema c'è, si può sapere?» tagliò corto.

Notò - ne fu certo - che Noah si era accigliato a sua volta e che quello sguardo distaccato così inadatto a lui aveva vacillato per un istante: «Il problema è che non capisco se ti stai impegnando a diventare un animale notturno o se ti comporti da stupido rischiando di ficcarti nei guai e collassare di nuovo nel corridoio per un motivo che non sia il masochismo!» sbottò, la calma innaturale ostentata fino a quel momento che sfumava velocemente dal suo viso e dal tono di voce.

«Beh, beato te, ok?» sbottò Oz di rimando: «Almeno c'è una sola cosa che non capisci ed è una cosa senza importanza!»

«Non è affatto senza importanza!»

«E comunque non sono affari tuoi, se è per quello!» aggiunse Oz.

«Come se tu fossi capace di distinguere le cose importanti degli altri. Non riconosci nemmeno le tue!» sputò fuori Noah.

Oz rimase senza parole, non sapendo davvero cosa rispondere; quella non era forse una frase pronunciata con il preciso intento di ferire o - comunque - insinuare qualcosa?

Noah scostò lo sguardo lateralmente, ma Oz non pensò minimamente ad analizzarlo per capire se il compagno di stanza avesse capito di aver esagerato o meno. Noah si morse il labbro inferiore, alzandosi poi dalla sedia.

Raccattò malamente libri e quaderni, mettendoli confusamente nella cartella e sistemandosela in spalla: «Sai cosa? Hai ragione.» se ne uscì, portando Oz a spostare lo sguardo - e l'attenzione - su di lui.

Noah, avvicinatosi alla porta, indugiò con la mano sulla maniglia: «Non sono affari miei. Tu sei Oz Bezarius, dopotutto. Sei una celebrità, no? Ti conoscevano già tutti, quindi sicuramente i Nightray o chi diavolo per loro sono molto più adatti ad essere la tua compagnia. Addirittura potranno permettersi il lusso di preoccuparsi.» osservò sarcasticamente.

Oz strinse i pugni, l'istinto impellente quanto improvviso di mollarne uno a Noah: che diamine si era messo in testa quello stupido tutto ad un tratto?!

Come conseguenza prevedibile di quelle parole e dell'assenza di una replica qualsiasi di Oz, Noah non aggiunse altro. Semplicemente interpretò il silenzio come la presa di coscienza da parte del biondo del fatto che a pensarci bene quella era la verità.

Si chiuse la porta alle spalle, senza che Oz muovesse un muscolo.

 

 

Era riuscito a prendere sonno quasi subito: non per menefreghismo ma perché probabilmente - ed era comprensibile - il suo corpo si rifiutava di rimanere sveglio a pensare ancora.

Di conseguenza, dopo l'uscita di Noah dalla stanza, Oz aveva impiegato poco a cadere in un sonno che si era rivelato profondo fin da subito.

Quando si era poi risvegliato, la sveglia sul comodino indicava le cinque del pomeriggio; non se ne stupì particolarmente, considerando le premesse con le quali aveva chiuso gli occhi.

Con tutta calma era andato al bagno, dandosi una rinfrescata e indossando abiti semplici, quasi smessi. Di quelli che usava per casa, e puntualmente rischiavano di fargli guadagnare un'occhiata di disappunto o un richiamo.

Aveva tentato di leggere, pensando che poteva non essere male recuperare le cose che aveva perso e che poteva ritrovare sul libro di testo, ma il tentativo non aveva avuto grande successo quando si era reso conto di avere la mente occupata da troppe altre cose per poter sperare che il pensiero potesse focalizzarsi anche su una qualsiasi materia.

L'idea di mangiare gli aveva sfiorato la mente, ma era effettivamente poco intelligente: se si dava malato e poi gironzolava per la scuola, qualcuno avrebbe avuto da ridire probabilmente.

Perciò si era detto che la cosa migliore da fare era aspettare la cena; come conseguenza, si ritrovava a rimuginare da almeno mezz'ora sugli avvenimenti dell'ultima notte.

Prima lo scambio con Elliot che sapeva - era così ovvio che fosse così - qualcosa a proposito della melodia dell'orologio ma che non voleva dirgliela.

Poi l'incontro con Break e la conversazione che era stata strana e spiazzante, per certi versi; le parole di Sirjan e la sua strana predisposizione a non tacergli almeno le cose che aveva il permesso - o la voglia - di dirgli.

Ed in infine il litigio con Noah - ed era bene che a tutto ciò non aggiungesse il pessimo incontro con quella presunta Alice e Cheshire, o non ne sarebbe più uscito.

E, per contro, non che rimuginare sul resto fosse molto più sensato.

I due o tre colpetti alla porta che lo distrassero certamente – non ci voleva un grosso sforzo ad intuirlo – non appartenevano a Noah, che non era nemmeno sicuro sarebbe tornato lì a dormire. Si alzò dal letto senza fretta, raggiungendo la porta con un atono “eccomi” e aprendo.

Nel riconoscere Gilbert, l’espressione imbronciata che Oz ormai classificava come quella imbarazzata o a disagio di un tempo, assunse un’aria stupita: non si era aspettato la visita e – doveva ammetterlo – pur trattandosi dell’unico membro dei Nightray che davvero conosceva, era quello con cui aveva finito con l’interagire meno per un motivo o per l’altro.

Non che si aspettasse Elliot, per carità – e qualcosa gli diceva che non aspettarsi Vincent fosse un bene.

Aprì maggiormente la porta per permettergli di entrare e quando Gilbert varcò la soglia, Oz notò che aveva un vassoio della mensa con sé; il più piccolo richiuse l’uscio, raggiungendo Gilbert prima e il letto poi, sedendo sul bordo: «Tutto bene?» domandò, facendo cenno al moro di sedersi.

Gilbert con un sospiro leggero poggiò il vassoio sul comodino replicando un: «Non dovrei chiederlo io, visto che eri tu ad essere assente?»

Oz ridacchiò appena: «Giusto. Sto bene, avevo solo bisogno di una dormita.» assicurò.

«Lo so.» ammise Gilbert «Sirjan mi ha detto che ha fatto le sei del mattino a parlare con te e Alyster.» concluse.

Oz lo osservò – non senza un minimo di stupore: pensava che Sirjan non lo avrebbe detto ad anima viva, fingendo che non ci fosse mai stata alcuna chiacchierata. Anche se era probabile che Gil non avesse la minima idea di quale fosse stato l’oggetto del discorso.

Abbozzò un sorriso leggero e mesto, senza quasi rendersene conto: «Vuoi chiedermi qualcosa, vero?» domandò con semplicità come se fosse decisamente ovvio e, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, la cosa lo lasciasse indifferente. Per contro, invece, lo irritava: sembrava come se ultimamente – o almeno nelle ultime ventiquattro ore – tutti avessero qualcosa da domandare e pretendessero delle risposte da lui che era, per assurdo, quello che ne sapeva meno di tutti.

«Sì, in effetti.» confermò Gilbert – non poteva aspettarsi nulla di diverso, no? – scoprendo il vassoio rimasto fino a quel momento celato da un panno bianco che rivelò una merenda abbondante.

«Hai fame?» fu la domanda che Gilbert gli rivolse: l’unica, alla quale seguì un lieve e gentile incurvarsi di labbra. Non poté non stupirsi, Oz, mentre ricambiava istintivamente quel sorriso con uno di sincera gratitudine.

Gil era diverso: lui – inspiegabilmente, a volte – capiva sempre e comunque in un modo che stupiva Oz ancora a distanza di anni, e che faceva venir voglia di comunicare un “grazie” anche senza bisogno di pronunciarlo.

Annuì, quindi: «Sì, un sacco.» ammise il biondo e, quasi a confermarlo, il brontolio dello stomaco arrivò puntuale; Gilbert sorrise più ampiamente, una sfumatura divertita mentre passava il piatto con qualche sandwich ad Oz.

Il biondo lo prese dopo essersi sistemato meglio e lo poggiò sulle proprie gambe: afferrò quindi uno dei panini e lo addentò, affamato.

«…che nostalgia.» mormorò senza un apparente senso logico; Gilbert lo osservò infatti confuso, senza capire. Oz parve accorgersene, mentre mandava giù il boccone: «Era tanto che non succedeva. Tu che mi porti il vassoio con la merenda, intendo. È un po’ nostalgico pensare a quando eri a casa.» ammise, chiarendo anche la propria precedente affermazione.

Gilbert si prese qualche attimo, forse per studiare il minore o per ponderare una risposta esatta – se c’era. Infine sospirò appena, impercettibilmente quasi: «Ti manca Jack?» chiese a bruciapelo, leggendo fra le righe; non per ferire, ma perché sapeva bene che dare ad Oz la possibilità di mentire era stupido. Con una domanda secca, era più facile che l’erede dei Bezarius si arrendesse a parlare altrettanto chiaramente.

Da parte sua, a quella domanda inaspettata Oz aveva sussultato leggermente, senza portare inizialmente lo sguardo su Gilbert; cosa che poi fece, l’espressione imbronciata e quasi offesa: «Io stavo dicendo che ho nostalgia di te.» puntualizzò, come se Gilbert avesse peccato di disattenzione.

Il più grande lo osservò – un lievissimo rossore, perché era pur sempre Gil: «E del periodo in cui c’ero io.» fece notare; quando era ancora a casa Bezarius, Jack era vivo. E per quanto ricordasse, era già stato adottato dai Nightray quando Jack aveva iniziato ad ammalarsi o a stare così male da essere costretto al letto.

Oz portò il sandwich tenuto fermo a mezz’aria sul piatto: «Sì.» mormorò «Ora possiamo cambiare discorso? Per favore, Gil.» aggiunse, l’espressione concentrata sui panini. Gilbert tacque, portando poi una mano a raggiungere il piatto allontanandolo dal biondo e riponendolo sul vassoio sotto lo sguardo perplesso di Oz.

Quindi, sebbene un po’ titubante si sdraiò sul letto orizzontalmente, le gambe piegate e i piedi che toccavano comodamente terra. Infine, lo sguardo che puntava ostinatamente il soffitto, prese la mano del minore intrecciando appena le proprie dita con le sue. Allo sguardo sorpreso di Oz, rispose con un burbero: «Era così, no? Che facevamo una volta.» borbottò.

Capì a cosa si riferiva, e sorrise ampiamente imitandolo e stendendosi al suo fianco: come quando il Gilbert fifone di una volta si spaventava e capitava che dormissero insieme; era stato un gioco da bambini e una bugia a fin di bene dire a Gilbert che quel semplice contatto bastava perché andasse tutto bene, e non ci fosse nulla di cui aver paura.

Che bastava così poco a dare molto più coraggio di quanto non si possedesse nella realtà.

Di certo non risolveva i problemi, ora quanto in passato, ma… non era così male.

«Vincent sta bene ora?» domandò Oz, piegando il viso lateralmente per guardarlo; Gilbert rimase con lo sguardo puntato verso il soffitto – probabilmente ancora imbarazzato – e annuì: «Sta bene, oggi è tornato a lezione, ma se l’è presa più comoda di quanto davvero servisse.» assicurò, nel tono una nota di rimprovero tipica di un fratello maggiore che fece sorridere Oz.

Un sorriso che si spense, lasciando spazio ad un'espressione più seria prima che chiedesse: «Gil, tu cosa ricordi di Glen Baskerville?»

Gilbert portò lo sguardo stupito su Oz, non aspettandosi la domanda; parve pensarci su, ma Oz non avrebbe saputo dire se l'altro stesse riordinando le idee o se stesse valutando se rispondere o meno.

«Non ricordo granché, per la verità. So di... averlo incontrato quando ero ancora al servizio dei Bezarius. Ricordo che... c'era anche Vincent, o almeno mi sembra. Ma è tutto confuso. Se mi sforzo, per assurdo ricordo anche meno.» pronunciò, una nota infastidita per quella situazione scomoda. Oz si sentì colpevole: ricordava che Gilbert aveva avuto un'amnesia - non conosceva i particolari, sapeva solo che era stata la conseguenza di un incidente - ma egoisticamente quando era bambino per lui si era risolto tutto nel sapere che il moro si ricordava ancora di lui.

Tuttavia, non aveva mai pensato al fatto che ci fossero ricordi che Gilbert poteva non aver ancora recuperato.

«Comunque» riprese Gilbert distogliendolo dal suo flusso di pensieri: «vediamo se quel poco che ricordo può esserti utile.» aggiunse, con quella gentilezza tipica di lui.

Oz tacque, soppesando la cosa: non poteva davvero fargli domande troppo dirette, come "sai che  sembra Glen abbia preso il vizio di aggredire studenti servendosi di un gatto umano?".

«Glen era... un compositore famoso?» domandò invece. Almeno poteva avere una certezza riguardo le poche spiegazioni che Elliot si era degnato di fornirgli.

Glbert lo guardò perplesso, ma non fece domanda: «No. Non si occupava di musica, al di fuori della sua formazione da ragazzo, credo. Se ha composto qualcosa, probabilmente fu per passatempo personale, ma non per lavoro.» replicò.

Oz tacque, stringendo inconsciamente la mano di Gilbert che ancora teneva nella propria; quali risposte erano bugie e quali verità?

 

 

Si stiracchiò, allungando le braccia verso l'alto e alzandosi per sgranchirsi un po' le gambe: «L'esecuzione è migliorata.» commentò Reo, mentre Elliot spostava lo sguardo dal pianoforte a lui, l'espressione pensierosa.

«Sì, ma non è ancora perfetta.» rimbeccò il castano, puntiglioso. Reo sorrise divertito, senza darsi troppo la pena di passare inosservato all'altro; e, da parte sua, Elliot lo notò senza sforzo assumendo un'aria seccata - che Reo interpretava a modo suo, senza prenderla come il monito che probabilmente avrebbe dovuto scorgervi.

«Che c'è di così divertente?» chiese infatti Elliot, il tono fra lo spazientito e il burbero. Reo scosse la testa: «Notavo che ricerchi la perfezione in maniera piuttosto determinata.» affermò. Elliot sbuffò appena, portando lo sguardo sul pianoforte: «La musica è perfezione.» commentò - una di quelle cose profonde che, visto il carattere un po' rozzo del ragazzo, non ti saresti aspettato.

«Capisco. Tutto lo sforzo per la perfezione nella musica va a discapito del buon carattere.» osservò Reo con fare interessato e con naturalezza - come se non avesse sottolineato che Elliot lasciava a desiderare dal punto di vista del modo di porsi.

«Eh?!» protestò infatti il castano: «E' così che dovrebbe parlare un servitore al suo padrone?!» ribatté, fissandolo indignato.

Reo ricambiò lo sguardo, pacato: «Capisco. Sono un fallimento e preferisci che qualcuno al mio posto si occupi di tutto assecondandoti. Ti auguro buona fort–»

«Va bene, va bene, scusa!» lo interruppe Elliot - era sempre così con Reo.

«Ci sono cose che davvero non cambiano mai.» sentirono commentare, voltandosi verso l'ingresso ed incrociando con lo sguardo la figura di Alyster avanzare verso di loro, le mani che con gesti fluidi e meccanici guidavano la sedia a rottelle dove sedeva.

Reo le sorrise, chinando appena il capo in sua direzione, mentre Elliot la osservò per un attimo sorpreso: «E' raro vederti qui se non per le ronde.» commentò. Alyster sorrise: «Non è male esercitarsi di tanto in tanto anche nelle aule come questa, giusto?» replicò pacatamente.

Elliot tacque, osservandola come se sapesse che c'era qualcos'altro che la ragazza avrebbe voluto dire. Alyster tuttavia si dirigeva semplicemente al pianoforte vicino al quale stava ancora il castano: quando la ragazza raggiunse lo strumento allungò la mano a sfiorare i tasti bianchi delicatamente, pur senza esercitare su di essi abbastanza pressione perché emettessero qualche suono.

Elliot sospirò, accomodandosi al suo fianco sedendo sull'apposito sgabello, senza dare spiegazioni; e, malgrado ciò, Alyster parve capire lo stesso a giudicare dal sorriso dolce che gli rivolse.

«E' un po' che non suoniamo a quattro mani, non è vero?» chiese, nel tono una nota nostalgica.

Elliot mantenne lo sguardo sui tasti , pur avendo colto perfettamente le sue parole: «Incrociarti da sola, qui e con del tempo a disposizione è diventato praticamente impossibile da quando sei capo dormitorio del settore femminile.» le fece presente, ma aveva più il tono di una constatazione che non di un rimprovero.

E, d'altra parte, lei non parve prendersela; spinse un tasto bianco, lasciando che il suono emesso vibrasse nell'aria: «E' vero.» disse quando il Sol suonato venne inglobato totalmente dal silenzio.

Suonò un altro paio di tasti, senza dare comunque l'attacco di un brano vero e proprio.

Se Elliot era stato confuso dalla cosa, non fece in tempo a chiedere che la ragazza stessa gli fornì la spiegazione che probabilmente cercava: «Mi sono sorpresa quando ho trovato la prima volta il signor Bezarius ad osservarti a quell'ora notturna.» ammise, il tono era inconfutabilmente divertito.

Reo pareva condividere quello stato d'animo, al contrario del castano: «Perché mai gli hai permesso di rimanere?» chiese, palesemente infastidito.

Alyster abbandonò lo strumento con lo sguardo per poterlo portare sul ragazzo: «La prima volta ci avevo pensato. Ma converrai con me che la cosa era interessante: nessuno gira per la scuola a quell'ora, e non davanti all'aula di musica. Anche ammesso che fosse stato attirato qui dalla musica, doveva essere sveglio già da prima. E certamente non faceva una passeggiata di piacere: quando si soffre d'insonnia, penso si rimanga comunque nella propria stanza nella speranza di dormire prima o poi, non credi?» concluse quella lunga spiegazione.

Elliot, tuttavia, non pareva granché convinto e con un gesto a metà tra la stizza e lo scetticismo la esortò a continuare.

«Ho deciso di aspettare. Se si fosse trattato di un caso isolato, era inutile metterlo sotto pressione con l'ipotesi di una punizione. Poi, però, ho notato che continuava a venire: mi ha colpita, tanta dedizione. Specie considerando gli orari a cui solitamente suoni, e specie se consideriamo che non ti aveva mai parlato e che la maggior parte delle volte il giorno dopo era presente nonostante la sicura mancanza di sonno.» concluse.

Sorrise, fissandolo ancor più divertita: «Potremmo anche dire che l'ho trovato affascinante. Dovresti essere felice come musicista, di avere una persona che perde il sonno pur di sentirti suonare, no?» aggiunse.

Elliot scostò lo sguardo, imbarazzato probabilmente da quella evenienza a cui non aveva affatto pensato, lasciandosi prendere troppo la mano dalla sua antipatia verso il casato Bezarius.

Alyster ridacchiò e, sebbene attento a non farsi notare per evitare inutili discussioni, Reo le fece eco. La ragazza suonò una nota, senza proseguire, quasi avesse toccato un tasto affidandosi alla pura casualità: «Pensai che forse, Oz Bezarius aveva tentato di riaddormentarsi. Ma che qualcosa, che aveva a che fare con te o con la tua musica, lo avesse tormentato al punto tale da farlo arrivare fin qui solo per ascoltarti, o forse anche per parlare.» spiegò, anche se Elliot non aveva effettivamente chiesto nulla.

«Quando l’ho visto la prima volta lì, davanti alla porta socchiusa… sembrava un ragazzino terrorizzato, sai? Forse lo metti in soggezione. Anche se quello che vorrebbe sapere da te gli sta molto a cuore.» concluse, criptica.

Reo aveva prestato particolare attenzione alle sue ultime parole e lo stesso Elliot non aveva potuto farne a meno, sebbene sorpreso: Oz Bezarius gli era sembrato nulla più che un ragazzino probabilmente viziato e comunque parecchio saccente. Il tipo di persona che – casato a parte – non sopportava e basta.

Non riusciva proprio a pensarlo come qualcuno che potesse trovarsi in soggezione in presenza di un’altra persona, anzi.

Spostò lo sguardo sul pianoforte: «E cosa dovrebbe stargli così a cuore di una melodia che suono al pianoforte?» borbottò, ancora non del tutto convinto.

Alyster, tuttavia, pareva già soddisfatta da quella semplice reazione: «Forse nulla. Ma potrebbe stargli a cuore una melodia che suona in un carillon della sua famiglia, e che sente suonare da un completo estraneo.» concluse.

Elliot la osservò stupefatto, ma Alyster aveva già iniziato a suonare.

 

 

 

Scostò lo sguardo dalla finestra, una sfumatura seccata quasi impercettibile nello sguardo.

Portò gli occhi scuri a studiare la stanza, come se non fosse costantemente rinchiuso lì dentro; non impiegò molto ad individuare la figura di Cheshire, che in un angolo buio – come al solito – restava indipendente e per i fatti suoi. Doveva ammettere che dare nell’occhio come il felino aveva fatto non era una cosa che gli andasse a genio, né tanto meno era il suo modo di agire solito.

Tuttavia, doveva anche considerare che – in qualche modo – l’approccio di Cheshire, per quanto privo di discrezione, sicuramente aveva fatto sì che almeno per un po’ al giovane dei Bezarius passasse la fantasia di avvicinarsi a quel luogo.

Accavallò le gambe, voltandosi completamente verso di lui: l’altro parve notarlo senza sforzo e lo scrutò, guardingo.

«Non ascolti più?» lo interrogò il felino, sulla difensiva. Glen mantenne un’aria piuttosto apatica, senza spostare lo sguardo nuovamente fuori dalla finestra, in direzione dell’ala dell’edificio dove sapeva essere l’aula con gli strumenti musicali.

«La persona che sta suonando adesso non mi interessa.» commentò semplicemente, Cheshire che assunse un’aria indispettita: «Nessun umano dovrebbe.» sottolineò perentorio e con disprezzo nel tono di voce.

Glen gli lanciò uno sguardo distaccato: «Elliot Nightray conosce più cose di me della maggior parte degli umani che vivono in questa scuola. Forse anche più del dovuto. E tuttavia, proprio per questo, è una pedina estremamente facile da manovrare.» sottolineò quasi casualmente.

Ma il lieve incurvarsi di labbra, al quale corrispose un sogghignare leggero anche da parte di Cheshire, avrebbe potuto lasciar intendere – se solo ci fossero stati spettatori oltre agli spiriti, in quella stanza – che non c’era nulla di casuale in quelle parole.

 

 

Come aveva ipotizzato, la sera precedente Noah non era tornato in stanza a dormire.

Era indubbio che fosse rientrato, ma era altrettanto probabile che lo avesse fatto dopo la mezzanotte o prima dell’alba: la sua divisa e l’occorrente per le lezioni di quel giorno non era più in stanza e, tuttavia, Oz non lo aveva sentito entrare per prenderle.

Deduceva quindi che l’altro avesse approfittato di un momento in cui di sicuro il biondo dormiva.

Durante il giorno lo aveva incrociato solamente in mensa e non al tavolo dove si solito sedevano con Alice e, a volte, Ada. Noah era distante, ad un tavolo occupato solo da lui e Marcus: quest’ultimo aveva osservato Oz al suo ingresso in mensa, ma non aveva detto nulla né fatto cenni particolari.

Era indubbio che sapesse della discussione, così come era ovvio che Noah avesse chiesto a lui di ospitarlo. Ed era probabile, conoscendo Marcus, che avesse deciso fin dall’inizio di tenersene fuori visto che non erano affari suoi.

Noah non aveva alzato nemmeno lo sguardo dal piatto, e un moto d’irritazione per quel comportamento di cui ancora non capiva la causa aveva spinto Oz ad allontanarsi per raggiungere il tavolo dove era Ada.

Di Alice nemmeno l’ombra; né lì, né dove sedevano i Nightray.

Aveva evitato per scelta di lamentarsi con la sorella, anche perché sarebbe stato di ben poca utilità: aveva seguito quindi le lezioni di Miranda Barma nel pomeriggio, sedendo accanto a Sharon.

E se all’uscita da quell’ultima lezione giornaliera non aveva subito uno shock, avrebbe potuto resistere a tutto in futuro: Elliot Nightray, schiena poggiata al muro e braccia incrociate al petto, senza Reo nei paraggi a quanto pareva, si era diretto verso di lui appena l’aveva visto uscire.

«Possiamo parlare?» aveva chiesto – cioè… da quando Elliot Nightray lo aspettava all’uscita da una lezione come se fossero amici di vecchia data che non vedevano l’ora di passare del tempo assieme?

Perciò, colto appena e per pura fortuna il saluto educato di Sharon che si congedava, si era ritrovato a seguire Elliot, cosa che continuava a fare nel completo silenzio anche in quel momento.

Non senza essere ancora piuttosto perplesso.

Oz occhieggiò il corridoio, praticamente deserto, decidendosi a parlare: supponeva che non servisse girarsi tutta la scuola prima di poter chiedere di cosa volesse l’altro da lui.

Si fermò, dunque, alzando lo sguardo sulla schiena di Elliot, che sembrava non essersi accorto di non essere più seguito dal più giovane: «Di cosa devi parlarmi?» chiese Oz, vedendo l’altro fermarsi e voltarsi a quella domanda.

Non sembrava entusiasmato dall’idea di parlare lì, a giudicare dall’occhiata che rivolse al corridoio: tuttavia si voltò, tornando sui suoi passi fino ad essere ad una distanza abbastanza esigua perché non dovesse alzare troppo la voce.

«Non eri tu che volevi parlare con me?» gli fece notare, e ad Oz parve che Elliot si stesse tenendo sulla difensiva, come se nemmeno lui fosse così certo di voler davvero affrontare quella conversazione che cercavano – senza risultati decenti, per ora – di instaurare.

Il biondo sospirò. Visto che l’altro pareva tenerci tanto a fare il pignolo, allora lo avrebbe assecondato: «Vero. Ma se hai la stessa voglia di rispondermi dell’ultima volta, posso anche evitare di fare domande.» replicò – non era il massimo sprizzare arroganza da ogni gesto e parola, visto l’apparente buona fede di Elliot nell’andare lì e mettersi a disposizione delle sue domande. Ma stiamo pur sempre parlando di Oz Bezarius: gli veniva naturale, quell’atteggiamento.

Elliot si accigliò appena, ma fu palese il suo sforzo di volontà di non rispondergli subito a tono e portare pazienza – chissà quante ore aveva passato Reo a prepararlo psicologicamente per portarlo ad una mansuetudine così poco tipica di lui.

«Tenta la fortuna.» lo rimbeccò ironicamente – insomma, Reo non poteva fare miracoli a quanto pareva – lasciando a  lui la parola. Oz lo fissò in maniera eloquente, con un sorrisetto sfacciato ad incurvargli le labbra.

Stava per aprire bocca quando Elliot spostò lo sguardo verso la finestra del corridoio: «Non ho scritto io Lacie. Anche se è la versione ufficiale, in effetti.» ammise.

Oz, tralasciando il fatto che il castano facesse tutto da solo, si ritrovò a sospirare: in parte quella conferma era confortante, in parte aveva la sensazione che ci fosse qualcosa che non volesse davvero sapere di tutto quello.

Rimanere nell’ignoranza gli avrebbe certamente permesso di credere quello che più gli faceva comodo: come, ad esempio, che l’avesse ascoltata da Glen in persona quand’era bambino o chissà quale altra congettura che avrebbe potuto fare.

«Non posso comunque aiutarti più di tanto.» riprese, burbero – probabilmente la scelta della parola “aiutare” non lo metteva esattamente a suo agio – lo sguardo chiaro ancora insistentemente puntato verso la finestra: «Conosco quello spartito da che ho memoria. Lo suono con la stessa attenzione che si utilizza per camminare, praticamente.» spiegò.

«…Quindi quasi nulla.»

«Quindi, meccanicamente.» lo corresse, come se l’ipotesi di non fare attenzione a come suonava la reputasse un’offesa o una provocazione – anche se in effetti, ridotto ai minimi termini, il senso era quello.

Oz non commentò oltre – lo avrebbe fatto in casi normali, ma si era probabilmente reso conto del fatto che la pazienza dell’altro non avrebbe avuto la meglio ancora a lungo.

«Non ricordo affatto di averla scritta.» riprese: «Ma so anche per certo che non  mi è stata insegnata dalla stessa persona che mi ha fatto da maestro per il pianoforte.» asserì, improvvisamente serio. Lo notò anche il biondo, tant’è che l’espressione arrogante di poco prima era sfumata velocemente, lasciando il posto ad una attenta.

«Forse l’hai sentita da qualche parte.» tentò Oz. Che l’avesse imparata da solo e dal nulla era l’ultima opzione – e quella che faceva acqua da tutte le parti, oltretutto.

Era semplicemente assurda.

«Impossibile. Io e Reo non siamo certo rimasti nell’ignoranza senza fare niente, che credi?» lo interrogò, decidendosi finalmente a riportare lo sguardo su di lui: «Abbiamo cercato in tutti i modi possibili. Abbiamo guardato su ogni documento o libro che riportasse dati sui compositori e le loro melodie. Non c’era niente.» disse, nel tono una sfumatura della stessa frustrazione che doveva aver provato già più di una volta.

Fu Oz ad abbassare lo sguardo: a quanto pareva, la melodia di Lacie era un argomento che nessuno dei due trattava volentieri, sebbene per motivi diversi.

«Ad ogni modo, ho poi scoperto di chi fosse.» se ne uscì, quando Oz non si aspettava più nient’altro. Alzò infatti repentinamente lo sguardo, sorpreso.

Nemmeno il loro fosse stato un gioco, fu Elliot a puntare il proprio altrove: «So che è stata composta da Glen Baskerville. Lui era l’unico che avrebbe potuto verosimilmente insegnarmela. Però…» indugiò, puntando con decisione gli occhi azzurri sul biondo.

«Però io Glen Baskerville l’ho–– »

Non seppe precisamente come fosse possibile, ma Elliot sarebbe stato pronto a giurare che nella sua testa c’era una voce. Famigliare, sicuramente già sentita, eppure troppo estranea ancora per essere facilmente collegata ad un volto.

Gelida e superba: non c’erano altri aggettivi per descriverla che calzassero quando quelli.

Taci, ragazzino.

«Elliot?» chiamò Oz, fissandolo perplesso. Il castano non rispose, l’espressione che solo per un istante era stata dolorante, come quando per un motivo o per l’altro hai una fitta da qualche parte del corpo.

Forse fu sciocco, da parte sua, ma ad Oz venne istintivo guardarsi intorno: non avrebbe saputo dire chi si aspettasse – quel Cheshire, oppure Aedan o Sirjan che sembravano apparire dal nulla in situazioni come quella – ma il corridoio era deserto.

E ad ogni modo, se anche ci fosse stato qualcuno, Oz non avrebbe potuto prestarvi troppa attenzione distratto dall’impatto – improvviso e anche piuttosto brusco – della sua schiena contro il muro.

Emettendo un gemito sia di sorpresa che per il contraccolpo aveva istintivamente chiuso gli occhi. Li riaprì, avvertendo una presa sulle sue spalle, non faticando ad ipotizzare che appartenesse ad Elliot e trovando conferma nell’individuarlo proprio di fronte a sé.

«Si può sapere che ti è preso?!» sbottò, e non a torto. Non gli sembrava di aver detto qualcosa che giustificasse quella reazione; vide Elliot alzare la testa, tenuta inizialmente chinata. Incrociò gli occhi azzurri, lo sguardo superbo di chi ti guarda come se tu non valessi niente.

«Elliot…?» tentò di nuovo Oz, mentre le labbra del castano si incurvavano in un sorrisetto arrogante: «Più sciocco di quanto credessi.» sentì mormorare all’altro, il tono diverso da quello usato fino a quel momento per parlare con lui. Sembrava più profondo e più… freddo.

Oz sentì la stretta sulle spalle intensificarsi appena, iniziando quasi a far male.

«Per quanto questo ragazzino sia facile da controllare, non ho interesse nel parlare a lungo con te.» esordì, quasi annoiato. E la prima frase confermò ad Oz che qualcosa non andava.

«Stai diventando seccante.» continuò Elliot – no, non Elliot. Chiunque fosse quel tizio – mantenendo lo sguardo su di lui: «Non amo le persone che mettono il naso nei miei affari. Non le ho mai amate.» ammise.

Oz lo guardò di rimando, ma l’altro anticipò qualsiasi sua negazione: «Resta fuori da questa questione. Un vecchio spartito non cambierà nulla. Per quanto la curiosità che non porta da nessuna parte sia prerogativa di voi Bezarius» riprese, e Oz avrebbe potuto giurare di aver colto una sfumatura diversa nel tono a quelle parole «se continuerai a metterti in mezzo, dovrò farlo anche io.»

Oz deglutì a vuoto, senza sapere bene nemmeno lui perché: era solo che quelle parole, e quel tono di voce che sembrava non appartenere affatto ad Elliot, facevano venire i brividi. Erano una minaccia palese, e al tempo stesso un avvertimento.

Non osava pensare che, chiunque fosse, quella persona stesse cercando di proteggerlo. Tuttavia, era chiaro che preferisse evitare qualsiasi altro futuro contatto con lui.

«Chi sei?» chiese – la cosa più sciocca ed insensata, quando la sua preoccupazione avrebbe dovuto essere niente più che annuire per farsi lasciare, e andarsene da lì.

Vide l’altro tacere, in un primo momento – forse sorpreso da una richiesta così stupida.

La presa su una delle spalle si fece più leggera, fino a sparire totalmente, la mano che si poggiava contro il muro: il viso di Elliot si fece più vicino, spostandosi lateralmente con la chiara intenzione di raggiungere il suo orecchio.

«Tu chi pensi io sia?» lo sentì chiedere, le labbra che avevano appena sfiorato il lobo. Rabbrividì, per un motivo che non aveva ben chiaro e che non voleva nemmeno conoscere al momento. Avrebbe perso di vista quello che davvero voleva sapere.

«Sei… Glen?» azzardò. Non sapeva dire perché avesse pensato proprio a quel nome: forse glielo aveva suggerito il suo accennare allo spartito – anche se avrebbe potuto evincerlo dalla coscienza di Elliot che stava palesemente controllando senza sforzo – o per l’apparente familiarità che sembrava avere per lui l’atteggiamento dei Bezarius.

Sentì il respiro dell’altro solleticargli il collo, ma nessuna risposta. Ed un sibilo, poi.

«Non costringermi a farti del male.» fu l’ultima cosa che gli sentì dire.

Almeno prima che un Elliot piuttosto perplesso rientrasse nel suo campo visivo, confuso dalla vicinanza che probabilmente non ricordava come fosse stata raggiunta.

«…che diavolo succede?!» sbottò, allontanandosi – il viso che stava prendendo una colorazione rossastra. Oz lo fissò perplesso dal cambiamento repentino.

Sembrava che tutto in Latowidge cercasse di dimostrargli che la sua considerazione quando era appena arrivato riguardo un anno scolastico che si prospettava normale fosse stata totalmente errata.

Lo notò portarsi una mano alla tempia, ma non seppe dire se per la confusione o per un possibile mal di testa.

«Cosa ho fatto?» chiese, nel tono era palese l’irritazione e di nuovo Elliot sembrava sulla difensiva. Oz tacque, vagliando bene cosa fosse il caso di dire; specialmente, cosa potesse effettivamente raccontargli che gli evitasse di essere considerato dal castano completamente fuori di testa.

E sì, il “mi hai parlato di argomenti mistici” non era proprio da persone sane probabilmente.

A quel punto sorrise: perché di mentire era ancora capace. Non c’era nulla di difficile, per lui.

Doveva solo fare quello che faceva sempre.

«Mi stavi dicendo di Lacie. Hai avuto un giramento di testa?» chiese, facendo lui per primo il finto tonto, come se davvero non sapesse che altro pensare.

Elliot lo osservò, cercando probabilmente di capire se fidarsi o meno, ed Oz ebbe di nuovo la pessima sensazione che le sue bugie non funzionassero più. Invece, il castano lo smentì nel momento stesso in cui sospirò: «Non so altro, a parte quello che ti ho detto.» borbottò.

Oz lo imitò, sospirando – supponeva di non poter pretendere di più.

Annuì, dunque, allontanandosi dal muro ora che aveva possibilità di movimento per potersene andare. Con un “grazie” gli aveva voltato le spalle per avviarsi, quando si sentì chiamare proprio da Elliot.

Voltò appena solo la testa, osservandolo da sopra la spalla: il castano lo fissava come se dovesse rimproverarlo di qualcosa.

«E ringrazia Alyster! Fosse dipeso da me, non ci sarei venuto da un Bezarius.» sbottò, antipatico quasi per propria scelta. Oz rise, facendogli poi la linguaccia prima di scappare via voltando l’angolo.

 

 

Era ridicolo.

Lo sapeva anche da solo, non serviva che lo sottolineasse nessuno, va bene?

Si rendeva conto di aver fatto una sfuriata contro Oz senza motivo – d’altra parte il biondo non era certo obbligato a fare rapporto stile soldato per tutto ciò che faceva.

E per la cronaca, non era stata colpa sua nemmeno se la sfiga lo amava da quando aveva messo piede a Latowidge ed era nato il nuovo sport del “pestiamo Noah”. Né se i soliti che lo prendevano di mira – e che lui aveva abilmente imparato ad evitare il più possibile – lo avevano incrociato proprio quando a lui girava male.

Solitamente lui non reagiva: aveva imparato che quando non lo faceva durava meno e che picchiare con i soli calci non era male, parava abbastanza e dava a loro la soddisfazione di sottometterlo.

Quanto bastava perché se ne andassero senza causargli mai danni tali da spedirlo in infermeria come avrebbero potuto benissimo fare.

Non subiva a quel modo per paura; non per la paura degli altri, almeno. Né per il timore dei pugni, o dei calci – e perché no, a volte anche delle ginocchiate, perché in rissa valeva tutto davvero.

«Cos’è, Keynes, il fegato t’è uscito tutto insieme?» domandò beffardo un ragazzo, la divisa che lo identificava come uno del quarto anno.

Ora, analizziamo la situazione: erano quattro e l’avevano preso un pessimo momento. E aveva fatto per questo la cazzata di reagire – dandosi del mentecatto l’attimo dopo, perché lui era così: lui pensava sempre dopo.

E no, vedere uno dei loro cadere a terra quando normalmente il loro massimo era sporcarsi le suole delle scarpe non doveva aver fatto molto piacere agli altri tre.

Ci aveva impiegato quanto, a ritrovarsi tenuto fermo da due e picchiato dall’altro, una manciata di secondi?

Al momento, ad ogni modo, lo avevano mollato lì per terra, sfottendolo come al solito.

Aveva il respiro affannato e aveva la sensazione che stavolta le sue costole qualcosina l’avessero sentita arrivare con i colpi. Gli pareva di distinguere anche il sapore del ferro tipico del sangue in bocca.

Alzò gli occhi sul ragazzo che aveva parlato, cercando di metterlo a fuoco magari.

«Impara a stare al tuo posto, Keynes. Non vedi che è più doloroso, quando ti ribelli?» continuò, ironico.

«Dai, Chad, poveretto. Quello se non ha una tela e un pennello non sa fare altro!»

«E che ti aspetti da uno che entra solo perché il fratello è ricco? Keynes, non è che la prossima volta ci combatti con i colori a tempera?» lo sfotté.

Si alzò da terra, non senza un leggero sforzo – di magie e robaccia dell’occulto che facessero recuperare le forze come nei libri di fantasia non ne conosceva ancora, anche se ci stava lavorando su, eh? – lasciando che un sorrisetto gli incurvasse le labbra.

Mosse qualche passo, seppur barcollante, verso uno dei tre: «Deve essere… divertente.» mormorò piano, l’avanzare davvero poco stabile. Il più vicino, verso il quale Noah si stava dirigendo, lo guardò stranito: «Cos’è, non t’è bastata Keynes?» sbottò irritato.

«Deve essere… proprio divertente.» ripeté, osservandolo in piedi, di fronte a lui: «Pestare il povero plebeo che si abbassa a fare una cosa squallida come dipingere.» chiarì di cosa stesse parlando.

I tre si lanciarono un’occhiata piuttosto confusa.

«Dimmi un po’, fottuto stronzo» riprese, caricando il pugno e dandogli un cazzotto in pieno viso, colpendo il bersaglio senza difficoltà a causa della sorpresa dell’altro: «fa male il pugno di un plebeo che dipinge?!» sbottò, il tono alto e rabbioso.

Non era da Noah, arrabbiarsi, alzare il tono della voce.

Non era da Noah picchiare con i pugni, quelli che aveva sempre evitato di usare a costo di avere la peggio anche quando a prenderlo di mira era uno solo.

Non era da Noah sfogare la frustrazione e tutto quello che aveva con sé contro una persona, a quel modo.

Picchiando con i pugni, facendo cadere a terra e dando calci, su calci, senza badare a dove colpisse o ai gemiti di dolore. Nemmeno agli altri due immobili, nemmeno alla propria voce che gridava chissà cosa, senza senso.

«Fa male, pezzo di merda, fa male vero?! E quant’è umiliante, eh?! Quanto cazzo è umiliante che proprio io ti stia riducendo uno schifo, quanto?!» gli urlò contro, l’ennesimo calcio che centrava l’altro in pieno stomaco.

Uno degli altri due si fece avanti nel tentativo di fermarlo, ma quello che ottenne non fu altro che un pugno – già il secondo – mentre Noah lo fissava con la stessa rabbia mal celata di poco prima.

«Questa è la mia arte, quella che prendete tanto per il culo. Non è più divertente, ora?!» sputò fuori, mentre il tizio appena colpito e l’altro ancora in piedi cercavano di recuperare l’amico dolorante a terra per svignarsela.

Non gli sarebbe stato facile, se soltanto Noah non si fosse sentito chiamare e voltandosi non si fosse ritrovato Oz che veniva verso di lui.

Sbatté appena le palpebre – udiva i passi dietro di sé allontanarsi, ma all’improvviso sentiva addosso così tanta stanchezza e parti doloranti che davvero non aveva la forza di andargli dietro.

Se raggiunse il muro fu solo per la possibilità di poggiarsi contro di esso che sicuramente invogliava a muovere qualche passo in più nonostante le gambe gli stessero imprecando contro.

Vi poggiò la schiena, rilassandosi completamente fino a scivolare seduto, stanco. Oz lo aveva seguito, l'espressione preoccupata, dimentico della discussione avuta perché davvero, lo aveva visto una sola volta tornare da una rissa, ma non così malridotto.

Si chinò di fronte a lui, osservandolo inizialmente in silenzio: «Vado a chiamare qualcuno.» decretò, per sua scelta - sembrava quasi una replica di quando lo aveva sorpreso in stanza.

Noah allungò una mano, raggiungendo per un soffio la sua manica mentre Oz faceva per alzarsi: «Nh... lascia stare.» mormorò stanco e sebbene Oz ritenesse folle non portarlo in infermeria o chiamare qualcuno, lo assecondò ugualmente.

Si sedette dunque al suo fianco, in silenzio, cogliendo la mano di Noah lasciare la sua manica; sospirò piano, la preoccupazione ancora evidente nello sguardo che gli rivolse: «Che... è successo, per farti arrabbiare così?» chiese, incerto.

Era raro che Oz fosse titubante - e che lo fosse proprio con il compagno di stanza - tuttavia la discussione non era stata affatto chiarita e un Noah come quello che aveva visto non invogliava affatto a fingere che nulla fosse accaduto e che avessero semplicemente avuto un dibattito su cose banali.

Osservandolo, notò che l’altro aveva socchiuso gli occhi, rilassandosi appena.

«Tutto. Ero nervoso già... da prima.» mormorò in risposta, una piccola pausa causata da un fitta leggera in zona costole: «Perché abbiamo discusso, perché ero nel torto... almeno penso di esserlo stato almeno in parte. E questa cosa della pittura... non sopporto quando la deridono. Non lo sopporto davvero.» concluse quella sorta di spiegazione, resa più lenta da sospiri leggeri e piccole pause nel parlare.

Per Oz fu istintivo abbassare lo sguardo, cercando col proprio le mani del ragazzo: le nocche erano arrossate e sbucciate in un punto con cui aveva visto Noah colpire più di una volta uno dei tre ragazzi di prima.

«Di solito le tue mani non sono mai nemmeno arrossate.» fece notare, parlando quasi sottovoce come se dovesse regolarsi in base al tono di Noah. Quest'ultimo aprì gli occhi, spostando lo sguardo sulle mani per qualche breve istante: «Perché non ho mai picchiato con le mani.» replicò.

Oz parve confuso: aveva capito che Noah in qualche modo le dava, oltre che prenderle, ed istintivamente aveva immaginato che colpisse con i pugni come facevano tutti. Era invece evidente a questo punto che l'altro colpisse più che altro con i piedi.

Non capiva perché. Da qualsiasi punto di vista lo osservasse, sembrava solo uno svantaggio, salvo che l'altro avesse qualche abilità innata - cosa che supponeva non fosse in possesso di qualcuno che si professava pacifista per natura.

Forse Noah intuì la sua confusione dal silenzio, visto che non poteva averlo fatto dallo sguardo avendo gli occhi chiusi. Oz lo vide sorridere leggermente, di qualcosa che somigliava molto all’autocommiserazione.

Qualcosa che Oz avrebbe riconosciuto sempre fin troppo facilmente – era sua compagna da un po’, a ben pensarci, e probabilmente proprio per questo non sapeva ignorarla più, quando la vedeva.

«Vuoi ascoltare una storia patetica, Oz?» sentì chiedere a Noah in un mormorio, annuendo piano ed accompagnando quel cenno ad un “sì” semplice, senza altre aggiunte.

E ascoltò in silenzio, mentre Noah parlava di nuovo di sua madre, non tanto di come se ne era andata quanto di quello che gli aveva lasciato e che lui fin dall’inizio si era imposto di non volere.

Quell’odore di colori ad olio che lo rilassava, quella tela su cui lasciava scivolare la mano in un abbozzo che poi – sebbene inizialmente senza senso – sarebbe divenuto qualcosa; che non era importante cosa sarebbe diventato, perché la sola idea di creare lo elettrizzava e lo calmava al tempo stesso.

Oz ascoltò in silenzio i pensieri di un bambino che erano stati custoditi gelosamente, mai detti a nessuno, mai al padre per non ferire, mai a Marcus per non sembrare debole. Il senso di impotenza e quello di abbandono, quello di rabbia e frustrazione. E la paura, la presa di coscienza: il timore che tutto quello che odiava – quell’arte che lui non aveva chiesto, né mai desiderato in vita sua e che invece gli era capitata tra capo e collo – potesse scivolargli dalle mani.

La consapevolezza che bastava poco, bastava farsi male alle mani seriamente abbastanza perché la conformazione delle stesse cambiasse al punto che il suo tratto avrebbe fatto altrettanto.

Oz ascoltò come Noah aveva capito che avrebbe potuto sfogare la rabbia contro un muro, rompendosi le mani o colpendo fino a farle sanguinare; di come avrebbe potuto liberarsi di quello che tanti chiamavano dono e di come il compagno non avesse mai avuto il coraggio di fare davvero.

«Patetico davvero, ne?» riprese dopo qualche minuto di silenzio seguito alle sue ultime parole e dopo il quale Oz non aveva saputo esattamente cosa dire.

Il biondo spostò lo sguardo su di lui: «Non lo trovo patetico.» disse, il tono sincero.

Non pensava affatto a Noah come ad una persona debole o degna di compassione, nemmeno ora che lo vedeva fare un gesto come quello di alzare appena la mano che sembrava più malconcia delle due, portandola vicina al viso quasi a controllare i danni.

«Io probabilmente… mi sono nascosto dietro all’odio per la pittura. Forse cercavo solo… di odiare mia madre più che potevo. E’ stata una vendetta davvero stupida, la mia. Alla fine, non ho mai avuto davvero il coraggio di smettere di dipingere.» mormorò, il tono un misto di troppe cose perché ci si potesse concentrare nel riconoscerne una in particolare.

«Penso che sia normale. In fondo a te piace quello che fai, no?» tentò Oz; non era proprio il tipo di persona capace di consolare, né nella posizione più adatta per farlo. Eppure che altro avrebbe dovuto dire, o come altro avrebbe dovuto comportarsi in quel momento per fare “la cosa giusta”?

Noah, lo sguardo ancora sulla mano portata vicino al viso, strinse quest’ultima in un pugno.

«Forse è solo perché mi sono convinto di non valere niente senza la capacità di disegnare.» replicò, asciutto.

E Oz si alzò in piedi, fissandolo arrabbiato – con quell’espressione testarda che aveva sempre assunto da che si avesse memoria di lui – e aspettando che l’altro alzasse lo sguardo su di lui.

«Tu sei Noah anche senza disegnare o dipingere! Sei il Noah che mi ha tirato fuori dai guai, quello che lascia in giro i calzini con cui presto lo strozzerò durante il sonno! Sei quello che si arrabbia con me, sei lo stupido che mi copre a lezione quando dormo, sei… sei soltanto lo stupido Noah Keynes di sempre e non certo perché sai sporcare un foglio col carboncino!» sbottò, lasciando sorpreso il compagno che malgrado tutto non poté non ridacchiare.

Anche quando Oz lo guardò male.

Noah tossicchiò appena – ridere nelle sue condizioni non era proprio granché – osservandolo: «Non pensavo si consolassero così le persone.» lo prese bonariamente in giro – apparentemente di nuovo il solito Noah di sempre.

Oz sorrise divertito a sua volta, senza riuscire a tenergli più di tanto il muso: «Per quelli come te basta e avanza.» ribatté, falsamente arrogante.

«Ah già.» riprese Noah, come se avesse ricordato qualcosa solo in quel momento: «Scusami. Per la sfuriata dico.» chiarì.

Oz voleva dirgli che in fondo non importava, convinto del fatto che lo sfogo di Noah fosse stato causato dal nervosismo provocato da quei ragazzi e dalla frustrazione di non poter reagire per i motivi di cui lo stesso Noah gli aveva parlato. Tuttavia, proprio il compagno di stanza lo precedette nel parlare: «Non erano davvero affari miei.» iniziò «e ti assicuro che normalmente non sono ficcanaso. Solo...» indugiò, come se gli costasse fatica o dovesse dire qualcosa di particolarmente difficile.

Portò una mano a scompigliare i propri capelli, che già da soli erano tutto tranne che in ordine: «Insomma. Io non ho proprio tanta esperienza con le amicizie, ecco.» se ne uscì, e suonava così assurdo visto il carattere solitamente amichevole del ragazzo.

Oz lo guardò stranito infatti: «Eh?» pronunciò perplesso.

Noah sbuffò: «Io non ho mai avuto mezze misure, ecco. O sono conoscenti, oppure c'è Marcus.» bofonchiò, ed Oz si chiese se il rossore che intravedeva sul viso dell'altro fosse dovuto ai colpi ricevuti o all'imbarazzo. Per il bene dello stesso Noah, evitò di chiedere, lasciando che proseguisse: «Sono uno che non ha amici stretti, detta proprio in soldoni. Quindi sono un tantino iperprotettivo mi sa. Tipo fratello maggiore non richiesto.» proseguì.

Non guardava Oz, mentre parlava, ma un punto imprecisato di fronte a sé. Non c’era nulla lì, solo alberi, eppur sembrava quasi che Noah vi leggesse le parole da pronunciare.

«Non si tratta di… intransigenza da parte mia.» mormorò, riprendendo il discorso: «Solo che… non ci riesco. Quando le persone si attaccano alle altre, è quasi inevitabile farle stare male. Anche se non vuoi, giusto? Vorrei essere completamente sincero con loro. Vorrei essere maturo abbastanza da saper instaurare un’amicizia facilmente. Una di quelle… una di quelle dove tu per gli altri ci sei sempre, e viceversa. È solo che quando si tratta di me, o dei sentimenti delle altre persone… non ci riesco. Sembra quasi che mi blocchino, e non riesco a fare più passi avanti. E ho iniziato a pensare che forse era meglio lasciar stare. Che anche solo conoscenti andassero bene. Per questo, ora che ho qualcosa di più simile a un amico… faccio un casino.» concluse quella che probabilmente, secondo lui, era una spiegazione esaustiva.

E malgrado la situazione, le condizioni non proprio ottimali di Noah, quanto avvenuto con Elliot e i pensieri quasi pressanti che riconducevano ormai sempre più spesso alla melodia "Lacie", Oz rise. Divertito, come se non avesse un solo problema al mondo al momento.

E Noah s'imbronciò, incrociando le braccia al petto - con un po' troppa foga a giudicare dalla faccia che fece - offeso: «Ma certo, ridi pure, prenditi gioco di me mentre ti dico cose che non ho mai confessato a nessuno approfittando del mio agonizzare!» fece la vittima, fissando il biondo di sottecchi.

«E la domanda corretta sarebbe come ha fatto a ridursi così signor Keynes.» sentirono chiedere, voltandosi entrambi - per quanto possibile - verso la voce.

Probabilmente dei due fu Noah ad imprecare mentalmente quando riconobbe la figura di Rufus Barma - altrettanto possibile era che Noah lo facesse più per riflesso verso il cognome Barma che non per la presenza dell'uomo in sé.

Lo videro entrambi avvicinarsi, l'espressione apatica di sempre nemmeno fosse il suo carattere distintivo, il passo calmo nonostante col diminuire della distanza le condizioni di Noah apparissero chiare. Si limitò a fissarlo, anche quando gli fu a pochi passi.

Il ragazzo alzò lo sguardo, abbozzando il solito sorrisetto colpevole: «Se le dico che giocando a mosca cieca ho sbattuto contro un albero mi crede?» tentò, e Oz si chiese perché mandare un tentativo nel cesso di propria iniziativa con una scusa così irreale - anche se magari, trattandosi di Noah...

Oz vide Rufus sorridere, un sorrisetto fra il sarcastico e qualcosa di così vicino al sadico che quasi quasi l'idea di una lezione con Miss Barma non era male.

«Non nego che la tentazione di fingere di crederle solo per vedere se è capace anche di esultarne mi dilania.» commentò, l'ironia palese anche per i muri: «Tuttavia, essendo qui già da un po' e sapendo perfettamente come sono andate le cose, lo reputerei un'ingiusta offesa alla sua intelligenza signor Keynes.» continuò.

Noah non disse nulla, e lo stesso Oz; Rufus, passato lo sguardo dall'uno all'altro, parlò di nuovo: «Sarà dunque il caso di dirigersi in infermeria?» esortò gli altri due.

I compagni si lanciarono una semplice occhiata: no, nessuno dei due teneva particolarmente a scoprire il livello massimo di pericolosità di Rufus Barma quando qualcuno osava obiettare.

 

 

Avevano accompagnato Noah in infermeria, Oz che - nonostante Noah lo superasse in altezza tanto da rendere la posizione scomoda - l'aveva sostenuto lungo il tragitto. Muoversi con Rufus che camminava davanti a loro si era rivelato provvidenziale: gli studenti che si erano fatti di lato in corridoio, fissandoli sorpresi o preoccupati, si sarebbero certamente fermati a chiedere. Almeno nel caso dei più sfacciati ed impiccioni. Invece, complice la presenza del docente di Storia, avevano raggiunto l'infermeria senza essere fermati o tartassati di domande.

Lo avevano lasciato alle cure dell'infermiera - Oz aveva sentito qualcosa muoversi all'altezza dello stomaco, quando la donna aveva delicatamente poggiato la mano sulla spalla di Noah, guidandolo ad uno dei letti più riparati da occhi indiscreti, mormorando gentilmente un «Signor Keynes, non può farmi visita troppo spesso...», comprensiva.

Quante volte Noah finiva lì, magari da solo?

Nel momento stesso in cui il compagno gli faceva segno di andare tranquillo, Oz sentì la mano del docente posarsi sulla sua spalla, facendogli intendere che era il caso di uscire. Anche se non del tutto convinto, lo seguì.

Una volta fuori dall'infermeria e lontani da essa, quasi vicini al corridoio che portava poi agli alloggi dei docenti, Rufus si voltò ad osservarlo. Oz inizialmente non disse nulla, osservandolo a sua volta incuriosito: aveva interagito ben poco col docente e non si era fatto ancora un'idea precisa.

«Il signor Nightray ha un interesse particolare per lei, ho notato.» se ne uscì, in qualche modo pungente. Lì per lì Oz non capì a cosa si riferisse, almeno finché l'altro non aggiunse: «Oppure oggi è il giorno dedicato alle risse e il signor Nightray aveva un conto in sospeso con lei.» sottolineò.

Oz assunse un'aria infastidita: colta l'allusione, gli sembrava decisamente fuori luogo che venisse da un docente.

«Ha l'abitudine di controllare da vicino alcuni studenti o si limita a seguirli indistintamente?» ribatté, arrogante e ironico. Non gli piaceva quel modo di fare.

Rufus, quando normalmente un docente si sarebbe risentito di quell'uscita, sorrise: un incurvarsi di labbra sarcastico e di superiorità, di chi ha la situazione completamente sotto controllo e ne ha piena coscienza.

«Che ragazzino insopportabile.» commentò Rufus: «E dire che potrebbe tornarti utile, l'essere stato seguito.» ironizzò. Oz stava prendendo in considerazione di congedarsi quando Rufus, ancora il sorriso sulle labbra, mantenne lo sguardo in quello dello studente.

«Non eri tu, a voler sapere di Glen Baskerville?» chiese a bruciapelo.

Oz sgranò appena gli occhi, sorpreso; non rispose subito, mordendosi istintivamente il labbro inferiore. Rufus sembrò non essersi aspettato alcuna risposta, perché proseguì senza che Oz avesse confermato o smentito le sue parole: «C'è qualcosa di Glen Baskerville che può interessarti, e che non sai. Vuoi ascoltare?» domandò.

Oz parve riscuotersi a quelle parole e lo fissò guardingo: «Mi aspetto che ci sia qualcosa da dare in cambio, no?» insinuò lui stavolta, ancora senza preoccuparsi di poter risultare poco rispettoso.

E il sorriso appena più ampio di Rufus gli confermò di non essere nel torto.

«Mi piace chiamarlo scambio di informazioni.» replicò, avvicinandosi di qualche passo: «Io ti dirò cose di Glen Baskerville che non sai. Tu farai lo stesso.» spiegò.

Oz si sentì confuso: lui non sapeva praticamente nulla di Glen.

«Voglio sapere della sua morte.» specificò Rufus, e Oz abbassò lo sguardo: non che di quello sapesse molto di più, però...

«L'unica cosa che so della sua morte, è che fu...»

«Un suicidio, questo lo so.» lo interruppe Rufus quasi annoiato: «Quello che voglio sapere è cosa c'è dietro. Perché mai uno come Glen Baskerville avrebbe dovuto suicidarsi?»

 

 

 

 

Note

...un parto, veramente.

In estremo ritardo perché lezioni e esami non vanno mai d'accordo con la velocità di aggiornamento di una fanfiction.

Sta diventando poi davvero difficile dosare le informazioni da mettere in ogni capitolo ç_ç"

Che altro dire, spero che la lunghezza del capitolo non sia di disturbo per nessuno: nel caso, chiedo venia é_è

Come accennato, ho cambiato rating (da arancione a giallo) e avvisi (da Yaoi a shonen-ai, perché scrivere di quei due a manina mi ha fatto capire che non arriverò mai ad una lemon... nun ce la posso fa XD).

A tutti coloro che vorranno continuare a seguirmi, grazie di cuore <3

E un ringraziamento speciale a bakasaru, per avermi spiegato da artista quale è l’importanza della conformazione delle mani nel tratto di chi disegna, così da aver potuto approfondire Noah <3

Infine, la frase ad inizio capitolo è di Full Moon wo Sagashite di Arina Tanemura; mi scuso inoltre per un errore nei disclaimer del precedente capitolo. In quel caso la frase d’apertura era di Shinshi Doumei Cross y_y” *pignola*

 

 

Makotochan: se Sirjan ti ha fatto paura, mi chiedo se ti avrà inquietata anche Noah o meno X°D *si diverte* Rufus e Break credo ancora di essere l’unica che abbia avuto cuore, fegato e neuroni di accozzarli insieme ma ehi, per una volta voglio abusare del mio potere di ficwriter! XD Per quanto riguarda Vincent, ora almeno puoi stare tranquilla: come hai letto, sta benone u.u (quello non muore manco se lo ammazzi! [cit.] XD)

Per la sua apparizione dovrai ancora pazientare, ma ritornerà sulle scene più str… più vincent che mai XD

 

Gioielle: visto, donna di poca fede? Questo capitolo è persino più lungo XD

Ti ringrazio per i vari complimenti sull’IC (Oz, Alice e Reo), perché ammetto che io continuo a non saperli giudicare da me, quindi un riscontro da parte di chi legge è sempre apprezzato ù.ù E che dire… ho paura a chiederti se ora la tua confusione sul “MonnaOzElliot” è peggiorata o no XD

Break è un personaggio che adoro muovere: lui parla senza fregarsene molto di ferire o no le persone, e non se ne pente. Lo trovo divertente ma no, non ho idea di come faccio a muoverlo, lo ammetto x°

Felice che anche a te sia piaciuta la parentesi RufusBreak *-* Riguardo l’apparizione della Volontà dell’Abisso, beh… mi ero ripromessa o no di far almeno apparire tutti? XD E sì, il masochismo è mia prerogativa.

Come hai potuto vedere (o almeno spero si sia capito dalla mia narrazione °-°”), la porta non collega all’Abisso e non ci sono Chain qui XP

Infine, ti ringrazio per il giudizio su Sirjan <3 E lo so: Break in quell’abbigliamento è il sogno proibito di molti v_v

 

Yoko891: guarda, io ormai ringrazio il cielo che pensiamo e ci piacciono le stesse cose. Ho bisogno di fan della RufusBreak *-*/  Per i periodi alla Shichan tremo un po’ in questo capitolo: ahimé, lo scrivere a spezzoni fra treni e lezioni non è granché visto che già di mio tendo a periodi scritti un po’ così ^^”

Felice di riuscire a mantenere l’IC, e mi spiace per Volontà dell’Abisso e felino connesso *muore*

Per l’apparizione di Glen, sto andando per gradi: dai che prima o poi ve lo faccio vedere come si deve! XD

 

AliceOfAbyss: grazie dei complimenti e grazie di seguirmi innanzitutto <3

E direi che è normalissimo non vedersi facilmente la RufusBreak, non essendo affatto una coppia canon XD Si può dire che io abbia scelto volutamente di azzardare, nello scrivere di loro, ma sono contenta di aver avuto riscontri positivi da chi legge x3

Lieta – come detto alle altre – di mantenere l’IC, cosa che spero di continuare a fare! Un po’ in ritardo ma il seguito c’è, spero quindi di leggerti ancora fra le recensioni ^^

 

Un grazie anche a LitaChan, che ha commentato in separata sede per problemi con le recensioni xD

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Capitolo 11
*** Lentamente, sbiadisce ***


«Perché mai uno come Glen Baskerville avrebbe dovuto suicidarsi

Lentamente, sbiadisce

 

È così che funziona? […]

persino noi che dovremmo esserci fatti una promessa,

ci passiamo accanto senza notarci.

 

 

«Perché mai uno come Glen Baskerville avrebbe dovuto suicidarsi?»

Mentre quella domanda si perdeva nel corridoio, Oz non avrebbe saputo dire quale sensazione provasse con precisione.

Sicuramente fastidio, perché era stanco di persone che continuavano a fare domande su domande; in più, la cosa si acuiva nel momento stesso in cui a porre quei quesiti era Barma. All’inizio l’apatia di quell’uomo mista al quasi totale disinteresse verso tutti lo aveva incuriosito e quasi divertito; almeno finché non si era accorto che quell’aria neutra che veniva meno solo con Xerxes – che avrebbe esaurito anche la pazienza di più santi insieme – non era indice di pacatezza o riservatezza, quanto di uno sprezzante e sarcastico menefreghismo che apparentemente nessuno riusciva a far venire meno.

Oltre a quello, però, c’era dell’altro: qualcosa, in quella domanda, che lo confondeva più profondamente di quanto sarebbe stato normale aspettarsi.

La prima cosa pensata era stata cosa cavolo doveva saperne lui del perché Glen Baskerville avesse deciso di suicidarsi.

D’altra parte, però, nella sua mente si era fatto prepotentemente avanti un dubbio quasi sicuramente immotivato eppure pressante; un dubbio suscitato dal riaffiorare di un ricordo. L’immagine di una lapide con il nome di Jack Bezarius e, non troppo distante, quella di Glen Baskerville.

Maggio suo fratello, marzo il suo migliore amico.

Lo stesso anno e la sciocca sensazione che le morti fossero collegate.

Scosse la testa: un suicidio e una morte per malattia – seconda all’altra cronologicamente – non avevano di certo nulla a che spartire.

Strinse appena i pugni: «Che vuole che ne sappia io.» borbottò all’indirizzo di Rufus che inarcò appena un sopracciglio fissandolo. Oz dedusse che, a quel punto, lui potesse andarsene; fece quindi per girarsi ed avviarsi.

«Non così in fretta, Bezarius.» lo richiamò il docente affiancandolo in breve.

Oz mantenne lo sguardo di fronte a sé, testardamente, continuando ad avanzare nel corridoio.

«Ha parlato di scambio e io non ho l’informazione che vuole, perciò non c’è altro, no?» parlò chiaro, senza fermarsi. E ad un certo punto, poco prima di raggiungere l’angolo che lo avrebbe portato all’atrio, gli parve di vedere distintamente Rufus Barma sparire dal suo campo visivo, rimanendo indietro come se avesse effettivamente deciso di lasciar perdere e si fosse fermato.

«Se non ti interessa il diario di Jack» insinuò, infame e sarcastico, la mano sinistra che teneva il libricino vicino al volto fissandolo con noncuranza: «allora no, non c’è altro.» concluse.

Nello stesso istante in cui, istintivamente, Oz si era voltato verso di lui; l’espressione stupita e confusa – per l’ennesima volta nel poco tempo trascorso da quando avevano lasciato Noah in infermeria – alternando lo sguardo da Rufus al presunto diario.

«Il diario di… mio fratello?» mormorò piano, incredulo.

E non c’era da biasimarlo, se gli risultava difficile immaginare  che Rufus fosse un amichetto del bosco di Jack al punto che quest’ultimo gli desse in custodia il suo diario.

Vide Rufus sorridere: un incurvarsi di labbra arrogante e soddisfatto che non gli piacque per niente.

«Sono una persona che non ama particolarmente scendere a patti, ma quando ho un interesse particolare per qualcosa posso anche fare un’eccezione.» disse, muovendo qualche passo in avanti per raggiungere Oz, ora immobile nel corridoio.

«Ovviamente non sono di natura magnanima al punto tale da dirti cosa so e sospetto di Glen Baskerville senza nulla in cambio, ma…» lasciò in sospeso, porgendogli il libricino: «Prendilo e leggilo. Di sicuro qualcosa che voglio sapere ti verrà in mente.» assicurò.

Attese che Oz prendesse l’oggetto tra le mani per poterlo superare avanzando nel corridoio, il biondo che fissava la copertina verde scuro che in basso a destra recava le iniziali J.B. dorate e appena scolorite.

Le domande erano tante, nella sua testa: perché proprio in mano a Rufus e come, tanto per cominciare.

Perché ora, perché dopo lo strano comportamento di Elliot, perché non prima.

Perché un diario, tragicamente simile ad una presenza costante del fratello che però, materialmente, non c’era più.

Perché proprio legato a Glen Baskerville e alla sua morte.

«E quando ti verrà in mente, sentiti pure libero di passare nel mio ufficio.» aggiunse la voce di Barma, poco prima che il docente voltasse l’angolo.

Perché proprio a lui, che di Jack sentiva la mancanza, la presenza, il ricordo.

Perché, e basta.

 

 

Aveva lasciato passare dei giorni interi da quanto Rufus Barma gli aveva consegnato il diario: rientrando in stanza lo aveva sistemato dapprima sul comodino, lanciandogli occhiate ogni due minuti fino ad apostrofarsi da solo come paranoico. A quel punto si era deciso a chiudere l’oggetto nel cassetto del comodino, dove lo aveva poi lasciato per giorni rimandandone la lettura con le scuse più assurde.

Fra esse, probabilmente una delle più nobili era stata andare a trovare Noah; ci era andato per la prima volta il giorno dopo averlo accompagnato in infermeria, per informarsi sulle sue condizioni.

Com’era prevedibile, lo aveva trovato imbronciato e soprattutto annoiato: Noah non era proprio il tipo di persona che amasse stare ferma, men che meno in un letto dell’infermeria. Quando era entrato aveva visto il compagno di stanza guardarlo come l’unica salvezza nel mezzo del compiersi dell’Apocalisse e per quante preoccupazioni Oz avesse avuto prima di andarlo a trovare, un ridacchiare sommesso era stato quasi d’obbligo.

Malgrado l’occhiata quasi assassina che gli aveva rivolto Marcus quando aveva oltrepassato la soglia dell’infermeria, salvo poi abbassare la guardia un minimo nel riconoscerlo – ma Oz ne era certo: almeno una delle prossime vite l’aveva già persa così.

Come aveva appreso, Noah non era proprio grave per fortuna, ma una settimana in infermeria non gliel’avrebbe tolta nessuno a causa di un paio di costole incrinate – con enorme disappunto del ragazzo.

Oz non gli aveva parlato del diario un po’ per scelta, un po’ per la presenza di Marcus con il quale non era in confidenza a tal punto; gli aveva fatto compagnia, chiacchierando del più e del meno, dopodiché era ritornato in stanza ogni volta che gli aveva fatto visita, compresa la prima.

Oltre il tempo passato con Noah, comunque, aveva trovato un certo numero di scuse abbastanza valide – a suo dire – per rimandare la lettura: stare con sua sorella per esempio, passando il tempo libero di entrambi a chiacchierare placidamente degli argomenti più blandi e disparati.

Era capitato spesso che incrociasse Alice, ma la castana sembrava essere ancora arrabbiata con lui, motivo per il quale se anche incontrava lo sguardo di Oz portava il proprio altrove con gesti ed espressioni di stizza.

Ne aveva parlato anche con Gilbert, quando chiedendo al moro aveva saputo che per quel week-end Alice sarebbe tornata a casa e che forse vi si sarebbe trattenuta per parte della settimana in via del tutto eccezionale.

«Come mai, è successo qualcosa?» aveva chiesto, preoccupato nonostante la discussione, consapevole di essere in parte in torto come era stato per il litigio con Noah.

Probabilmente anche Alice, sebbene a modo suo, era preoccupata per lui.

Gilbert, con un sospiro, aveva assicurato ad Oz che non era successo nulla di eclatante. Solo – aveva aggiunto – la famiglia di Alice aveva qualche problema.

Oz non aveva fatto domande, ripromettendosi di chiarire con la ragazza non appena fosse tornata a Latowidge.

 

Di motivi per non tirar fuori quel libricino dal cassetto del comodino ne aveva trovati tanti – addirittura studiare… - ma ora, in stanza senza far niente da almeno mezz’ora, sembrava averli esauriti.

Forse per questo con uno sbuffo si decise ad allungarsi verso il cassetto, aprendolo e tirando fuori il diario.

Tornando seduto, di nuovo la prima cosa che catturò la sua attenzione furono le iniziali in basso a destra; il carattere corsivo in cui erano scritte era semplice e chiaro, tanto che sebbene consumate dal tempo risultavano ancora leggibili.

Se lo rigirò un paio di volte fra le mani, decidendosi infine ad aprirlo in un punto abbastanza casuale delle pagine un po’ ingiallite in corrispondenza dei bordi.

Nel portare lo sguardo su di esse, ebbe la sensazione spiacevole di vuoto allo stomaco: Rufus non aveva mentito, quella era senza alcun dubbio la scrittura di Jack. La riconosceva non solo perché ricordava perfettamente la calligrafia del fratello, ma perché rispetto all’indole di chi scriveva era sempre stata particolare.

Jack era vivace, spensierato, chiacchierone e a volte un po’ casinista; la sua grafia invece era pulita e ordinata, perfettamente leggibile come se vi avesse dedicato particolare cura e attenzione.

Gettò un’occhiata alla data sulla pagina aperta casualmente, in alto a sinistra: 13 Gennaio dell’anno in cui era morto. A quell’epoca Jack sapeva di essere malato, e probabilmente anche che… non sarebbe vissuto ancora a lungo.

Oz rabbrividì, stringendo appena la presa sul diario.

 

Ammetto che il dolore si è fatto non indifferente.

Soprattutto in alcune parti del corpo che probabilmente sono le più malate,

a volte le fitte sono acute abbastanza da zittirmi.

La mia fortuna è che non solo Ada e Oz ma anche Gilbert e Vincent,

anche se figli adottivi dei Nightray, vengono a trovarmi.

Non c’è proprio alcuna possibilità che io possa deprimermi,

finché ci sono loro.

 

Se poteva scommettere di ricordarsi di Gilbert, altrettanto non poteva dire di Vincent.

Non che fosse davvero importante, comunque: era normale, essendo fratelli, che a volte anche Vincent si fosse recato alla tenuta dei Bezarius. Magari persino Elliot, o Reo, o entrambi ci erano stati.

Chissà, forse anche Alice.

Chissà Jack quanto dolore sentiva, mentre sorrideva davanti a loro assicurando di stare bene.

Fece scorrere diverse pagine, voltandole casualmente e più per volta; 24 Febbraio.

 

Ho detto a Glen che il dottore mi ha comunicato chiaramente

che la malattia è ad uno stadio tale che non esiste alcuna possibilità di guarigione ormai.

Non lo ha dato a vedere, ma credo che… fosse triste.

Sono troppo presuntuoso a credere una cosa simile?

 

Oz sbatté un paio di volte le palpebre: lui di Glen aveva ricordi piuttosto vaghi, un po’ per l’averlo incontrato da bambino, un po’ per il fatto che Glen passava il tempo con suo fratello Jack e non con lui e Ada.

Eppure, lui ricordava Jack felice e un Glen se non proprio sorridente quantomeno tranquillo, di quella calma che si ha in presenza di una piacevole compagnia, ancor più se fidata come il tuo migliore amico. Dunque non faticava a credere che Glen potesse aver provato tristezza nel sapere una cosa simile.

Però Jack… sembrava temere di sbagliare.

E – a giudicare da quello che continuava a leggere dal diario – suo fratello temeva per il dispiacere che avrebbe provato il padre, per la tristezza di Ada e per i pesi che sarebbero gravati sulle spalle sue, di Oz.

Ma la morte, quella sembrava quasi passare in secondo piano.

Faceva male tutto quello: il diario, le parole di Jack e la consapevolezza di quali sentimenti si celassero dietro il suo “guarirò sicuramente!”.

15 Marzo.

 

Io ho ucciso il mio migliore amico…

 

Passi, porta che venne aperta e richiusa sbattendo.

Fretta di scappare, e il diario gettato sul letto.

 

 

Si era chiuso nella biblioteca dell’istituto, prendendo un paio di libri e sistemandosi ad un tavolo; la speranza era stata quella di distrarsi leggendo.

Certo, sicuramente andare da Noah sarebbe stato più costruttivo e parlare molto più d’aiuto, ma non solo era fermamente convinto che vi avrebbe trovato di nuovo Marcus – praticamente si allontanava solo per le lezioni e nemmeno per tutte in realtà – ma era anche certo di avere una faccia tale che Noah si sarebbe preoccupato o peggio, avrebbe fatto domande.

E, per lo stesso motivo, aveva preferito non andare nemmeno da Gilbert o Ada.

Anche l’attrattiva della biblioteca però non era durata a lungo: quando si era reso conto di aver riletto per la sesta volta la battuta clou di Edgar, aveva deciso di arrendersi chiudendo il libro e registrandolo come preso in prestito.

Era quindi uscito dalla biblioteca con il libro in borsa, senza un’idea precisa di cosa fare.

Contro ogni logica, si era diretto verso l’aula di musica dove la notte aveva trovato Elliot a suonare; non aveva alcun senso, dopo quanto accaduto proprio in presenza del minore dei Nightray, ma quando il suo cervello aveva elaborato questa considerazione, i suoi piedi lo avevano già condotto davanti all’aula in questione.

Non sbirciò subito dentro, quasi temesse di essere scoperto e perdere quindi l’occasione di tornare sui propri passi come ogni persona sana di mente probabilmente avrebbe fatto.

Tuttavia non lo fece, rimanendo fermo in mezzo al corridoio, non sapendo esattamente cosa fare: quello che lo convinse più o meno in maniera decisiva, fu la melodia per pianoforte che sentì grazie alla porta socchiusa e non chiusa completamente.

Era bella, ma qualcosa gli suggeriva che non fosse Elliot a suonare: il minore dei Nightray suonava senza alcuna imperfezione, almeno a livello tecnico, proprio come gli arrivava la melodia in quel momento. Però si fermava mille volte, per un errore che vedeva solo lui molto spesso, nella costante ricerca della perfezione assoluta.

Invece il suono che gli arrivava in quel momento era fluido, senza la minima interruzione come se l’esecutore stesse suonando senza alcun pensiero ad influenzarlo, per il solo ed unico piacere della musica in sé che dalle proprie mani si diffondeva per la stanza e giungeva – sebbene più attutita – fino al corridoio.

Forse anche questo lo spinse ad avanzare quei pochi passi che servivano a raggiungere la porta e sbirciare all’interno dell’aula.

Quasi gli venne da sorridere, nel riconoscere Alyster seduta al piano, le mani che sapientemente sfioravano i tasti suonando, gli occhi che seguivano lo spartito posto sul leggio senza alcuna difficoltà apparente.

Notò comunque che, effettivamente, la musica non era eccessivamente complessa: la composizione che Alyster suonava era semplice, di andamento moderato.

Più che la difficoltà che si poteva incontrare nell’eseguirla, attirava l’attenzione per il tipo di musica di cui si trattava; Oz era certo di aver sentito poche melodie che potessero vantare al tempo stesso forza, speranza e tristezza.

Eppure, mentre l’andamento e le mani di Alyster sui tasti rallentavano, il biondo – ormai quasi del tutto nell’aula – dovette ammettere che di quelle poche, quella suonata dalla ragazza era sicuramente degna di farne parte.

Accolse il silenzio come se non se lo fosse aspettato, quasi infantilmente avesse pensato che quella composizione non avesse una fine; rimpianse di aver probabilmente sentito solo la parte finale di uno spartito sicuramente più ampio.

Vide dalla sua posizione le spalle di Alyster alzarsi e ad abbassarsi in un sospiro lento e profondo, dopo il quale si voltò per osservare chissà cosa incontrando inevitabilmente lo sguardo di Oz.

Lui abbozzò un sorrisetto imbarazzato, portando la mano a grattare leggermente la nuca in un gesto impacciato dall’essere stato colto in flagrante – con un’espressione anche un po’ persa probabilmente.

La vide sorridergli e ricambiò con uno più ampio, avanzando di qualche passo verso di lei.

«Non ti avevo mai sentita suonare.» ammise.

Alyster spostò lo sguardo per qualche breve istante sul pianoforte, per poi tornare su di lui: «Elliot monopolizza l’aula.» scherzò su, il tono divertito a palesarlo. Oz fece uno sbuffo divertito, e lei portò una mano a sfiorare lo spartito.

«Come mai passavi di qui? Cercavi Elliot?» domandò, tornando a guardarlo; Oz gettò un’occhiata generale all’aula, sebbene non fosse certo la prima volta che la vedeva, e dissentì col capo.

Fece tuttavia una pausa, prima di aggiungere una qualsiasi risposta verbale.

«Non lo so, ma non credo.» disse.

Vide Alyster inclinare appena il capo lateralmente, come se stesse osservando meglio qualcosa che ad un primo sguardo non aveva riconosciuto. Oz, accortosene, preferì per una volta non dover rispondere ad una sua domanda – che, considerando gli standard della ragazza, sarebbe sicuramente andata a parare su qualcosa di cui non voleva parlare.

«Tu invece, ti esercitavi?» domandò quindi, anticipandola.

Lei sorrise con gentilezza, indicandogli con un cenno leggero del capo una porta più piccola rispetto a quella d’ingresso dell’aula, situata in un angolo e che Oz non aveva mai notato prima.

La fissò infatti incuriosito: «Cosa c’è lì?» chiese quasi subito.

«È una stanza insonorizzata. Serve quando qualcuno vuole esercitarsi da solo e l’aula è occupata.» spiegò: «Di solito lì si esercitano i violinisti, o chi suona strumenti a fiato come flauto e clarinetto. Raramente il violoncello.» aggiunse.

Oz guardò con interesse la porta anonima, ovviamente senza riuscire a carpire alcun suono dall’interno.

Non era davvero necessario chiederle chi vi fosse, e comunque Alyster lo disse senza che lui lo domandasse: «Sirjan si sta esercitando, allora ho pensato di suonare un po’ mentre aspettavo.» concluse.

Forse non avrebbe dovuto stupirsene e farlo dava quasi l’impressione che pensasse a Sirjan come un essere strano che non faceva le cose che abitualmente occupavano la giornata degli altri studenti, ma lo sguardo del biondo sembrava un po’ sorpreso, un po’ incredulo.

E, a quanto pareva, la cosa suscitava l’ilarità di Alyster che portò una mano a coprire le labbra mentre ridacchiava sommessamente dell’espressione del più piccolo.

Oz la imitò, prima di occhieggiare nuovamente la porta: «Come mai si esercita? Deve esibirsi da qualche parte o è solo un compito della Barma?» domandò, recuperando una sedia poco distante per sistemarsi accanto alla ragazza.

Non che avesse dimenticato quali pensieri lo avessero obbligato a rinunciare alla lettura, ma forse chiacchierare era la soluzione.

«Oh, è vero, forse tu non ne sei al corrente perché è il tuo prima anno a Latowidge.» osservò Alyster, sistemandosi leggermente sullo sgabello del pianoforte: «Ogni anno festeggiamo la fondazione della scuola, che ormai risale ad almeno un secolo e mezzo fa.» spiegò, catturando quasi subito l’attenzione di Oz.

«In occasione di questo anniversario le lezioni sono sospese e tutta la scuola si riunisce nell’aula magna per assistere ad un’esecuzione musicale. Ogni anno vengono scelti dalla professoressa Barma gli studenti di musica più talentuosi e loro si esibiscono per tutta la scuola in memoria del fondatore.» concluse, con un sorriso.

Oz assunse un’aria interessata e vivace – cosa che probabilmente non era stato negli ultimi giorni.

«Tu e Sirjan siete stati scelti?» chiese entusiasta, nemmeno la cosa riguardasse lui sul personale anziché i due fratelli. Alyster scosse leggermente la testa: «Solo Sirjan. Per il pianoforte c’è uno studente molto più bravo di me che conosciamo entrambi, non credi?» chiese con una nota divertita nel tono di voce, riferendosi palesemente ad Elliot.

Il biondo si imbronciò appena, ma non durò a lungo: «Quindi Elliot suonerà il pianoforte. E gli altri strumenti?» domandò, accennando con lo sguardo alla porticina oltre la quale era Sirjan.

«Mio fratello suonerà il flauto traverso.» rivelò: «Per il violino credo si tratterà di Karin Hamilton del quarto anno.» aggiunse, mentre Oz focalizzava nella propria mente il viso della compagna di stanza di sua sorella che aveva conosciuto e di cui anche Noah gli aveva parlato qualche volta.

«Ci sarà anche una cantante solista, Keira Nightingale del quinto anno, una mia compagna.» concluse.

Oz tacque qualche istante; ripensando al minore dei Nightray, gli tornarono in mente le parole di saluto – era un saluto quello, più o meno, no? – di Elliot di qualche giorno prima.

«Grazie.» se ne uscì infatti senza un motivo apparente, tanto che Alyster lo guardò interrogativamente. Oz le sorrise apertamente: «Per aver convinto Elliot a parlare con me.» chiarì quindi.

E lei rise, una risata leggera senza alcuna intenzione di prenderlo in giro ma di semplice e puro divertimento: «Oh, credo che sarebbe venuto ugualmente. Ho solo velocizzato i tempi.» ammise, addolcendo lo sguardo nel posarlo su Oz: «Ad ogni modo prego, se ti è stato utile.» aggiunse.

Mentre il più giovane taceva, sbirciando lo spartito sul leggio, Alyster allungò una mano verso la sedia a rotelle lì di fianco al pianoforte; gesto che attirò l’attenzione di Oz, inizialmente senza che potesse capire il motivo di quel movimento.

Almeno fin quando la ragazza non ebbe accostato la sedia allo sgabello dove era, facendo leva con le mani sui punti dove poggiava solitamente le braccia per issarsi dallo sgabello quel minimo che serviva a muoversi poi lateralmente, per passare su quel mezzo che le permetteva di avanzare pur senza camminare.

Oz fece per allungare una mano verso di lei, per aiutarla, ma lei si limitò a sorridergli aggiungendo un semplice e pacato: «Non preoccuparti, ce la faccio.»

E allora Oz l’aveva guardata meglio in quel movimento che probabilmente per l’altra era qualcosa di quotidiano e usuale. Aveva guardato il corpo esile issarsi poggiando solo sulle braccia che sembravano fragili come tutto il corpo della ragazza davanti a lui.

E gli occhi chiari erano inevitabilmente scesi sulle gambe e aveva provato una sensazione strana e spiacevole; una sorta di tuffo al cuore, qualcosa che si agitava all’altezza dello stomaco e un profondo dispiacere, forte tanto da attanagliare le viscere.

Quelle gambe, che in un movimento di tutto il corpo avrebbero dovuto quantomeno oscillare per lo spostamento del busto, erano rimaste completamente e orribilmente immobili.

La vide sedersi compostamente, concludendo quello spostamento e deglutì; lei lo osservò, quasi studiandolo, forse intuendo qualcosa o forse no.

«C’è qualcosa che vuoi chiedermi?» domandò, quasi incalzante.

Oz mosse le labbra, come per pronunciare qualcosa, ma non uscì alcun suono; e abbassò lo sguardo, incapace di dare voce ad una domanda che persino lui nel massimo picco di superficialità che poteva raggiungere avrebbe ritenuto crudele.

Da quanto le tue gambe sono così?

«Ecco con chi parlavi, Alyster.» sentirono pronunciare poco distante, voltandosi entrambi nella stessa direzione e riconoscendo Sirjan che usciva dalla saletta, il flauto traverso fra le mani.

Oz gli rivolse un sorriso leggero – probabilmente perché gli era grato: l’atmosfera in presenza di Alyster era sempre estremamente rilassata e serena, ma prima era stata tesa e pesante.

Stonava così tanto che era tranquillizzato ora dall’aggiunta di Sirjan, di cui apprezzava l’inconsapevole tempismo.

La ragazza, da parte sua, aveva ridacchiato appena: «Pensavi parlassi da sola?» chiese divertita, mentre il gemello si accostava alla sedia a rotelle.

Lo vide rivolgerle un sorriso gentile, non senza stupirsene un minimo: non che Sirjan riuscisse ad arrivare ai livelli di apatia di Aedan ad esempio, ma anche lui era stato spesso in grado di mantenere un’espressione distaccata e neutra in situazioni dove – secondo Oz – davvero era impossibile.

Non gli era quindi capitato spesso di vederlo sorridere a quel modo, nemmeno ad Alyster.

Oz vide il capo dormitorio spostare quindi lo sguardo dalla sorella a lui e inclinò appena la testa lateralmente, in attesa. La voce di Sirjan non tardò ad arrivare: «Dovevi esercitarti al piano?» chiese accennando allo strumento che fino a poco prima aveva suonato la gemella.

Oz scosse la testa: «No, stavo solo… vagando.» replicò, senza entrare troppo nello specifico.

In realtà, sebbene l’intento iniziale non fosse quello, ora che aveva i fratelli Kolstoj lì l’idea di chiedere a loro dello strano fenomeno avvenuto con Elliot gli sfiorava la mente, ripetendosi in maniera anche fastidiosa.

Ma non era sicuro di poter prendere il discorso, né che Sirjan si sarebbe di nuovo detto disponibile a rispondere alle sue domande – sempre che l’altro le avesse, delle risposte. Supponeva che non fosse infallibile e che ci fossero cose che nemmeno lui poteva sapere.

«Come va lo studio dello spartito?» sentì chiedere ad Alyster nel contempo, lo sguardo sullo strumento musicale in questione. Sirjan iniziò a riporlo accuratamente nella custodia con l’interno di velluto blu scuro.

«C’è ancora un’imperfezione che non ho trovato il modo di correggere. Probabilmente nel pomeriggio chiederò ad Elliot di provare insieme.» pronunciò lui, controllando con precisione maniacale che il flauto fosse riposto correttamente per poi richiuderne la custodia.

Alyster aveva semplicemente annuito ed ora aveva riportato lo sguardo su Oz: «Tornando al discorso di prima, sono contenta che tu abbia avuto risposte da Elliot e che abbia chiarito almeno parte dei tuoi dubbi.» disse, sincera.

Oz abbozzò un sorriso: non aveva voglia né la capacità di dirle che non era chiarito granché. E che, anzi, forse la situazione si era persino complicata rispetto a prima, per l’intromissione di quel qualcuno che sembrava Glen ma che pensare nel corpo di Elliot come uno spirito maligno era qualcosa di assurdo da ogni punto di vista.

«Recentemente hai parlato con Elliot Nightray?» domandò Sirjan, il tono tornato serio come era abituale coglierlo, l’attenzione totalmente su Oz.

Come se… sapesse.

Istintivamente sulla difensiva, il biondo annuì senza aggiungere nulla verbalmente. E in quella pausa che sembrò in qualche modo forzata, ad Oz sembrò che Sirjan stesse valutando qualcosa; almeno a giudicare dallo sguardo che, pur non essendosi scostato dalla figura del più piccolo, sembrava non guardarlo davvero.

Sirjan sospirò, visibilmente: e quella fu l’ennesima prova per Oz.

I gesti del capo dormitorio non erano mai palesi: analogamente alla sorpresa di poco prima nel vedere chiaramente il sorriso e la dolcezza rivolti alla sorella, lo stesso si poteva dire per l’aria che il più grande aveva ora.

Come se si fosse rassegnato a dover dire qualcosa che avrebbe gradito tenere per sé ancora per un bel po’.

«Hai l’aria sperduta, più che altro.» fu il commento diretto e conciso di Sirjan, al quale Oz sgranò appena gli occhi. Si aspettava qualcosa di diverso – anche se cosa non lo sapeva nemmeno lui – ma non che l’altro cercasse di leggere le sue espressioni o i suoi atteggiamenti.

…Non sembrava esattamente il tipo che potesse interessarsene, insomma.

Oz portò lo sguardo sui tasti del pianoforte, evitando quello di Sirjan in maniera piuttosto evidente.

«Hai detto che… Cheshire è uno spirito.» mormorò, come se cercasse di prendere tempo per formulare bene la domanda. Alzò quindi il viso, puntando gli occhi chiari in quelli dorati dell’altro: «Ce ne sono altri?» chiese, quasi a bruciapelo stavolta.

Sirjan si soffermò ad osservarlo, senza rispondere subito.

Oz nella sua personale visione era semplicemente il nuovo arrivato da tenere d’occhio i primi periodi; fin troppo presto si era rivelato un ragazzino sotto molti punti di vista problematico.

Aveva dovuto mettergli al seguito Aedan nel momento stesso in cui era apparso chiaro che qualcuno in quella scuola non gradiva la sua presenza ma che, al tempo stesso, qualcosa spingesse per averlo lì e portarlo ad interagire proprio con quel qualcuno.

E, per i suoi gusti, la necessità di uno come Aedan ad osservarlo costantemente mantenendosi nell’ombra era stata evidente fin troppo presto.

Anche per questo lo aveva avvicinato e, sempre per lo stesso motivo, non aveva gradito che il biondo si fosse a sua volta attaccato tanto – o così pareva – a sua sorella Alyster.

La cosa lo aveva portato – ed era raro che accadesse – a giudicarlo senza l’obiettività che lo caratterizzava: non che avesse fatto gesti particolarmente antipatici nei suoi confronti, ma gli era bastato poco per giudicarlo superficialmente solo un ragazzino che si piangeva addosso.

Fondamentalmente, era solo un moccioso.

Abbozzò un sorrisetto enigmatico: a quanto pareva, al momento era chiamato a rispondere a quello sguardo che sembrava aver preso la decisione più importante e difficile che Sirjan era convinto il biondo non avrebbe mai preso.

Scegliere la verità con la consapevolezza che ti distruggerà.

Senza certezza che ti rialzerai.

«Sì, ce ne sono altri.» replicò, sincero.

«Anche lo spirito di Glen Baskerville?» chiese, senza distogliere lo sguardo, come se avesse collegato la possibilità di avere una risposta degna di questo nome da parte del più grande al non interrompere il contatto visivo con lui.

Come se dimostrasse di poter ricevere le verità di cui Sirjan era a conoscenza.

«Anche Glen Baskerville.» replicò il capo dormitorio, risposta alla quale seguì un sospiro da parte di Oz, quasi sollevato – anche se non c’era davvero motivo per esserlo.

«L’ho incontrato, credo. Glen, intendo.» ammise, quasi avesse il bisogno di raccontarlo a qualcuno e si fosse trattenuto fino a quel momento: «Lui… ha detto di non ficcare il naso in cose che non mi riguardano. Tu sai di cosa parlava… vero?» aggiunse, osservando il maggiore.

Alyster, che fino a quel momento aveva taciuto, occhieggiò il fratello con un velo di preoccupazione nello sguardo; Sirjan, da parte sua, si sedette sullo sgabello del pianoforte.

«Per quanto ricevere questa risposta può averti stancato, rimarrà la stessa. Non  mi è permesso dirtelo.» rispose inizialmente, osservandolo quasi per scrutarne la reazione: «Con gli spiriti di questa scuola, pochi per nostra fortuna, ci sono dei patti.» iniziò poi a spiegare, benché il biondo non avesse chiesto nulla.

E in effetti, ora che Sirjan lo dichiarava apertamente, ad Oz tornò in mente che l’unica volta che aveva visto il più grande interagire con Cheshire o Aedan farlo per conto dello stesso capo dormitorio, avevano entrambi fatto riferimento a dei patti a cui erano scesi e che almeno Cheshire non stava rispettando col suo attaccare gli studenti.

«Potremmo definirli metodi di convivenza civili.» riprese Sirjan: «Si può evitare che loro si rendano visibili a tutta la scuola creando il panico e noi gli assicuriamo la tranquillità. Nessuno li disturba, e loro non disturbano noi.» concluse in una spiegazione breve ma tutto sommato chiara.

Oz tacque, in ascolto e Sirjan si sentì autorizzato a continuare senza dover rispondere a qualche domanda: «In realtà tu non dovresti sapere nulla di loro, come tutti gli altri studenti. Ma visto che il primo contatto che hai avuto con Cheshire è stato anche colpa sua, ho evitato di segnalarlo.» concluse.

«Segnalarlo?» fece eco Oz, l’aria perplessa.

Sirjan annuì: «Alle persone a cui io ed Alyster rispondiamo.» chiarì almeno in parte.

Oz si prese qualche attimo per riflettere sulla cosa: che ci fosse qualcuno al di sopra di Sirjan gli sembrava l’altro lo avesse detto. Supponeva però che non gli avrebbe rivelato di chi si trattava, dunque era persino inutile chiederlo.

«Questo qualcuno si occupa di tenere a bada questi spiriti?» optò quindi rispetto alla domanda che gli era venuto spontaneo fare e che aveva archiviato.

Sirjan scosse la testa: «Lo ha fatto, prima di noi. Ora ci trasmette solo come prendere il suo posto.» replicò.

Fece una pausa, nella quale lasciò vagare lo sguardo sulla parte di pianoforte che ora celava i tasti.

«Inoltre, chi c’è stato prima di noi era molto più comprensivo.» aggiunse.

Oz inclinò appena la testa lateralmente, senza capire: «In che senso?»

«Verso gli spiriti. Da questo punto di vista, io non sono decisamente la persona più adatta a questo ruolo.» ammise, con un incurvarsi delle labbra sarcastico.

Il biondo vide Alyster, accanto al fratello, lasciar sfumare lo sguardo dalla solita tranquillità che la contraddistingueva al dispiacere; per un discorso già affrontato altre volte e che sapeva bene dove andasse a parare.

«Per questo hai… eri così arrabbiato con Cheshire quella volta?» azzardò Oz, osservandolo.

Sirjan alzò lo sguardo su di lui – un paio di occhi decisi, senza la minima esitazione. E, al tempo stesso, occhi di qualcuno conscio di non pensarla nel modo giusto, ma che non cambierà idea.

«In quell’occasione era anche perché aveva violato i patti. Ma più in generale, io e gli spiriti non ci piacciamo. Io… non riesco a vederli come esseri deboli, al contrario della maggior parte delle persone.» replicò, il tono in qualche modo secco.

Probabilmente se ne accorse, perché quando parlò di nuovo la voce era di nuovo pacata, ma non neutra come al solito – forse in virtù del fatto che stava esprimendo un’opinione sua che non fosse influenzabile né da ruoli, né da regole.

«Non importa cosa succede o cosa succederà anche a me, la mia opinione rimarrà sempre la stessa. Non conta il fatto che io protegga la loro identità: i defunti hanno finito il loro tempo. I morti non tornano in vita. Se hanno rimpianti, se non hanno vissuto come avrebbero voluto, se sono stati infelici o insoddisfatti... non è una questione che riguarda chi è ancora in vita. Io non riesco ad avere pietà per loro.» concluse.

Brusco, con una totale assenza di tatto, specialmente davanti ad Oz – considerando che Sirjan sapeva di suo fratello.

Forse crudele, probabilmente cinico.

Ma Oz non seppe cosa dire per contraddirlo; solo, abbassò lo sguardo.

Lui lo sapeva, cosa significava: l’ombra di un defunto che aleggia su di te.

 

 

Doveva dare atto del fatto che, effettivamente, era lecito che un docente si irritasse se i suoi studenti dormivano alle sue lezioni o non vi prestavano comunque attenzione. Soprattutto, se Oz avesse avuto la capacità di staccarsi dal proprio corpo o cose simili e guardarsi in quel momento, avrebbe provato un senso di solidarietà verso il docente in questione.

Perché effettivamente non doveva essere granché stimolante vedere un’espressione a metà fra l’ebete e l’assenza totale degna di una persona momentaneamente sotto l’effetto di droghe di cui magari ignoravi anche l’esistenza.

Eppure, al di là di ogni considerazione obiettiva, quando si ritrovò davanti alla faccia una Emily rantolante che chiamava il suo nome in maniera che non avrebbe potuto definire in altro modo se non inquietante, Oz dovette ammettere che non mandare un accidente al professor Xerxes era fuori discussione.

Specie dopo essersi ritrovato a farsi salvare in corner da una caduta dalla sedia da Noah.

«Finalmente il signor Bezarius ci presta attenzione! Brava Emily ♥» canticchiò il docente, il sorriso falsamente cortese e sollevato sulle labbra.

Oz lo guardò male – come uno può guardare chi ti ha appena fatto rischiare un infarto precoce, ad esempio – ringraziando con lo sguardo Noah che gli lasciò il braccio che aveva afferrato per evitargli la caduta e sistemandosi di nuovo sulla propria sedia.

Break sembrava aver colto perfettamente lo sguardo, e d’altra parte Oz non si era esattamente impegnato a nasconderlo.

«Oh, uno sguardo minaccioso!» esclamò con tono canzonatorio, che si estese al sorriso ma non agli occhi: lo sguardo che gli stava rivolgendo il docente era qualcosa che Oz si prese la libertà di interpretare come una minaccia sul genere di “rispondimi, signor Bezarius, e ti dimostrerò che al mondo ci sono visioni molto peggiori di Emily”.

Motivo per il quale decise intelligentemente di tacere.

Break batté appena sulla cattedra per richiamare l’attenzione: «Ora che abbiamo finalmente l’attenzione di tutti, ho tanti annunci da fare!» trillò contento – un grugnito suggerì ad Oz che poco lontano Alice stava imprecando contro il docente.

«So che molti di voi saranno tristi per questo, ma» pausa ad effetto made in Xerxes Break: «le lezioni saranno sospese per un po’.» annunciò. Ed Oz poteva quasi giurare di aver sentito Noah al proprio fianco soffiare qualcosa di molto simile ad un “grazie a Dio”.

Poco dopo un sospiro affranto dai banchi davanti gli ricordò che c’era un fan club pronto a struggersi per questo.

«La professoressa Barma mi ha chiesto di ricordare a chi parteciperà al concerto per la Fondazione della scuola di concordare con lei gli incontri. E poi che tutte le lezioni saranno ferme, tranne le sue ♪» aggiunse.

Il “grazie a Dio” di Noah, se solo fosse stato pronunciato in quel momento anziché prima, probabilmente si sarebbe perso tra le imprecazioni.

Era poco ma sicuro che il compagno avrebbe preferito dieci pagine di funzioni, piuttosto che ore in più con la Barma.

Oz notò una studentessa dei primi banchi alzare la mano: «Professore, perché le lezioni della Barma non si interromperanno?» domandò.

Break ridacchiò – e l’eco di Emily non faceva presagire nulla di buono: «Perché si occuperà delle lezioni in vista del Ballo che si terrà prima delle feste natalizie!» esclamò come se fosse ovvio, oltre che una notizia assolutamente esaltante.

Un tonfo al suo fianco rivelò ad Oz che Noah aveva picchiato – anche se non troppo forte – la testa contro il banco, forse nella speranza di svegliarsi da quello che alle sue orecchie suonava come un incubo.

Sorrise appena divertito, perché non farlo era impossibile.

«Oh, e mi raccomando di fare i bravi bambini questo periodo che non ci vedremo e di ricordavi di dire a mamma e papà che la settimana dopo il concerto per la Fondazione ci sarà il ricevimento con gli insegnanti.» aggiunse con tono su di giri – e poco mancava che iniziasse a danzare in circolo con la bambolina fra le mani.

Colse un sonoro sbuffo provenire dal banco di Alice, alla quale rivolse uno sguardo e un sorriso leggero; notandola ignorarlo, dedusse che doveva ancora essere arrabbiata con lui per la questione di Vincent.

«E se non lo dicessi a casa?» provocò il docente, fissandolo con espressione arrogante.

Break le sorrise: «Ovviamente lo dirò io ai tuoi famigliari, signorina Lewis ♥» assicurò, quasi amorevole.

Mentre la campanella suonava e l’insegnante li lasciava liberi, Oz fu certo di aver visto Alice mimare un conato di vomito a quel tono che Break le aveva rivolto.

 

 

«Cinque minuti di pausa.» decretò la professoressa, spegnendo la musica che fino a quel momento aveva animato l’aula.

Nei soliti abiti eleganti ma non eccessivamente laboriosi o inadatti all’ambiente scolastico e i capelli legati nell’ordinato chignon, aveva concesso quella pausa con un battito di mani chiaro che era riecheggiato nell’aula utilizzata.

Noah al suo fianco si lasciò scivolare sulla prima panca libera: «Oz, ti prego, uccidimi.» implorò, fissando un punto dritto di fronte a sé, il resto della classe che scemava chi al bagno, chi verso le altre panche perdendosi in chiacchiere.

Oz sorrise, sedendosi affianco a lui: «Perché ti hanno pestato i piedi?» domandò, tirando ad indovinare.

Noah lo fissò allucinato: «… A parte che è più plausibile che io pesti i piedi a qualcuno. Ma no. Senti, perché devo esercitarmi a ballare se al ballo ci verrò per un incontro romantico col buffet?» ironizzò, fissandolo eloquentemente.

Oz ridacchiò appena: «Non lo so, perché?» chiese, curioso di sentire l’uscita dell’altro in proposito.

«Ecco, non lo so perché! Qualcuno lassù evidentemente mi odia! E sì, magari non sarò proprio stato un bravo bambino, ma se questo è Babbo Natale che porta rancore giuro che gli avveleno le renne quest’anno.» sibilò – suscitando in Oz una risata vera e propria.

«Che spirito natalizio…» commentò per prenderlo in giro.

«Si chiama “istinto di sopravvivenza”, Oz. Ma non mi stupisco, il tuo fa cilecca ogni tanto.» replicò di rimando.

Oz lo fissò con falsa arroganza: «Non sono io che ho passato una settimana in infermeria, sai?» gli fece notare. Noah fece schioccare le labbra, in un gesto di stizza come se fosse davvero offeso.

Oz gli picchiettò la testa con un dito, lasciandogli intendere che non era affatto credibile: «Dai, ti procuro delle polpette per le renne se vuoi.» riprese il discorso di poco prima.

Noah spostò lo sguardo su di lui, l’espressione furba: «Sapevo di poter contare su di te, socio. Le renne e il ciccione non avranno scampo.» assicurò.

Non si poteva essere così scemi.

«Ricominciamo.» li richiamò alla realtà Miranda Barma, rientrata dopo gli ultimi studenti tornati dal bagno.

Noah, ancora seduto per terra, alzò gli occhi al cielo – era una sorta di disperazione la sua, Oz ne era quasi sicuro.

«Signor Keynes, visto l’entusiasmo che vedo nel suo sguardo e che mi commuove per l’amore del ballo che vi leggo, vuole venire qui al centro per cortesia?» lo incalzò.

Noah non si mosse; l’espressione della sua faccia non era terrore probabilmente solo perché il suo orgoglio si era opposto al manifestarla.

«Signor Keynes, non era una richiesta, malgrado suppongo lo sia sembrata.» gli fece presente la docente e Noah si alzò, strascicando appena i piedi nell’avvicinarsi a lei.

La donna lo squadrò da capo a piedi, valutandolo: «Parola mia, signor Keynes, dovessi basarmi sulla sua postura per decretare la sua natura umana, non ci metterei nemmeno un lembo di abito sul fuoco.» commentò, il tono placido ma palesemente sarcastico.

Noah mordicchiò il labbro inferiore ma non disse nulla.

«Dunque, vediamo» esordì poi, iniziando a girargli intorno. Picchiettò contro la sua schiena con la mano: «Schiena dritta.» lo riprese, aspettando che il rosso eseguisse.

Gli posò le mani sulle spalle, tirando appena perché si sistemasse petto in fuori e spalle dritte come voleva lei. Seppur riluttante, Noah eseguì il movimento.

Lei, con un gesto assolutamente neutro del dorso della mano, diede un colpetto alla base dei suoi reni: «Un minimo di portamento, grazie.» lo corresse, occhieggiando le gambe dalla posizione alle sue spalle.

Vi soffermò lo sguardo con aria critica: «Per l’amor del cielo signor Keynes, la danza è un’arte e dovrebbe essere qualcosa che anche lei è in grado di figurarsi abbastanza facilmente, credo. Potrebbe non avere una posizione delle gambe come se dovesse affondare una zappa nel terreno?» lo esortò con tono critico.

Noah voltò la testa quanto bastava a guardarla: «Per favore, non mi faccia pensare a dipingere e al ballo come la stessa cosa. Potrei perdere l’ispirazione per il resto della mia vita.» commentò, suscitando la risatina di qualcuno, tra cui Oz.

La docente lo fissò in silenzio, occhieggiando poi gli altri presenti e soffermandosi sul biondo: «Signor Bezarius, noto che trova la battuta piuttosto divertente. Se è così gentile da raggiungere il suo compagno al centro, potremo godere tutti dell’ilarità generale.» disse.

Oz, con un sospiro rassegnato – ormai aveva capito che “amico di Noah” e “non detestato dalla Barma” erano due concetti che non potevano esistere nella stessa persona.

Avanzò quindi fino a raggiungere il compagno e la professoressa, fermandosi al centro.

Lei lo guidò di fronte a Noah, dopodiché si rivolse al resto della classe: «Fate bene attenzione, il signor Keynes e il signor Bezarius si sono proposti volontari per mostrarvi la posizione esatta di partenza.» fece presente.

Noah aveva palesemente mostrato di avere qualcosa da ridire su quel “volontari”, ma Oz gli aveva saggiamente pestato un piede: ci mancava solo che per punire l’ennesimo commento del rosso la Barma decidesse di vestirli da dame.

«Bene. Signor Bezarius, lei farà la dama.» decise, osservandolo con l’aria di chi non ammetteva repliche. Oz non disse nulla, muovendo un passo verso Noah che lo guardava tra l’incredulo e chi si sente tradito.

Miranda Barma si posizionò dietro il biondo.

«Bene, se non altro non dovrò manipolarle la schiena per farla stare vagamente dritto.» commentò dopo aver occhieggiato le spalle dell’altro: «Ora, signor Keynes, passi la mano destra intorno alla vita del suo compagno.» ordinò.

Noah fissò Oz, senza muoversi: «Ciò vuol dire che posso risparmiarmi il baciamano, deduco.» commentò, portando il braccio dietro la schiena di Oz, circondandogli la vita alla meno peggio.

L’altro cercò di non ridere, più che altro.

La docente li osservò: «Ora, la mano libera a sostenere la mano della dama.» disse, aspettando che Noah eseguisse.

Sospirò come chi si vede costretto a ripetere per l’ennesima volta la stessa cosa: «Signor Keynes, educazione e cortesia vogliono che se anche la dama con cui si danza non piace la si deve trattare con il massimo riguardo. Perciò, a meno che il signor Bezarius non abbia qualche malattia contagiosa direi che può tenerlo più vicino a sé.» gli fece presente.

Quando fu soddisfatta almeno in parte della posizione iniziale dei due, la docente fece partire la musica: un valzer dei più comuni.

Noah mosse un primo passo non proprio convinto, mentre Oz lo seguiva; poteva facilmente immaginare il disagio e le imprecazioni dell’altro: essendo di famiglia medio locata, era quasi ovvio che non gli fosse mai capitato di dover partecipare a qualcosa di vagamente simile ad un ballo e che di conseguenza non avesse mai imparato.

Né sentito la necessità di farlo, oltretutto.

Per questo Oz non ebbe cuore di sottolineare che i suoi piedi non erano di gomma e che quindi le sei volte di seguito in cui glieli aveva pestati non erano passate inosservate; non lo aveva fatto presente all’altro anche per tutti gli “scusa” che Noah era stato capace di bofonchiare nell’arco di un valzer.

Probabilmente quello era un nuovo record a tutti gli effetti.

Aveva optato per la solidarietà di cui solo un amico vero poteva essere capace, e alla fine della lezione gli aveva proposto di sgattaiolare in mensa a chiedere una cioccolata calda.

«L’unica cosa che mi fa tornare speranza nella vita è il pensiero che non dovrò mettere in pratica tutto questo, quel giorno.» commentò Noah soffiando sulla tazza piena del liquido scuro e fumante.

Oz ridacchiò: «Non sei andato così male.» gli fece presente, un po’ sincero un po’ solidale.

Noah lo fissò eloquentemente: «Tu dov’eri, che lezione hai visto?» ironizzò, sorseggiando poi la cioccolata con aria beata.

Oz non disse nulla, imitandolo e lasciando cadere il silenzio. Rimasero così per un po’, la mensa quasi totalmente deserta a eccezione di alcuni studenti che avevano avuto la loro stessa idea.

Quando Oz era quasi a metà della cioccolata, fu Noah ad parlare: «Ah, una cosa.» iniziò, classico richiamo dell’attenzione quando ci si è ricordati qualcosa all’ultimo minuto.

Il biondo portò gli occhi chiari su di lui, segno che lo stava ascoltando, esortandolo perciò a continuare.

«La lezione. Che rimanga fra noi.» continuò Noah, in un maniera abbastanza confusa perché Oz si sentisse autorizzato a chiedere: «In che senso?»

Vide Noah incurvare le labbra in un sorrisetto fra il complice e l’impacciato: «Che io e te abbiamo ballato insieme. Evitiamo che arrivi alle orecchie di Marcus, ne?» gli chiarì la cosa.

E dato che Oz non pensava Marcus avrebbe fatto chissà che particolari storie trattandosi di lui – a torto, ma questo il biondo non lo sapeva – e che l’uscita di Noah era stata assolutamente priva di malizia, scoppiò a ridere. 

 

 

La settimana che era seguita era stata quasi sicuramente quella che aveva messo più alla prova Noah Keynes in due anni di scuola.

Oz aveva azzardato a chiedere se non fosse stato abituato a quel periodo pre natalizio, visto che l’altro era a Latowidge dal primo anno. Noah però aveva spiegato che l’anno precedente era stato esentato dalle lezioni perché con la gamba rotta – e non per colpa delle risse quella volta, ma per un incidente – e che quindi era scampato a quel supplizio.

Grazia divina che non si era ripetuta quell’anno e che da quella prima lezione li aveva visti dirigersi dalla Barma tre volte a settimana per tre ore pomeridiane ogni volta.

E andavano avanti ormai da una decina di giorni quando all’ultimo incontro la docente li aveva avvisati che avrebbero fatto una pausa per qualche lezione, dal momento che era occupata con gli ultimi preparativi per il concerto.

Contrariamente a quanto Oz si era aspettato, in occasione dell’evento in questione non sarebbero stati presenti tutti i genitori: vi era invitata tutta la scuola, la cui presenza degli studenti era “particolarmente consigliata” – che nel linguaggio specifico di Rufus Barma significava “sarà il caso che non mi costringiate a inventare una punizione per coloro che non verranno” – e i maggiori beneficiari dell’istituto.

«Di solito» aveva spiegato Noah a pranzo qualche giorno prima dell’evento: «si tratta proprio di famiglie particolarmente benestanti. Una volta mi pare di aver capito che se ne occupassero anche i Bezarius e i Nightray, no?» gli aveva chiesto conferma.

Oz ricordava grosso modo che tra i motivi di assenza del padre qualche volta c’era stato anche quel concerto; tuttavia dopo la morte di Jack, Zai Bezarius aveva evitato contatti di quel tipo per diverso tempo e dunque non vi era stato più chiamato a prendere parte.

Aveva quindi annuito verso Noah: «Dei Nightray non so nulla però.» aveva ammesso.

Noah, con un’alzata di spalle, aveva continuato: «Hanno avuto dei problemi, ma non so quali. E poi i beneficiari sono pochi lo stesso. Come rappresentanti dei Barma ci sono i magnifici due del corpo docenti. Lo stesso per Wayne.»

«…Wayne? Quello di chimica?» aveva chiesto Oz incredulo, rischiando di strozzarsi con lo stufato.

«Esatto. Non  pare proprio il tipo da famiglia ricca, eh?» aveva ridacchiato Noah, dandogli poi qualche altro nome dei beneficiari che – come premesso proprio dal rosso – non si erano rivelati una quantità esagerata.

Per questo, nell’avviarsi verso l’aula magna dove il concerto avrebbe avuto luogo, Oz non si aspettava troppi volti sconosciuti.

Era stato comunicato agli studenti che per l’occasione ci si sarebbe dovuti presentare in abiti consoni all’evento; Oz aveva dunque indossato dei pantaloni scuri e semplici e una camicia bianca con sotto il colletto lo stesso nastro che era parte della divisa – si era richiesto quell’unico particolare degli abiti che indossavano ogni giorno per mantenere quel tratto distintivo.

Sopra la camicia, una giacca nera lunga fino a metà gamba per alcuni, al ginocchio per altri; i ragazzi erano risultati vestiti in maniera molto simile, almeno a giudicare da Noah con il quale si era avviato fino all’aula magna e dagli studenti incrociati nel mentre.

Le ragazze invece avevano indossato abiti eleganti e per lo più lunghi, ma non tutti uguali: nessuna ne aveva indossati di neri, ma avevano compreso una vasta gamma di colori.

Vi erano blu notte e colori pastello soprattutto: nell’arrivare all’ingresso dell’aula magna Oz aveva riconosciuto all’entrata sua sorella Ada in compagnia di alcuni compagni di anno. Con lei c’erano Sally McFinch, l’abito sul verde chiaro e – i capelli lunghi ordinatamente legati da un nastro blu e dall’abito nero – Clifton Lafayette.

Ada indossava un abito rosa pallido e sorrise quando vide il fratello.

Il suo agitare la mano però fu rivolto anche a qualcuno dietro di loro: nel voltarsi, Oz intravide il nucleo della famiglia Nightray, che per ovvi motivi erano arrivati insieme.

I due fratelli, Vincent e Gilbert – probabilmente, pensò Oz, Elliot doveva essere insieme agli altri che prendevano parte al concerto come musicisti – vestivano nero ed entrambi avevano i capelli raccolti; Gilbert aveva cercato di raccoglierli in un nastro blu, ma la maggior parte delle ciocche davanti gli erano sfuggite.

Vincent invece aveva raccolto i capelli biondi in una coda più alta, con un nastro bordeaux.

Entrambi alzarono una mano all’indirizzo di Oz e gli altri, Vincent con un sorriso entusiasta per il concerto, Gilbert con un incurvarsi di labbra meno visibile, ma cortese.

Con loro c’erano Echo, un abito sul blu e i capelli raccolti con un fermaglio a forma di farfalla che lasciava comunque le ciocche ai lati del viso libere ed Alice, l’abito sul rosso non troppo acceso e i capelli acconciati nelle solite due code.

Oz rivolse un cenno anche a loro due, che Echo ricambiò con un leggero e rispettoso chinare del capo, mentre Alice distoglieva lo sguardo con aria seccata e passava accanto al gruppo salutando a malapena Noah.

Il biondo si era voltato con l’intento di fermarla – era passato già troppo tempo da quando avrebbero dovuto chiarire quella lite nata per colpa di entrambi – ma si era sentito fermare gentilmente per la spalla.

Nel voltarsi, individuò come autore del gesto Vincent: «È davvero molto arrabbiata perché è tornata ieri da casa. Ti consiglio di aspettare un pochino.» mormorò, con fare quasi complice.

Oz abbozzò  un sorriso leggero, lasciando stare l’idea di seguire la castana e rivolgendosi al biondo: «Tu stai bene?» chiese, riferendosi alle ferite su cui lo aveva già rassicurato Gilbert, comunque.

Vincent annuì, per poi rivolgersi ad Ada.

Gilbert rimase invece fermo lì, preferendo non unirsi al gruppo e rimanere qualche passo distante, vicino ad Oz.

«Prima ti cercava Alyster.» gli disse, osservandolo.

Oz annuì, l’espressione incuriosita, ma non ebbe bisogno di chiedere nulla intravedendo alle spalle di Gilbert la ragazza che si avvicinava a loro.

Indossava un abito lungo che le copriva le gambe e a malapena lasciava intravedere i piedi poggiati sulla piccola pedana della sedia a rotelle; di un bordeaux che si intonava agli occhi carmini, le fasciava il corpo esile.

Sorrise sia ad Oz che a Gilbert, rivolgendosi a quest’ultimo per primo: «Grazie per prima.» pronunciò, il tono cortese.

Gilbert scosse appena la testa: «Figurati.» replicò, occhieggiando poi Oz.

«Mi cercavi?» domandò il biondo, lo sguardo chiaro su di lei che annuì: «Ho pensato che potesse farvi piacere assistere al concerto vicini al palco.» rivelò, muovendo appena la sedia a rotelle per avanzare verso Ada e gli altri che chiacchieravano ancora fra loro.

La sorella di Oz la notò per prima e le sorrise ampiamente: «Alyster, ciao. Sirjan si sta preparando con Elliot e gli altri?» chiese, portando anche l’attenzione degli altri sulla capo dormitorio.

Vincent prese gentilmente una sua mano, mimando un educato baciamano e sorridendole; lei ricambiò con la gentilezza che la contraddistingueva e annuì all’indirizzo di Ada: «Sì, mio fratello è con gli altri partecipanti.» confermò.

Rivolse poi loro lo stesso invito esteso ad Oz qualche attimo prima, che fu accolto di buon grado e con entusiasmo. Attesero quindi solo l’arrivo di Marcus – che Oz vide arrivare insieme ad Aedan e il ragazzo che aveva già visto interagire una volta con il moro ma di cui gli sfuggiva il nome – dopodiché entrarono nella sala.

Gilbert aveva arbitrariamente scelto di spingere la sedia a rotelle di Alyster e Oz li affiancava; Noah chiacchierava con Marcus mentre Aedan e l’altro ragazzo – Ethan, gli aveva ricordato il rosso – si erano divisi da loro quasi subito.

Il brusio della sala animava l’ambiente, ma non era fastidioso: sul lato sinistro della prima fila di posti vicino al palco vi erano visi adulti che Oz rimandò ai benefattori dell’istituto mescolati a quelli più familiari del corpo docenti.

Il lato destro, libero, fu quello verso cui li condusse Alyster: probabilmente aveva facoltà di invitarvi chiunque ritenesse opportuno, perché nessuno dei docenti prestò particolare attenzione al loro gruppo.

Individuarono Aedan seduto al primo posto dopo i docenti – nello specifico accanto a Wayne – con al proprio fianco Ethan.

Accanto al moro si sistemò Marcus, le braccia incrociate al petto e neanche a dirlo dopo di lui sedette Noah che – per motivi che rimasero ignari finché non furono quasi tutti seduti – pretese al proprio fianco Ada. Dopo di lei sedettero Sally e Clifton, al quale seguì Vincent.

Come ci si poteva aspettare, il biondo fece sedere Gilbert alla propria destra e dopo il moro si sistemò in silenzio Echo.

A quel punto, Oz e Alice si guardarono, entrambi in piedi e con Alyster che per forza di cose sarebbe rimasta sulla sedia a rotelle dopo l’ultimo posto.

Alice sbuffò, prendendo posto accanto ad Echo e fissando lo sguardo di fronte a sé, le braccia incrociate al petto; con un sospiro, Oz le si sedette affianco e Alyster rimase ferma dove Gilbert l’aveva sistemata sotto sua richiesta.

Dopo pochi minuti, videro una donna salire sul palco: indiscutibilmente avanti con l’età ma dall’aria gioviale e in piena salute, l’abito di un celeste pallido e i capelli in alcuni punti con i segni dell’età avanzata legati in un chignon ordinato.

Attese che il silenzio scendesse nella sala, dopodiché rivolse a tutti un sorriso gentile e cortese: «In quanto preside dell’istituto Latowidge, voglio innanzitutto dare il mio benvenuto ai tutti i presenti a questo concerto in occasione della fondazione della scuola, che vanta una certa età. E’ addirittura più anziano di me.» fece notare, suscitando un accenno di risata divertita generale.

«Un ringraziamento particolare ai nostri ospiti e ai docenti che si sono impegnati perché come ogni anno fosse possibile organizzare questo evento che è occasione di svago per gli studenti e per ricordare tutti insieme una data importante.» continuò, allungando poi una mano verso i posti che ospitavano gli insegnanti.

«Pregherei la professoressa Miranda Barma, docente di Musica che si impegna particolarmente ogni anno per la buona riuscita di questo concerto, a salire sul palco per presentare i suoi alunni.» chiamò poi, iniziando lei un applauso educato al quale si unirono tutti i presenti.

La docente chiamata si alzò dal proprio posto, raggiungendo la donna sul palco e sorridendole cortesemente, prendendo poi la parola.

«Ringrazio la preside Cheryl» disse come prima cosa, rivolgendosi alla sala: «Come ogni anno, gli studenti scelti per quest’occasione sono fra coloro che nella mia materia hanno ottenuto i migliori risultati e hanno effettuato un percorso didattico di grande levatura.» prese a spiegare, come piccola e doverosa premessa.

«Il brano di quest’anno è stato composto da uno studente promettente, che per analoghi motivi è stato scelto anche come esecutore. Le parole sono state invece adattate, con il suo consenso, dalla cantante solista.» concluse la spiegazione.

Fece una breve pausa in cui lanciò un’occhiata al sipario alle sue spalle, da cui probabilmente ricevette il cenno di conferma che le serviva per passare alla presentazione; il tendaggio rosso scuro prese ad aprirsi da entrambi i lati, rivelando un pianoforte nero a coda e due leggii accanto ad esso a prendere possesso del palco.

«Passo dunque a presentarvi i quattro studenti che eseguiranno il brano. Al pianoforte, per il quarto anno, Elliot Nightray.» chiamò, sistemandosi lateralmente mentre il ragazzo entrava.

In abiti scuri molto simili a quelli di Oz ma con la giacca appena più lunga, avanzò sul palco voltandosi verso il pubblico quanto bastò ad un inchino leggero del busto per poi andare a sistemarsi al pianoforte mentre l’applauso sfumava.

Miranda Barma riprese la parola: «Al flauto traverso, per il quinto anno, Sirjan Kolstoj.» chiamò.

Il capo dormitorio avanzò dallo stesso lato da cui era entrato Elliot: il portamento elegante e la giacca stavolta più corta – appena oltre i fianchi – ma comunque nera, aveva il proprio strumento fra le mani. Sotto il colletto della sua camicia, Oz poté notare che il nastrino non era del colore dell’anno di Sirjan, ma bordeaux.

Gli venne spontaneo credere che fosse quasi per richiamare il colore dell’abito della sorella, che sedeva sorridente al fianco del biondo.

Oz lo vide sistemarsi dietro il primo leggio a seguito del pianoforte, dopodiché riportò lo sguardo sulla docente.

«Per il violino, del quarto anno, Karin Hamilton.» chiamò.

Poco distanti da lui, Sally applaudiva un poco più forte degli altri e con una certa soddisfazione come se lei e l’amica fossero la stessa persona; Clifton applaudiva educatamente, ma aveva un sorriso dolce sulle labbra.

La mora imitò Sirjan ed Elliot, sebbene salì dal lato opposto: fece un inchino verso la sala, il violino e l’archetto fra le mani. Vestiva un abito sull’indaco, i capelli raccolti in una treccia morbida. Si sistemò sull’ultimo leggio, poco distante da Sirjan.

Infine, l’insegnante chiamò la cantante: «Voce solista, per il quinto anno, Keira Nightingale.» concluse, allontanandosi dal palco per tornare al proprio posto mentre l’ultima studentessa entrava dallo stesso lato da cui aveva fatto il suo ingresso Karin.

Era l’unica dei quattro che Oz non conosceva: i capelli castani sfioravano le spalle, sciolti. Gli occhi erano chiari anche se da lì non poteva definire con esattezza il colore e il corpo era fasciato da un abito azzurro pastello.

Per ovvi motivi non aveva strumenti con sé.

L’applauso per lei scemò e i ragazzi si scambiarono un’occhiata, probabilmente volta a segnalarsi l’un l’altro di essere pronti.

Nel silenzio carico di attesa e aspettativa della sala, si vide Sirjan accostare il flauto al viso e l’apertura in cui incanalare il fiato alle labbra fin quasi a sfiorarne il freddo metallo. Un suono limpido si sentì chiaro nel silenzio della sala, dando il via alle prime note da solo, seguito né dal violino, né dal pianoforte.

Oz sgranò gli occhi: erano state poche note, era vero, ma aveva ascoltato quella canzone troppe volte ormai per non riconoscerla. Da Elliot, durante le notti passate a spiare come un bambino, a volte anche con Alyster; e dall’orologio, lasciato nella stanza insieme al diario che occupava con le sue pagine i suoi pensieri molto più di quanto non desiderasse, angosciandolo.

E le note che partirono dal pianoforte di Elliot – lo sguardo era attento sullo spartito, eppure Oz era certo che il minore dei Nightray avrebbe potuto suonare anche ad occhi chiusi e ottenere comunque la perfezione che costantemente ricercava – accompagnarono la voce chiara di Keira, che aveva riempito l’aria quasi in contemporanea ad esse.

La canzone, come la melodia sulla quale si basava, era triste: le parole rimandavano ad un tempo perduto con la consapevolezza che non sarebbe ritornato, ricordato da una figura che cambiava nell’immaginario personale di ognuna delle persone che ascoltava.

Il ricordo triste a cui ci si aggrappava, a prescindere da quanto potesse distruggere chi lo richiamava continuamente, convinto della sua azione benefica senza accorgersi che si insinuava nell’anima e nella mente come il veleno più letale di tutti.

Oz socchiuse gli occhi, ascoltando in silenzio, senza più curarsi di cosa era accanto a lui.

Dopo la prima strofa, sentì il violino aggiungersi agli altri strumenti, mentre il flauto traverso ancora taceva.

 

Portate d'argento per i ricordi,

per i giorni passati,

cantando le promesse

che il domani può portare.

 

Al pianoforte e al violino, insieme alla voce di Keira, si era aggiunto infine anche il flauto che ora stava eseguendo un duetto solo con il pianoforte.

Elliot e Sirjan suonavano in perfetta armonia, come se le menti e i sentimenti fossero un unico strumento musicale che suonava nel silenzio della sala che sembrava quasi vuota.

La voce di Keira riprese a cantare, e ad Oz parve quasi ironico che persino quella canzone parlasse di ricordi, quando la sola musica bastava a risvegliarne fin troppi, indesiderati e sperati al tempo stesso.

Il desiderio di non dimenticare una persona importante, e la paura del dolore che la realizzazione di quel desiderio certamente comporterà.

Il vuoto riempito da un nodo alla gola, e la sensazione di qualcosa inevitabilmente scivolata fra le mani.

Non si guardò attorno, Oz, ascoltando l’esibizione; forse per una strana forma di masochismo, o magari perché era semplicemente normale che accadesse, seguiva l’immagine di un Jack sorridente nei suoi ricordi.

Non uno in particolare, uno più felice di altri o più vivido; solo, suo fratello.

Mentre l’espressione si rilassava, e la maschera andata indebolendosi – prima la melodia, poi Glen, poi il diario – calava pian piano, pericolosamente.

Non scompariva ancora, perché non succedeva mai davvero.

Ma il dolore era lì.

E non c’era più un sorriso a nasconderlo, in quel momento.

 

La tua vera voce è nel mio cuore,

più dolce della disperazione,

eravamo lì

 

Violino, pianoforte, canto.

Voce limpida, parole struggenti.

Melodia lenta, violino che esprime tristezza.

E ancora corde che suonano speranza, e pianoforte che le lascia affondare nella malinconia.

E poi silenzio, e pianoforte che tace, e violino che riparte e affianca note di un flauto che più chiari delle altre e scandite come il ticchettio di uno orologio da taschino inglobano tutti quei sentimenti concentrati lì.

In quel nodo che non si vuole sciogliere.

Ricordi diversi di una stessa persona; ricordi di due persone diverse, con sentimenti diversi e ruoli altrettanto dissimili.

Entrambi vaghi, quando si vorrebbe averli limpidi e chiari lì davanti agli occhi chiusi.

Il tempo che aveva agito da una parte, e un’amnesia come scherzo di cattivo gusto dall’altra.

Espressioni di dolore differenti, mentre le parole sfumavano in un addio quasi ironico, in quel momento.

«…Oz, stai bene?» sentì chiedere, al proprio fianco.

Si voltò verso quella che era indiscutibilmente la voce di Alice; se solo fosse stato un altro momento, un’altra occasione, Oz avrebbe potuto mostrarsi incredulo del fatto che l’amica gli stesse rivolgendo la parola senza alcuna traccia di rabbia nel tono.

Con espressione preoccupata, come se non ci fosse stato tra loro alcun litigio.

«Oz?» chiamò di nuovo Alice, il tono sinceramente preoccupato, senza più dare importanza all’orgoglio o agli screzi.

Il biondo la osservò con l’espressione di un bambino perso, impaurito da quello che vede e che ascolta: un’espressione che a nessuno aveva permesso di guardare.

Inclinò il capo indietro, poggiandosi del tutto alla spalliera delle poltroncine su cui sedevano, portando un braccio a coprire gli occhi lasciando visibile solo un sorriso mesto.

«No» mormorò piano, il tono che non si poteva descrivere con esattezza a parole: «No, Alice. Non mi sento bene.» aggiunse debolmente, nella voce una sfumatura di scherno verso se stesso.

Lo scherno verso la propria stessa debolezza, che Alice in qualche modo conosceva e che rispettò.

Non disse nulla, tornando con lo sguardo sul palco mentre la canzone volgeva quasi al termine; prendendo una mano come una promessa tra bambini, senza alcuna malizia, con la voglia di comunicare che c’è qualcuno lì per te.

 

Finché non verrai.

Finché non chiuderemo gli occhi.

 

 

 

 

«Gil, ti senti bene?» soffiò Vincent, lo sguardo sul fratello che aveva portato una mano alla tempia.

Un gesto fin troppo secco e veloce per passare inosservato al minore dei due, che si era chinato quasi subito verso il moro.

L’espressione dolorante, Gilbert scosse appena la testa.

Nel momento stesso in cui aveva avuto qualcosa di molto simile ad un flash e aveva cercato di aggrapparvisi e trattenerlo – la sensazione che fosse importante era stata pressante e insistente tanto da ordinarglielo quasi violentemente – un mal di testa lancinante lo aveva colpito.

Una fitta improvvisa e forte, che ora rimaneva in maniera più vaga ma ugualmente dolorosa.

«Gil?» lo richiamò, ancora vicino a lui, quasi cercasse di capire dall’espressione del fratello lo stato in cui versava.

Gilbert aprì un occhio, puntandolo su Vincent e cercando di abbozzare un sorriso per quanto possibile: «Sto… Sto bene, non preoccuparti. Ora passa.» mormorò, per rassicurarlo.

Era solo una fitta, come quelle dei primi tempi in cui aveva tentato di ricordare, prima di arrendersi a farlo.

Sarebbe passata.

Passava sempre, e non lasciava niente dietro di sé.

La musica sfumò, dopo le ultime parole cantate da Keira; quando ci fu il silenzio completo, dopo pochi e brevi istanti l’applauso fragoroso degli studenti accolse il concludersi dell’esibizione.

 

Mentre il pianoforte suonava le ultime note dell’esibizione, vicino all’entrata della sala in cui si svolgeva qualcuno guardava il palco.

I lunghi capelli scuri, l’abito chiaro e le mani portate a coprire il viso in lacrime.

Accanto a lei, una figura invisibile al resto dei presenti – come lo era lei stessa: i capelli biondi e lunghi, legati in una treccia morbida.

Abiti informali, pantaloni comodi e una semplice camicia; gli ultimi indossati.

Portò lo sguardo chiaro su di lei, andando a sfiorarle la spalla con il gesto gentile di chi vuole proteggere qualcosa di fragile e prezioso.

Il sorriso mesto sulle labbra, non si chinò verso di lei, limitando a quel tocco il loro contatto: «Anche se non mi rispondi mai, vorrei davvero sapere… ti piacerebbe questa versione, Lacie?» sussurrò.

Lei, scossa ancora da un pianto silenzioso che nessuno poteva ascoltare, lentamente scomparve.

Sbiadendo, come i sentimenti lontani e i ricordi seppelliti chissà dove, chissà perché.

La mano a mezz’aria dove prima era lei, lo sguardo che accarezzava il nulla che c’era al posto della sua figura, Jack sorrise con quell’incurvarsi di labbra triste.

Tornò a guardare il palco e chi davanti ad esso si lasciava sopraffare.

«Già.» mormorò piano: «Sei ancora arrabbiata con me, vero?» sussurrò.

E, lentamente, spariva.

 

 

Note

Non ho nemmeno il coraggio di scusarmi per l’immane ritardo, anche se avevo avvisato x°

No, vabbé, perdono ;__;

Passiamo alle note sennò non si finisce più; sono apparse anche Cheryl Rainsworth e Lacie, yay XD E persino Edgar della serie “Holy Knight” che c’è anche nel manga e che Oz legge *muore*

Poi, chiarimenti e citazioni. La frase in apertura è della opening di Gundam 00 (Hakanaku mo Towa no kanashi).

La canzone utilizzata per il concerto della fondazione è “Everytime you kissed me”, ossia la versione cantata di Lacie (presente nel secondo OST di Pandora Hearts): l’inizio è fatto con la musica del carillon, che per esigenze di trama e strumentali ho sostituito al flauto suonato da Sirjan.

Infine, qualora qualcuno volesse figurarsela meglio, il brano suonato da Alyster nell’aula di musica è “Roaring Tides” (Clannad OST).

Mi pare di aver detto tutto, quindi passo ai ringraziamenti!

 

Litachan: grazie di seguirmi sempre ;_; *si sente ripetitiva* E Rufus stile Piton nooo XD Già c’è Gilbert che per colpa mia è stato sostituito all’immagine della Monnalisa XD

Contenta che siano arrivati i sentimenti di Noah, visto che ci tenevo particolarmente <3

 

Gioielle: non risponderò esattamente punto per punto, ma tanto a quelli posso chiarirti in separata sede XD

Grazie del commento innanzitutto (mi piacciono i commenti-papiro, mi stai viziando XP) e mi inquieta che malgrado io ti abbia disilluso a proposito, tu continui a flashare una SirjanAedan/AedanSirjan x°°

Mi dispiace tanto che non ci sia per ogni capitolo spazio GilOz, ma purtroppo è il dramma di avere una ventina di personaggi da giostrare x° Cercherò di impegnarmi per non deludere il vostro lato fangirl, lo giuro!

Come sempre, felice che ti piaccia Alyster.

C’è stato qualche chiarimento in più su Jack, e spero di aver lasciato intendere un po’ di più anche il modo di pensare di Sirjan anche se presto l’introspezione toccherà anche a lui XD

Spero che questo capitolo sia stato di tuo gradimento ^^

 

Yoko891: olé, questo capitolo dovrebbe renderti abbastanza felice se non altro per le apparizioni di Sirjan XD

Non sono molto convinta dell’IC di Oz stavolta, ma spero bene e rimango in attesa del tuo riscontro donnaH ù.ù

…E spero di non aver devastato nessuno con le parti di diario di Jack. *si angolizza un attimo*

E una cosa che solo tu puoi capire: ma Wayne di famiglia ricca? XD *crepa*

Grazie dei complimenti e di seguirmi <3

 

Makotochan: tu che ami l’accoppiata cazzona Noah/Oz, ti ordino di amare i loro siparietti durante le lezioni XD

Scherzi a parte, spero che ti siano piaciuti visto il tuo interesse per loro come coppia di scemi.

Ti ringrazio per i commenti sullo stile, i tuoi sono sempre un po’ poetici in effetti XP

E sì. C’era dell’ElliotOz in quella scena: non tanto perché pairing della fanfic, quanto perché l’autrice lo voleva, punto. XD

 

Fiamma Drakon: innanzitutto, benvenuta fra chi ha il fegato di seguire tutto ciò XD

Ti ringrazio per l’aggiunta ai preferiti e di aver deciso di seguirla – oltre che per i complimenti ^^

Spero che anche questo capitolo possa essere di tuo gradimento X3

 

In chiusura, un grazie anche a chi mi commenta in separata sede e chi ha aggiunto alle seguite o hai preferiti e quindi deduco la legga. Grazie davvero <3

 

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Capitolo 12
*** Lui che non rivolge lo sguardo verso di me ***


Prova a cogliere qualche suono oltre un rumore meccanico e continuo nel silenzio altrimenti completo della stanza

Lui che non rivolge lo sguardo verso di me

 

From my reflection,

I want perfection.

 

 

Prova a cogliere qualche suono oltre un rumore meccanico e continuo nel silenzio altrimenti completo della stanza.

Qualche attimo prima poteva giurare di aver distinto qualche voce, anche se non era stato in grado di riconoscerle.

Interrompe i pensieri nel cogliere la porta che si apre: si sforza di aprire gli occhi, trovando inizialmente qualche difficoltà, sentendo le palpebre pesanti.

Chiunque fosse entrato, probabilmente aveva colto qualche movimento da parte sua; sente dei passi avvicinarsi.

«Oz…?»

Si sforza di aprire gli occhi, riuscendovi: la vista inizialmente non chiara si focalizza sulla persona al proprio fianco, non impiegando troppo nel riconoscere la figura di Ada.

E, dietro di lei, Gilbert Nightray.

Sbatte appena le palpebre, quasi a metterli meglio a fuoco e vede spuntare un sorriso timido sul viso della sorella: «Fratello, come ti senti?» la sente chiedere.

Sospira piano, chiudendo gli occhi qualche secondo: «Mi… gira la testa.» pronuncia, il tono flebile.

Ada, accanto a lui, si siede: Gilbert, qualche passo indietro, rimane fermo.

Sposta lo sguardo su di lui, Oz, e gli sorride: «Gilbert, com’è andato il concerto?» domanda.

Non ricorda esattamente cosa è successo verso la fine, come se si fosse addormentato e non sapesse chi può averlo portato lì dov’è adesso – che suppone sia l’infermeria della scuola, forse.

Magari ha avuto un colpo di sonno, pensa.

Gilbert non risponde: «Il concerto?» gli fa eco invece, ripetendo la domanda.

Lui annuisce appena: «Sì, ricordo Sirjan che suonava e… quella ragazza, la compagna di Alyster Kolstoj. Aveva finito di cantare, ma… poi?» mormora confuso.

Ada assume un’espressione strana, lo sguardo che devia dal fratello.

Il biondo guarda Gilbert, ma non riesce ad intravederne gli occhi, così come sono coperti dalla frangia in quel momento; l’amico tace.

Non gli sembra di aver fatto una domanda così difficile e si sente quasi in ansia per quell’assenza di risposta.

«Gilbert?» lo esorta infatti.

Il moro, per riflesso, sentendosi chiamare alza lo sguardo e l’espressione che gli vede in viso ad Oz non piace affatto; è simile allo sguardo che ogni tanto gli rivolge anche Ada, e che lo fa andare in bestia e gli fa venire voglia di alzarsi e urlarle cose che possono ferirla.

Quello sguardo non gli piace: somiglia troppo alla pietà.

«Ti ho fatto una domanda.» fa notare al moro, il tono che è strano ma non ancora eccessivamente rabbioso: Ada, tuttavia, probabilmente ormai quasi fiuta le sue reazioni nell’aria, perché lo guarda preoccupata, allarmata quasi.

Questo gli fa rabbia.

Vede Gilbert avvicinarsi, e allungare appena una mano verso il viso del biondo, esitante, come se temesse di fargli male.

Oz non allontana la mano che si protende verso di lui, né fa nulla per evitare quel contatto del dorso delle dita di Gilbert – un po’ fredde al contatto con la guancia, in verità.

«Oz, forse dovresti riposare.» mormora piano, con lo sguardo addolcito e preoccupato e confuso insieme.

Lo odia quello sguardo.

Lo odia da morire.

E non si accorge nemmeno di quando esattamente stringe la sua mano intorno al polso del moro, e stringe parecchio quasi per obbligarlo a piegarsi verso di lui – sfortuna vuole che sia debole per riuscirci, ma l’intento è ugualmente palese.

Si sente urlare, sente la propria voce rabbiosa all’indirizzo di Gilbert.

Sente se stesso pronunciare parole orribili, alle quali l’altro inizialmente sgrana gli occhi, poi abbassa lo sguardo, poi si morde il labbro inferiore in quel tic nervoso che ha sempre avuto fin da ragazzino.

Sente dolore alla gola ad un certo punto, probabilmente è quando grida veramente troppo.

E Gilbert ancora evita il suo sguardo.

E lui lo odia ancora di più.

 

 

«Ohi, Oz.» colse quasi contemporaneamente a quando la figura di Noah rientrò nel suo campo visivo.

Richiuse qualche istante gli occhi, intontito dal sonno – e da Noah che lo smuoveva mettendo a dura prova la stabilità del suo stomaco di prima mattina.

«Ho capito, mi sveglio, mi sveglio…» mormorò, pur di mettere fine a quel movimento che a breve gli avrebbe fatto venire il mal di mare nonostante fosse solo sul letto della propria stanza.

Sentì Noah ridacchiare, anche se gli parve di cogliervi una sfumatura appena più nervosa del solito: «No, ma non siamo in ritardo, è domenica.» lo rassicurò, lo sguardo ancora su di lui.

Oz aprì gli occhi in maniera definitiva, andando ad osservare il compagno: effettivamente notò che indossava abiti da camera, un paio di pantaloni semplici e un maglione che lasciava intravedere il colletto di una camicia bianca.

«Ma se è domenica…» iniziò Oz, il resto intuibile, tanto che il compagno lo precedette: «Avrei evitato di svegliarti, ma ti stavi agitando di nuovo in quel modo un po’…» toccò a Noah lasciare in sospeso.

Si guardarono rimanendo in silenzio, entrambi consci solo in parte di cosa l’altro volesse dire o stesse pensando.

Oz notava solo in quel momento che da almeno una settimana quei sogni che gli avevano procurato l’insonnia sembravano aver deciso di dargli un minimo di tregua; per contro, Noah sembrava impacciato un po’ dal disagio dell’argomento – che era anche stato in qualche modo oggetto del loro litigio – un po’ preoccupato per il fatto che quel sonno agitato fosse ricominciato.

«Strano?» concluse infine Oz per lui.

Noah, sedendosi sul bordo del letto del compagno scosse la testa: «Non proprio. Preoccupante, più che altro. E poi chiamavi dei nomi nel sonno, e ho pensato che non era qualcosa di piacevole.» ammise lui.

Il biondo ne fu in parte perplesso: «Nomi?» domandò infatti, ora con la massima attenzione alle parole dell’altro, che annuì.

«Ti avevo già sentito altre volte. Di solito nomini tua sorella Ada per lo più.» rivelò, lasciando però intendere che stavolta era stato diverso, almeno in parte: «Ma prima hai chiamato anche Gilbert Nightray. E quasi urlato qualcosa che assolutamente non ho capito, ma eri parecchio arrabbiato.» concluse.

Oz cercò di fare mente locale sul sogno che aveva fatto: aveva ancora abbastanza chiara la rabbia a cui lo stesso Noah aveva accennato, e anche la figura di Gilbert – quella di Ada un po’ più vaga a dir la verità.

Ma gli sfuggiva cosa potesse aver urlato contro Gilbert.

E non ebbe molto modo di concentrarsi per ricordarlo, sentendo la mano presumibilmente di Noah che gli scompigliava energicamente i capelli: alzando lo sguardo chiaro sull’amico, lo vide sorridere apertamente e fargli l’occhiolino con fare complice.

Non poté non ricambiare, prima ancora che Noah parlasse: dopotutto l’altro era stato il primo con cui aveva parlato, il primo che gli si era rivolto da pari, senza preoccuparsi di niente di superfluo e fidandosi solo di quanto Oz gli diceva.

«Non starti a preoccupare, so io cos’hai! Lo stomaco reclama la colazione!» affermò con certezza.

Occhieggiando l’ora, Oz non poté dare torto al brontolio che riempì la stanza scatenando poi l’ilarità di entrambi.

 

 

«Eccoli lì!» gli indicò Noah, puntando il dito in una direzione precisa non appena lui ed Oz ebbero varcato la soglia della mensa.

Non era piena, specie non come il resto della settimana: sia perché alcuni studenti partivano regolarmente per il week-end, sia perché erano scesi ad un’ora più tarda rispetto a quella solita della colazione.

Seguendo l’indicazione dell’amico, Oz individuò un tavolo occupato, riconoscendovi la coppia che meno di tutte credeva potesse interagire – o almeno, non in due e da soli. Non avevano proprio nulla da dirsi, ecco perché.

Noah probabilmente pensò la stessa cosa, almeno a giudicare dal ridacchiare sommesso che si lasciò sfuggire per poi iniziare a dirigersi verso di loro: «Se non fosse che mi fido ciecamente di entrambi, potrei anche ingelosirmi di un Marcus e una Alice che fanno romanticamente colazione da soli.» osservò divertito, senza crederci nemmeno per un istante che la situazione tra i due potesse anche solo vagamente definirsi “romantica”.

Oz gli pungolò il fianco con il gomito, scherzosamente: «Lo sapevo che sotto sotto ti piaceva Alice e che eri un tipo geloso.» disse falsamente serio, con l’aria di chi la sa lunga.

Noah lo fissò qualche istante, il ridacchiare che era andato sfumando, lasciando il sorriso divertito sulle labbra: «Beh, sul fatto della gelosia ci hai preso in pieno.» sottolineò con tutta la naturalezza del mondo ed Oz si ritrovò a guardarlo sorpreso, mentre Noah lo occhieggiava con la coda dell’occhio.

«Ovviamente, che resti fra noi. Marcus ha già troppi punti di forza rispetto a me senza sapere che rasento davvero il ridicolo sul livello di gelosia che ho nei suoi confronti.» si raccomandò, una mano che istintivamente era andata a grattare distrattamente la nuca nell’ormai classico gesto impacciato di quando Noah non era esattamente a suo agio.

Oz avrebbe volentieri insistito su quel punto per stuzzicare un po’ l’amico – vendetta personale per delle prese in giro subite – ma l’altro aumentò appena il passo verso il tavolo.

Lo vide circondare con le braccia le spalle di Marcus, che dalla sua posizione non li aveva visti arrivare: in un gesto apparentemente fraterno, o complice fra amici, Oz vi riconobbe quello che Noah gli aveva detto – in maniera discutibile e con una spiegazione non degna di questo nome quale “ah, oltre che mio fratellastro è anche il mio ragazzo”.

Si concesse un’ultima risatina divertita prima di raggiungere il tavolo a sua volta.

«Buongiorno.» salutò sia Marcus che Alice, andando a prendere posto vicino a quest’ultima, mentre Marcus si limitava a lanciargli un’occhiata e poi un breve cenno del capo, tanto per dare ad intendere di averlo visto e sentito.

Alice invece ricambiò il saluto a bocca piena, facendo sorridere Oz mentre occhieggiava cosa il tavolo offriva quella mattina per colazione.

Mentre ponderava se servirsi o meno delle uova, si ritrovò a pensare che il concerto aveva avuto un lato positivo dopotutto, anche se non sembrava – tant’è che nessuno vi aveva più accennato dalla sera precedente.

Avrebbe dovuto ringraziare Noah e gli altri per questo: alla fine dell’esibizione si erano ritrovati con un Gilbert che tornava in stanza accompagnato da Vincent, lamentando un mal di testa piuttosto forte tanto quanto improvviso.

Per contro lui non aveva particolari dolori fisici; tuttavia, non si poteva nemmeno parlare di umore in maniera generica, tanto questo era precipitosamente calato a picco: la canzone, basata sulla melodia di Lacie, insieme al recente ritrovamento del diario del fratello, era stato quello che molti tendevano a chiamare “mix letale”.

Non era stato in grado nemmeno di fingere più di tanto che tutto andasse bene, ed aveva tenuto la mano di Alice meccanicamente, proprio come si sarebbe fatto con la propria àncora di salvezza.

Senza alcuna malizia, senza curarsi di qualche vago commento che era stato fatto da chi li aveva visti uscendo dall’aula magna in cui si era tenuto il concerto – qualcuno comunque doveva aver guardato gli interessati in maniera eloquente, perché Oz ricordava chiacchiere sommesse che si erano spente in breve.

E lei, semplicemente, non aveva lasciato la sua mano fino a quando non era stato lui ad allentare appena la presa: con gentilezza tutta sua, comprensiva nonostante non avessero avuto modo di chiarire quella discussione che avevano avuto.

Eppure adesso sembrava non ci fosse mai stata: come se, senza reale bisogno di parlarne, Alice avesse capito; o, semplicemente, avesse messo tutto da parte, colpita dal fatto che anche uno come Oz che sorrideva sempre e si comportava come se non avesse un solo problema al mondo potesse avere momenti come quello che c’era stato la sera prima.

Forse Alice aveva colto la fragilità meglio di tanti altri; Oz si era quasi convinto del fatto che la sincerità della ragazza, a volte forse un po’ rozza o fin troppo schietta, fosse riuscita quasi ad influenzarlo, rendendo riconoscibili le sue bugie o i suoi falsi sorrisi.

Almeno alcuni, almeno per lei.

«…Per questo il nostro è un mondo difficile.» sentì pronunciare di fronte a sé, ridestandosi dai suoi pensieri e puntando lo sguardo su Noah di cui aveva riconosciuto la voce.

«Eh?» chiese perplesso, senza capire.

Noah lo fissò con l’aria saccente che ogni tanto tirava fuori per atteggiarsi, anche se non era granché tipico di lui e lo faceva solo quando voleva prenderlo amabilmente per i fondelli: «Niente, dicevo una frase a casaccio. Tanto comunque non mi ascoltavi.» rivelò, tornando a inforchettare la sua porzione di pancetta.

Oz lo fissò in modo piuttosto eloquente, ma un’eventuale replica fu interrotta da un: «Testa d’alga, voglio mangiare in pace.» da parte di Alice.

Deviando lo sguardo nella stessa direzione in cui era indirizzato quello della castana, notò Gilbert – con l’aria di chi stava seriamente ponderando di strozzare la propria cugina, alla faccia dei legami di sangue – in piedi lì vicino al loro tavolo ora.

Lo guardò incuriosito dalla sua presenza lì, notandolo peraltro sprovvisto anche lui della divisa: aveva l’aria un po’ stanca, ma sembrava almeno ad occhio che il mal di testa della sera precedente fosse quantomeno migliorato.

Il biondo gli rivolse quindi un sorriso, salutandolo con un “buongiorno” al quale Gilbert replicò con un incurvarsi di labbra leggero ma visibile.

«Più tardi e nel pomeriggio hai da fare?» domandò il moro, senza girarci troppo intorno e con fare un po’ rigido: conoscendolo, pensò Oz, probabilmente era dovuto al fatto di trovarsi davanti a persone con le quali non aveva grande confidenza.

E per uno come Gilbert era una situazione piuttosto seccante, in qualche modo, che lo portava costantemente a rimanere sulla difensiva.

Oz scosse la testa: «No, visto che non abbiamo lezione.» dichiarò, l’espressione incuriosita ancora presente sul suo viso. Parve quasi intuire il disagio di Gilbert, riuscendo a trovarvi un motivo quando il più grande riuscì ad articolare – guardando con grande interesse il piatto della colazione di Noah, che era il più vicino – un: «Devo fare dei giri in città, puoi venire?» appena borbottato.

Sorpreso dalla cosa – o forse più dal fatto che Gilbert non lo avesse preso da parte per chiederglielo, conoscendolo – Oz annuì, l’incurvarsi delle labbra che assumeva una connotazione divertita; d’altronde, con tutto l’affetto che poteva avere per Gilbert, stuzzicarlo era stato e rimaneva comunque uno dei suoi passatempi preferiti.

Nonché una fonte di divertimento non indifferente, a suo avviso.

Così come era arrivato, con un leggero cenno agli altri presenti – e ignorando Alice che stava iniziando a sbraitargli contro – Gilbert si allontanò in favore dell’uscita, forse avendo già fatto colazione in precedenza.

Seguì il silenzio, riempito solamente dalle argomentazioni di Alice contro il cugino, che si conclusero con uno sguardo che parlava da solo e che venne puntato su Oz.

Il quale si voltò verso di lei, sorridendole con dolcezza e portando una mano a scompigliarle appena i capelli in un gesto da fratello maggiore che ad Alice non aveva mai rivolto fino a quel momento: «So che lo dici perché sei preoccupata per me, ma… Gilbert è il mio migliore amico da tanti anni. Se ha bisogno di una mano, non posso dirgli di no. » spiegò, osservandola.

«Però prometto di tornare per tempo, così ceniamo tutti insieme, va bene?» domandò, la promessa nelle sue parole sincera.

 

Le arruffò giocosamente i capelli, rivolgendole un sorriso gentile,

che aveva preso l’abitudine di riservarle sempre.

«Non preoccuparti Alice! Devo andare dal mio migliore amico,

ma questo non significa che non tornerò più!

Prenderemo di nuovo il tea insieme, promesso.»

Era tornato altre volte.

Poi, all’improvviso, un giorno non era tornato più.

 

«Alice, ti sei arrabbiata?» sentì chiedere ad Oz, la mano calda che ancora sostava sulla sua testa.

Arrossì appena, imbronciandosi… per poi mordergli con un movimento veloce la mano, come avrebbe fatto un animale scontento dell’atteggiamento del proprio padrone.

In una scena anche piuttosto comica, Oz ritirò la mano con espressione dolorante lamentandosi del morso ricevuto, mentre Alice indispettita voltava il viso dall’altra parte.

«Tsk, non prenderti certe libertà, schiavo!» lo rimproverò, mentre Noah rideva divertito senza nemmeno far finta di essere solidale col dolore dell’amico e Marcus assumeva un sorrisetto dalla sfumatura simile a quella della risata del fratellastro – con la sola differenza che Noah ti contagiava, Marcus sembrava semplicemente godere della forma dei denti di Alice sulla mano di Oz, niente di più.

«Alice è cattivaaaa.» si lamentò il biondo, allungando volutamente la vocale per enfatizzare la propria protesta riguardo il morso.

Alice invece si ripeteva che era giusto; si ripeteva che non erano la stessa persona… no?

 

 

Dopo la colazione, che era durata un po’ più del normale potendo prendersela comoda quella mattina, Oz era tornato in stanza – non prima di aver mollato uno scappellotto più che giustificato a Noah.

Almeno il compagno di stanza avrebbe smesso – forse – di trovare divertenti certe battutine idiote come quella che aveva sentito il bisogno di esternare quando avevano quasi finito di mangiare.

«Ohi Oz, ci stavo pensando da qualche giorno.» aveva esordito dopo un po’ che erano in silenzio Noah – ed Oz dopo avrebbe dato ragione a quello che aveva sentito dire a Marcus una volta, ossia che Noah Keynes quando pensava era il male – fissandolo come se ci fosse qualcosa che gli sfuggiva, ma che a giudicare dall’espressione seria per i suoi standard lo impensieriva abbastanza.

«…Sarà mica che esci con tutti e tre i Nightray?» se ne era quindi uscito.

E sì, lo scappellotto si era abbattuto implacabile sulla sua testa per mano di un Oz sportosi sopra il tavolo della colazione.

Ed ora si avviava verso l’ingresso dell’edificio scolastico, venendo dal dormitorio dove era andato a cambiarsi per poi incontrarsi con Gilbert: uscire non era un’idea malvagia.

In primis, non ricordava nemmeno più l’ultima volta che era riuscito a fare una chiacchierata degna di quel nome con Gilbert: da quando era a Latowidge, complici diverse lezioni e impegni, non c’era stato modo ad eccezione di quando il più grande era andato a portargli da mangiare in camera.

Quanto a prima, beh… si erano praticamente ritrovati lì a scuola, non c’era esattamente un “prima”.

Scosse la testa, lasciando rilassare i lineamenti del viso per poi distendere le labbra un sorriso: per nessun motivo voleva rendere quell’uscita qualcosa di deprimente, perciò aveva deciso che avrebbe tenuto lontano qualsiasi pensiero negativo.

Il concerto, il diario chiuso nel cassetto del comodino, Cheshire, Glen Baskerville, tutto.

Come se non ci fosse affatto. Almeno per un giorno.

«Gil!» chiamò il più grande quando lo individuò davanti al portone designato come punto d’incontro: notò che anche lui si era volentieri liberato della costrizione della divisa, optando per pantaloni scuri e supponeva un maglione, invisibile sotto il cappotto nero che arrivava a metà gamba.

Quando Gilbert alzò la mano in segno di saluto lasciando intendere di averlo individuato a sua volta, Oz poté notare ormai a pochi passi dall’amico che le mani erano coperte da guanti grigi.

Oz lo affiancò, rivolgendogli un sorriso entusiasta probabilmente per l’uscita in procinto di cominciare; Gilbert ricambiò, avviandosi verso il cortile e quindi il cancello che delineava il territorio scolastico dividendolo dalla strada che portava in città.

Per una parte iniziale del tragitto tacquero entrambi, il disagio lieve ma intuibile: un classico quando per molto tempo non si incontra qualcuno e, benché quando ciò avviene si avrebbero mille cose da dire, si mantiene un silenzio quasi di stallo.

Alla fine comunque, Oz era pur sempre Oz: non era proprio da lui far cadere il silenzio e lasciare che aleggiasse troppo a lungo.

«Allora, dove andiamo?» lo incalzò con tono incuriosito, osservandolo, l’espressione e il modo di fare come quello di un ragazzino che si entusiasma per ogni piccola cosa – e magari al momento era, più o meno, proprio così.

O almeno fu il pensiero che fece Gilbert portando gli occhi dorati sul più giovane, notandolo col busto leggermente piegato in avanti e le mani dietro la schiena, in quel suo tipico atteggiamento di innocente curiosità di quand’erano bambini.

Dal cappotto marrone lungo come il proprio, si intravedeva appena la sciarpa chiara attorno al collo; gli rivolse un sorriso, di quelli gentili che erano in accordo soprattutto con il carattere del Gilbert che Oz ricordava sempre a casa sua: «Vere e proprie commissioni, ne ho solo un paio. Tu dove vorresti andare?» domandò, il tono calmo e rilassato, senza troppa fretta.

Quasi a rifletterlo, i passi si susseguivano con andatura moderata anche dopo averli condotti fuori dal cancello.

Oz spostò l’attenzione di fronte a sé, sulla strada, portando un indice vicino al mento con fare pensoso: «Mh, vediamo…» mormorò quindi, chiudendosi per qualche istante nel silenzio, facendo mente locale.

«Dolci. Voglio fare merenda con dei dolci.» iniziò quindi: «E andare alla piazza! In mattinata c’è il mercato, vero? Ah, e poi voglio passare in un negozio di cui mi ha parlato Alyster. Dice che ci sono un sacco di spartiti anche per i principianti. E poi…» proseguì, suscitando un ridacchiare divertito nell’altro.

Quando lo colse, fermò per un attimo quell’elenco che sembrava non fosse finito ancora, osservando Gilbert interrogativamente: «Che ho detto?» chiese infatti.

L’amico scosse la testa: «Sembri solo entusiasta come un bambino.» lo prese bonariamente in giro; parole alle quali Oz gonfiò appena le guance esibendosi in uno dei suoi bronci migliori.

Aumentò il passo, in un chiaro tentativo di mostrarsi offeso – e, conseguentemente, mandare in crisi Gilbert come ai bei vecchi tempi.

Intento in cui riuscì in un batter d’occhio, neanche a dirlo: il più grande lo aveva affiancato quasi subito con poche e brevi falcate.

«O-Ohi.» lo aveva richiamato infatti, mentre ad Oz sorgeva spontaneo un sorriso che non prometteva nulla di buono: «Sono offeso.» decretò con falso tono che non ammetteva repliche di sorta.

Ciao, Gilbert, ben tornato nel terrorismo psicologico firmato Oz Bezarius.

Ti era mancato, eh?

«Ma…» tentò di replicare Gilbert, la mano che si posò sulla spalla del biondo con la chiara intenzione di fermarlo, senza però poter finire la frase. Nel portare lo sguardo sull’amico, Oz aveva notato l’espressione di Gilbert in quel momento, e nonostante i buoni propositi non era proprio riuscito a non scoppiare a ridere appena voltato un angolo che immetteva in una strada principale.

Cosa che, per ovvi motivi, aveva bloccato sul nascere qualsiasi protesta a cui Gilbert volesse dare voce un attimo prima, lasciando spazio dapprima alla confusione e in un secondo momento alla consapevolezza di essere stato – di nuovo – fregato dalla stessa persona di sempre.

«Non è divertente!» ribatté infatti – già, si disse Oz, rispetto al Gilbert di una volta questo sembrava perdere le staffe per le cose stupide molto più facilmente e per contro avere maggiore sangue freddo laddove una volta al massimo si sarebbe lasciato andare al pianto o alla fifa.

Ma questo non significava certo che il biondo lo trovasse meno divertente, anzi.

Gli rivolse un sorrisetto infame, di falsa innocenza, tipico di una volta: «Per me sì.» replicò con faccia tosta.

Gilbert parve indignato dalla cosa e lì lì per pronunciare qualche protesta, ma Oz lo superò di qualche passo, voltandosi verso di lui e proseguendo camminando all’indietro in modo tale da riuscire a vedere Gilbert nel contempo.

«Arrenditi Gil, passeranno anni prima che io smetta di divertirmi alle tue spalle.» gli consigliò canticchiando, come se poi fosse lui quello che poteva permettersi di dargli quel consiglio.

Come se poi lo stress che Gilbert accumulava da bambino non fosse in gran parte colpa proprio degli scherzi continui ad opera del giovane Bezarius.

Toccò a Gilbert imbronciarsi – solo che nel suo caso quell’espressione lo rendeva più che altro buffo, e di certo Oz non avrebbe smesso di sfotterlo solo per quello – rinchiudendosi nel silenzio, forse ostentando lui offesa ora.

Il biondo ridacchiò, tornando a camminare come si doveva, dandogli di nuovo le spalle: avanzarono per diversi minuti per la strada, in silenzio, forse l’uno seguendo l’altro.

Poi, finalmente, Oz parlò: «Era da un bel po’, eh?» pronunciò, mantenendo lo sguardo davanti a sé, benché parlasse chiaramente con l’altro; Gilbert inizialmente lo fissò senza capire, appena accigliato – probabilmente ancora con una sfumatura di rancore per la presa in giro di prima.

«Che non avevamo un battibecco così, sulle cose stupide. Che ti offendevi, mentre mi divertivo alle tue spalle. È un po’ nostalgico, vero?» continuò Oz, spiegando meglio cosa intendesse, forse cosciente che altrimenti non sarebbe stato facile da capire.

Gilbert rilassò l’espressione, forse solo un po’ stupito: Oz non era mai stato tipo da fossilizzarsi su ricordi nostalgici. Per sua stessa ammissione una delle ultime volte che avevano parlato, lui incarnava quel tipo di ragazzino che quasi gioca a fare l’adulto. Sosteneva lui stesso che voleva vivere come venivano le cose, così, che si sarebbe limitato all’accettazione.

Non tanto per passività, quanto perché – come lui stesso aveva detto a Gilbert – una volta che qualcosa è successo, aveva pronunciato, anche opponendosi nessuno ti darà qualcosa per tornare indietro nel tempo e cambiare l’accaduto, no?

Perciò, memore di quelle parole, non poteva non stupirsi almeno un poco per quel modo di fare che aveva assunto ultimamente il biondo.

Legato al passato e ai ricordi ad esso collegati.

Come se…

«Ehi, che fai?» lo interrogò Oz con un sorrisetto divertito – non ne era certo Gilbert, ma a lui parve anche forzato – quando il più grande lo affiancò insinuando appena le dita fra i capelli biondi, scompigliandoglieli.

Guardando altrove e con tono burbero, l’unica spiegazione che Gilbert gli fornì fu un: «È colpa tua, che parli come se dovessi andartene via domani e questa fosse l’ultima volta che riusciamo a parlare.» gli fece notare, sottolineando forse volutamente una nota seccata in merito a quell’ipotesi.

Oz lo guardò stupito, anche se durò poco; sostituì subito quell’espressione ad una sorridente, grata – di nuovo, notò Gilbert, ritraendo la mano.

E quasi contemporaneamente al suo riportarla al proprio fianco, Oz vi si aggrappò scherzosamente: «Gil ha imparato a fare il figo ~» lo prese in giro, neanche a dirlo, osservando con una certa soddisfazione mentre un lieve rossore gli imporporava le guance di Gilbert e questi spostava lo sguardo verso un negozio a caso, borbottando qualcosa di incomprensibile.

 

Portò la mano a coprire la bocca, momentaneamente impegnata in uno sbadiglio da record: non si smentiva mai, ogni volta che mangiava troppo, irrimediabilmente finiva con l’essere intontito almeno per la mezz’ora successiva. Per quello, e per la camminata fatta nella mattinata per il mercato, sostavano ora in piazza, approfittando dell’aria non troppo gelida considerando che erano ormai in pieno inverno.

Delle due commissioni che Gilbert aveva da fare – mandare una lettera a casa Nightray e ritirare un paio di libri ordinati tempo addietro – avevano provveduto ad entrambe prima di avventurarsi nel mercato dal quale erano usciti solo quando la fame si era fatta sentire.

L’entusiasmo di Oz era stato contagioso fin dall’inizio e dopotutto, proprio come lui, anche Gilbert non aveva avuto molte occasioni di andare ad un mercato.

Forse l’unica eccezione risaliva a quando faceva parte della servitù di casa Bezarius, ma per il resto le sue possibilità in quel senso erano cessate nel momento in cui era ufficialmente diventato un Nightray, facendo sì che il mercato di città diventasse un luogo non consono a lui – a detta del Duca Nightray, quantomeno.

C’era da aggiungere poi che Oz aveva mantenuto fede a quanto detto quando, recandosi a ritirare i libri, erano passati davanti alle bancarelle all’inizio del mercato: «Ora che ci penso, siamo vicino a Natale quasi, dovrei iniziare a fare i regali.» aveva osservato.

E le buste contenenti pacchetti ora ai piedi del biondo parlavano per lui.

«Quanti te ne mancano ancora?» domandò Gilbert, accennando alle suddette buste con l’aria di chi sì, festeggia il Natale, ma non concepisce né il perché di tanti regali, né soprattutto l’entusiasmo dell’andare a farli col risultato di girare per ore nei negozi – e conseguentemente farsi saltare i nervi.

Forse lui era di parte perché non sapeva mai dove mettere le mani, quindi meno regali aveva da fare e meglio era.

«Vediamo…» soppesò Oz: «Ho trovato già qualcosa per Alice e Noah, quindi con loro sono a posto.» iniziò, facendo mente locale.

«Per Ada so cosa prendere, poi ci passerà un altro giorno. Avevo una mezza idea di un regalo a Marcus, ma la sensazione che me lo tirerebbe dietro mi fa desistere.» ammise con un ridacchiare leggero e divertito, mentre Gilbert aveva la visione di un Marcus Wellesday che lanciava pacchi regalo dietro un Oz in fuga.

«Per Aedan non ho un’idea neanche vaga.» rivelò con un sospiro quasi teatrale; Gilbert alzò un sopracciglio perplesso: «Aedan? Intendi Shaye, quello che sta sempre con Sparrow o che lavora con Sirjan?» domandò.

Oz annuì, e nello stesso momento si rese conto che agli occhi di Gilbert doveva essere nuova quanto strana l’immagine del più giovane amico di Aedan al punto da fargli un regalo di Natale.

Il biondo abbozzò un sorrisetto: «Mi ha dato una mano ad ambientarmi all’inizio. E… con i compiti per recuperare il programma.» spiegò – e non era una bugia, se per “ambientarmi” si intendeva un Aedan che quasi gli ordinava di andare ad incontrare Sirjan, e se con “compiti” si implicava cercare di sopravvivere alle stranezze di cui Latowidge sembrava essere piena zeppa.

In quel caso sì, Aedan era stato quasi vitale, ma questo a Gilbert avrebbe evitato di spiegarlo.

«Quindi in realtà,» riprese Oz «si tratta più di un pensiero che non di un regalo vero e proprio. Ma non ho idee lo stesso, non so cosa gli piace e cosa no.» concluse, e dopo poco parve abbandonare il tentativo di pensare a qualcosa e scegliere la via del “aspetterò con ansia che l’ispirazione scenda su di me come un velo divino”.

«A parte Aedan poi hai finito?» chiese Gilbert, occhieggiando i pacchetti troppo numerosi perché fossero solo quelli di Alice e Noah.

Oz sorrise furbo, scuotendo la testa: «No, ho già fatto anche per Alyster e Sirjan. Ma mi manca il tuo ovviamente, non posso fartelo se siamo insieme.» gli fece notare, divertito dallo scostare lo sguardo altrove di Gilbert, accompagnato da un burbero quanto scontato «Non c’è bisogno.»

«Quando andrò a prendere il regalo ad Ada» riprese Oz: «prenderò anche quello per Jack. Poi avrò finito.» aggiunse.

Calò un silenzio in cui Gilbert non volle e probabilmente non ebbe nemmeno il coraggio di chiedere nulla, anche se una domanda – o forse era da definirsi semplicemente pensiero – gli era venuta quasi spontanea.

Chissà da quanto tempo Oz a Natale portava un pacchetto che nessuno avrebbe mai scartato su una tomba.

Nessuno dei due provò a sbloccare quella situazione di stallo creatasi come la mattina, quando si erano incontrati per recarsi in città: Oz dondolava infantilmente i piedi avanti e indietro, colpendo appena di tanto in tanto il bordo della fontana dove erano seduti con il tacco delle scarpe.

Gilbert, invece, guardava semplicemente di fronte a sé.

«Lavoro davvero troppo, addirittura ho le allucinazioni e vedo le sgradevoli facce dei miei studenti anche quando sono lontano da loro » sentirono pronunciare e sebbene il tono canticchiato e le parole decisamente sgarbate non lasciassero troppi dubbi su chi fosse ad aver parlato, si voltarono entrambi a cercare la figura in questione.

Nel caso di Gilbert, probabilmente si rifiutava psicologicamente di credere di aver indovinato di chi si trattasse.

Tuttavia era chiaro che il Destino non amava il maggiore dei Nightray: fu ovvio quando sia lui che Oz videro Xerxes Break avanzare in loro direzione.

Con accanto Rufus Barma, che aveva la stessa espressione di chi si chiedeva – di nuovo – perché Dio lo stesse punendo in questo modo, con un collega come Break appeso infantilmente e come una ragazzina al suo braccio.

«Ti do un indizio Xerxes: li vedo anche io, e non ho mai sofferto di allucinazioni.» gli fece presente, il tono ironico, mentre a sua volta portava lo sguardo su i due studenti.

Oz li fissò entrambi di rimando, rivolgendogli il sorrisetto strafottente già sfoggiato una volta sia con l’uno che con l’altro: «Non è carino sentir dire da un professore che le facce dei suoi studenti gli risultano sgradevoli.» osservò casualmente, senza alzarsi, Gilbert al suo fianco che sospirava.

Sapeva per esperienza che con Xerxes non c’era speranza: se lo ignoravi, non ti mollava.

Se lo provocavi, nemmeno.

In sostanza, fin quando si sarebbe divertito, era probabile che il docente non li avrebbe lasciati stare – salvo che tentassero la fuga con qualche scusa, ma Gilbert non avrebbe mai messo la mano sul fuoco in merito ad un loro successo.

«Oh, oh, signor Bezarius, che cattivo.» commentò falsamente toccato dalle parole del biondo: «Ma in fondo lei mi tratta male, quindi la parola “sgradevole” si adatta abbastanza, giusto?» canticchiò, mentre lo stesso Gilbert notava Barma alzare gli occhi al cielo.

Forse era quella la loro speranza: se anche Barma non aveva alcuna intenzione di stare lì a far divertire il lato infantile di Break, avrebbero potuto sfruttarlo per defilarsi – e Gilbert non aveva dubbi sul fatto che Barma avrebbe gradito passare oltre fingendo di non averli visti. Di certo non era, fra gli appartenenti al corpo docente, quello che amava gli studenti più di tutti al punto da passarci un pomeriggio insieme.

Proprio no.

Dunque Gilbert si alzò, spostando l’attenzione su Break per qualche breve istante, portandola poi definitivamente su Oz: «Abbiamo ancora qualche commissione da svolgere. Con permesso.» si rivolse educatamente come da prassi ad entrambi i professori, le parole che chiaramente suggerivano al biondo di prendere le sue buste e andarsene con lui senza fare troppe domande.

Sorprendentemente, Break non disse nulla per trattenerli; anzi, si voltò verso Rufus, l’espressione divertita – sadicamente divertita – dando poi voce ad uno smielato: «Rufus, non sei commosso? Il signor Nightray è cresciuto, ora cerca di restare da solo con la sua dolce metà, non ti fa tenerezza? » insinuò, guardando quindi Gilbert con gli occhi amorevoli di una madre – e c’era da capire cosa fosse più inquietante.

Se Break con uno sguardo amorevole nei suoi confronti, o il fatto che il suddetto sguardo fosse quello di una madre anziché quello di un padre.

In ogni caso, l’effetto fu immediato: Gilbert divenne indiscutibilmente paonazzo, balbettando qualcosa di indistinto che fu coperto dalle parole di Rufus – dopo un colpo che casualmente aveva incontrato la testa di Break, che era ora occupato ad imbronciarsi comunicando il suo “dolore per la freddezza di Rufy” ad Emily.

«Buon proseguimento.» fu il suo congedo rivolto ai due studenti prima di dargli le spalle e portarsi dietro anche Break.

Oz agitò la mano come un bambino in segno di saluto – non aveva certo dimenticato il colloquio con Rufus Barma e quanto ne era conseguito, ma non voleva dare a Gilbert motivo di preoccuparsi inutilmente.

«Piuttosto» prese il discorso: «pensavo che Xerxes e Barma si odiassero. Almeno dall’ultima volta che li ho visti insieme in mensa, e poi Barma sembra mal sopportare un po’ tutti. Non pensavo andassero insieme in città.» ammise, incuriosito dalla cosa.

Gilbert, il rossore ancora in parte visibile e una mano portata dietro la nuca in un meccanico gesto di disagio, commentò istintivamente: «Probabilmente le voci che circolano sul fatto che stanno insieme sono vere.» disse.

Oz divenne la personificazione della sorpresa: «Eh?!» esclamò, fissando Gilbert, il quale al momento si stava probabilmente maledicendo per l’indiscrezione.

«Così dicono, ma non so niente di preciso. Xerxes non è molto discreto, comunque.» commentò, riferendosi al docente appeso al braccio di Barma senza preoccuparsi troppo di cosa la gente potesse pensare della cosa – anche se era comprensibile: Break sembrava a malapena preoccuparsi di se stesso, quindi…

«Però» obiettò Oz pensandoci su: «Barma non sembra amante delle indiscrezioni.» osservò, vedendo Gilbert annuire. Anche se, dovette ammettere il biondo, era pur vero che per quanto infastidito, Rufus non se lo era scrollato di dosso nemmeno in loro presenza.

O si era arreso o, a conti fatti, non lo faceva per scelta.

«Strano comunque che tu lo senta da me per la prima volta.» sentì dire al più grande, voltandosi verso di lui con espressione interrogativa: «È quasi in cima alla lista di pettegolezzi che fanno le ragazze della nostra scuola.» chiarì poi, con l’aria di chi da quei pettegolezzi cercava di tenersene lontano il più possibile – e che probabilmente ne era toccato in prima persona in qualche modo.

Oz sorrise in un modo che a Gilbert ricordava fin troppo bene l’infanzia e cose come essere appeso casualmente ad un albero o simili: «Che c’è?» domandò infatti sulla difensiva.

Oz si avvicinò a lui di qualche passo.

«Cosa dicono su di te, Gil?» domandò infatti; Gilbert si ritrasse nemmeno il biondo lo avesse minacciato con qualche arma, dopodiché gli aveva dato le spalle allontanandosi con un: «Proprio un bel niente.»

«Eddaaaai, dimmelo Gil!» lo pregò Oz ridacchiando, seguendolo mantenendosi di proposito qualche passo dietro di lui.

L’altro lo ignorò in maniera piuttosto palese, non facendo altro se non accrescere i sospetti del più giovane; si erano allontanati un po’ dalla piazza, e complice l’orario successivo al pranzo le vie risultavano meno affollate, al contrario dei ristoranti in cui gli era capitato di gettare un’occhiata attraverso i vetri che davano sulle strade.

Oz aumentò un po’ il passo, affiancando Gilbert: «E va bene, non dirmelo, ma smetti di fare l’offeso.» lo riprese bonariamente, sbirciando il viso dell’altro.

Sembrava più vicino all’esasperazione tipica di quando veniva preso in giro che non seccatura o offesa vere e proprie.

Oz tacque, vedendolo sospirare e rilassarsi appena – segno che aveva imparato a riconoscere, anche se quando erano ancora a casa Bezarius per lui era sinonimo di “Gil sta abbassando la guardia” e quindi che sì, stava per averla vinta di nuovo.

«Uffaaa» si lamentò il biondo: «lascia perdere quello che dice Xerxes.» lo riprese Oz, come se i ruoli sul maggiore e il minore d’età fossero invertiti.

Portò entrambe le braccia ad incrociarsi dietro la testa, continuando a camminare: «Tanto che Gil non mi ama nel profondo lo sappiamo tutti.» aggiunse in falso tono melodrammatico, fermandosi poi notando che Gilbert era rimasto indietro di qualche passo lasciando che Oz lo superasse.

Sempre nella stessa posizione, si voltò verso di lui, notando che stava immobile, gli occhi non proprio visibili a causa della frangia: «Gil?» lo chiamò, perplesso.

Quando il moro alzò lo sguardo puntandolo su di lui, Oz vide sul suo viso un’espressione che non vi aveva mai scorto prima di allora: era arrabbiata, frustrata.

Da cosa, non lo capiva, ma non ci fu davvero bisogno di fargli domande.

«Non hai alcun diritto di rimproverarmi una cosa simile!» gli sbottò contro, così improvvisamente e in maniera talmente diversa dal suo solito modo di fare, che Oz istintivamente si ritrovò a sciogliere la posizione delle braccia e portarle lentamente ai propri fianchi senza quasi accorgersene, incapace di distogliere lo sguardo dall’altro.

«Non dirlo mai più!» aggiunse Gilbert, senza calmare quel tono che dell’impronta placida e gentile di sempre non aveva nulla al momento; se solo non fosse stata immotivata ai suoi occhi in quel momento, Oz avrebbe potuto azzardare di scorgervi ansia per qualcosa che non riusciva proprio ad identificare.

Non si spostò nemmeno quando sentì le mani di Gilbert stringere la presa sulle sue spalle, il viso più vicino senza che il biondo si fosse accorto dell’avanzare dell’altro verso di lui: «Non me ne sono andato per mia volontà quella volta. Ho continuato a tornare in quella casa, sempre, continuamente, ogni volta che potevo. Non era solo per Jack, maledizione, era anche per te!» parlò, e lo faceva palesemente senza pensare troppo, incapace in quel momento di dosare le parole e le cose da dire come invece era solitamente tipico di lui.

«Quando ho saputo della morte di Jack… sarei voluto tornare per rimanere, ma non potevo più. Ma questo  non significa che io non mi sia preoccupato! E da quando sono a Latowidge, sapere di te solo da Ada, perché eri ancora chiuso in quella casa… Non sai niente di cosa ho pensato quando ti ho trovato nell’atrio di quella scuola! Non sapevo nemmeno che pensare, pensavo che… in tutti gli anni che sono passati pensavo che tu fossi stato completamente sommerso dalla morte di Jack.» rivelò, la stretta che si faceva ancora più forte sulle spalle di Oz.

Il biondo chiuse appena un occhio, per riflesso, sentendo un leggero dolore dovuto proprio alla forza che Gilbert stava mettendo nella presa.

Ma il moro non l’allentò comunque, quasi non avesse colto quel cambiamento nell’espressione del più giovane.

«Tu invece… sembrava che stessi bene.» commentò, abbassando il tono, l’espressione che mutava in una mesta mista ad una sfumatura di rabbia ancora presente.

«Tu sorridevi. Proprio come quando ero ancora il tuo servitore.» pronunciò, e ad Oz per un attimo parve un’accusa, pur sapendo razionalmente che non lo era davvero.

«Ho pensato che non sapevo più nemmeno chi avevo davanti. Avevo immaginato di tutto ma non che tu fossi in grado di sorridere come se non fosse successo nulla. E ho capito che probabilmente stavi mentendo e mi ha fatto rabbia.» quasi ringhiò l’ultima parola: «Sembra che tu non riesca a fidarti di nessuno, né di chi conoscevi prima, né di conosci da quando sei a Latowidge. Anzi.» si interruppe un attimo, fissandolo per qualche istante e abbassando lo sguardo deviandolo dal viso del biondo sul quale era stato puntato per il resto del tempo.

«Sembra che tu non riesca a fidarti soprattutto delle persone che ti conoscono da prima.»

«Smettila.» pronunciò Oz, fermando qualsiasi possibile aggiunta da parte dell’altro. Le braccia ora abbandonate lungo i fianchi, lo sguardo fisso a terra, l’espressione seria: «Di cosa mi stai accusando?» mormorò piano.

Forse a quelle parole Gilbert si ridestò da qualsiasi stato lo avesse portato a parlare a quel modo quando in casi normali  non lo avrebbe fatto.

O, semplicemente, si rese conto di quel qualcosa che già una volta, in passato, gli aveva suggerito di tacere anche quando i dubbi e le paure erano tanti.

 

Il cuore di mio fratello,

è qualcosa che non riesco più a capire,

aveva detto Ada:

tuttavia so che se cercassi di osservarlo,

sicuramente finirei per tradirlo.

Per questo lascio che si mostri

solamente quando lo lascia intravedere.

 

Ma anche lui, Gilbert, non era più quello di allora.

Quello che in un momento simile si sarebbe scusato, prendendosi anche le colpe non sue oltre che le proprie.

Egoisticamente non avrebbe voluto lasciar scappare Oz da quella conversazione ora che aveva avuto l’occasione di parlarne – anche se aveva sempre pensato di farlo in maniera più pacifica e meno opprimente per il biondo.

Tuttavia era egoista forse, ma non stupido.

Sospirò, senza dire nulla, allentando anche la presa sulle spalle di Oz; una mano si allontanò, tornando al proprio fianco, immobile. L’altra invece andò dietro le spalle dell’altro, attirandolo a sé, insinuandosi poi fra i capelli biondi sulla nuca.

Un abbraccio indubbiamente goffo, neanche a dirlo.

«Ti sto accusando di essere stupido.» replicò burbero: «Non sono più un bambino. Sono in grado di addossarmi i problemi delle persone che mi stanno a cuore.»

Forse più tardi Oz lo avrebbe preso in giro per quell’atteggiamento, ma tutto sommato sarebbe andato bene comunque.

 

 

Alice sospirò annoiata, fissando per la quarta volta la stessa riga del libro che aveva davanti.

Noah, di fronte, la spiò di sottecchi ma non commentò: non aveva avuto il minimo dubbio nemmeno per un attimo sul fatto che Alice si sarebbe annoiata a fargli compagnia mentre studiava – lui stesso che avrebbe dovuto essere concentrato stava per addormentarsi, quindi…

Tuttavia quando la ragazza gli aveva chiesto di sua sponte di fargli compagnia non si era sentito certo di dirle di no: in primis, l’apprezzava. Alice era una persona che gli era simpatica, e alcuni suoi atteggiamenti lo divertivano.

Sembrava un po’ una bambina, o così aveva notato quando si era soffermato ad osservarla, specie quando era con Oz; inoltre, era convinto che la richiesta fosse stata dovuta anche all’assenza del compagno di stanza in questione.

«Vuoi che facciamo una pausa?» le chiese quindi gentilmente, alzando lo sguardo dal libro e incontrando in breve quello di lei. Alice lo fissò: «Hai finito?»

«Macché.» commentò lui, stiracchiandosi con ben poca eleganza allungandosi sulla sedia. La sentì sbuffare e ridacchiò appena: «Se vuoi possiamo fare davvero una pausa comunque. Servirebbe anche a me.» ammise, occhieggiando il libro di matematica quasi schifato.

Vide Alice alzarsi e sistemarsi appena la divisa con gesti veloci e meccanici: «Vado in mensa, ti porto quello che trovo.» borbottò burbera e un po’ scontrosa.

Tuttavia Noah non riuscì proprio a prendersela per quello, avendo imparato quantomeno a riconoscere i rari sprazzi di gentilezza gratuita di Alice; si limitò quindi a sorriderle annuendo, tornando poi agli esercizi.

Lei bofonchiò qualcosa, uscendo nel corridoio e avviandosi verso la mensa.

O così avrebbe voluto fare, se solo voltando il primo angolo diretta alle scale qualcuno non l’avesse chiamata; si voltò, cercando la fonte della voce nel corridoio e trovandolo vuoto.

Inarcò un sopracciglio, perplessa, facendo per voltarsi e proseguire.

Alice!

Tornò a guardare dalla parte opposta a quella verso cui si stava dirigendo, l’aria palesemente infastidita: di nuovo, il corridoio sembrava deserto.

Chiunque fosse, non era affatto divertente.

Alice! Alice, vieni!

Non era razionale, ma muovere nuovi passi in direzione della voce fu del tutto istintivo.

Destra, scale, sinistra; il nome che riecheggiava nel completo silenzio.

Almeno fin quando, così com’era apparso dal nulla, scomparve inghiottito dalla calma del corridoio quando era praticamente a metà; osservò lo spazio confusa.

Colse una risata, dietro di sé: vicina, divertita dal suo smarrimento. Lo avvertiva chiaramente come se fosse stata lei stessa a ridere a quel modo.

Si voltò di scatto, quasi convinta che come poco prima non vi avrebbe trovato nulla: invece si stupì di avere una figura così vicina. Un abito bianco, capelli chiarissimi tanto da sembrare del medesimo colore della stoffa.

Un vestito elaborato, il cui unico colore era una fiore rosso al petto.

Un sorriso di insano e immotivato divertimento, e un viso perfettamente identico al proprio; sgranò gli occhi sorpresa, non potendolo evitare, muovendo qualche passo indietro.

«Chi sei?!» la interrogò nell’immediato, sulla difensiva.

L’altra rise per quella reazione: «Dicono che si soffre, quando le persone amate non ci riconoscono. A me però viene da ridere, in questo caso.» osservò, beffarda.

Alice la guardò male: «Perché dovrei riconoscerti se non ti ho mai vista prima?!» sbottò, senza staccarle gli occhi di dosso.

La vide portare con un gesto elegante la mano a coprire la bocca, ridendo in maniera udibile: «Bugiarda, bugiarda!» esclamò, girando con grazia su se stessa come se ballasse.

Scomparve alla sua vista, ed Alice capì dov’era solo quando ne colse la voce di nuovo alle proprie spalle: «Alice è un bugiarda…» sussurrò.

«Non ti sei mai riflessa nell’acqua, Alice?» la interrogò, un mormorio basso vicino all’orecchio dell’altra. La castana fece per spintonarla via, ma era già sparita per tornare al suo posto di fronte a lei, dov’era prima.

«Non ti guardi mai allo specchio, Alice?» domandò ancora, osservandola con l’aria divertita di chi conosce la risposta e trova un passatempo di tutto rispetto prendersi gioco dello smarrimento e della confusione altrui finché anche gli altri non arrivano alla medesima soluzione.

Si avvicinò, i passi lenti: «Ti sei dimenticata di me, sei cattiva.» si lamentò infantilmente «E dire che io non mi sono mai dimenticata di te. Ho ricordato io, per te.» sussurrò quasi a volerla mettere al corrente senza essere udita da orecchie indiscrete e, al tempo stesso, insinuarle il dubbio e il senso di colpa.

Alice si accigliò, ringhiandole quasi contro un: «Tu cosa ne sai, dei miei ricordi?»

La vide muoversi con passetti più piccoli, in un ritmo che probabilmente rispecchiava una melodia presente solo nella sua testa, perché non erano movimenti prevedibili come dei normali passi.

La notò girare ancora una volta su se stessa, iniziando a spazientirsi del tutto: «Sto parlando con te!» tuonò contro di lei; e lei rise, sparendo per l’ennesima volta alla sua vista.

«Io so tutto di te. So quello che ricordi e quello che hai dimenticato. Quello che hai voluto, e quello che hai rifiutato. So chi hai amato, chi hai odiato, chi ami ora e chi odi ora.» sussurrò alle sue spalle, una mano che le aveva cinto la vita e l’altra che era salita a prenderle il mento.

Non c’era niente di sensuale in quel movimento, né malizia: era solo qualcosa di inquietante, paragonabile ad un animale che striscia e si insinua persino negli abiti.

Come quel tono che penetrava fin dentro le ossa e la testa, in ogni fibra del corpo, lasciando dietro di sé un senso di paura e disgusto.

«So anche chi è colpevole e chi innocente. Ricordo ogni lacrima che hai versato. Io di te conosco tutto Alice, e tu una volta conoscevi tutto di me. Non vuoi che te lo dica?» chiese poi, lasciando in sospeso per qualche istante.

«Non vuoi che ti dica chi era per te Jack Bezarius?» sussurrò, una provocazione.

O una tentazione, forse.

La castana diede uno strattone, liberandosi della presa senza incontrare poi molta resistenza; la fissò con un misto di sentimenti nello sguardo, alcuni anche in forte contrasto fra loro.

A giudicare dal sorrisetto soddisfatto che l’altra le rivolse, comunque, doveva esserci anche ciò che si era prefissata di scatenare in Alice.

Le bastò un solo passo per esserle vicina abbastanza da dover solo allungare la mano per sfiorarle una guancia: «Io posso dirtelo se vuoi. Perché io e te siamo la stessa persona.» confermò infine quanto, guardandola, poteva essere il sospetto più fondato di tutti.

Alice, l’espressione fra l’offeso e l’indignato, allontanò la mano con uno schiaffo, osservando la figura davanti a sé sparire lentamente.

Abbassò lo sguardo per qualche istante, prima di voltarsi e tornare sui suoi passi, allontanandosi di corsa da quel corridoio per andare a rifugiarsi nella sua stanza, dimentica anche di Noah che l’aspettava in biblioteca.

Scese velocemente le scale da cui era venuta, sparendo a sua volta.

 

 

Dopo le parole che gli aveva rivolto, all’inizio era stato difficile sperare di non dover rientrare in dormitorio in breve per la situazione creatasi.

Invece, malgrado tutto e benché avessero passato un buona parte del tragitto fino al bar nel completo silenzio limitandosi a camminare l’uno di fianco all’altro, Oz si era dimostrato contento di continuare l’uscita come doveva essere all’inizio.

Certo, un velo di qualcosa che ora quantomeno lo impensieriva era presente, com’era ovvio che fosse, ma non era stato nulla che non potesse almeno essere messo in secondo piano parlando degli argomenti più disparati, come l’esame in più di storia che Oz avrebbe dovuto sostenere per testare di aver effettivamente recuperato la parte di programma in cui aveva manifestato lacune a causa del trasferimento al secondo anno.

Dopo la tanto agognata merenda al bar avevano fatto qualche giro vago, decidendosi comunque a rientrare abbastanza presto sia per il buio che con l’inverno calava molto prima, sia perché l’aria aveva iniziato a rinfrescarsi al punto da giustificare a breve la neve che certamente avrebbero avuto in occasione del Natale.

Avevano varcato la soglia del cancello di Latowidge, e percorso il sentiero che conduceva all’edificio che ospitava la mensa, desiderosi entrambi di rifugiarsi nel calore accogliente della sala che sicuramente sarebbe stata già riempita dal chiacchiericcio di alcuni studenti.

Ebbero conferma quando entrarono in mensa, notando già parecchi tavoli occupati; Gilbert vide Vincent fargli cenno dal tavolo dove di solito mangiavano, notando con lui anche Elliot, Reo ed Echo.

Augurò quindi una buona cena ad Oz, abbozzando un sorriso lieve anche a mo’ di scusa, accennando a sua volta ai fratelli al tavolo.

A quel punto, Oz si mosse automaticamente verso il tavolo dove entrando aveva notato Noah e Marcus; dopo aver preso la propria cena ed essersi seduto da un po’, chiese di Alice che non si era ancora fatta vedere.

Noah gli spiegò quindi che nel pomeriggio avevano studiato in biblioteca e che lei si era allontanata dicendo che sarebbe passata dalla mensa e poi tornata, specificando che non vedendola arrivare era andato prima lì in sala e poi nel dormitorio femminile dove aveva chiesto di lei ad una ragazza che gli aveva aperto – dal momento che l’ingresso nel dormitorio opposto al proprio era severamente vietato.

La ragazza si era assentata il tempo necessario probabilmente ad andare e tornare dalla stanza della castana: quando gli aveva di nuovo aperto, aveva detto che Lewis lamentava di non sentirsi troppo bene e che non sarebbe scesa.

«Strano» commentò però Noah: «non sembrava stare male. Che abbia mangiato troppo quando è scesa da sola?» ponderò abbastanza ingenuamente forse.

Oz si disse preoccupato, tuttavia convennero insieme che non sarebbe stato possibile né di grande utilità passare dal dormitorio femminile per chiedere altro; specie considerando che in ogni caso difficilmente avrebbero potuto parlare a quattr’occhi.

Mangiarono quindi con calma, parlando del più e del meno, lasciando che ad un certo punto la conversazione si soffermasse sull’incontro tra genitori e insegnanti del giorno seguente.

«Il mio vecchio è a dir poco esaltato. E non so se è un bene.» commentò Noah pensoso, salvo l’impietoso commento di Marcus: «Non è un bene nemmeno se preghi perché lo sia di fronte a una stella cadente e lo ripeti per dieci volte di seguito anziché tre.»

Oz lo trovò a suo modo divertente – nulla di vagamente simile al rassicurante, ma spiritoso almeno sì.

Osservò pigramente Noah e Marcus battibeccare – più il primo con se stesso che non con la partecipazione attiva di Marcus – finché quest’ultimo non decretò con tutta la tranquillità del mondo che sì, lui stava andando a dormire e no, nulla lo avrebbe separato dalla calma della sua stanza.

Oz annuì, augurandogli la buonanotte, processo che ripeté quando vide Noah seguirlo quasi subito.

Solo, il compagno di stanza attese che Marcus fosse abbastanza lontano per chinarsi sul tavolo verso di Oz: «Non far caso al suo cattivo umore. È per l’incontro di domani. Non ama mio padre, ma in confronto a come tiene in considerazione sua madre si può dire che abbia un’adorazione per il mio vecchio.» disse, lasciando ad intendere senza difficoltà che tipo di rapporto potessero avere Marcus e sua madre.

Oz fece appena in tempo a vedere il compagno di stanza sparire fuori dalla mensa – non aspettarmi, stasera mi fermo da Marcus, aveva detto – che si sentì picchiettare appena sulla spalla.

Voltandosi, si ritrovò a guardare Vincent.

Abbozzò istintivamente un sorriso leggero: «Ciao.» pronunciò, vedendo l’altro ricambiare con espressione cordiale.

«Ciao, finito di mangiare?» chiese il più grande, aspettando la sua risposta piuttosto che sbirciare direttamente il piatto dell’altro. Oz annuì, dando un’occhiata piuttosto fugace al tavolo verso il quale aveva visto Gilbert dirigersi quando erano entrati lì, e notandolo vuoto.

Probabilmente gli altri avevano finito e se ne erano già andati.

«Allora ti dispiace se ti chiedo di parlare un attimo?» sentì domandare all’altro, osservandolo per qualche istante perplesso a quella sorta di invito. Tuttavia non aveva motivi per non stare almeno ad ascoltarlo, dunque si alzò semplicemente in una muta risposta alla sua domanda.

Vincent pronunciò un: «Grazie.» guidandolo quindi fuori dalla sala. Da lì deviarono verso l’esterno prima e verso il dormitorio poi, camminando senza troppa fretta.

Cosa strana, però, Vincent non accennò a nessun discorso, almeno fin quando non furono abbastanza vicini al loro dormitorio: a quel punto, anziché dirigersi direttamente verso l’ingresso deviò leggermente sulla sinistra, motivandolo con un «preferisco parlare fuori, in sala ci sono orecchie indiscrete e non mi va a genio.»

Per questo Oz lo aveva nuovamente assecondato.

Voltando appena un angolo dell’edificio però, il biondo si ritrovò a cozzare contro il muro in maniera anche abbastanza violenta e una mano alla base del collo che aveva spinto forte e vi sostava in qualche modo minacciosa.

Aprendo gli occhi che istintivamente aveva chiuso, si ritrovò a fissare quelli dissimili di Vincent, il cui viso si era avvicinato e mostrava un’espressione diversa da quella affabile che gli aveva visto indossare come una maschera ogni giorno.

«C’è una cosa che credo non capirai mai, se non te la dico in questo modo, perciò perdona i modi bruschi. Senza rancore, ok?» gli disse, per un attimo l’ombra del sorriso divertito di sempre di nuovo ad incurvargli le labbra.

Oz lo osservò, sentendo che la mano sul collo per ora non stringeva ne aveva intenzione di farlo.

Dunque sorrise di rimando, con lo stesso sorriso arrogante che aveva rivolto a Break e a Rufus Barma quando si era ritrovato a confrontarsi con loro e che sembrava ormai tipico di quando qualcosa minacciava di oltrepassare quel muro tutto sommato ancora spesso che restava quasi sempre fra sé e gli altri.

Vincent forse ne fu piacevolmente stupito, perché pronunciò un divertito: «Complimenti, nemmeno una piega di fronte alla rivelazione di un Vincent per niente amichevole e sorridente. Ti ha avvisato la mia adorata cugina, suppongo.» disse, fingendo il commento casuale.

Oz sorrise appena più ampiamente: «Anche, ma non l’avevo ascoltata a dire il vero. È solo che sono abituato alle maschere.» commentò con un eccesso di superbia forse.

Se ne era accorto, Oz.

Sarebbe stato il colmo il contrario, se proprio lui che indossava una maschera non fosse stato in grado di riconoscere quella degli altri.

«Touché.» disse solamente Vincent, prima che quel sorriso leggero scatenato dalla curiosa reazione di Oz sparisse una seconda volta.

«Te lo dico sperando che sia l’unica volta che dovrò farlo.» riprese senza lasciargli il tempo di far spaziare nuovamente l’argomento: «Gil è tutto per me.» pronunciò, quasi cogliendo di sorpresa Oz.

Che c’entrava esattamente Gilbert?

«Lui è la persona più importante. Non ho bisogno di altri, se c’è Gil. E nemmeno lui ha bisogno di altri che non sono io. Tu non sai niente di noi, né di me né di lui.» continuò, l’espressione seria quanto Oz non gli avrebbe attribuito mai dovendo scommetterci su: «Chiunque tenti di allontanarlo da me, chiunque lo renda triste diventa un mio nemico in quello stesso istante.» proseguì Vincent, stringendo appena la presa sul collo del più giovane, quanto bastava a palesargli maggiormente la sua presenza sottolineando al contempo la situazione in cui versavano.

«Perciò vattene, non immischiarti. Gilbert non ha alcun bisogno di te

 

 

Oz si ripromise di uccidere Noah nel sonno non appena gli fosse capitata l’occasione.

Perché, davvero, non era proponibile farsi svegliare come l’altro aveva fatto quella mattina: come gli aveva accennato, aveva dormito da Marcus senza rientrare nella stanza che condivideva con Oz.

Quest’ultimo lo aveva reputato un bene in realtà: non avere nessuno in stanza dopo quella specie di incontro con Vincent gli aveva permesso di non doversi preoccupare di non far scoprire niente a Noah.

Aveva persino cercato di riflettere sulle parole del più grande, cercando di dare un senso alla sua richiesta di allontanarsi da Gilbert; più che altro aveva tentato di comprendere in quale modo e perché Vincent sembrasse ritenerlo un pericolo per il moro.

Vi aveva rinunciato comunque quando malgrado tutto, avendo passato tutto il giorno fuori, aveva sentito le palpebre iniziare a farsi pesanti.

Ora, poteva capire che Noah fosse entusiasta – cercava di obbligarsi a non pensare da cosa derivasse l’aria soddisfatta del compagno a dirla tutta – ma era fuori da ogni concezione umana che tale entusiasmo dovesse trasformarsi in un risveglio traumatico per lui.

Insomma: andava bene tutto, ma la prossima volta che Noah decideva di imitare un assalto dall’alto sul suo letto con lui sopra, svegliandolo più per l’involontaria gomitata nel fianco che non per l’aver smosso il materasso, Oz gli avrebbe fatto mangiare i calzini che lasciava in giro uno per uno.

Ed per la cronaca: erano tanti.

Sbadigliò, mentre si avviavano nell’atrio dove già altri studenti erano andati a prendere i propri genitori intervenuti per i colloqui.

«Mamma mia Oz, su con la vita!» lo spronò Noah, al quale rifilò un’occhiata eloquente a cui il compagno ridacchiò.

Decise di lasciar perdere la questione risveglio.

«Come mai non sei con Marcus? Pensavo che i vostri genitori venissero insieme.» disse Oz, riferendosi alla loro condizione di fratellastri – anche se visto il resto tendeva un tantino a dimenticarsene.

Noah, le mani in tasca, scosse la testa: «No, beh, oggi no. Nel senso, non sono ancora ufficialmente sposati, quindi ognuno segue il colloquio del proprio figlio.» spiegò brevemente, l’aria comunque tranquilla.

«Com’è la madre di Marcus?» chiese incuriosito anche dal commento di Noah la sera precedente prima che se ne andasse con il fratellastro dalla mensa.

«Mh… beh, a me piace. Meglio della mia sicuramente.» replicò, senza soffermarsi comunque a parlare della propria madre: «Cecile è brillante, ed è simpatica. Ma Marcus non ci va tanto d’accordo.» aggiunse, ripetendosi riguardo l’ultimo punto.

L’attenzione del biondo però era stata catturata da qualcos’altro.

«La madre di Marcus si chiama Cecile?» domandò, sorpreso come se fosse la prima volta che sentiva quel nome.

Noah annuì: «Sì, ma non ricordo il cognome da non sposata. Perché?» chiese perplesso, occhieggiando il compagno di stanza al proprio fianco.

Questi sorrise con dolcezza e qualcos’altro che Noah non seppe cogliere con precisione, ma non diede altri segni di particolari cambiamenti.

«No, è solo un po’ nostalgico. Cecile era anche il nome di mia madre.» rivelò, e l’utilizzo del passato bastò a Noah per capire che non era il caso di fare domande, anzi, sarebbe stato meglio cambiare discorso.

«A me piacciono gli incontri come questo. Vedendo i genitori ti spieghi un sacco di cose su come sono i figli. Per esempio l’anno scorso, vedendo il padre di Sirjan e Alyster, ho capito perché lui è così rigido. Lei mi sa che ha preso da sua madre invece, perché il padre non sorride così tanto come lei.» osservò, probabilmente riportando alla mente la figura del genitore in questione.

Oz ridacchiò, immaginandosi un Sirjan adulto, burbero e baffuto magari.

«Oh, e il padre di Aedan?» domandò incuriosito e preso dal discorso.

«Sai che non me lo ricordo chi è? Forse l’ho visto di sfuggita senza sapere che era lui. Comunque considerando il figlio, non penso sia tanto tenero pure lui.» cercò di analizzare per farsi un’idea.

In effetti, pensò Oz, alla luce del ruolo di Aedan di guardia del corpo e del modo di pensare di se stesso e della propria salute che sembravano avergli inculcato, era quasi certo che il padre di Aedan non fosse un tipo che potesse stargli simpatico.

Nel frattempo avevano raggiunto l’atrio, gremito di studenti con le divise in perfetto ordine e tanti adulti tutti insieme, cosa a cui a Latowidge non erano affatto abituati.

«Io sono curioso anche di vedere tuo padre, Oz. Com’è?» chiese Noah, l’entusiasmo di un ragazzino nella voce.

Il biondo parve pensarci su qualche attimo mentre con lo sguardo cercava la sorella: «Mio padre, beh, lui è…» iniziò, ma fu interrotto da una voce che chiamava Noah e alla quale dopo qualche istante il ragazzo rispose con un «Ohi!»

Quando si voltò per vedere a chi avesse risposto, Oz intravide un uomo che non faticò assolutamente a riconoscere come il padre del compagno di stanza pur vedendolo per la prima volta. Non tanto per l’aspetto prettamente fisico: l’uomo, sul metro e ottanta, aveva un fisico abbastanza slanciato ma nulla di eclatante mentre Noah non era proprio altissimo.

I capelli erano lunghi, di un biondo cenere e tenuti in ordine da una coda bassa che poggiava morbidamente sulla spalla sinistra; gli occhi forse erano chiari e avvicinandosi Oz riconobbe il colore come azzurro.

Quello che somigliava al figlio in maniera impressionante era il modo di sorridere che entrambi avevano.

Oz aveva seguito Noah nel suo avvicinarsi al padre, e non poté non ridere apertamente quando Keynes senior fermò l’abbraccio-assalto del figlio con uno scappellotto dietro la testa.

Seguito da un: «Sei una capra in matematica!» al quale Noah aveva assunto un’espressione che era dapprima un tentativo di far pena al padre e che si era poi trasformata in un sorrisetto strafottente.

«Pa’, in confronto a com’eri te in matematica avrò un premio alla fine dell’anno.» lo prese bonariamente in giro, tanto che per un attimo – precisamente mentre il signor Keynes malediva senza celarlo troppo il proprio figlio dandogli dello sciagurato – Oz si era chiesto chi fosse il figlio e chi il padre.

O se, piuttosto, non fossero solo fratelli.

«Oh, tu devi essere Oz, il compagno di stanza di questo tipo assolutamente irrecuperabile.» riprese il signor Keynes notando Oz.

«Eddai pa’!» lo riprese offeso Noah, senza peraltro essere preso granché in considerazione – volutamente – dal padre. Questi invece si rivolse nuovamente ad Oz, allungando una mano verso di lui.

«Piacere, Christopher Keynes, il padre di Noah.» si presentò; Oz andò a stringere prontamente la mano con la propria, il sorriso che gli salì spontaneo alle labbra: «Piacere mio, Oz Bezarius.» pronunciò a sua volta, anche se sembrava che Noah avesse parlato di lui e che quindi non ce ne fosse bisogno.

Trattenersi a parlare con il padre di Noah fu una delle cose che Oz fece più volentieri mentre aspettava in quel punto Ada, che in breve li raggiunse poco dopo Marcus e sua madre – il primo sembrava di umore alquanto discutibile, mentre Cecile si era dimostrata abbastanza vicina alla descrizione di Noah dal poco che Oz aveva potuto evincere.

A distrarli dalle chiacchiere senza importanza che stavano facendo in attesa che anche il signor Bezarius li raggiungesse, proprio il richiamo di questi verso la propria figlia li portò a spostare tutti insieme lo sguardo nella direzione da cui era venuta la voce.

Zai Bezarius, i capelli biondi che divennero visibili quando tolse il cappello, aveva un portamento e un’espressione fiera e un po’ severa, ma che Cecile commentò come “cortese ed educata” prima che il diretto interessato li raggiungesse del tutto.

Ada lo baciò sulle guance con un sorriso timido tipico dei suoi, mentre Oz chinò appena rispettosamente il capo; avevano quindi presentato il padre anche agli altri presenti e Zai si era detto piacevolmente sorpreso dalla facilità con cui Noah aveva saputo prendere suo figlio.

Aveva poi insistito perché Ada riferisse ai genitori di Karin Hamilton, la sua compagna di stanza, che aveva avuto modo di conoscere gli anni passati che dopo i colloqui del figlio maschio li avrebbe incontrati di nuovo con piacere.

La maggiore dei suoi figli si era quindi allontanata dal piccolo gruppo per il tempo sufficiente ad eseguire la richiesta del padre e nel contempo quest’ultimo aveva scambiato qualche parola con i genitori di Noah e Marcus.

Quando Ada fu di ritorno, Zai si congedò da loro: «Con permesso, inizierei da mio figlio per gli incontri con i docenti.» disse, posando una mano sulla spalla di Oz, quasi a guidarlo verso la direzione giusta e rivolgendosi quindi a lui.

«Vogliamo andare, Jack?» pronunciò.

Oz, un sorriso tra il mesto e il comprensivo sul viso, annuì appena: «Sì, padre.» senza osare portare lo sguardo sul gruppo da cui si allontanò con il genitore.

Noah per contro sembrava essersi gelato sul posto, mentre un’espressione di rassegnazione e preoccupazione si faceva strada sul volto di Ada.

Forse, pensò Noah, era questo che Oz aveva iniziato a dirgli prima che si interrompessero per andare incontro a Christopher – mio padre, beh, lui è…

...lui non mi chiama mai con il mio nome.

 

 

Note

Iniziamo con i disclaimer sennò me li dimentico. La frase in apertura è della canzone “Bodies”, di Robbie Williams.

Poi. Mi dispiace, sembra che io non riesca a fare i capitoli più corti in modo che risultino magari meno pesanti T_T *si flagella*

Credo che questo sia comunque quello con più shonen-ai concentrato (fra i riferimenti alla MarcusNoah, quelli alla RufusBreak e le scene di pseudo-dichiarazioni di Gilbert e Oz x° E la gelosia di Vincent XD); in parte spero di essermi fatta perdonare almeno un pochino per quanto poco tratto la GilOz – che sarebbe anche il pairing base, coff.

È che Gilbert mi sta terribilmente scomodo, lo ammetto, non so muoverlo come vorrei ç_ç”

Comunque, sono apparsi anche Christopher (il papino di Noah) e Zai *odia* E vi abbandono fino al prossimo capitolo alle vostre congetture sul perché Zai chiami Oz “Jack” *ammicca preparandosi a ricevere minacce di morte*

Passiamo ai ringraziamenti

 

Meimei: nipotah *A* Addirittura sono riuscita a farti pensare “povero Oz”? Oddio *se lo segna sul calendario* E ormai mi sono arresa al fatto che Sirjan possa essere odiato, quindi vai tranquilla ùwù”

Noah sarebbe capace di creare un club per l’uccisione del grassone, quindi non scherziamoci tanto su: è idiota abbastanza per prendere la cosa in considerazione XD

Miranda è cattiva tanto quanto è divertente muoverla: e la scena tra Noah e Oz non voleva essere a sfondo yaoioso, ma credo sia normale che venga recepita in quel modo *muor*

Grazie dei complimenti, anche se non vorrei far piangere nessuno T_T *però si sente lusingata*

Spero ti piaccia anche questo capitolo <3

 

Fiamma Drakon: Rufus insegnante io lo studierei per una vita come soggetto unico nel suo genere XD

Mi fa piacere trovare nelle recensioni che quello che io sento rispetto ai personaggi possa arrivare tramite quello che scrivo (Break più unico che raro nel suo genere, la tristezza di Jack e il resto); ti ringrazio per i complimenti e di continuare a seguirmi, spero che ti piaccia allo stesso modo anche questo capitolo 12 ^^

 

LitaChan (che ormai è una fedelissima XD): grazie <33 Alla parte del concerto tenevo particolarmente, quindi non posso che essere più che felice e soddisfatta del fatto che ti sia rimasta impressa e che abbia comunicato qualcosa.

Grazie di seguirmi sempre, ed ecco a te il nuovo capitolo *-*/

 

Yoko891: aww. Sì, sono un’autrice schifosamente di parte sui pg di cui scrive e perciò godo internamente di aver fatto sì che Alyster ti facesse tenerezza <3 *gode* E mi dispiace di aver fatto venire voglia di buttarsi dal balcone *gya*

Jack purtroppo non c’è verso: già è normalmente un pg malinconico nonostante il modo di fare quasi sempre allegro, in Rinnega data la sua situazione non miglioro molto l’umore che aleggia intorno a lui temo x°

E brava, ama Sirjan che lui ha bisogno di amore.

Ecco il risvolto yaoieggiante u_u olé! *alza pugno in aria*

 

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Capitolo 13
*** Quel giorno si riunirono lì ***


Noah era riuscito a distogliere lo sguardo da Oz e suo padre che si allontanavano solo quando entrambi erano effettivamente spariti dalla sua vista voltando l’angolo

Quel giorno si riunirono lì

 

A quale velocità dovrei vivere,

per poterti vedere di nuovo?

 

 

Noah era riuscito a distogliere lo sguardo da Oz e suo padre che si allontanavano solo quando entrambi erano effettivamente spariti dalla sua vista voltando l’angolo.

Era stato dapprima confuso dal nome pronunciato dal padre del compagno di stanza: non era davvero riuscito a capire come fosse possibile scambiare i figli, ma supponeva che potesse succedere e d’altra parte non aveva esperienza per escluderlo dal momento che a parte la situazione di fratellastro di Marcus era sempre stato figlio unico.

Tuttavia, la risposta data proprio da Oz aveva tolto per certi versi parecchi dubbi riguardo la casualità di quell’errore e per altri aveva invece non solo suscitato stupore nella maggior parte di loro, ma anche dato la sensazione che ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato.

Forse eccedendo, Noah d’istinto l’avrebbe definito quasi contorto.

Il silenzio era caduto nel gruppetto che avevano formato, circondato e messo quasi in contrasto al chiacchiericcio di sottofondo presente nell’atrio in cui si incrociavano studenti di tutti gli anni con i propri genitori.

A sbloccare Noah dal momento di confusione in cui versava fu una mano che si posò sulla sua spalla e che si rivelò essere quella di Christopher; il ragazzo sbatté un paio di volte le palpebre dopo essersi incantato a guardare un punto fisso, dopodiché si voltò verso Ada.

La ragazza sembrava sulle spine: le spalle erano appena curve, cosa che si notava fin troppo a causa di un portamento solitamente dritto e preciso, tipico di chi è abituato a certi ambienti in cui esso risulta essere canone di eleganza.

Teneva il viso appena chinato, quasi cercando di nascondersi in un atteggiamento insicuro e di disagio. Lo sguardo evitava quello di Noah come anche degli altri presenti, sebbene fosse cosciente del fatto che a breve sarebbe arrivata la domanda di qualcuno.

Per questo, quando Noah prese la parola rivolgendosi a lei, Ada non se ne stupì davvero nonostante il leggero sobbalzare nell’alzare lo sguardo verso di lui avrebbe potuto far pensare il contrario.

«Ada» mormorò il ragazzo, lo sguardo ancora piuttosto confuso portato su di lei: «vostro padre ha…» pronunciò, interrompendosi, quasi non riuscisse ad individuare le parole giuste per chiedere quello che voleva sapere o almeno provare a capire.

Probabilmente lei lo intuì o, molto più semplicemente, non era la prima volta che si trovava a dover far fronte ad una richiesta del genere; fu palese quando evitò a Noah di costringersi a trovare l’espressione giusta anticipandolo: «Nostro padre chiama Oz con un altro nome da… un po’.» pronunciò, quasi vergognandosene, come se fosse colpa sua.

Noah era ancora piuttosto spaesato: «Ma Jack… voglio dire, Jack Bezarius non è il fratello maggiore tuo e di Oz? Quello che è… morto?» chiese, cercando di infondere più tatto possibile alla domanda, conscio che non doveva essere il massimo sentirselo dire.

Ada inspirò, annuendo: «Jack è morto ormai da cinque anni.» trovò il coraggio di pronunciare, nel tono quella che doveva essere solo una sfumatura del dolore provato per la morte del fratello maggiore.

«Si è ammalato giovane. Non era cagionevole di salute, anche se era abbastanza incosciente da prendere spesso il raffreddore. Non si accorse nessuno che era malato, sembrava… stare bene come al solito.» raccontò, e Noah si pentì davvero di averglielo chiesto.

Aveva sempre evitato di domandare qualcosa ad Oz, laddove possibile, proprio per non ritrovarsi una situazione spiacevole come quella; inoltre non era stato difficile ipotizzare già a suo tempo che la perdita doveva aver lasciato un segno indelebile in Oz quanto in Ada, e che parlarne dovesse costare loro molto più di un po’ di forza e di coraggio.

«Papà è stato male quando la mamma è venuta a mancare. Lei non era grave come Jack, ma non aveva un’ottima salute, e le medicine e il chiuso non l’avevano aiutata. Lui ha passato moltissimo tempo nel suo studio, senza uscirne quasi mai. Per un periodo, noi e Jack eravamo gli unici ad occupare la tavola. Papà non c’era.» mormorò, il tono che non si alzava mai e a volte rischiava persino di essere troppo basso per risultare udibile.

Noah fece per prendere parola e dirle di lasciar stare, ma Ada scosse impercettibilmente la testa: «Quando Jack è morto, sembrava di essere tornati indietro, a quando se ne era andata la mamma. Papà si chiuse di nuovo nello studio e… non sappiamo perché. Lui però… da quando è uscito, continua a chiamare Oz “Jack”. Sembra aver completamente rimosso la morte di mio fratello maggiore.» spiegò, le mani che si torturavano a vicenda mentre parlava.

Christopher strinse appena impercettibilmente la presa sulla spalla del figlio, cercando con la mano libera quella di Cecile, che incontrò la sua quasi nell’immediato.

«Ho provato a dirgli che Oz, in quel modo, avrebbe sentito tanta pressione su di sé, come di dover rispondere alle aspettative che papà aveva rispetto a nostro fratello. Che era un bambino, e che sarebbe rimasto confuso, e avrebbe sofferto per la mancanza di Jack ancora di più. Ho provato a spiegarglielo, però… però papà…» si interruppe, un singhiozzo che sfuggì dalle labbra nel discorso concitato.

Fu Cecile, dopo uno sguardo d’intesa con Christopher, a prendere in mano la situazione circondando le spalle di Ada in un abbraccio non eccessivamente informale, ma come probabilmente solo una madre e una donna avrebbe potuto darle.

Noah per una volta ringraziò mentalmente il chiasso e la confusione che albergavano costantemente nell’atrio dell’Istituto Latowidge, e che coprirono i singhiozzi di Ada che pronunciava le ultime parole prima di lasciarsi andare ad un pianto sommesso.

«Papà mi ha chiesto chi fosse Oz! Lui non ricorda più di aver avuto anche un secondo figlio maschio!» proruppe prima che i singulti rendessero incomprensibile ciò che diceva.

 

 

Non sarebbe stato corretto dire che il resto di quella giornata era passato normalmente: Cecile si era occupata di calmare Ada più possibile, rimandando i colloqui che riguardavano Marcus di un poco.

Christopher aveva incitato Noah a lasciare la ragazza alle cure della donna, e lo aveva guidato verso i vari uffici in cui si tenevano gli incontri di quel giorno; il figlio lo aveva seguito, sinceramente abbattuto: come sempre nel suo caso, aveva agito molto prima di pensare a cosa stava facendo, e ripensando alla delicatezza dell’argomento e al pianto al quale si era lasciata andare Ada, si era sentito non solo in colpa, ma anche molto stupido e immaturo.

Era stato un errore su tutti i fronti, quello di fare una domanda simile: avrebbe invece dovuto sforzarsi di non chiedere nulla, anche se fingere di non aver sentito lo scambio fra Oz e suo padre era parso impensabile.

Per questo si era chiuso nel silenzio mentre camminava di un paio di passi dietro al padre, ma a sorpresa era stato proprio Christopher a fermarsi e voltarsi verso di lui prima che raggiungessero l’ufficio che recava il nome di Liam Lunettes, il docente di letteratura.

«Smetti di fare quella faccia.» lo aveva rimproverato, fissandolo abbastanza severo, anche se non con l’irritazione tipica di un richiamo serio da parte di un genitore. Noah aveva alzato lo sguardo confuso, senza capire e Christopher aveva sospirato rassegnato: quel ragazzino, per quanto potesse crescere nel futuro, sarebbe rimasto sempre un bambino che gli dava fin troppo da pensare e che si perdeva subito in un bicchier d’acqua.

«Niente faccia da cane bastonato.» aveva ripreso, guardandolo seriamente: «Certo, è una domanda che ha riaperto delle ferite, quella che hai fatto. Ma sarebbe stato ancora più stupido far finta di nulla. Quello che devi fare ora per rimediare è non dimostrargli una compassione di cui non si farebbero nulla e rimanere lì, presente per quando quei due fratelli ne avranno bisogno.» aveva detto, con la saggezza di un adulto che Noah spesso gli rimproverava scherzosamente di non avere, e che l’uomo mostrava solo quando ce ne era davvero bisogno come in quel momento.

Malgrado quella rassicurazione sul fatto che ci fosse davvero qualcosa che potesse fare per l’amico, l’umore di Noah non si era certo alzato alle stelle, e un’innaturale atmosfera di tristezza era rimasta lì presente fino alla fine dei colloqui.

Anche quando erano andati a salutare i genitori al momento di ripartire per lasciare Latowidge, sebbene gli avesse rivolto un sorriso per camuffare l’umore – Oz era lì vicino a loro, con Ada, a salutare il padre con lo stesso sorriso che gli aveva rivolto quando lo aveva chiamato con un nome che non era il suo – Christopher e la stessa Cecile non si erano certo fatti sfuggire il fatto che non fosse il solito sorriso un po’ stupido e sempre allegro che aveva a casa.

Quando erano rientrati, Noah aveva accampato la scusa più stupida del mondo per defilarsi, tanto che Marcus aveva alzato gli occhi al cielo in maniera criptica solo per chi non sapeva dell’accaduto.

Oz, sebbene probabilmente avesse intuito che doveva essere successo qualcosa, aveva annuito quando il compagno di stanza aveva detto di non sentirsi troppo bene con lo stomaco e che quindi preferiva rientrare in dormitorio per primo.

Aveva mangiato in mensa con Ada, giusto qualche boccone perché la sorella non si preoccupasse – sembrava fosse già abbastanza in pensiero per lui, e non voleva peggiorare la situazione; le aveva assicurato che era tutto a posto, perché andasse a riposare seguendo Karin che in quel momento si era avvicinata per avvisarla che l’avrebbe preceduta in stanza.

«Sono un po’ scombussolato.» aveva ammesso, rivolgendole un sorriso leggero, ma con l’intento di tranquillizzarla – era parte della sua capacità di fingere che tutto andasse bene, quella di dosare persino i sorrisi, adattandoli alla situazione perché non risultassero fuori posto e fossero credibili.

«Ma sto bene, perciò vai con Karin.» aveva concluso, osservandola andare dopo qualche tentennamento e lasciandosi sfuggire un grosso sospiro per poi alzarsi ed avviarsi a sua volta.

Non bussò alla porta quando arrivò davanti alla propria camera, entrando direttamente e rischiando che Noah gliela sbattesse in faccia: per fortuna lo riconobbe prima di farlo.

Lo osservò dallo spazio lasciato aperto, sospirando profondamente, sollevato.

Oz lo guardò contrariato per l’incontro ravvicinato che si era risparmiato per miracolo: «Sei impazzito?» gli sfuggì prima di poterselo evitare.

Notò l’altro sbirciare nel corridoio per quanto gli era possibile senza dover aprire maggiormente la porta: «C’è qualcuno fuori?» domandò, prudente, mentre Oz iniziava seriamente a temere il fatto che i colloqui con i genitori non dovessero avere un buon effetto sull’amico.

«Se intendi qualcuno come tuo padre che imbraccia un fucile dopo la chiacchierata con la Barma no, non c’è nessuno. Solo il tuo compagno che si è quasi preso la porta in faccia senza motivo e vorrebbe entrare per obbligare i mocassini della divisa a non trucidargli ulteriormente i piedi.» replicò ironico, fissandolo in attesa.

Noah gli rivolse un broncio offeso, aprendo la porta per lasciarlo passare: «Simpatico davvero, ma stavo cercando di non farci buttare fuori nel caso fosse qualcuno che controllava e faceva la ronda.» spiegò, facendosi da parte.

E quando Oz fu entrato, capì anche a cosa si riferiva Noah: fu evidente quando inquadrò la figura di Alice seduta sul suo letto intenta a sbriciolare biscotti sulla coperta mentre ne mangiava – e non voleva davvero sapere da dove fossero usciti.

Sentì Noah chiudere a chiave – certo, pensò, proprio il massimo per non destare sospetti eh? – spostando lo sguardo appunto sul compagno quando questi riprese posto sul proprio materasso.

«Alice, che ci fai qui? Pensavo fosse vietato anche per le ragazze venire nel nostro dormitorio.» fece notare il biondo, alternando lo sguardo tra lei e il compagno di stanza che ora sembrava più rilassato.

Tanto che ridacchiò, sdraiandosi sul materasso con le braccia incrociate dietro la testa: «Dillo a me che me la sono ritrovata davanti quando ho aperto la porta mezz’ora fa.» gli fece presente, mentre la diretta interessata sembrava troppo interessata ai biscotti per prestare attenzione al problema.

Oz sospirò appena: «Come mai sei venuta, Alice?» domandò, tornando poi per un attimo su Noah come se avesse improvvisamente formulato un’ipotesi plausibile sulla situazione: «…Non ho interrotto qualcosa, vero?» aggiunse inarcando un sopracciglio.

In realtà era chiaro per entrambi che lo dicesse per punzecchiarlo, senza crederci davvero.

E anche per questo Noah si sentì tranquillo nel rispondere, non come sarebbe stato se glielo avessero domandato beccandolo in stanza con Marcus, tanto per dirne una.

«Oh, un sacco di cose. Non è palpabile il romanticismo che aleggia qui dentro? Non dirmi che non vedi l’amore che sta sbocciando tra Alice e i biscotti perché allora dovrò arrendermi al fatto che sei negato per queste cose, Oz.» gli fece eco, tanto per sottolineare il fatto che ci fossero tante possibilità di un incontro amoroso tra lui ed Alice quante potevano essercene tra un pinguino e ghepardo – tanto per dire che erano due cose che non si sarebbero mai incontrate salvo in uno zoo.

Come lui e Alice che prima di attrarsi sentimentalmente l’un l’altro avrebbero fatto prima a diventare novantenni con uno stuolo di nipotini insomma – e non comuni ad entrambi.

Oz fece un sorrisetto, scuotendo la testa e tornando con lo sguardo sulla compagna che ora lo stava ricambiando: «Sono venuta perché sei sparito tutto il giorno servo. Dovevo rimproverarti.» si giustificò, fissandolo imbronciata e facendolo sorridere istintivamente.

Inspiegabilmente, anziché continuare il rimprovero, analizzò la sua espressione e poi si rivolse a Noah con aria piuttosto soddisfatta: «Tsk, te l’avevo detto! Visto? Sorride!» dichiarò come se la cosa le valesse la vittoria di qualche premio.

Oz, perplesso da quella uscita cercò un chiarimento nel compagno di stanza, ma Noah per tutta risposta rivolse un sorrisetto un po’ impacciato ad Alice, limitandosi ad un: «Va bene, va bene, ammetto che avevi ragione.» di resa.

Alice si alzò quindi in piedi, dando qualche pacca leggera ai vestiti per togliere le briciole dei biscotti con cui si era intrattenuta fino all’arrivo di Oz e si stiracchiò; dopodiché, si rivolse a Noah, in piedi vicino a lui e in attesa, le mani sui fianchi.

«Ebbene?» lo incalzò.

«Ebbene cosa?» ripeté lui perplesso, osservandola senza capire; la ragazza sbuffò: «Il mio premio. E poi ho dovuto aspettare qui mezz’ora per la tua incompetenza.» fece presente, come se a quel punto fosse chiaro che come minimo aveva diritto ad un riconoscimento.

E Noah rise, portandosi a sedere ed allungando una mano a scompigliarle con dolcezza i capelli – all’inizio non aveva legato granché con Alice, continuando a rinchiudersi un po’ da solo, un po’ senza neanche accorgersene in quella sua caratteristica che lo rendeva compagno di tutti e amico di nessuno – picchiettando infine contro la sua fronte: «Va bene, va bene, la prossima volta che andiamo in città ti offro la merenda.» promise.

E solo i presenti potevano capire appieno quanto questo significasse svuotare parecchio le proprie tasche.

Alice parve dirsi soddisfatta nell’allontanarsi per raggiungere la porta ed uscire; quasi come un improvviso cambio di scena in un libro, era bastato che lei voltasse le spalle ai due perché calasse il silenzio quasi completo – entrambi persi nello stesso tipo di pensieri, la mente che andava all’incontro che c’era stato nel pomeriggio e gli faceva quasi dimenticare di essere nella stessa stanza.

Per quello Alice si voltò: Noah ed Oz singolarmente non erano tipi silenziosi, e in coppia si erano guadagnati – almeno fra i compagni di anno – la fama di “dove senti casino, di sicuro ci stanno Bezarius e Keynes di mezzo”.

La castana si soffermò dapprima su Noah, arricciando il naso come se l’espressione ora assente e giù di tono del compagno la infastidisse come una questione personale; poi passò su Oz e non seppe dire con precisione di cosa si trattasse, ma qualcosa le chiuse lo stomaco istantaneamente – e l’incontro con un’altra se stessa si faceva prepotentemente avanti nella sua testa, e si mescolava confusamente con un sorriso che prometteva di esserci per un “per sempre” infantile che non poteva esistere davvero.

Forse fu quella confusione proprio lì nella sua testa – lei che ragionava con semplicità, che si comportava sempre e solo come si sentiva di fare, istintivamente – che la spinse di qualche passo vicino ad Oz, lo sguardo che rifletteva lo smarrimento che ultimamente sembrava quasi darle la caccia, come in un gioco.

«…Alice, va tutto bene?» chiese lui, notandola vicina e riscuotendosi dal torpore in cui era caduto, osservandola; la vide allungare una mano verso di lui, ed istintivamente fece lo stesso, più che altro colto alla sprovvista da quel modo di fare che non era molto tipico di lei.

«Alice?» la richiamò una seconda volta, e quel che poi uscì dalla sua bocca fu un lamento di dolore dovuto al morso che senza un motivo preciso la ragazza gli lasciò sulla mano pochi istanti dopo essere stata chiamata.

Ancora bellamente attaccata a quella mano – non stringeva eccessivamente, ma i denti si sentivano eccome – lo fissò infantilmente come un cagnolino che ha morso il padrone per ripicca.

Oz, un occhio appena socchiuso per quel gesto d’affetto non proprio indolore, le rivolse un: «Ma che ho fatto stavolta?!» con tono lamentoso al quale lei rispose solo quando, ritenendosi soddisfatta, si staccò dalla mano.

«Non lo so, mi andava.» disse, avviandosi definitivamente alla porta e uscendone, lasciando entrambi a guardarsi con sguardo a dir poco basito senza capire.

Almeno, prima di scoppiare a ridere entrambi.

 

Quindici, contò mentalmente.

Era precisamente la quindicesima volta che sentiva Noah rigirarsi nel letto al proprio fianco, almeno da quando aveva iniziato a contare – e supponeva ce ne fossero state almeno altre due o tre prima, quindi figurarsi.

Inizialmente non ci aveva badato più di tanto, ma alla lunga il fruscio delle lenzuola e i sospiri – o sbuffi – leggeri di sottofondo erano diventati udibilissimi, in parte anche perché era sveglio e non riusciva a prendere sonno.

Almeno per una volta non era l’unico, ecco.

Prima che potesse arrivare a contare la sedicesima comunque, si ritrovò a socchiudere gli occhi e a coprirli quasi subito con il braccio per ripararli dalla luce che era stata accesa senza preavviso – era chiaro a questo punto che l’ultimo fruscio di lenzuola udito fosse stato quello con cui Noah aveva deciso di alzarsi dal letto.

Mugugnò infastidito dalla luminosità improvvisa, mentre i suoi occhi chiedevano tacitamente a Noah di spingere l’interruttore e spegnerla di nuovo, possibilmente subito: a quanto pareva però il loro desiderio non era destinato ad essere esaudito con tanta celerità.

Sbirciando senza esporsi completamente alla luce sul soffitto, Oz cercò di capire cosa stesse facendo il compagno di stanza, specialmente quando colse un rumore abbastanza sinistro e che somigliava anche troppo allo spostamento di qualche mobile.

Ed ad un’occhiata più attenta, notò che effettivamente il letto di Noah si muoveva inesorabilmente verso di lui, portando solo a due ipotesi: o Oz stava impazzendo del tutto e vedeva i mobili muoversi – a quel punto, poteva aspettarsi che a breve ammiccassero in sua direzione con fare seducente – oppure era Noah ad essere impazzito e a muoverli senza un perché.

«…Noah?» bofonchiò, senza ricevere risposta almeno finché non vide il bordo del letto del compagno attaccarsi al suo.

L’attimo dopo la stanza fu di nuovo avvolta nell’oscurità, e l’unico modo in cui Oz percepì l’altro tornare al letto fu il rumore leggero che fece sedendosi sul materasso e il seguente fruscio delle lenzuola che venivano spostate e sistemate. Stava per richiamare di nuovo l’attenzione di Noah, quando fu egli stesso a parlare: Oz, i cui occhi si stavano di nuovo abituando al buio piuttosto velocemente, poté notare il compagno sdraiato su un fianco, il viso in sua direzione probabilmente.

«Non ti fa rabbia?» gli sentì chiedere senza motivo apparente, tant’è che Oz non capì affatto a cosa si stesse riferendo: «Voglio dire, senti… so che non dovrei nemmeno tirare fuori l’argomento. Non sono affari miei, però… però diamine, Oz. Tuo padre, lui…»

«Hai parlato con Ada, vero?» lo interruppe, un sorriso mesto ad incurvargli le labbra; Noah si sentì come quando aveva chiesto ad Ada cosa stesse succedendo e l’aveva vista scoppiare a piangere dopo avergli dato delle spiegazioni che a conti fatti non gli doveva.

Si morse appena il labbro inferiore, ma non pensò a cose come poter tornare indietro e tenere la bocca chiusa: non aveva peccato di stupidità nel porre di nuovo una domanda scomoda nell’arco delle stesse ventiquattro ore, al contrario era stato ben cosciente sia di una possibile reazione dall’altra parte non proprio positiva, sia della sensazione che gli avrebbe agitato lo stomaco nell’attesa di quella stessa risposta che sarebbe dovuta venire.

A rendere il tutto appena peggiore di come forse lo aveva ipotizzato nella sua testa nell’arco della giornata, era stato il modo di reagire di Oz, che spesso risultava imprevedibile e inaspettato.

Il tono che aveva usato per fargli quell’unica domanda era stato quello di chi ovviamente se l’aspettava, quasi avesse scommesso su quanto sarebbe durato il compagno nell’astenersi dal darle voce.

Come se poi, in fin dei conti, Noah fosse esattamente come tutti gli altri.

Tuttavia – contrariamente a quanto si stesse agitando in quel momento nella testa del compagno – Oz non aveva pensato negativamente di lui: in realtà, in quel tono mesto c’era una tacita richiesta di scusarlo.

Era ben cosciente di due cose che assolutamente non gli avrebbero mai permesso di prendersela con Noah per una domanda simile: in primis, la propria situazione, che ad occhi esterni non poteva che sembrare non solo strana, ma qualche volta addirittura grottesca. Proprio per questo, oltre che per assicurargli il riposo che gli era stato consigliato dal medico, Oz e Ada avevano sempre evitato di obbligare il padre a presenziare in quelle circostanze dove loro sarebbero stati più che sufficienti come rappresentanza della famiglia Bezarius – specialmente da quando entrambi avevano avuto la loro cerimonia della maggiore età.

Non era uno stupido, Oz: poteva immaginare facilmente lo stupore che le persone provavano nel sentirlo chiamare con un nome che non era il suo e la difficoltà che provassero nell’apprendere che il nome con cui suo padre gli si rivolgeva ogni volta che si incrociavano era quello di un fratello morto ormai cinque anni prima.

Era lo stesso misto di stupore e difficoltà che lui stesso aveva provato la prima volta – insieme alla delusione, al dispiacere, alla tristezza e alla voglia di scappare via.

E poi, c’era Noah: lui che era una persona trasparente, di quelle che non riuscivano ad arrovellarsi troppo il cervello sulle situazioni eccessivamente complesse; lui che era sincero, che pur essendo per sua stessa ammissione qualcuno che non si era mai fatto coinvolgere al punto da considerare un compagno come un “migliore amico” o un amico stretto l’aveva comunque preso a cuore tanto da preoccuparsi per lui ogni volta che il suo istinto – fin troppo sviluppato davvero – gli suggeriva che qualcosa non andava.

Noah era curioso per natura, e incapace di lasciar perdere qualcosa che non lo convinceva, o lo confondeva: perciò Oz quella domanda se l’era aspettata molto prima.

E capiva, in qualche modo, che se era stata ritardata era stato solo nel tentativo di trovare il modo migliore di formularla e di pensare ai pro e ai contro del pronunciarla definitivamente ad alta voce.

Perciò non importava se alla fine, detta in quel modo, poteva sembrare quasi un’accusa – non che non fosse fastidioso almeno un po’, ma fintanto che non vi scorgeva ostilità avrebbe comunque potuto far finta di non aver colto quella sfumatura.

«Sì, ho parlato con Ada.» lo sentì finalmente rispondere dopo diversi minuti in cui non c’era stato che silenzio da parte di entrambi: «E penso che…» tentò di proseguire, interrotto proprio da Oz.

«Non c’è niente… che io possa fare.» fu il mormorio basso, quasi inudibile che arrivò da parte del biondo da un punto imprecisato di fronte a sé: «So cosa stai pensando, o cosa puoi aver pensato quando lo hai sentito. Che mio padre sia… un uomo grottesco, vero? O con un certo gusto dell’orrido, o magari che è un pessimo padre, per quello che fa. Va bene anche se lo hai pensato.» assicurò, come se anziché di una questione seria l’altro avesse accennato al fatto che suo padre teneva la cravatta fuori posto.

Noah sgranò appena gli occhi, ascoltandolo: fino a quel momento non aveva mai fatto troppo caso a quando Oz cercava di rifilargli delle bugie volte nella maggior parte dei casi a non farlo preoccupare per questioni – secondo il biondo – di poca importanza. In quel momento però, su un argomento del genere, non solo non capiva come il compagno potesse ostentare tanta tranquillità come se non fosse che un semplice spettatore di una situazione che non lo riguardava da vicino, ma con quale facilità mentiva spudoratamente e accettava tutto senza nemmeno pensare di provare a cambiare.

Per quanto potesse scusarlo dicendosi che forse ci aveva provato – almeno a giudicare dalle parole con cui aveva esordito – Noah non avrebbe mai potuto capire: anche lui aveva avuto un periodo in cui non c’era stato nulla di più importante che vedere suo padre felice. Anche per quello aveva cercato di tenersi lontano dalla cosa che amava di più fare o, in seguito, aveva dipinto di nascosto; per lo stesso motivo aveva limitato la sua rabbia contro sua madre a sfoghi dentro la sua stanza, quando Chris era al lavoro. Era stato restio a mostrarlo persino a Marcus, quasi nel timore che in qualche modo suo padre venisse a saperlo.

Ma era altrettanto vero che Christopher non aveva dimenticato quanto l’accaduto avesse potuto far soffrire altri che non fossero lui: mai aveva dimenticato di avere un figlio, e mai aveva pensato anche solo per un attimo di dare priorità a se stesso piuttosto che a Noah.

Per questo lui non poteva capire Oz, come non poteva capire affatto suo padre: non poteva immaginare il dolore per la perdita di qualcuno; era diverso sapere che chi se ne era andato era comunque da qualche parte nel mondo, o nel tuo stesso paese, ed avere la consapevolezza che invece non avresti potuto rivederlo mai più.

«Perciò mi stai dicendo… che a te sta bene così? Anche se pensa che tu sia un’altra persona, anche se dovessi fingere per tutta la vita di essere tuo fratello?» chiese quasi a bruciapelo, nel tono l’impazienza di chi aspetta una risposta e spera che sia diversa da quella che teme, desiderando egoisticamente che possa tranquillizzarlo.

«Va bene così da anni ormai.» fu l’unica risposta che Oz gli diede, la voglia di non fare altro che nascondersi infantilmente sotto le lenzuola, dormire e risvegliarsi la mattina dopo come se quella conversazione non ci fosse mai stata.

«…Io non ci riuscirei mai.» sentì dire a Noah prima che tacesse, voltandosi a dargli le spalle deciso a dormire – o a chiudere il discorso comunque.

«Lo so.»

A volte si sperava che la risposta arrivasse provvidenziale a spazzare via i timori, i dubbi o le incertezze, ma purtroppo non sempre era davvero così che andava.

 

 

Da quella chiacchierata notturna era passata quasi una settimana, in cui sia lui che Oz sembravano aver tacitamente deciso di comune accordo di fingere davvero che non ci fosse mai stata: la cosa era stata facilitata anche dal fatto che, approfittando dell’assenza delle lezioni in quel periodo antecedente al ballo di Natale di cui già si respirava l’atmosfera per i corridoi in cui le persone si affaccendavano nei preparativi, ad Oz era stato comunicata la data per il recupero di Storia.

Dopo aver fatto delle lezioni sulla parte di programma che costituiva la sua lacuna, Rufus Barma lo aveva avvisato che ci sarebbe stato un esame per consolidare quanto appreso – e non aveva mancato di rivolgergli un sorrisetto più che divertito nel comunicarglielo e nel vedere l’espressione non proprio esaltata di Oz.

Infine, proprio il giorno dei colloqui, gli aveva comunicato che sarebbe stato nella settimana libera a causa dei preparativi del ballo: a conti fatti, quindi, gli unici docenti impegnati in lezioni o recuperi erano i due Barma, mentre gli altri si potevano facilmente incrociare per i corridoi nel mezzo di scene idilliache.

Come, tanto per fare degli esempi, Xerxes Break che praticamente giocava al tiro al bersaglio con Liam Lunettes e le palline di Natale che stavano portando nell’atrio che avrebbe ospitato un grande albero di Natale, o Alexis Coleman che con un voluminoso filo per quello stesso albero sistemato attorno al collo di Daniel Wayne se lo tirava dietro chiacchierando con voce allegra.

Oz era stato quindi impegnato a preparare quell’esame, e di conseguenza Noah aveva passato la maggior parte del suo tempo con Alice e Marcus; nel caso di quest’ultimo aveva spesso approfittato del fatto che fosse in stanza da solo nel dormitorio, in modo da ritardare volutamente una situazione che vedeva lui ed Oz nella stessa stanza senza sapere bene di cosa parlare. Nel caso di Alice invece, aveva approfittato del primo pomeriggio libero utile per chiederle di accompagnarlo a fare i regali di Natale – offrendole la merenda come promesso.

In quel caso, dimostrando un intuito sempre maggiore di quanto Noah gliene attribuisse, Alice gli aveva chiesto se per caso lui e Oz avessero litigato di nuovo.

«No.» le aveva assicurato, sincero visto che all’effettivo non si poteva davvero parlare di un litigio: «Abbiamo dei punti di vista diversi su alcune questioni, ma penso sia normale. Non preoccuparti però, non è niente di così grave.» aveva continuato, osservandola arricciare appena il naso in un’espressione buffa e poco convinta.

«Menti uno schifo, Keynes.» aveva decretato infine lei; lui si era limitato a ridere.

Ad ogni modo, non era una bugia quella che aveva detto alla ragazza, e probabilmente era stato anche per quello che nei giorni seguenti era tornato tutto alla loro presunta normalità.

«Quando tutta questa roba che implica il ballo sarà finita io sarò l’uomo più felice di Latowidge, se proprio non di tutto il mondo.» sbuffò Noah, mentre camminavano per il corridoio.

Oz ridacchiò, osservando uno degli ennesimi gruppetti di ragazze che incrociavano e che pullulavano in ogni angolo della scuola negli ultimi giorni: si scambiarono uno sguardo che sembrava più che eloquente, oltrepassandole.

Solo quando furono abbastanza lontani ed ebbero voltato un angolo, Noah gli si rivolse: «Con chi ci vai al ballo?» chiese, nel tono la curiosità tipica di lui con una nota di divertimento che avrebbe dovuto far presagire il peggio ad Oz.

Il silenzio confermò a Noah che Oz non aveva esattamente pensato a quella questione negli ultimi giorni – anzi, probabilmente si era anche impegnato a non doverci pensare.

«Lo sai che sono i ragazzi che devono invitare le ragazze?» gli fece presente, l’aria di chi ha appena deciso che sarai la sua cavia per i prossimi dieci minuti come minimo; Oz annuì distrattamente: «Lo so, anche se non capisco perché mai.»

«Lo dici proprio tu che sei abituato alle cene di gala o almeno dovresti aver partecipato a più di una?» lo rimbeccò il compagno.

Il biondo lo fissò di sottecchi, con un moto di odio momentaneo, fiutando la presa per i fondelli – che, conoscendo l’altro, si sarebbe probabilmente protratta fin dopo quel benedetto ballo.

«Oh beh, avrebbe un senso il tuo aspettare ad invitare una ragazza, se…» lasciò in sospeso, fissandolo eloquentemente.

«…se?» lo incalzò Oz, osservandolo incrociare le braccia dietro la testa continuando a camminare: «Se sei tu quello che deve essere invitato. Per esempio, ma lo dico casualmente eh, da uno dei Nightray.» lo sfotté.

Non diede modo all’altro di dire nulla, anticipandolo prima che potesse aprire bocca per lamentarsi dell’ennesima presa in giro su quel versante: «Come tuo amico, compagno di stanza e fan numero uno della tua vita sentimentale Oz, mi sento in dovere di dirti le mie preferenze. Francamente non ti riesco ad inquadrare con Vincent Nightray. Insomma, a parte che è complesso da capire già da solo, siete entrambi biondi. Sai che essendo uno che disegna ho un certo senso estetico, quindi mi spiace ma lui non mi convince.» iniziò, facendo tutto da solo, senza curarsi dell’espressione scioccata di Oz, probabilmente dovuta all’assurdità di quell’ipotesi appena fatta dall’amico.

Che, comunque, continuò imperterrito.

«Di conseguenza rimangono solo Elliot e Gilbert. Non dico che tu ed Elliot non siate abbastanza ben accostati insieme, e avete dalla vostra il fatto che tutte le volte che vi ho visti incrociarvi o vi siete presi a male parole, o avete pronunciato solo frasi sarcastiche e ironiche degne di essere rivolte al proprio peggior nemico, oppure lui non ha fatto che sottolineare con un certo impegno quanto detesti la tua famiglia. E tutto questo è degno di un romanzo in cui i protagonisti prima si odiano, poi si amano.» fece notare, l’aria di chi si stava prendendo piuttosto seriamente la formulazione di quelle ipotesi.

Sospirò, con aria melodrammatica: «Comunque, io tifo per Gilbert. Perciò non tenermi sulle spine: ti ha già chiesto di andare al ballo con—»

«Seriamente, la puoi piantare Noah?» borbottò Oz, fissando prima lui per qualche istante, poi portando lo sguardo di fronte a sé; la sua sfortuna fu che il rossore che, seppur lieve, gli aveva appena imporporato le guance era risultato più che visibile per Noah.

E fu chiaro dalla risata che l’altro si fece: «Va bene, va bene, per adesso ti lascio in pace. Ma quando sarai in crisi, senza sapere cosa fare, e cercherete comprensione e consigli per la vostra relazione clandestina, torna pure da me. Io ne so qualcosa, mon ami.» se ne uscì, dando un motivo più che valido ad Oz per rivolgere nuovamente l’attenzione a lui.

«E da quando tu parli francese?» gli chiese interdetto.

«Non parlo francese infatti. Ma leggo romanzi degni delle ragazze: non sono mai intellettualmente complicati, il che li rende adatti a me. A parte quando sono eccessivamente diabetici, o quando non preferisco leggere libri di arte o favole per bambini.» chiarì, strizzandogli l’occhio.

Oz decise che non voleva sapere di più su quell’argomento, dunque cambiò totalmente discorso, allontanandosi dalla questione romanzi rosa e gusti discutibili.

«A proposito del ballo, tu parli tanto, ma come farai?» tentò di punzecchiarlo il biondo, per vendetta: «Marcus se ne starà buono a guardarti andare al ballo con una ragazza?» insinuò, osservandolo con la coda dell’occhio mentre si immettevano in un corridoio appena più trafficato.

«Non ho desideri suicidi per il momento, perciò ho dovuto trovare qualcosa che potesse soddisfare le tre richieste principali per quella serata.» replicò Noah nel massimo della tranquillità, suscitando a quel punto la curiosità di Oz.

«Sarebbero?» lo interrogò infatti.

«Facile: non mettere al corrente tutti il mondo della nostra situazione non proprio fraterna, trovare una dama che non mi chieda di ballare ogni due secondi, e far sì che la suddetta dama non scateni l’ira di Marcus che porterebbe o al tentato omicidio di lei, o al mio andare in bia…» si interruppe, come se avesse detto davvero troppo stavolta.

«Ok, questo non vuoi saperlo. Comunque, ho trovato una compagna che fa al caso mio.» proseguì Noah, proseguendo con il nome senza che ci fosse bisogno per Oz di chiederlo: «Alice.» concluse il compagno.

Ed effettivamente, supponendo che la ragazza difficilmente si sarebbe staccata dal buffet, poteva anche darsi che per Noah fosse stata la scelta migliore – ma nessuno avrebbe tolto dalla testa del biondo il fatto che solo pensarli come una coppia fosse allucinante.

Né nessuno lo avrebbe distolto dall’idea precisa che Marcus non sarebbe stato contento comunque, nemmeno trattandosi di Alice il cui rapporto con Noah sembrava quello di due bambini che si facevano i dispetti ogni tanto per noia, più che qualsiasi altra cosa anche di poco più profonda.

Fu Noah ad attirare nuovamente la sua attenzione, picchiettando appena con un dito contro la sua tempia: «Quindi, come la risolverai visto che Alice viene con me?» domandò, il sorriso sempre presente ad incurvargli le labbra, stavolta senza quella sfumatura di divertimento quasi sadico.

Oz ci pensò su, riportando lo sguardo sul corridoio mentre si avviavano per la rampa di scale che conduceva all’atrio: «Avevo pensato di invitare Sharon, all’inizio.» ammise, trovando l’approvazione del compagno nel suo annuire.

«Però lei va con Xerxes Break.» aggiunse, nemmeno avesse notato che, oh, avevano forse lucidato le scale recentemente?

Noah invece ne fu – com’era anche prevedibile – più che sorpreso, tanto da fermarsi con un: «Eh?!» che distava di poco dallo scioccato. Oz ridacchiò, decidendo che magari quello poteva essere il preludio della vendetta che certamente avrebbe architettato ai danni di Noah per le prese in giro appena subite.

«…Senti, mi distruggi delle certezze dicendomi così senza darmi una spiegazione. Ero convinto che la relazione di Xerxes con Barma che è ormai di dominio pubblico almeno a livello di pettegolezzo fosse cosa assodata. Tipo che a breve si sposavano, roba così.»

«Esagerato.» lo rimbeccò Oz, agitando appena una mano con fare tipico di chi ritiene la cosa altamente improbabile – anche se doveva ammettere di aver pensato lo stesso di quella presunta relazione tra Barma e Xerxes solo per vedersela poi praticamente confermare davanti agli occhi quando li aveva incontrati in città con Gilbert.

«Anche io ci sono rimasto quando me l’ha detto. A parte la storia di Barma, più che altro è il fatto che lei è una studentessa e molto più giovane.» riprese il biondo, gli ultimi gradini che venivano scesi raggiungendo finalmente l’atrio: «Ma Sharon mi ha spiegato che lui è legato alla sua famiglia da tanti anni, da quando lei era ancora piccola. Credo, per quello che ho capito, che il rapporto tra loro sia più simile a quello di un fratello e una sorella con una certa differenza d’età, che non altro. E ufficialmente lui ha spesso presenziato al suo fianco, per questo credo si ripeta la stessa cosa.» concluse, esprimendo ad alta voce il pensiero che aveva fatto dopo la chiacchierata con la ragazza.

Noah annuì, dando segno di aver capito e anche di essersi in parte tranquillizzato – seriamente, Oz credeva fosse più per la conferma che il rapporto Barma-Break di cui era probabilmente fan fosse salvo che non per aver saputo che non c’erano rapporti fra un quasi trentenne e una quindicenne.

«Quindi, escludendo Sharon?» lo incalzò nuovamente Noah, tornando all’attacco.

Oz sbuffò, raggiungendo la mensa: «Ma non lo so!» sbottò – e prese nota mentalmente di non stuzzicare mai più l’interesse di Noah Keynes.

«Se ti interessa, ad Alyster non lo puoi chiedere, lei va con il fratello.» asserì.

«…Non lo avrei chiesto comunque ad Alyster. Anche perché pensavo la invitasse Elliot.» ammise – in realtà non aveva formulato quel pensiero per chissà quale atteggiamento rivelatore avesse scorto nel minore dei Nightray, quanto più per l’aver notato che la ragazza sembrava essere una delle poche che almeno riusciva a non irritarlo e a non farsi rispondere male da lui.

Oz sospirò, individuando il tavolo dove di solito sedevano in gruppo, individuandovi già Marcus ed Alice – e non si guardavano con amore, motivo per cui il biondo li indicò a Noah affrettando il passo: «Mi sa che per il momento è meglio andare a mangiare. Anche perché nel pomeriggio devo fare il ripasso per l’esame.» asserì, un sorrisetto un po’ preoccupato, se si sapeva scrutarlo bene.

Cosa che Noah per forza di cose ormai si stava abituando a fare: «Con chi fai il ripasso?» domandò curioso.

«Con Aedan.»

 

 

Si lasciò andare contro lo schienale della sedia, l’aria di un uomo distrutto, sospirando.

Lasciò cadere le braccia al lato del corpo, cercando di rilassarsi e sbirciando in un secondo momento la persona sul letto di fronte a lui che sembrava fresca come una rosa.

Non era la prima volta che vedeva Aedan senza la divisa, anzi era forse la persona che più aveva visto con abiti diversi all’interno di Latowidge: spesso si era ritrovato a pensare di averlo incrociato più volte con altre vesti che non con quelle richieste. Ricordava di averne anche parlato con Alyster, che si era spiegata dicendo semplicemente che essendo Aedan una guardia del corpo prima che un vero e proprio studente, ad eccezione delle lezioni gli era consentito girare per i corridoi con abiti più comodi.

Ed effettivamente, a ben pensarci giacca e camicia non doveva essere proprio il massimo della comodità per certi movimenti; forse proprio per questo non gli sembrava una cosa nuova, il fatto che ora non indossasse la divisa, specie poi considerando che erano a studiare in dormitorio.

…Già, studiare.

Quando si era reso conto che non gli avrebbe fatto male avere qualcuno che lo aiutasse con il ripasso, si era chiesto chi potesse essere d’aiuto: era stata Ada a consigliargli di chiedere ad Aedan, sostenendo che se si parlava di studio sicuramente lui era uno dei più indicati.

Non sapeva esattamente come o perché Aedan avesse accettato – specie considerando il fatto che non si allontanava mai da Ethan Sparrow se non per qualche specifico lavoro da fare per Sirjan, a detta di Noah – ad ogni modo ne aveva approfittato.

Ma nessuno gli aveva detto quanto professionale potesse diventare Aedan Shaye quando si trattava di studiare o far studiare terze persone; oltretutto, cosa anche inspiegabile almeno secondo i canoni di studio di Oz Bezarius, non sembrava stancarsi praticamente mai.

Era vero, il biondo non poteva vantare di essere dedito allo studio a tutte le ore del giorno e della notte, specie poi in materie che lo annoiavano terribilmente, ma Aedan era qualcosa di allucinante davvero.

Erano su quei libri da almeno due ore, e sembrava ci si fosse appena messo, lo sguardo e l’espressione che non tradivano la minima stanchezza: al punto che Oz, fino a quando l’attimo prima l’altro non aveva pronunciato la parola “pausa”, aveva seriamente temuto che sarebbe morto prima di arrivarci, a fare l’esame.

Per lo stesso motivo, quando sentì la porta della stanza dov’erano aprirsi – quella di Aedan più precisamente, scelta perché sicuramente meno soggetta a visite improvvise – fu grato a chiunque fosse per la semplice consapevolezza che la pausa si sarebbe protratta un po’ più a lungo.

Fu un po’ spiazzato dal veder entrare qualcuno che non riconobbe subito, ma che a quanto pareva non aveva trovato la stessa difficoltà nel riconoscere lui; richiudendosi la porta alle spalle e volgendo lo sguardo verso l’interno, assunse un’aria un po’ sorpresa nel trovarvi qualcuno, forse aspettandosi che Aedan fosse in giro.

Comunque la sorpresa non durò granché, quasi subito sostituita da un sorrisetto: «Bezarius.» salutò con naturalezza, nemmeno si conoscessero bene e si vedessero tutti i giorni.

Aedan alzò lo sguardo dal libro, portandolo in direzione del nuovo venuto: a giudicare dall’espressione, era qualcuno che andava e veniva dalla stanza dell’altro come voleva – Oz non ci credeva quasi, ma gli era sembrato di scorgere sul viso di Aedan un impercettibile mutamento, anche se non avrebbe saputo definire con precisione cosa esprimesse in quel momento.

Poi, prima che il moro pronunciasse un saluto, Oz ricordò finalmente di chi si trattava: glielo aveva indicato Noah, ma non avendogli mai rivolto la parola e non capitando spesso di incrociarlo per la differenza di anno, Oz lo aveva rimosso.

«Ethan… Sparrow, giusto?» tentò, osservandolo e vedendolo annuire mentre si liberava della giacca della divisa, poggiandola sullo schienale della sedia alla propria scrivania.

«Fate come se non ci fossi, eh?» si raccomandò, recuperando un libro e portandosi vicino al letto sul quale sedeva Aedan: nel passargli accanto, portò una mano a scompigliare i capelli del compagno di stanza in un gesto che sembrava essere abituale, quotidiano.

Aedan lo seguì con lo sguardo finché Ethan non si fu seduto a sua volta sul letto, sistemandosi in una posizione comoda per leggere: quando la ebbe trovata, sembrò far caso all’occhiata di Aedan e alzò appena una mano in sua direzione.

«Tranquillo, tranquillo, è tutto a posto. Sono rimasto con Marcus in biblioteca finora.» assicurò, rispondendo ad una domanda che Aedan non aveva posto e che Oz si chiedeva come potesse l’altro averla intuita senza segnali evidenti.

Ma era assai probabile che nessuno capisse Aedan meglio di Ethan Sparrow, nemmeno Sirjan che sembrava in qualche modo abituato a relazionarsi con lui lavorandoci assieme in alcune occasioni; e per contro ad Aedan sembrò bastare quella rassicurazione ed Oz poté giurare di averlo visto rilassare appena le spalle.

Immaginò solo in quel momento che doveva aver chiesto a qualcuno di tenere d’occhio Ethan per lui, o che avesse acconsentito ad aiutarlo nello studio rinunciando al poter controllare il compagno da vicino solo sapendolo in un posto non a rischio – con Marcus, in questo caso.

Forse, pensò in quel momento, Aedan si preoccupava molto più di quanto non desse a vedere e la sua professionalità come guardia del corpo non era data dal semplice senso del dovere che provava nei confronti del protetto in quanto tale.

Quasi a confermarglielo, arrivò la scena più astratta del mondo che mai avrebbe attribuito alla figura di Aedan Shaye: lo vide poggiarsi sul materasso, distendendosi in buona parte rispetto alla posizione seduta di poco prima, e lasciare che la testa si appoggiasse proprio sulla gamba di Ethan.

Quest’ultimo, alzando per pochi istanti lo sguardo dal libro che nel contempo aveva aperto in corrispondenza del segno cartaceo tra le pagine, fece un sorrisetto senza dire nulla, lasciandolo fare.

Oz sbatté appena le palpebre, in un misto tra curiosità e sorpresa in parte: Aedan non era mai stato uno che dava l’impressione di ricercare il contatto fisico, eppure con il compagno di stanza pareva quasi un bisogno – ben celato e per nulla esagerato o paragonabile a quello di una persona con dimostrazioni di affettività o pensiero “normali”, per così dire, ma un gran passo avanti se si considerava l’indole taciturna e indifferente dell’altro.

Già… magari Aedan non era poi così male.

«…so?» sentì arrivare solo la fine della frase che Aedan doveva aver rivolto a lui, visto che lo stava guardando.

Portò una mano a grattarsi distrattamente la nuca, abbozzando un sorriso: «Scusa, non ti ho sentito.»

«Nel 1254, cos’è successo?» ripeté la domanda l’altro, lasciando ad intendere che la pausa era finita; Oz tacque, cercando di far mente locale: «Ehm… la morte dell’allora signore di Revelle?» tentò, non proprio sicurissimo a dirla tutta, ma l’annuire di Aedan lo tranquillizzò.

Lo vide porgergli il libro: «Se hai domande puoi farne.» disse, laconico come al solito, ma disponibile; Oz prese il libro dalle sue mani, occhieggiando la pagina in cui erano. Le scorse in avanti, ricercando a colpo d’occhio date o avvenimenti che ricordava meno o non ricordava affatto.

Dopo qualche tempo in silenzio, ne intravide una: «Ecco, nel marzo del 1476…»

«La caduta del regime di Konrad Bishop ad opera di Jean Vilian, quattro notti.» si fece sfuggire Aedan scioccando un Oz incredulo che lo fissò.

«…Non dirmi che sai tutto il libro così.» lo pregò, il tono a metà fra l’ammirazione e la disperazione – se fosse stato davvero in grado di ricordare così tutte le date, ci sarebbe inequivocabilmente stato qualcosa di ben poco umano in lui, o non si spiegava.

Aedan però annuì: «Quasi tutte. Le più importanti almeno.» replicò con semplicità, come se fosse ovvio, ed Oz si chiese se tutte le guardie del corpo erano così e, nel caso, se non fosse stato il caso di procurarsene una, possibilmente con il suo stesso aspetto e da mandare a sostenere l’esame con Barma al suo posto.

Ma giusto così, tanto per stare sicuri.

«…Gennaio 1715.»

«Formazione del governo che stabilisce la collaborazione delle cinque casate ducali più potenti.»

«Agosto 1532.»

«Colpo di stato dell’allora governatore del territorio della capitale, Raymond Raine. »

«Novembre 1612.»

«Te la sei inventata, l’unica data di quel periodo è il 1610 per il cambio di sede della capitale da Revelle a Sabrié.» ribatté Aedan, fissandolo eloquente.

E a quel punto, ad un’uscita simile, Oz si arrese all’evidenza che almeno per la Storia Aedan Shaye avesse davvero una memoria mostruosa e fuori dall’umana concezione.

 

 

«Alla buon’ora.» sentì pronunciare con tono stizzito mentre richiudeva la porta alle proprie spalle; ridacchiò senza nemmeno controllare da chi fosse venuto il rimprovero, visto che non era la prima volta e dunque non c’era davvero di vedere per indovinare.

Oltretutto, aveva subito proprio in quell’istante una sorta di agguato consistente in una sedicenne che gli si buttava letteralmente addosso – e lui immancabilmente la assecondava, portando una mano a scompigliarle i capelli: «Vince, Vince, sei arrivato finalmente!» esclamò lei, mentre il biondo andava a prendere posto sul divanetto dell’ufficio in cui si era recato.

Charlotte Baskerville lo osservava, le braccia incrociate al petto, poggiata al bordo della cattedra: i capelli lasciati sciolti e tenuti in ordine lateralmente solo da alcune forcine, scendevano per lo più sulle spalle adagiandovisi morbidamente.

Aveva ancora indosso gli abiti che solitamente usava lì a scuola, durante le lezioni o semplicemente per girovagare nei corridoi le poche volte che le capitava di farlo: aveva l’espressione di chi non ha proprio tutta la pazienza a propria disposizione, indispettita da qualcosa o da qualcuno.

Nel caso attuale probabilmente da entrambi e tutte e due le cose avevano come medesima causa Vincent Nightray: «Dovevi essere qui venti minuti fa.» gli fece presente, per quanto cosciente di quanto fosse inutile in realtà. Da quando si era ritrovata a dover collaborare con lui al di fuori di occupazioni prettamente scolastiche, aveva imparato che quel ragazzo raramente era puntuale e ancora più raramente stava davvero ad ascoltare quanto gli veniva detto, a meno che non rientrasse nella sfera dei suoi interessi personali.

E i rimproveri più o meno velati di certo non erano fra quelle poche cose che ascoltava.

«Lo so, sono stato trattenuto.»

«Come al solito, d’altronde.» insinuò lei fissandolo in maniera piuttosto eloquente, il cipiglio severo che si rilassava appena risolvendosi in un sospiro rassegnato: tirare la corda con Vincent Nightray non si era mai dimostrato utile allo scopo, qualunque esso fosse.

Lo osservò sedersi con tutta calma sul divanetto di fronte a lei, la ragazzina che lo seguiva sistemandosi senza troppi complimenti in braccio a lui, attirata dal biondo stesso come se fosse la prassi – e, effettivamente, lo era.

«Allora, cosa c’era di tanto urgente, Lotti?» domandò lui, abbandonando ogni formalità che le rivolgeva durante gli orari scolastici, al di fuori di quegli incontri.

«Ho saputo della brillante iniziativa verso Oz Bezarius. Pensavo che fosse chiaro senza doverti fare degli esempi che cosa potesse fargli sorgere dei dubbi e cosa invece potesse lasciarlo nell’ignoranza come ci servirebbe facesse.» gli fece notare, il tono palesemente sarcastico.

Vincent, il sorriso per nulla mutato, al momento sembrava più interessato alla ragazza di cui cingeva la vita e che stava giochicchiando con una ciocca di capelli biondi; la vide imbronciarsi: «Non è stata Zwei a parlare.» chiarì subito, volendo sottolineare che la sua fedeltà nei confronti del biondo non era vacillata nemmeno per un secondo, al contrario di quanto potesse sembrare.

«A dire tutto è stata quell’odiosa di Echo.» pronunciò poi in un sibilo infastidito, guardandosi le mani; Vincent sorrise appena più ampiamente, una voluta sfumatura maliziosa nell’incurvarsi di labbra mentre la mano che non cingeva la vita della ragazza andava a prenderle in mento, obbligandola ad alzare lo sguardo.

«Echo è stata cattiva. Dovrei punirla?» domandò, in un gioco che Charlotte trovava piuttosto inutile se non per la nota di sadico divertimento che assumeva tutte le volte.

Quando era entrata in contatto con Vincent Nightray e la sua servitrice in quel modo, le era stata presentata come Echo: presto era stato però chiaro che ci fosse qualcosa di strano, di particolare. Non ci era voluto molto perché finisse con l’incrociare anche Zwei.

Perché esattamente ci fossero due personalità così marcatamente distinte, o da cosa fossero causate, erano cose che Charlotte non aveva mai avuto modo di scoprire; doveva però anche ammettere di non essersi impegnata più di tanto nell’investigare. Ai fini dei loro scambi di informazioni o della loro cosiddetta “collaborazione”, non era una cosa che aveva necessariamente bisogno di sapere.

Dunque, semplicemente se ne era tenuta fuori.

Più palese era stato il modo molto diverso con cui Zwei ed Echo si approcciavano a quel Vincent; senza contare poi che, a dispetto di quanto si potesse credere dalla totale assenza di pudore e scrupoli da parte di Zwei, era una personalità scomoda da gestire.

Non che Echo fosse molto più incline a parlare senza il permesso del suo padrone, ma Zwei era totalmente ingestibile da quel punto di vista.

«Sì, puniscila, Vince! Trattala male! Perché non la feriamo, Vince?» la sentì quasi canticchiare quelle parole, l’eccitazione nel tono al pensiero di cosa esse riflettessero palese.

Zwei era ingestibile perché animata più da follia e crudeltà che non da altri sentimenti. Quello che non capiva era il continuo e perpetuo assecondarla di Vincent, come se non temesse minimamente che questo un giorno avrebbe potuto portare lui stesso a perderne il controllo di cui disponeva invece ora.

«Mh, non posso proprio Zwei.» replicò costernato, una falsa cortesia: aveva imparato che Vincent Nightray non era mai sincero.

…Probabilmente proprio per quello erano in grado di lavorare decentemente insieme per quel che gli serviva: erano perfettamente coscienti di nascondersi la maggior parte delle cose e di mentirsi a vicenda senza mai rivelare completamente all’altro le proprie intenzioni, ma erano altresì certi che sulle cose davvero importanti non mentisse nessuno dei due.

«Perché no, Vince?!» esclamò l’altra, il tono appena più stridulo e irritato per quella negazione.

Lui se la strinse addosso, il viso vicino al suo: «Perché se ferissi Echo, ferirei anche Zwei, no?» sussurrò maliziosamente da quella scarsa distanza.

«Se avete finito di fare i vostri comodi, non ti ho chiamato nel mio ufficio per lo sfogo dei tuoi ormoni adolescenziali, Vince.» lo sfotté, sottolineando quanto potessero farsi i loro comodi altrove senza farle perdere tempo.

Lui rise infantilmente, rivolgendo lo sguardo verso di lei: «Non essere gelosa, Lotti.» la prese in giro, rischiando qualche istante dopo che un blocco di fogli dall’aria non leggerissima si abbattesse sulla sua testa – se non accadde fu solo perché si spostò prontamente lasciando che affondassero nella parte superiore della poltrona.

«E tu non chiamarmi Lotti. Tanto più che non mi interessano i ragazzini.» aggiunse, un sorrisetto malizioso che stavolta partì come una chiara provocazione da parte sua anziché dal biondo.

Prese posto sul divanetto di fronte a lui, un tavolino basso fra loro sul quale poggiò quello che sembrava un fascicolo bello pieno.

Vincent vi rivolse la sua attenzione, senza rispondere: «E quello?» la interrogò subito, un’occhiata curiosa ai fogli che da quella posizione era impossibile sbirciare.

«Quelli sono i compiti che devo correggere, lascia perdere.» replicò l’altra: «Piuttosto, non sarà che ti è passato per la testa che minacciare poco velatamente Oz Bezarius non era esattamente il massimo per tenerlo all’oscuro delle cose per il tempo utile?»

«Non vedo perché. Tanto, da accordi, prima o poi lo scoprirà lo stesso.» replicò lui annoiato, l’interesse per il fascicolo sparito appena scoperto di cosa si trattasse.

«Non va bene per niente! Se ti sto assecondando è solo perché Bezarius è l’unico che può mettermi in contatto con quello lì. Ma questo non significa che puoi fare come ti pare, visto e considerato che abbiamo un accordo.» gli fece presente, irritata.

Vincent, una mano che sfiorava appena la pelle sotto il bordo della camicia della divisa di Zwei, sorrise appena, enigmatico: «L’odio di una donna è proprio pericoloso.» osservò casualmente, ritrovandosi un attimo dopo con Charlotte protesa verso di lui dopo aver facilmente aggirato il tavolino, una lama vicino al suo collo con la stessa espressione che se gli stesse porgendo una caramella.

Il sorriso che le incurvava le belle labbra connotava quella nota di divertimento che solitamente era più tipica di lui che non di lei: «Hai ragione, l’odio di una donna è pericoloso. Perciò vediamo di far sì che non te ne attiri troppo addosso, mh?» sussurrò.

Lui la osservò per un attimo piacevolmente sorpreso, guardandola poi tornare dritta e recuperare i fascicoli di compiti da poggiare in cattedra, dandogli le spalle.

«Vedi di ricordartelo, l’accordo che abbiamo.» disse, aprendo la porta in un tacito invito ad andarsene: «Non mi importa cosa dici o fai a Bezarius. Ma non prima che mi faccia incontrare con Jack.» chiarì, mentre Vincent alzatosi e assicuratosi che Zwei rimanesse lì – almeno finché non fosse tornata Echo – aveva raggiunto la porta.

Si chinò appena verso di lei: «Se me lo dici in questo modo, professoressa, di certo non potrò proprio far finta di averlo dimenticato.» osservò con falsa innocenza, varcando poi la soglia e richiudendosi lui stesso la porta alle spalle.

«Tsk, ecco perché odio i ragazzini.» sbottò lei, allontanandosi.

 

 

Aveva lasciato che Noah andasse avanti, dal momento che si era preparato prima di lui: alla fine, caso aveva voluto che avesse dovuto recuperare l’esame proprio il giorno del ballo, dunque la mattinata l’aveva praticamente spesa in compagnia di Rufus Barma – e suvvia, se lo sarebbe volentieri evitato.

L’esame era stato fissato per le dieci del mattino, ma Noah gli aveva consigliato di andarci con largo anticipo e lo aveva accompagnato nel caso in cui non ci fosse stato nessuno, per tenergli compagnia.

Di certo non c’era la folla lì presente, ma erano una decina di studenti: tra questi, Oz non aveva faticato a riconoscere Echo, scoprendo che anche lei avrebbe dovuto fare quell’esame – trattandosi si una servitrice, aveva ipotizzato Noah, probabilmente partiva svantaggiata rispetto alla maggior parte degli studenti che invece aveva avuto una certa istruzione anche prima di Latowidge.

Era stato in quell’occasione che Oz aveva chiesto alla compagna di andare al ballo insieme; a sorpresa, Echo aveva accettato – in realtà più che altro non aveva rifiutato, ma fondamentalmente per Oz il significato era il medesimo.

Perciò a quel punto non aveva più avuto un vero e proprio motivo per non andare e attardarsi; avanzava ora per il sentiero esterno che collegava i dormitori all’edificio centrale in cui non solo l’atrio ma anche le sale più grandi avrebbero ospitato l’evento.

L’unica pecca probabilmente era proprio quella, quel tratto esterno, per quanto breve: la neve ultimamente era caduta con più frequenza, quasi a voler sottolineare la presenza imminente di un bianco Natale, facendo sì che ci fosse ancora più euforia fra gli studenti – e, c’era da dirlo, di qualche insegnante.

Aveva comunque raggiunto l’entrata che dava sull’atrio abbastanza facilmente, avendo anche la fortuna di trovare un momento in cui non stesse nevicando.

L’appuntamento con Echo era stato per le otto meno un quarto, vicino al grande albero che da un paio di giorni occupava un angolo dell’atrio, finalmente completato; così, quando entrò varcando la soglia, non faticò molto a ritrovare quel punto.

Vi si diresse, notando quanto probabilmente la maggior parte degli studenti fosse già nell’altra sala in attesa dell’inizio ufficiale del ballo fissato per le otto; con un’occhiata poté quindi facilmente indovinare di essere arrivato per primo rispetto ad Echo – in un certo senso soddisfatto, dopotutto per quella sera era il cavaliere e doveva essere un gentiluomo impeccabile.

Si mise quindi vicino all’albero, così da poter facilmente osservare l’atrio e al tempo stesso essere individuabile per Echo senza grossi sforzi: sentiva il vociare arrivare dalla sala attigua, e provò ad immaginare come potessero averla sistemata per l’occasione; a detta di Noah, facevano sempre le cose in grande in occasioni come quella.

Si voltò, sentendosi toccare la spalla, non trovando nessuno dietro di sé: per un attimo, qualcosa dentro di lui quasi gli impose di inquietarsi per quello.

Era diventata una strana e non proprio benvoluta prassi, il fatto che ogni qual volta avesse una sensazione insolita questa dovesse necessariamente concretizzarsi in un fenomeno che di normale aveva poco – in compenso una volta su due almeno si rivelava abbastanza pericoloso però.

Si voltò nuovamente, imponendosi di non farci caso: doveva essere un po’ di suggestione e niente di più, dal momento che aveva controllato e non c’era niente.

O quantomeno lo pensò e se lo ripeté mentalmente fino a che non ebbe la sensazione che quel tocco ci fosse sul serio sulla spalla: l’idea di ignorarlo gli attraversò la mente, ma che lui fosse sempre stato tipo da darla vinta alla propria curiosità non era mai stato un mistero per nessuno, tanto meno per se stesso.

Quasi sperò di non trovare nulla.

Invece, non senza sorpresa, si ritrovò ad osservare una ragazza: i capelli lunghi e scuri, lisci, la cui frangia le copriva appena il viso e l’abito bianco e semplice, nulla di elaborato che potesse far pensare di primo impatto alla partecipazione ad un ballo più o meno ufficiale come era quello.

Non era certo di conoscerla, a dire il vero: gli dava la sensazione tipica di qualcuno che sicuramente da qualche parte hai già visto, ma al tempo stesso non trasmette la familiarità delle persone con cui parli ogni giorno.

Avrebbe potuto pensare facilmente ad una compagna di corso con cui però non aveva mai avuto modo di parlare, perché avrebbe facilmente spiegato la cosa: tuttavia non poteva farlo.

Il fatto stesso che lei fosse non esattamente corporea, almeno a guardarla e a discapito del tocco che poteva giurare di aver avvertito sulla spalla, gli suggeriva che si trattasse di quel qualcosa che era stato uno degli ultimi argomenti di conversazione con Sirjan.

Lei rimase immobile ad osservarlo per diversi istanti, dopo i quali non fece altro che muovere le labbra, come per dire qualcosa, senza che però Oz riuscisse a cogliere alcun suono preciso.

Assunse un’espressione quasi di scusa, senza nemmeno rendersene conto, e lei allungò una mano a cercare di sfiorare o prendere le sue – non avrebbe saputo dire con esattezza quale fosse il suo intento.

Fu strano: non riuscì ad afferrargliele davvero – cosa che convinse quasi del tutto Oz di avere davanti proprio uno degli spiriti menzionati da Sirjan e Alyster – ma la sensazione di essere sfiorato da qualcosa, qualcosa senza un nome preciso, la ebbe ugualmente.

Come un tocco, ma non un tocco vero e proprio; qualcosa che né nella sua testa, né tanto meno a qualcun altro avrebbe saputo spiegare decentemente.

«Chi…?» tentò con cautela, la sensazione che avrebbe potuto facilmente spaventarla con un qualsiasi gesto involontario che lei avrebbe potuto interpretare come una minaccia forse; si diede dello stupido, in un primo momento: non era proprio normale stare a preoccuparsi di fare del male a qualcosa che non riusciva nemmeno a toccare propriamente.

Vide lo sguardo di lei farsi persino più malinconico di quanto non fosse apparso già al primo sguardo.

…Si aspettava cosa da lui? Forse che la riconoscesse?

«Ah, io… non ricordo bene. Ci siamo già… incontrati?» tentò, osservandola, una mano che istintivamente si era allungata un po’ in sua direzione.

Lei la osservò, quasi stesse decidendo se fidarsi o meno; tuttavia, fece appena in tempo a guardarla rivolgere la sua attenzione a qualcosa che si trovava oltre le sue spalle, prima che sparisse completamente in brevissimo tempo.

«Che fai?» sentì pronunciare alle proprie spalle, voltandosi velocemente e inquadrando la figura di Echo che lo osservava; sorrise istintivamente: «Piccola Echo!»

«Ho detto che è Echo e basta.» grugnì lei immediatamente, facendolo ridacchiare.

«Guardavo l’albero, deve essere quello a cui ho visto lavorare Coleman e Wayne!» replicò, il sorriso subito al proprio posto, rivolgendo uno sguardo più attento a lei.

Indossava un abito carino, un po’ più sbarazzino di quelli che aveva visto indossare alle dame più adulte di qualche festa a cui la sua famiglia era stata invitata: era di un bel blu, non eccessivamente scuro e riprendeva il nastro che le legava i capelli più corti lasciando invece libere le ciocche che già normalmente le incorniciavano il volto.

«Che carina ~!» canticchiò, osservandola arrossire divertito e porgendole il braccio da bravo cavaliere: «Andiamo?» chiese, il tono cortese un po’ per gioco, un po’ per reale gentilezza, aspettando che l’altra – un po’ impacciata, ma immaginava fosse normale visto che probabilmente non era abituata – accettasse il suo invito per avviarsi dapprima verso la sala, e poi varcarne la soglia entrandovi del tutto.

 

Lo osservò entrare in sala con la ragazza al servizio dei Nightray, lo sguardo chiaro che aveva accarezzato con nostalgia e dolcezza la figura del più giovane prima che sparisse dal suo campo visivo.

Solo allora, sicuro dell’assenza di persone nell’atrio si spostò dal proprio nascondiglio – anche se definirlo tale era comunque in qualche modo sbagliato: pochissime persone li vedevano, specialmente se non desideravano essere visti. Era anche per quello che gli era permesso rimanere in quella scuola, dopotutto.

Bastava non rompere il patto che c’era.

Fu seguito quasi subito da una figura più minuta, in quel momento tutta presa a giocare con la sua treccia: lui la lasciava fare, per nulla infastidito, rivolgendole anzi uno sguardo accondiscendente; e pensare che Alice non era affatto pericolosa, quando si riusciva a non farla agitare.

Sospirò appena: il vero problema era la presenza di luoghi in quell’istituto in cui lui non potesse assolutamente recarsi.

«Jack, Jack, balliamo anche noi quando comincia la musica?» chiese lei, abbandonando la treccia che era stata il suo intrattenimento fino a quel preciso istante, portandosi davanti al biondo saltellando appena tra un passo e l’altro.

Lui le sorrise nuovamente, annuendo: «Certo Alice, se ti fa piacere, balleremo anche noi.» le assicurò con dolcezza. Lei sorrise raggiante, suscitandogli un moto di tenerezza nell’osservarla.

«Sì, balliamo!» ripeté nuovamente, quasi a dare ancora più enfasi alla questione, neanche fosse la cosa più importante del mondo – e a pensarci seriamente per un attimo, si disse Jack, probabilmente era davvero fondamentale per lei.

«Ehi, Jack» si sentì chiamare una seconda volta: «Persino quella lì si è fatta vedere, eh? Non senti più confusione da qualche giorno?» chiese, il tono divertito come se fosse per una festa a simile a quella che stava per iniziare nella stanza accanto.

Il biondo portò lo sguardo sul punto in cui poco prima aveva visto apparire e poi scomparire Lacie, lo sguardo ora preoccupato: «Credo sia perché anche gli altri lo sentono.» sussurrò a se stesso, senza che Alice lo udisse.

«Comunque, ho davvero una brutta sensazione.» aggiunse, stavolta udibile anche per lei, che danzava con l’aria nell’atrio mentre la musica nell’altra stanza iniziava a suonare.

 

 

Entrati nella sala principale del ballo, erano ammutoliti entrambi, ritrovandosi a fissare a bocca aperta come dei bambini che si meravigliano per ogni cosa la grande sala.

Seppure i lampadari elaborati e la grandezza dell’ambiente fossero entrambe cose a cui erano abituati vivendo in quell’istituto, altrettanto non poteva dirsi dell’atmosfera che si respirava ad ogni passo.

Le prime cose che erano saltate all’occhio erano state alcune decorazioni natalizie, non eccessive né troppo abbondanti nella quantità, ma belle e di una certa eleganza.

Per lo più si trattava di nastri rossi che richiamavano uno dei classici colori natalizi, e solo in alcuni punti sporadici – spesso in corrispondenza delle finestre più grandi – si scorgeva qualche vischio; alle pareti erano state accostate lunghe tavolate con tutti i cibi possibili ed immaginabili, mentre in altre due più piccole erano state organizzate le bevande più varie, con più di una persona a servirle.

Probabilmente, fu il primo pensiero di Oz quando fu in grado di scostarsi mentalmente dallo stupore che aveva colto sia lui che Echo, l’effetto di meraviglia generale era in gran parte dovuto agli occupanti della sala: se anche gli abiti degli uomini e dei ragazzi non differivano molto tra loro se non per modello, essendo tutti per la maggior parte di colore nero e spezzati nel monocolore solo dalla camicia bianca o, in casi più rari, da accessori minimi come cravatte, nastri, foulard o fiori all’occhiello, le ragazze offrivano uno spettacolo assai più vario.

Data la possibilità come in occasione del concerto svoltosi quello stesso mese, avevano dato sfoggio di una vasta gamma di colori nei loro abiti: quando Oz aveva iniziato a guardarsi intorno alla ricerca dei compagni e li aveva individuati insieme a formare un gruppo abbastanza numeroso, la cosa gli era parsa quasi più evidente.

Aveva invitato Echo a raggiungerli con lui, indicandoglieli, e si erano diretti appunto verso di loro.

Il primo a notarli era stato Noah, che Oz aveva già visto con il suo abito quando era uscito dalla stanza e che notò essere di poco diverso da quello di Marcus – comprensibile se si provava a supporre che fossero stati entrambi scelti da Cecile.

Pantaloni semplici e neri, camicia bianca – per una volta, anche nel caso di Noah, tenuta in ordine dentro i calzoni – e giacca scura poco più lunga della vita; sia Noah che Marcus avevano optato per un nastrino sotto il colletto della camicia, simile a quello che erano abituati a portare per la divisa, nero per entrambi.

Con loro c’erano Alice, in un abito rosso non eccessivamente elaborato ma abbastanza elegante per l’occasione, i capelli tenuti in due code come ogni giorno, ma adornate con due nastri della stessa tonalità dell’abito.

Subito dopo, Oz riconobbe la sorella: Ada aveva i capelli ordinati in un chignon elaborato e ornato di un fermaglio dal tema floreale, sul lillà, in ripresa del colore dell’abito, appena più chiaro dell’accessorio. Le fasciava il corpo rendendo giustizia alle forme e lasciando le spalle scoperte: portava dei guanti corti e gli rivolse un sorriso nel vederlo.

Accanto a lei stavano la sua compagna di stanza Karin Hamilton, in un abito di un blu appena più chiaro di quello di Echo, i lunghi capelli corvini legati in una treccia e tenuti su in un chignon meno elaborato di quello di Ada ma ugualmente elegante che le lasciava scoperto il viso sorridente; era affiancata da Clifton Lafayette, i cui capelli scuri erano legati in una coda bassa e ordinata da un nastro blu scuro, l’abito di poco differente da quello degli altri ragazzi in sala, la giacca solo appena più lunga tanto da arrivare leggermente sopra il ginocchio.

Teneva il braccio semi piegato, nella classica posizione che permetteva alla sua dama – Karin, suppose senza doversi impegnare troppo per indovinare – a poggiarvi la mano come la ragazza al suo fianco stava facendo.

«Ton-ton, so che ti chiediamo un grandissimo sforzo, ma essere uomo per una volta? Stai arrossendo come una ragazzina!» sentì qualcuno sfottere Clifton e, spostando lo sguardo, intravide anche Sally McFinch.

I capelli corti erano lasciati sciolti, ordinati da una fascia sul verde chiaro in tinta con l’abito lungo poco oltre le ginocchia e quindi più simile a quello di Echo; Clifton in quel momento le rivolse un’occhiata eloquente, mentre Karin ridacchiava sommessamente divertita e interveniva a fare da piacere tra l’amica e il proprio cavaliere: «Sally, non stuzzicarlo.» la pregò gentilmente.

Oz sorrise divertito, spostando lo sguardo verso il resto della sala: vicini all’orchestra che si stava evidentemente organizzando per l’inizio della serata ormai prossimo, intravide Rufus e Miranda Barma che parlavano e non troppo distanti da loro lo stesso facevano Xerxes Break e Alexis Coleman.

Poté individuare facilmente anche Daniel Wayne, che era accanto alla preside Cheryl.

Stava per passare in rassegna un’altra parte della sala quando sentì una voce familiare più vicina di quanto non l’avesse notata poco prima: «Buonasera.» colse, voltandosi e ritrovando Alyster ormai in prossimità del loro gruppo.

Sulla sedia a rotelle, alle sue spalle stava Sirjan, che rivolse loro un cenno leggero del capo; indossava lo stesso abito che gli avevano visto al concerto, quando aveva suonato: l’unica differenza era data dal nastro sotto il colletto della camicia, color ghiaccio. Ancora una volta, poté notare facilmente Oz, dello stesso colore dell’abito della sorella, semplice e senza particolari disegni sulla stoffa, che le fasciava il fisico esile lasciando in parte scoperte le spalle laddove non nascoste dalle bretelle a fascia.

Teneva i capelli legati in una treccia morbida, adagiata sulla spalla sinistra e sorrideva con gentilezza come sempre: «State tutti benissimo.» si complimentò con il gruppo in generale.

Oz le sorrise di rimando, ricambiando il complimento, mentre Noah azzardò a farsi più vicino a lei facendo un inchino di tutto rispetto e prendendole con delicatezza la mano, mimando un bacio sul dorso senza tuttavia sfiorarlo con le labbra, come buona educazione imponeva.

Alyster sorrise divertita, portando la mano libera a coprire appena la bocca nell’atto: «La professoressa Barma sarebbe molto fiera se ti vedesse.» commentò, bonariamente scherzosa, e Noah ridacchiò facendole l’occhiolino dopo che fu tornato dritto.

Oz le si rivolse, approfittando di un attimo di silenzio generale: «Hai già incrociato Elliot?» domandò, più per curiosità che per necessità di incontrare l’altro.

Lei scosse la testa, occhieggiando nei dintorni: «Non ancora, ma penso arriverà a breve insieme ai fratelli.» replicò, alzando appena una mano in un cenno di saluto che, seguendo la direzione in cui era rivolto, Oz e il resto del gruppo poterono intuire fosse diretto ad Aedan che entrava in quel momento nella sala al fianco di Ethan.

Fu così che Noah e Marcus si congedarono dal gruppo per dirigersi a salutarli – Ethan, gli aveva detto Noah, era una delle poche persone che potesse azzardare a definire amico di Marcus.

Quasi nello stesso momento, Alyster e Sirjan fecero lo stesso e il loro posto, quasi fosse stato un accordo, fu preso da due dei Nightray.

Gilbert e Vincent si erano infatti avvicinati al loro gruppo riconoscendoli: un po’ ad imitazione del concerto anche loro vestivano gli stessi abiti ed entrambi avevano i capelli legati in una coda bassa come Clifton; nel caso di Vincent era più ordinata e legata da un nastro rosso, mentre per Gilbert i capelli che sfuggivano al nastro blu erano di più, ma non per questo davano un’impressione di disordine.

Vincent sorrise loro ampiamente, tanto che dentro di sé – non lo espresse al resto del mondo perché proprio non era il caso di rovinare e rovinarsi la festa – Oz si ritrovò a pensare che il mezzano dei tre Nightray doveva avere fra le sue molte qualità innate la faccia di bronzo.

Apprese poco dopo che si trattava del cavaliere di sua sorella per quella sera – si impegnò tanto a mascherare la sorpresa, ma non fu certo di riuscirci e nulla mise definitivamente a tacere la vocina che martellante, nella sua testa, gli ripeteva qualcosa come: “vendetta personale” e “tu ti avvicini a mio fratello, io mi avvicino a tua sorella”.

 

 

Era stato difficile far mantenere la calma, quando era successo.

All’inizio probabilmente se ne erano accorti in pochi, ma dai più vicini ai più distanti dal punto in cui era accaduto – in un’inquietante somiglianza con il classico effetto domino – diverse teste si erano voltate fra il vociare e alcuni toni che colti di sorpresa erano stati più spaventati di altri.

Oz non era tra i più vicini, ma a fargli capire che qualcosa non andava era stato vedere Aedan che veloce era sfrecciato verso la porta principale, sparendovi oltre.

Cercando nelle immediate vicinanze, a quel punto non era stato troppo difficile individuare uno spazio vuoto tra la folla; era quasi riuscito ad avvicinarsi quando Gilbert lo aveva raggiunto, palesandogli la sua presenza con un braccio attorno alle spalle.

«Gil, che succede?» aveva chiesto, non proprio allarmato dal momento che non sapeva di cosa si trattasse, ma con una sfumatura di iniziale preoccupazione nel tono.

Lui l’aveva guardato, l’espressione seria, incerto se rispondere o meno; poi l’aveva sospinto leggermente verso la porta, senza dargli possibilità di muoversi nella direzione opposta e quando erano stati quasi fuori si era chinato verso di lui.

«Alyster si è sentita male.» aveva pronunciato.

Non gli era stato possibile vederla subito, e si erano anche chiesti come fosse stato possibile portarla in infermeria visto che dalla porta principale né lei né Sirjan erano usciti.

Fuori dall’infermeria, quando l’avevano raggiunta, avevano trovato Noah e Marcus, che probabilmente avevano accompagnato Ethan per ricondurlo dov’era Aedan.

E, poco distanti, Elliot e Reo.

Aedan era uscito dall’infermeria solo dopo una ventina di minuti, ma il fatto che avesse assicurato a tutti loro di tornare ai dormitori o alla festa a seconda dell’opzione che preferivano, aveva tranquillizzato tutti loro che erano lì ad aspettare.

Alyster rimase al letto per il mese seguente.

 

 

Note dell’autrice

Un parto.

Questo capitolo mi ha succhiato via l’anima. E sappiate che mi sono obbligata a finirlo entro marzo e_e *anche perché il ritardo si sarebbe protratto fino alla morte altrimenti*

Che dire? La frase in apertura è dell’anime “5 centimetres per second”, carino da vedere se avete voglia di deprimervi profondamente alla comoda cifra di soli tre episodi (ma a me è bastato il primo 8D)

Pian piano vi rifilo informazioni, anche se dosarle è sempre un problema; è apparsa anche Lotti-san *A* *festeggia*

E ci provo a scollinare dalle 16 pagine di capitolo ma niente, mi vengono e me ne accorgo che è sempre troppo tardi XD

Ho provato anche a gettarvi qualche scena shonen-ai qua e là, visto che più andremo avanti, più avrò talmente tanta roba nella trama da gestire che sarà un pelo più difficile 8D

Vogliatemi bene lo stesso, ne?

 

Ringraziamenti

 

makotochan: ahimé sì, Oz non ha lo spirito da fangirl, ma come ci siamo già dette in separata sede, Noah sopperisce la mancanza XD *muor* Gil ha imparato a fare il figo… sarà, ma io ridevo come una scema, e dire che sono io a scrivere 8D

Quella lì che trattava così Alice, è la Will of Abyss, che non mi metto a spiegarti con precisione qui chi sia, ma per quanto riguarda “Rinnega il tuo nome” al momento è un presunto spirito con le sembianze e il nome di Alice stessa 8D *attenta a non spoilerare*

Christopher e Noah sono un’arma impropria contro Marcus fondamentalmente e sono troppo stupidi insieme, come si è visto XD In questo capitolo sono stati un pelo più seri – per la serie: i miracoli avvengono ogni tanto – e qualcosa si è capita anche del perché Zai scazza i nomi dei figli come se sbagliasse marca di assorbenti (??)

Spero ti abbia soddisfatta il capitolo ùwù

 

Gioielle: del rapporto Gil-Oz abbiamo largamente già discusso, quindi non starò a ripetermi qui. Non posso che dichiararmi soddisfatta che lo sforzo di accozzarli insieme in tutti i modi che la mente dell’autrice possa concepire siano stati di tuo gradimento XD Gilbert pseudo-seme era un mio sogno proibito, lo ammetto: più che altro, povero, sembra che faccia il seme solo per questioni di fisicità causa Abisso (nel manga)! Diamogli una possibilità! XD

La scena Marcus-Noah, o quantomeno l’accenno, è giusto che venga intesa senza essere commentata u_u; quanto a Vincent e Oz sì, è quella di cui ti avevo accennato.

In conclusione ho una sola cosa da dire: se temevi che fosse solo l’inizio dell’angst che ho intenzione di propinarvi beh, ci hai azzeccato in pieno *ammicca*

 

Fiamma Drakon: Break E’ una fidanzatina appiccata al suo uomo! *muore* XDDD

La Volontà si è aggiunta (e qui è pure riapparsa), perché mi ero ripromessa di mettere dentro tutti i personaggi di PH, fosse stato anche solo per comparsa, non potendo dare a tutti un ruolo di peso. Certo, se la Mochizuki smettesse di sfornarne io non dovrei lambiccarmi il cervello per cercare di inserire anche i nuovi con scarsi risultati, ma vabbé XD

Felice che ti sia piaciuto il precedente capitolo e spero che anche questo sia stato di tuo gradimento – e che la questione Zai-Oz-Jack sia un pelo più chiara soddisfacendo la tua curiosità <3

 

Gweiddi at Ecate: innanzitutto, ti ringrazio per i tanti complimenti. Pensare che tendi a non lasciare recensioni ma che la fanfiction in qualche modo ti abbia spinta a farlo è già di per sé un grosso traguardo per me.

Per quanto riguarda la presenza di Lotti, come detto anche su ho rimediato XP Doveva arrivare il suo momento, tutto qui u.u

Che dire se non un continuo grazie per riscontrare l’IC, per la trama che ti ha presa, per gli interrogativi per i quali non attenterai alla mia vita (XD), per dire che ti suscita emozioni quello che scrivo e non ultimo per amare Noah, che più di altri personaggi originali è stato una scommessa a quanto pare ben riuscita.

Spero che anche questo capitolo possa appassionarti allo stesso modo <3

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Capitolo 14
*** Poi, il tempo si ferma ***


Nel mese durante il quale Alyster era rimasta in infermeria dopo il primo malore durante il ballo, c’era stato un via vai continuo, seppure sempre delle stesse persone

Poi, il tempo si ferma

 

 

As years go by

I race the clock with you

But if you died right now

You know that I'd die too

 

 

Nel mese durante il quale Alyster era rimasta in infermeria dopo il primo malore durante il ballo, c’era stato un via vai continuo, seppure sempre delle stesse persone.

Le volte in cui Oz vi si era recato aveva avuto modo di incrociare Elliot e Reo che ne uscivano, Keira Nightingale del quinto anno che aveva partecipato al concerto, Ada accompagnata da Karin e Gilbert, che però si limitava spesso ad una visita di passaggio che durava il tempo utile ad informarsi con cortesia della sua salute senza però fermarsi mai troppo a lungo.

Probabilmente era dovuto al fatto che non avevano la stessa confidenza che la ragazza aveva invece con Elliot, il quale – così gli aveva detto lei stessa in una delle prime visite – si tratteneva sempre abbastanza a lungo da parlare un po’.

Ovviamente, ad eccezione degli impegni assolutamente improrogabili, Sirjan viveva praticamente dentro l’infermeria, Aedan che lo sostituiva per quanto riguardava le ronde e tutto ciò che concerneva strettamente la disciplina; solo i documenti erano lasciati al capo dormitorio.

Per il resto, Oz sapeva per certo che anche Noah era andato a trovarla per il semplice fatto che spesso erano andati insieme; una delle volte in cui però era andato da solo, Alyster lo aveva sorpreso con una richiesta.

«Ci sono delle cose delle quali ti vorrei parlare.» aveva esordito la ragazza, il sorriso pacato sempre al suo posto, il corpo esile che vestiva una vestaglia sopra la camicia da notte, coperto fino alla vita dalle lenzuola bianche e pulite, il viso un poco pallido, ma tutto sommato sano.

«Forse Sirjan non condividerà, ma credo… sia il caso di parlartene. Sto solo anticipando di un poco il momento in cui ti avremmo raccontato comunque la cosa.» aveva proseguito, le dita delle mani intrecciate in grembo: «Sono cose che non dovresti sapere. E alcune regole mi impediscono di raccontarti i dettagli. Però ci sono cose, anche che non ti riguardano personalmente, ma che riguardano solo me e mio fratello, di cui… vorrei parlarti. Che vorrei tu ascoltassi.» aveva poi detto, osservandolo per studiarne la reazione forse.

Oz e la curiosità erano una cosa sola, ma a spingerlo ad annuire non era stato solo quello: era stata la profonda fiducia che in relativamente poco tempo aveva sviluppato nei confronti di Alyster, era stata l’espressione gentile e la parola di conforto che ogni volta lei aveva trovato il tempo di rivolgergli.

Era stata quella sensazione che intorno alla ragazza aleggiasse tanta gentilezza quanto qualcosa di più spesso e impenetrabile che non era mai riuscito a decifrare.

Lei aveva sorriso, ma in maniera diversa: sollevata, grata quasi.

«Voglio parlarti della mia famiglia e di quello che fa da generazioni, Oz.»

 

 

I Kolstoj non erano mai stati una di quelle famiglie il cui nome è presente nei registri di secoli e secoli prima; rispetto a molte altre casate avevano una storia più breve, ma fin da quando figuravano in società il loro compito era sempre stato lo stesso: non si seppe mai saputo se si fossero staccati da un ramo principale con un altro nome, o se avessero avuto origine dal matrimonio di un membro di una famiglia conosciuta con un qualche straniero.

Tuttavia, era pressoché impossibile fra le casate ducali maggiori che il loro nome non fosse più che conosciuto: tra queste, i Kolstoj erano stati chiamati in vari modi nel corso del tempo.

Ci fu un periodo in cui li chiamarono Recorder, “coloro che registrano”; il nome subì diverse variazioni nel tempo, si notava dalle informazioni che dal passato erano rimaste, spesso ad opera degli stessi capo famiglia in carica. Furono chiamati per un breve periodo “gli informatori”, nome abbandonato e ripreso solo più avanti, per poi essere mantenuto in modo più o meno definitivo e stabile.

Il ruolo del capofamiglia era un ruolo estremamente complesso nel suo genere: la famiglia dei Kolstoj, di generazione in generazione si occupava sempre della stessa cosa, ossia quello che veniva definito all’inizio “segreto di società”; le casate nobili più in vista, e nella fattispecie le cinque casate ducali maggiori, intersecavano le loro storie e le loro esistenze in una maniera tale che come in ogni ambiente di alta società denso di falsità e menzogne, non erano rari incidenti che avrebbero gettato la reputazione di chiunque in una fanghiglia così densa da non permettergli alcuna risalita.

Per sopperire a questi incidenti e perché venissero messi tutti completamente a tacere senza lasciare traccia, si ricorse a qualcosa di molto simile a dei “depositari” delle informazioni.

Questi erano i Kolstoj.

Generazione dopo generazione il capofamiglia si faceva carico delle vergogne peggiori delle altre casate, con l’obbligo di non rivelarle a nessuno e mantenere una posizione di assoluta neutralità: suo compito era di agevolare una soluzione al problema più semplice e discreta possibile, facendosi fautore dell’equilibrio fra le casate maggiori.

Ogni informazione sarebbe stata registrata nella persona stessa del capofamiglia, che avrebbe portato i segreti di cui era a conoscenza nella tomba, ad eccezione del suo successore, l’unico autorizzato a conoscere quanto accaduto fino a quel momento.

La successione – così fu deciso dal primo capofamiglia – avvenne sempre per età: qualora anche ci fosse più di un figlio e possibile erede, questi sarebbe stato scelto sempre attraverso quel parametro. Dunque ogni primogenito, già dalla sua nascita, sarebbe stato destinato a prendere il posto di suo padre.

La prima eccezione si ebbe nella seconda generazione della famiglia: il primogenito Maximilian morì assassinato che era appena ragazzo e il suo posto fu quindi preso dalla secondogenita Lilith.

La seconda, fu nel caso della quinta generazione: i figli del capofamiglia di allora erano gemelli. Sebbene l’uno fosse nato di qualche secondo prima dell’altra, non si poteva parlare di maggiore età fra loro.

Fu deciso perciò che la decisione sarebbe stata presa più avanti con l’età, basandosi sull’indole e le attitudini dimostrate da entrambi; tuttavia, nonostante non fu resa pubblica fino alla cerimonia di maggiore età a quindici anni, la decisione era stata presa già l’anno precedente in un modo tale che se fosse stato scoperto, probabilmente ci sarebbero stati diversi disaccordi in proposito.

Benché fosse in potere del capofamiglia cambiare alcune regole interne della famiglia qualora lo ritenesse strettamente necessario, quella della successione era rimasta intaccata per ben cinque generazioni.

All’età di quattordici anni, Sirjan Kolstoj chiese di essere l’erede del ruolo di suo padre.  

 

«Sirjan, Alyster, non correte!» sentirono esclamare poco dietro di loro; il ragazzino si fermò per voltarsi indietro, cercando con lo sguardo la figura della madre che li aveva richiamati. Allo stesso tempo, sua sorella lo raggiunse affiancandolo, la risata leggera e cristallina che si levava nell’aria mentre si fermava a sua volta.

«Non preoccuparti, madre!» assicurò lui di rimando, voltandosi quindi all’indirizzo della gemella e allungando una mano verso di lei, che la prese prontamente rivolgendogli un sorriso allegro.

«Ti accompagno dove vuoi! C’è un posto che preferisci, Alys?» domandò osservandola; lei parve pensarci su qualche istante, con grande attenzione: «Andiamo al fiume, fratellone?» propose quindi, l’espressione incerta. Sirjan le sorrise, l’aria divertita, spostandosi di qualche passo ed esibendosi in un perfetto inchino con tanto di baciamano.

Rialzò lo sguardo furbo su di lei, che sorrideva divertita: «Certo che sì. Ogni tuo desiderio è un ordine.» affermò.

 

Allora, Alyster camminava ancora; all’età di undici anni, lei e Sirjan erano due bambini la cui massima preoccupazione, come tutti i loro coetanei, era cosa fare nei pomeriggi assolati come quello in cui andarono insieme al fiume.

Situato vicino alla tenuta estiva dei Kolstoj, il corso d’acqua non era particolarmente capiente o conosciuto: scorreva attraversando delle parti di verde incontaminato, con vegetazione non troppo estesa che rischiasse di far smarrire la strada.

Quel pomeriggio, con l’ingenuità tipica di un bambino, Sirjan aveva pronunciato una promessa che, pur non potendolo sapere allora, avrebbe continuato a mantenere anche in futuro: i desideri della sorella, il suo stare bene, sarebbero diventati la sua personale priorità.

Forse anche per questo qualche anno dopo sarebbe stato lui stesso a prendere il posto del padre quando ancora non era stato deciso chi vi fosse più adatto fra lui e la sorella.

La giornata al fiume fu divertente: passarono quel pomeriggio sul prato, con i piedi per un po’ nell’acqua del fiume; Sirjan rischiò di farsi male quando per prendere un paio di frutti dall’albero cadde – per fortuna da un’altezza misera, scivolando mentre scendeva per tornare a terra.

Avrebbe potuto piangere come il bambino che era, ma per un motivo che sarebbe stato chiaro solo qualche anno dopo, il viso preoccupato della gemella aveva fatto sparire ogni possibile dolore, o l’aveva reso qualcosa di assolutamente irrilevante in quel momento.

Era stato importante soltanto ridere della propria goffaggine, lasciare che Alyster gli togliesse sollevata qualche foglia depositatasi fra i capelli e prendesse fra le mani quel frutto accennando anche lei ad una risata leggera che scacciasse via la preoccupazione.

Il resto, a distanza di una decina d’anni quasi, Sirjan nemmeno lo ricordava più.

 

Quando Alyster cominciò a stare male, non sembrò nulla di grave.

Non sarebbe stata la prima volta che, con un virus influenzale nell’aria, si ammalava per prima; era capitato anche in passato che la febbre fosse anche molto alta, o che le causasse qualche leggero dolore alle ossa dovuto alla spossatezza soprattutto.

Anche quella volta la febbre pian piano scese fino a sparire del tutto, ma rimase quel doloroso senso di torpore ai muscoli; a quasi quattordici anni, le gambe di Alyster Kolstoj si bloccarono a livello muscolare abbastanza da impedirle di camminare.

La notizia della sciagura che aveva colpito la famiglia si sparse in fretta in società; tuttavia nessuno si presentò alla tenuta per sincerarsi della salute della figlia femmina che era andata peggiorando in modo così drastico e terribile per una bambina che non aveva ancora fatto il suo ingresso in società.

Le parole che vennero indirettamente rivolte alla famiglia Kolstoj furono parole degne dell’ambiente delle classi agiate di cui erano entrati a far parte con quel loro particolare ruolo: malelingue che strisciavano sotto forma di pettegolezzi insinuandosi nei posti più angusti, raggiungendo l’udito anche di chi non avrebbe voluto ascoltare.

E dire che anche il figlio maschio deve ancora affrontare la cerimonia di maggiore età: sarà segnato dal destino toccato alla sorella., erano stati i commenti spietati che si erano riversati su di loro, riempiendo le mura di casa.

Sirjan sviluppò un rifiuto categorico nell’apparire in pubblico, giurando dalla prima volta in cui sentì quei commenti che mai si sarebbe sottoposto alla cerimonia senza la sorella.

Disse parole forti per un ragazzino della sua età.

Disse cose che andavano contro l’educazione ricevuta e la posizione per generazioni prima i suoi antenati avevano faticosamente conquistato.

Disse per la prima volta qualcosa con la rabbia e l’odio che si addicono ad un adulto.

Le pronunciò davanti all’unico aristocratico che in casa Kolstoj mise piede senza mentire, riversando su di lui quel disgusto che una cerchia di nobili aveva provocato, facendone il capro espiatorio.

Ma quell’aristocratico non si voltò come tutti gli altri.

 

«Ci è giunta voce della malattia che ha colpito vostra figlia.» sentì dire al giovane esponente che era probabilmente venuto fin lì per farsi portavoce della propria casata in vece del capofamiglia.

Lo aveva osservato guardingo da quando aveva messo piede lì; i capelli lunghi tenuti ordinatamente in una coda bassa legata da un nastro nero, il mantello che copriva le vesti e che non aveva tolto ancora di un colore piuttosto tenue.

L’espressione di chi trova quella formalità qualcosa di non troppo utile e che se la risparmierebbe volentieri.

Come tutti gli altri.

Falso.

Ipocrita.

Opportunista.

Di certo anche lui era lì per cortesia, per non inimicarsi la famiglia Kolstoj.

Di certo anche lui avrebbe rivolto parole disgustose a sua sorella.

«Sono qui, in rappresentanza di mio padre. Si scusa per non essersi presentato di persona, un impegno lo ha trattenuto. » gli sentì spiegare.

Prevedibile, proprio come aveva pensato.

Perché gente come quello… era lì?

«Ci tiene a comunicarvi che di qualunque cosa necessitiate, sarebbe ben disposto ad esservi di aiuto.» aggiunse, voltandosi poi in direzione dello stesso Sirjan, probabilmente sentendosi osservato.

Mentre il padre del più giovane ringraziava e lo pregava di riferire le proprie parole al padre, il ragazzo continuava ad osservare il figlio, attirando infine l’attenzione del capofamiglia che si sentì quindi in dovere di presentarli.

«Questo è mio figlio Sirjan.» iniziò, distratto dalla porta che veniva aperta da una cameriera lasciando entrare Alyster, la camicia da notte sostituita da abiti consoni a ricevere un ospite, i capelli legati in una treccia che poggiava morbidamente sulla spalla.

Sulla sedia a rotelle da cui non si sarebbe potuta alzare mai più.

«Lei invece è Alyster.» concluse il padre, lo sguardo di un genitore che scambierebbe volentieri il suo posto con il figlio pur di non vederlo in uno stato simile.

Sirjan non aveva smesso di guardarlo male nel momento stesso in cui l’ospite aveva posato il proprio sguardo sulla gemella; se soltanto avesse pronunciato parole che potessero in qualche modo offenderla, o sottolineare in maniera vagamente sgradevole la condizione in cui versava ora, giurò a se stesso che non gli sarebbe importato nulla dell’etichetta.

Lui l’avrebbe protetta: non importava a che prezzo.

Lo vide inginocchiarsi davanti alla sedia a rotelle della sorella, un ginocchio a contatto con il pavimento, l’altra gamba piegata; la osservò in silenzio, quasi studiandola e Sirjan si ritrovò a fare un passo avanti quando notò il disagio di Alyster iniziare ad essere visibile.

«Mi dispiace, per la vostra condizione.» gli sentì dire.

Affiancò la sorella, guardando quel tipo senza nemmeno l’ombra del rispetto che l’etichetta imponeva nei confronti di un ospite: «Non c’è niente di cui dispiacersi.» sbottò nell’immediato, senza avvertire lo sguardo di Alyster che si spostava apprensivo su di lui.

«Smettete di venire qui, voi e le altre famiglie. Di mia sorella non vi importa, e non fate altro che rivolgerle parole che non pensate. La trattate come non fosse normale. Allora potete anche andarvene se è per questo che vi siete scomodato a venire.» replicò affilato, il tono che tremava appena per la rabbia e l’incapacità – a tredici anni – di ferire con le parole come si potrebbe fare con delle lame, senza movimenti superflui e con accuratezza.

Piuttosto gli si rivolgeva goffo come chi in un duello mortale impugna la spada per la prima volta nella sua vita.

E quel tipo taceva.

E lo fissava come se non valesse nulla.

«Non sarete voi, piuttosto, a considerare vostra sorella una debole?» lo apostrofò, atono.

Sirjan avvampò, un po’ di rabbia un po’ di frustrazione: «Come…?»

«Perdonatemi, comunque, se ho dato quell’impressione.» riprese l’altro interrompendo ogni sua possibile replica.

E gli sorrise: un incurvarsi di labbra di chi ha trovato qualcosa di divertente che ha finalmente eliminato la monotonia delle sue giornate e quasi promette docilmente di riempirle almeno per un po’.

«Sirjan!» lo richiamò il padre, ma il giovane alzò una mano, come a far segno che non era accaduto nulla di irreparabile, lo sguardo che rimaneva su Sirjan, l’espressione immutata.

«Siete ancora piuttosto immaturo, ma in qualche modo divertente. Quando sarete cresciuto, forse potremmo anche trovare un punto d’incontro.» lo apostrofò provocatorio e criptico al tempo stesso.

Sirjan tacque, fissandolo ancora piuttosto irritato da quel comportamento, osservandolo anche mentre suo padre lo conduceva via da quella stanza in cui rimasero lui e la sorella.

«Perdonate mio figlio, è molto scosso per la sorella.» si scusò l’uomo una volta nel corridoio.

«Meglio di molti altri aristocratici, glielo assicuro.» fu il giudizio che Rufus Barma diede quella volta.

 

 

«Cosa?! Conoscete il professor Barma da così tanto tempo?» la interruppe Oz, osservandola sorpreso.

Alyster accennò ad una risata leggera, appena più flebile del solito, ma udibilissima e divertita come lo erano state altre.

«Sì. Il professor Barma è un vecchio amico di famiglia. Mio fratello all’inizio non lo aveva visto di buon occhio, ma… Barma è meno terribile di quanto sembri, davvero.» assicurò, ma dallo sguardo di Oz probabilmente capì che per il ragazzo immaginarlo era difficile.

E in effetti, evincerlo solo da quel che di Rufus Barma si vedeva in una classe non era facile – e in realtà dipendeva anche dal fatto che le condizioni in cui Alyster lo aveva conosciuto erano particolari, e che la ragazza era piuttosto incline a dire un po’ di tutti che si trattava di persone “meno terribili di quanto sembrasse”.

Oz ridacchiò appena: «Scusa Alyster, ma è un po’ difficile.» ammise sincero, e lei sembrò apprezzarlo, senza prendersela.

«Lo so. Però dico davvero, quando ti racconto di un Rufus giovane e gentile. Forse sarà cambiato con il tempo, ma per me e Sirjan è stato una figura importante. Mio fratello lo aggredì, ma allora era vero che molte delle persone che vennero a parlare con mio padre per la mia malattia lo fecero solo per falsa cortesia.» pronunciò, forse la cosa più severa che il biondo le avesse mai sentito dire.

Rimasero in silenzio per diverso tempo, in cui lui si limitò a lasciar vagare lo sguardo un po’ ovunque nell’infermeria, mentre lei aveva diretto il proprio fuori dalla finestra che si trovava abbastanza vicina al suo letto e aveva preso ad osservare qualcosa del giardino che forse ne aveva catturato l’attenzione.

Che spostò nuovamente su Oz quando ne avvertì le iridi chiare su di sé: «Non voglio che ti fai problemi con me, Oz. Se vuoi chiedermi qualcosa, fallo senza sentirti a disagio.» lo rassicurò, rimanendo quindi in attesa.

Lui si guardò le mani, che giocherellavano con il bordo dello sgabello su cui sedeva durante le visite come quella: «Non voglio chiederti qualcosa che ti metta a disagio.» rivelò sincero; anche prima lo era stato spesso anche senza averne l’intenzione con Alyster ma ora che stava male, o che sembrava comunque più debole del solito, a maggior ragione mentirle gli sarebbe sembrato in qualche modo meschino.

La vide sorridergli gentile ed incoraggiante al tempo stesso, e fare un cenno leggero del capo, come a spronarlo a non preoccuparsi di una cosa simile.

E a quel punto non avrebbe avuto più motivo di negarle quella domanda istintiva che gli era venuta in mente mentre l’altra raccontava l’episodio in cui un Rufus Barma poco più che adolescente aveva interagito per la prima volta con i Kolstoj.

«Alyster, tu… non eri spaventata?» le chiese, con quanta più calma gli riuscì, per non far apparire quella domanda come una richiesta di frettolosi chiarimenti.

Lei inclinò appena la testa lateralmente: «Da cosa?» chiese infatti; Oz soppesò qualche istante come porre la domanda in maniera più chiara.

«Pensavo al fatto che tu… mi sembri felice.» esordì poi: «Quando sei con Sirjan, ma anche con altre persone. Con Aedan, o con Elliot, o anche con me tu sorridi sempre. E mentre raccontavi, sembrava che da bambina tu fossi più spaventata da quanto Sirjan potesse arrabbiarsi che non dal fatto di non poter più camminare.» chiarì del tutto cosa intendesse con la domanda precedente.

Alyster assunse un’aria sorpresa, ma non negativamente, tanto che quasi subito lasciò che un sorriso addolcito le incurvasse nuovamente le labbra.

«Non ero spaventata, ma solo perché non mi rendevo probabilmente nemmeno conto dell’entità di quanto mi stava succedendo. Forse all’inizio, non lo avevo nemmeno capito davvero.» ammise: «Perciò all’inizio, la mia preoccupazione maggiore era che qualunque cosa mi fosse successa alle gambe, potesse davvero essere un problema per tutte le persone che mi circondavano, proprio come dicevano i pettegolezzi a quel tempo. Non solo Sirjan, ma anche i nostri genitori.» continuò, spiegandogli chiaramente e passo passo quali preoccupazioni le avessero riempito la testa in quel periodo.

Fece una pausa, lo sguardo che sostava su Oz, come a sincerarsi che avesse capito prima di proseguire: «Mio fratello è la persona che amo di più al mondo. Essere gemelli faceva già sì che ci fosse un legame particolarmente forte, ma Sirjan per me è stato tutto. È stato quella persona a cui affidarsi, quel qualcosa che ti proteggeva e che io stessa volevo proteggere. Suona un po’ come nei libri, ma è stato davvero la mia forza.» spiegò con la dolcezza nel tono di voce, lo sguardo che mostrava un amore incondizionato, che ad Oz ricordava più quello che spesso veniva attribuito ai genitori nei confronti dei figli che non a due fratelli.

«Sirjan è stato quel qualcosa che non è cambiato mai. Non era importante cosa succedesse alle mie gambe, cosa succedesse al mondo che c’era intorno. Sirjan non cambiava mai, lui era sempre lì. Anche se… in un certo senso, io sono stata egoista. Anche se più di una volta gli ho detto che non doveva rinunciare alla sua vita per stare sempre e solo con me, speravo che non andasse via. Non volevo la sua infelicità, ma istintivamente io desideravo che rimanesse.» rivelò, sincera e pacata, come se avesse fatto i conti con quella parte di sé già diverso tempo addietro e ormai avesse accettato la parte di sé che era stata egoista, in modo tale da non stupirsi più quando faceva la sua comparsa come in quel momento.

«In ogni caso, lui non ha mai abbandonato il mio fianco. Ed è anche giusto che io mi senta un po’ in colpa nei suoi confronti. Non per autocommiserazione, né per un atto di masochismo. Solo, ho pensato di dover sacrificare anche io qualcosa per lui. Perciò va bene così.» concluse, con un sospiro leggero.

Oz si chiese se non l’avesse stancata già troppo, per quel giorno; occhieggiò l’orario, facendo mente locale: Sirjan non arrivava mai prima di una certa ora, e notò che mancava una mezz’ora abbondante ancora.

Aedan era sicuramente occupato a dare una mano al capo dormitorio e dunque era difficile che venisse; allo stesso modo, Alyster gli aveva detto che Elliot era passato in mattinata.

Tornò con lo sguardo su di lei, deciso ad aspettare per non lasciarla da sola.

 

 

Semmai vi era stato il dubbio che la malattia che aveva colpito le gambe della figlia dei Kolstoj potesse aver indebolito gli arti inferiori solo per un periodo di tempo che potesse essere più o meno lungo, ben presto fu evidente invece che di qualunque malore si trattasse fosse destinato a rimanere permanente, impedendo così di nutrire una qualsiasi speranza di recupero sull’utilizzo degli arti.

La madre, a detta delle signore che spesso popolavano i salotti riempiendoli di chiacchiere concitate e pettegolezzi, aveva affrontato quell’avvenimento nefasto con forza e dignità.

Aveva fin da subito assistito la figlia in tutto: molti sostenevano che fosse stato fatto non solo per amore verso la bambina, ma anche per fa sì che il tutto non gravasse sul marito e sul figlio, che era apparso a quel punto l’unico possibile erede del compito del capofamiglia dei Kolstoj.

Contrariamente a quanto era stato lasciato trapelare tuttavia, non era stato ancora deciso affatto: nonostante le condizioni fisiche di Alyster avessero reso certamente più difficile l’assoluzione del compito che avrebbero dovuto ereditare, era per contro anche vero che sembrava lei dei due quella che possedeva un’indole tale da potervi meglio assolvere in futuro.

Ma Alyster era ancora una ragazzina: una quattordicenne che aveva a malapena preso coscienza del fatto che non avrebbe camminato mai più, che aveva sentito su di sé la pressione di ingiuste accuse su un futuro in cui non sarebbe stata altro che un peso; aveva visto suo fratello arrabbiarsi a quel modo per qualcosa che la riguardava, quel suo senso di protezione farsi estremamente più elevato di quanto non fosse mai stato e soprattutto lo aveva visto in piedi.

In una posizione tale per cui, passo dopo passo, sarebbe potuto andare via senza tornare mai più.

Alyster lo aveva visto nascondere il sorriso che di Sirjan le era sempre piaciuto tanto, per far spazio all’espressione di un adulto che sul viso ancora caratterizzato dai lineamenti morbidi aveva stonato terribilmente.

Aveva visto sparire quel sorriso, così come la possibilità di credere in un infantile “per sempre”.

E solo allora, da quando non era più stata in grado di camminare, Alyster aveva pianto.

 

«Sirjan, cosa c’è?» sentì chiedere al padre.

Lo osservò, in piedi nel suo studio, di fronte alla scrivania dietro la quale spesso aveva giocato senza permesso insieme ad Alyster.

Strinse appena la stoffa all’altezza dei pugni, le braccia lasciate lungo i fianchi.

«Padre, voglio essere io il tuo erede.» disse, deciso; sua sorella non avrebbe potuto farcela da sola, ma se lui si fosse fatto carico almeno di una cosa delle tante gravose che rischiavano di ricadere sulle spalle di Alyster, avrebbe potuto proteggerla almeno da quel qualcosa per quanto in suo potere.

Dietro la porta, Alyster ascoltava, le mani di sua madre poggiate sulle spalle per dare conforto e dire con un sorriso e un po’ di calore che sarebbe andato tutto bene.

 

A quattordici anni, Alyster Kolstoj capì che il mondo non sarebbe stato più quello che aveva potuto osservare.

A quattordici anni, Sirjan Kolstoj promise che almeno una parte di quel mondo l’avrebbe protetta lui. 

 

Il racconto di Alyster riprese, raggiungendo finalmente la parte che – a suo avviso – il fratello aveva taciuto fino a quel momento ma che, arrivati a quel punto, lei riteneva giusto che Oz sapesse.

«Ti ho raccontato tutto questo perché tu capissi il ruolo che abbiamo io e Sirjan, per eredità della nostra famiglia.» fu la sua premessa, per essere anche sicura che il biondo fin lì avesse capito.

Oz annuì: «Praticamente tu e Sirjan conoscete alcune cose riguardanti le famiglie dell’alta società e avete il dovere di tenerle per voi, giusto?» ripeté, riassumendo quanto detto e compreso finora.

Alyster annuì: «A volte anche andargli incontro, e fornirgli la soluzione più discreta possibile.» aggiunse alle parole del più giovane. Lo osservò quindi per qualche secondo, in silenzio, come soppesando per un’ennesima volta se fosse davvero il caso di parlargliene.

Infine, sospirò: «Ascoltami bene, Oz. Tu sai che Gilbert e Vincent Nightray sono stati adottati dal casato e non sono i figli naturali del Duca e sua moglie, vero?» chiese, lasciando Oz inizialmente perplesso, sebbene annuì meccanicamente a quella domanda che era stata quasi retorica.

«Il Duca e sua moglie avevano un primo figlio, Elliot, e accolto come unico altro bambino in casa Reo, che divenne il suo servitore personale. Poco dopo l’arrivo di Reo, trovarono Vincent. Il quale continuava a parlare di un fratello maggiore: fu la mia famiglia ad occuparsi di cercarlo e risultò che Gilbert era stato accolto dai Bezarius. Tra le due famiglie non corre buon sangue, ma si trovò facilmente un accordo, e Gilbert fu adottato insieme a Vincent dai Nightray.» riassunse la storia, dando ad Oz anche qualche particolare in più.

Fece una breve pausa, probabilmente per riordinare le varie informazioni di cui era in possesso, scegliendo accuratamente quali rivelare e dosando le parole.

«Questa storia la conoscono un po’ tutti: non è un mistero la loro adozione. Ma c’è… un’ombra, sul casato dei Nightray, di cui è a conoscenza solamente il Duca e la mia famiglia. Tra la nascita del loro unico figlio naturale e l’adozione degli altri due, c’è stato qualcosa di mezzo. Qualcosa che nelle famiglie altolocate non è motivo di vanto. I Nightray ne sarebbero stati screditati, se si fosse venuto a sapere ed è per questo che si è trovato il modo di insabbiare tutto.» continuò, l’espressione – nonostante i lineamenti rimanessero comunque morbidi e non eccessivamente tesi – seria.

Attese, quasi si aspettasse una domanda o volesse in ogni caso dargli il tempo di assimilare quanto gli stava dicendo; il biondo per contro pendeva dalle sue labbra, combattuto tra la naturale curiosità che era una sua caratteristica quasi peculiare, e la perplessità  mista ad un accennato senso di colpa al pensiero che stesse ficcando il naso nella storia della famiglia di Gilbert quando non avrebbe dovuto, o sarebbe stato il caso di chiedere al diretto interessato anziché lasciare che glielo raccontassero terze persone.

Tuttavia, le parole di Alyster, proprio perché pronunciate dalla ragazza apparivano impossibili da ignorare: non era mai stata, né aveva dato modo di pensare che lo fosse, una persona volta al pettegolezzo.

E se addirittura andava contro il ruolo del fratello e della sua famiglia, rivelando segreti che avrebbe dovuto tacere per dovere, doveva esserci qualcosa che davvero necessitava di essere comunicata a lui, Oz.

«Di cosa si trattava?» si decise quindi a chiedere, gli occhi chiari che non si spostavano dal viso della ragazza, cercando forse di evincere qualcosa della risposta prima che questa venisse pronunciata.

«Un figlio illegittimo, Oz.» replicò lei, il tono pacato.

Il biondo assunse un’aria confusa senza poterne fare a meno: «Aspetta, aspetta un attimo.» disse, lasciando ad intendere senza troppe difficoltà di aver perso il filo.

«I Nightray hanno un figlio, ossia Elliot rimane. Dopo di lui non ne nascono altri, ma Vincent e Gilbert vengono adottati. Ma prima di questo, era nato un figlio tra il Duca Nightray e qualcuno che non era sua moglie?» cercò in qualche modo di riepilogare.

Alyster annuì, ed Oz sgranò gli occhi con l’avvenuta conferma di aver capito bene: «E questo figlio chi sarebbe?» chiese di getto, senza pensarci troppo su.

La ragazza scosse appena la testa: «Questo non posso dirtelo. Però Oz, qualcuno lo aveva scoperto. Nessuno sa come, perché questa persona non ha mai interagito con me o mio fratello, né con nostro padre. E anche se lo avesse fatto, non avrebbe avuto alcuna conferma o informazione da parte nostra.» assicurò, ribadendo le “regole” sotto le quali la sua famiglia viveva.

Oz aggrottò le sopracciglia, come se gli stesse sfuggendo qualcosa da un po’.

«Credo che questa persona l’abbia scoperto dai Baskerville. In passato avevano dei rapporti di amicizia non indifferenti con il casato dei Nightray. Ho fatto un’ipotesi, ma… non è nulla di più. L’ho fatta per mio conto, anche se Sirjan sa che ho studiato la cosa per qualche tempo. Non ne abbiamo mai parlato direttamente, ma non ha mai smentito la mia teoria le poche volte che vi ho accennato.» spiegò, come per premettere che non necessariamente quello che stava per dirgli poteva corrispondere a verità.

Oz annuì, fattosi a sua volta serio: non avrebbe saputo dire esattamente perché, visto che non si trattava di qualcosa che le parole, il tono o l’espressione di Alyster gli avevano suggerito esplicitamente, ma aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di cui preoccuparsi.

E che corrispondesse in qualche modo a ciò che secondo la ragazza doveva essergli rivelato nonostante tutto, “regole” comprese.

«Il Duca Nightray ha un figlio illegittimo da una donna che non è sua moglie e si rivolge ai Kolstoj per nascondere il suddetto figlio e fare in modo che il tutto passi sotto silenzio. L’allora capofamiglia dei Baskerville, supponendo che fossero amici, lo aiuta. Non so se disinteressatamente o meno. È plausibile che il figlio dei Baskerville, Glen, lo sapesse o lo avesse scoperto. Non era uno sprovveduto, anzi era persino più brillante del padre. A quel punto, la persona in questione lo scopre da Glen. Io credo da solo, non penso che l’erede dei Baskerville glielo avrebbe detto di sua sponte. Anche perché credo che non se ne interessò mai più di tanto.» concluse.

Anche se dal tono usato ad Oz parve che avesse lasciato in sospeso qualcosa, quasi ripensandoci all’ultimo minuto e decidendo di non dirla nonostante avesse preso in considerazione di farlo.

La guardò interrogativamente e forse lei ne comprese il motivo.

«Alyster, puoi dirmi chi era questa persona che pensi abbia scoperto tutto da Glen?» domandò comunque più esplicitamente Oz, in modo che la richiesta fosse chiara ed Alyster non potesse eluderla.

«…Tuo fratello Jack, Oz. Lui incontrò il figlio illegittimo del Duca Nightray.» replicò lei.

 

 

Sentì bussare alla porta dell’ufficio, lo sguardo che alzandosi dai documenti che stava controllando incontrò quello della sorella, poco distante dalla scrivania dietro la quale sedeva lui – suo padre aveva insistito, una volta accordata la successione del figlio maschio al ruolo di famiglia, perché prendesse dimestichezza fin dal giorno dopo quella decisione.

Era stata data disposizione che entrambi apprendessero in fretta, l’uno per succedere al padre, l’altra per poterlo supportare nelle questioni più semplici e alla sua portata.

Dall’altra parte della porta li raggiunse la voce della governante annunciare una visita; Sirjan pronunciò un neutro “avanti”, interrompendo la lettura del documento che aveva sottomano.

La donna avanzò, con un inchino rivolto ad entrambi: «Signorino, Jack Bezarius richiede un colloquio privato con voi.» comunicò.

Lui e Alyster si scambiarono un’occhiata, prima che Sirjan annuisse: «Fallo accomodare. Anche qui andrà bene.» pronunciò, vedendo entrare pochi minuti dopo il biondo, primogenito dei Bezarius – così diceva il fascicolo sulla sua famiglia, già visionato tempo addietro all’inizio di quella loro istruzione.

Aveva l’aria di chi fa davvero una visita di cortesia ad un amico di vecchia data, notò Sirjan quando poté osservare il primo di una lunga serie di sorrisi spensierati che l’altro gli rivolse a mo di saluto.

Nulla di irrispettoso, anzi: a Sirjan diede la sensazione di qualcosa di molto sincero – e non la provava da anni nei confronti dei figli di buona famiglia con cui si era ritrovato ad interagire.

Tuttavia, era diventato qualcuno incapace di fidarsi ciecamente come avrebbe potuto infantilmente fare qualche anno prima, Sirjan; era ora il tipo di persona che arrivava al punto, senza girarci troppo intorno – ombra della schiettezza e della sincerità di un ragazzino di qualche tempo fa – e che voleva solamente svolgere il suo lavoro, ed essere poi lasciato libero di agire come preferiva.

Lui il cui ruolo imponeva più regole di quanto sembrasse e tra di esse alcune delle più difficili da rispettare – non tradire la fiducia di chi ti affida informazioni che non rivelerebbe ad altri, aiutare con quanta più discrezione possibile, fingere di dimenticare e invece ricordare tutto come su un registro che non finisce mai le pagine – voleva sempre liberarsi del lavoro prima possibile.

Quella volta, Jack si rivolse prima ad Alyster che non a lui: le si avvicinò, rivolgendole lo stesso sorriso con il quale era entrato, senza che l’espressione subisse alcun mutamento quando notò la sedia a rotelle; non ci fu la minima traccia di compassione nel suo sguardo, ma semplicemente fece un inchino educato come l’etichetta imponeva.

E ridacchiò, con fare quasi impacciato: «Ero venuto qui deciso ad impormi più possibile per sapere la verità, ma così non penso proprio di riuscirci.» dichiarò confondendo un poco entrambi i fratelli.

Al chiarimento su cosa intendesse richiesto da Sirjan, Jack Bezarius rispose con la gentilezza che lo contraddistingueva – come avrebbero entrambi compreso a breve – che: «Mi aspettavo un uomo burbero e severo, magari anche un po’ cattivo. Ma se i miei interlocutori sono due fratelli dall’aspetto tanto carino, come faccio a fare la parte dell’uomo senza scrupoli che vuole sapere qualcosa ad ogni costo?»

 

 

Oz aveva ascoltato con attenzione per tutto il tempo in cui Alyster aveva parlato e raccontato vari episodi che riguardavano il passato suo e di Sirjan.

Prima che parlasse anche di suo fratello Jack, Oz aveva ragionato a proposito di cosa la ragazza aveva detto del fratello: Sirjan purtroppo aveva dato poco modo di farsi comprendere appieno. Oz avrebbe potuto addirittura giurare di aver avuto occasione di studiarne il carattere solo due volte: per la precisione quando lo aveva visto interagire con Cheshire in quello che era stato – fortunatamente – l’unico incontro avuto con il felino fino a quel momento, e il conseguente chiarimento avuto quando si era trattenuto nella sala in cui il più grande e Alyster lavoravano come capo dormitori.

Nel primo caso, l’impressione avuta del ragazzo era stata quella molto distante da quanto un primo sguardo aveva potuto suggerirgli: se, infatti, al suo arrivo a Latowidge Sirjan gli era parso il classico studente più grande pacato e con quell’aura un po’ particolare che sapeva farti stare al tuo posto pur senza bisogno di un rimprovero esplicito da parte del ragazzo, in quell’occasione era stato diverso.

C’era stato un Sirjan che della gentilezza, anche solo quella rivolta agli altri per buona educazione e cortesia, non aveva nulla negli atteggiamenti e nelle parole; una persona che aveva provato disgusto e che, quando gli era stato chiesto il motivo per quel fastidio e quell’irritazione mal celati, aveva dimostrato un’attitudine abbastanza distante dalla comprensione.

Se fosse dovuto a episodi passati con i cosiddetti “spiriti” sulla linea di Cheshire o alla semplice non accettazione di qualcosa di così diverso, Oz non aveva saputo dirlo.

Eppure, dalle parole di Alyster, era in qualche modo sembrato tutto molto più complesso, come se facesse parte di un gioco: sovvertire le parti, mischiare le carte in tavola.

Il Sirjan dei ricordi che lei aveva condiviso con il biondo era stato dapprima un ragazzino come tanti altri, un bambino allegro e anche piuttosto vivace che giocava a fare l’adulto galante per divertire la sorella; si era lentamente trasformato come in una metamorfosi: dapprima il fratello che sorrideva alla caduta da un albero perché istintivamente per lui il sorriso della gemella era la cosa più importante, poi il quattordicenne che chiedeva di essere sottoposto alla pressione di un ruolo troppo gravoso per la sua giovane età nel timore che ricadendo sulla sorella avrebbe potuto rivelarsi un carico troppo oppressivo per lei che già doveva combattere con la presa di coscienza di non poter camminare.

Ed infine era diventato un adulto che l’aveva affiancata non per obbligo né per giocare a fare l’eroe dei romanzi famosi come Holy Knight: perché Oz non aveva potuto azzardare giudizi fino a quel momento sul capo dormitorio, ma una cosa sapeva riconoscerla ed era apparsa evidente fin da subito molto chiaramente.

Lo sguardo di Sirjan quando si posava sulla figura di Alyster era lo stesso che a volte aveva visto rivolgere a suo fratello Jack, spesso verso Ada: quello di una persona che guarda la cosa più preziosa che ha, quella che a tutti i costi vuole proteggere da tutto e da tutti.

L’espressione di Sirjan, spesso imparziale come la natura del suo ruolo nella famiglia, si velava di una dolcezza insospettabile probabilmente; non sembrava avere occhi né attenzioni per nessuno che non fosse Alyster, forse in modo iperprotettivo o che qualcuno avrebbe anche potuto definire inadeguato, ma lui non sembrava curarsene.

E, semplicemente, le voleva bene più che a chiunque altro.

Proprio per quello, nonostante Alyster si fosse incolpata dell’averlo privato di una parte della vita che l’altro avrebbe potuto fare, Oz era più convinto che nemmeno una volta Sirjan avesse pensato alla sorella come ad un peso o come ad un compito che gli era stato affidato e che doveva portare a termine per diligenza.

Quando Alyster aveva finito di raccontargli quanto poteva dirgli riguardo quel segreto che concerneva la famiglia Nightray, compreso il loro incontro con suo fratello Jack, era caduto un silenzio che durava anche in quel momento.

Oz si era soffermato a riflettere – non solo su Sirjan, ma anche sul resto – cercando di riordinare le idee più possibile.

Perché Alyster, che aveva esordito dicendo che non erano stati sicuri di potergliene parlare, gli aveva invece raccontato molto più di quanto Oz avrebbe anche solo potuto sospettare?

Doveva esserci qualcosa che forse solo lui poteva chiarirle, o che poteva scoprire per loro; e tuttavia se anche avrebbe potuto pensarlo di Sirjan, Alyster non gli era parsa qualcuno che potesse rivelare qualcosa per proprio tornaconto – quello gli faceva tornare in mente il dialogo avuto con Barma quando era entrato in possesso del diario di suo fratello Jack, ancora al sicuro nel cassetto del suo comodino.

Interruppe quel flusso di pensieri solo quando sentì la ragazza tossire e portò lo sguardo su di lei, notando che la mano che normalmente sarebbe salita a coprire le labbra per riflesso e buona educazione si era fermata a mezz’aria.

Probabilmente, pensò Oz, il colpo di tosse era stato troppo repentino.

La osservò con cipiglio preoccupato, facendo per alzarsi ed avvicinarsi un po’ di più in modo da aiutarla qualora ne avesse bisogno; Alyster però scosse appena quella stessa mano rimasta a mezz’aria, inspirando profondamente un paio di volte e riuscendo a calmare il colpo di tosse.

«Non preoccuparti.» gli assicurò accennando ad un sorriso leggero e che ad Oz parve un po’ debole: «La febbre mi fa venire la tosse da quando ero bambina.» aggiunse, forse per tranquillizzarlo.

Lui annuì, più per dar cenno di aver capito che perché rassicurato: «Alyster, se vuoi riposare puoi dormire, io ho comunque qualcosa da fare con me. Oppure se vuoi posso andare.» le disse, non volendo proprio stancarla più del dovuto visto che sembrava già abbastanza indebolita di suo, sebbene rispetto ai giorni precedenti avesse preso un po’ più di colorito.

La vide scuotere leggermente la testa in senso di diniego, in un gesto appena accennato: «No, c’è… ancora qualcosa di cui vorrei parlare con te.» ammise, osservandolo.

Il tono sembrava tornato serio come all’inizio di quella sequenza di rivelazioni, ma velato stavolta anche dalla preoccupazione; prese il silenzio di Oz per un incitamento a continuare e così fece: «Oz, ci sono delle cose di cui… vorrei che ti occupassi.» iniziò, lasciandolo in un primo momento perplesso.

Ma non chiese nulla, per non interromperla e lasciarle il tempo di spiegarsi meglio.

«Quello dei Nightray non è il solo segreto che in un modo o nell’altro riguarda anche te. O, meglio, che ha riguardato Jack. So che Rufus ti ha fatto avere il suo diario, e…»

«Sai del diario?!» la interruppe senza riuscire a frenarsi; lei lo osservò mantenendo la sua caratteristica pacatezza, come se si fosse aspettata quel genere di reazione.

Dopodiché chinò leggermente il capo: «Sì. Mi dispiace, il diario… lo avevamo io e Sirjan. Non volevamo tenertelo nascosto, solo non sapevamo se poterlo affidare a te già da quella volta in cui parlammo fino all’alba.» spiegò ed Oz, facendo velocemente mente locale, non poté quasi credere che già da allora fosse in mano loro.

«Ti chiedo scusa, hai il diritto di arrabbiarti se vuoi. Io e Sirjan speravamo di non doverti coinvolgere, speravamo entrambi che dopo l’aggressione di Cheshire non succedesse più nient’altro, e che tu non venissi messo in mezzo a qualcosa che non ti appartiene. Però dopo hai persino incontrato Glen Baskerville e… abbiamo capito che tenerti all’oscuro di tutto ancora a lungo poteva essere pericoloso per te. Anche per questo te lo sto raccontando.» confidò, la sfumatura preoccupata che rimaneva nello sguardo rivolto al più giovane.

Oz sentiva i pensieri affollare la mente e accavallarsi l’uno all’altro, alcuni collegandosi fra loro facendo un minimo di chiarezza come nell’esitazione di Sirjan nel parlargli di qualcosa sulla quale poi aveva soprasseduto quella famosa notte, altri farlo affondare ancora più in basso verso il punto che avrebbe segnalato il panico classico di quando le cose che non sai generano inevitabilmente paura.

«Come sapevate di… Glen Baskerville?» chiese, quasi boccheggiando; troppe cose gli sfuggivano in quel momento, per poter ostentare un atteggiamento sicuro. Non capiva come potessero sapere cose delle quali lui stesso aveva dubitato pur avendole vissute in prima persona.

«Mio fratello ti ha parlato di una sorta di patto che vige tra noi e gli “spiriti” che sono qui a Latowidge. Gli viene permesso di restare qui, giacché la maggior parte delle persone non li vede e i pochi che potrebbero farlo non vi riescono. Quando non vogliono essere visti, sanno nascondersi molto meglio di quanto ognuno di noi possa credere.» spiegò quasi lentamente per scelta, perché le rivelazioni che stava dispensando ad Oz non lo confondessero più di quanto non stessero già facendo.

«Loro, in cambio, devono mantenersi lontani dagli umani e non avere contatti con loro. Persino Sirjan li incontra solo quando succedono episodi come quello di Cheshire nei tuoi confronti, che però sono sempre stati rari. Al contrario di quanto si possa credere per i luoghi comuni, gli spiriti non hanno così tanta voglia di entrare in contatto con noi.» spiegò.

Oz avrebbe avuto da ridere su tutto quello: se si contava Cheshire, Glen Baskerville tramite Elliot – da quanto aveva capito a questo punto poteva praticamente esserne certo – e la ragazza intravista prima del ballo quando era in attesa di Echo, a quanto pareva gli spiriti non amavano mostrarsi ma avevano una certa predilezione per lui.

Anche se due incontri su tre erano stati sostanzialmente per minacciarlo e fargli passare un brutto quarto d’ora.

«Sirjan li vede?» domandò poi scioccamente, come si rese conto un attimo dopo aver pronunciato la domanda. Alyster annuì: «Da molto tempo. Forse anche per questo non li… ama particolarmente.» replicò, nella voce un’inclinazione breve ma che Oz colse ugualmente anche se per pura fortuna.

Gli parve un po’ tristezza e un po’ preoccupazione, e per quanto aveva imparato a conoscere la ragazza, azzardò nella sua mente l’ipotesi che fosse dispiacere.

Alyster sembrava decisamente capace di provare pena anche per spiriti un po’ violenti come Cheshire.

«Anche tu?» domandò Oz, visto che di questo non poteva essere altrettanto sicuro come nel caso di Sirjan; Alyster annuì una seconda volta, piano, come se dosasse persino i movimenti: «Ma ho iniziato a vederli solo recentemente. Mi sono fatta un’idea del perché, ma in fondo non è importante.» liquidò la questione e con la sensazione che fosse perché non volesse parlarne, Oz decise di non chiedere altro e di lasciare che la ragazza proseguisse con il discorso.

«Comunque» riprese infatti: «quando Glen Baskerville è entrato in contatto con te, è stato attraverso qualcun altro, per di più uno studente. Il patto che hanno con noi implica che un utilizzo del loro seppur lieve potere possa essere sentito, in modo che lo si possa bloccare prima che crei problemi. Quella di Glen Baskerville è stata a conti fatti una possessione. Agevolata inconsapevolmente da Elliot, ma lo è stata comunque. Sirjan l’ha sentita, ma è stata per un lasso di tempo breve abbastanza perché lui arrivasse quando tu stavi già tornando indietro illeso. Non ti ha seguito, ed è andato direttamente alla fonte.» concluse quella spiegazione.

«Alla fonte?» ripeté perplesso Oz, che pure non si era perso una sola parola.

Alyster annuì con un sospiro leggero: «Il luogo dal quale solitamente Glen Baskerville non si allontana mai.» replicò.

 

Ad un certo punto della visita, Aedan era passato in Infermeria, ma si era trattenuto poco: il tempo necessario a chiedere ad Alyster come stesse, e a comunicarle un messaggio da parte di Sirjan. Avrebbe ritardato, occupato da un incarico ricevuto direttamente dal padre. Mandava a dirle anche che la madre sarebbe arrivata a scuola nel pomeriggio, per occuparsi di lei personalmente.

Alyster aveva annuito, ringraziando Aedan.

Quando il ragazzo fu nuovamente uscito, Oz tornò ad osservarla, non sapendo se il discorso avuto fino a quel momento potesse considerarsi concluso oppure no; il dubbio sparì quando Alyster richiamò la sua attenzione, ottenendola immediatamente.

«Finora ti ho parlato anche come membro della famiglia Kolstoj, Oz.» iniziò «Però c’è una cosa che vorrei dirti da amica. Forse sarò un po’ troppo diretta, e ti sembrerò indiscreta, ma… posso?» domandò, rimanendo in attesa.

Oz annuì quasi subito, un po’ sorpreso da tutta quella titubanza da parte di lei, che a quel suo cenno del capo parve sollevata: «Io non so se tu hai incontrato qualcun altro come Glen e Cheshire, oltre loro. In ogni caso, se è successo o succederà, ricordati cosa ha detto Sirjan, perché su una cosa aveva ragione: per quanto tristi e soli, gli spiriti sono e restano tali. Indipendentemente da cosa abbiano fatto in vita, il loro tempo è finito. Ma tu, Sirjan, gli studenti… avete tempo.» disse e ad Oz parve, a prescindere dalla figura esile di Alyster che gli aveva sempre comunicato una sensazione di fragilità, che le parole da lei pronunciate racchiudessero una forza incredibile.

«Qualsiasi cosa ti possano dire, tu sei vivo, Oz. Devi ricordartelo.» concluse.

Oz non avrebbe saputo dire perché, tuttavia nel momento in cui tra loro calò nuovamente il silenzio, sentì lo stomaco chiudersi completamente; somigliava ad una sensazione simile a quando per la sorpresa faceva un buffo salto, in realtà metaforico perché fisicamente non era possibile.

Fu qualcosa di sgradevole, però, anche se Oz non seppe spiegarne il motivo.

Si limitò ad annuire, ritrovandosi poi a parlare istintivamente, quasi senza rendersene conto o facendolo in ritardo: «Ascolta, Alyster. Quando starai meglio, pensavo… di imparare anche io a suonare “Lacie”. Però, se lo chiedessi ad Elliot, lui la prenderebbe sicuramente male.» osservò, ridacchiando sommessamente.

«Mi daresti una mano tu?» aggiunse quindi il biondo.

Lei gli rivolse un sorriso che ad Oz sembrò straordinariamente familiare, ma prima che la ragazza potesse rispondere entrambi furono distratti da un bussare sommesso allo stipite della porta e, voltandosi, la voce del nuovo venuto li raggiunse prima ancora che potessero inquadrarne la figura, che riconobbero entrambi come quella di Elliot.

«Interrompo qualcosa?» buttò lì, Oz non seppe dire se ironicamente o meno; si chiese, piuttosto, se fosse lì da molto e avesse aspettato ad interromperli o se fosse semplicemente arrivato in quel momento.

Alyster gli sorrise, scuotendo la testa e invitandolo ad entrare: il castano si mosse quindi dalla soglia dove stava sostando, avvicinandosi a loro e fermandosi ai piedi del letto della ragazza. Portò gli occhi chiari sul biondo ed Oz tacque, quasi in attesa.

Non sapeva ancora dire se tra lui ed Elliot ci fosse la remota possibilità di un rapporto decente o se l’odio del più grande per i Bezarius avesse già pregiudicato fin dall’inizio quell’eventualità.

Ma era destinato ad essere sorpreso: Elliot, dopo quella che parve una pausa per soppesare al meglio le parole da pronunciare, si imbronciò appena – l’espressione classica di quelle persone che, impacciate, cercano piuttosto di apparire burbere.

«Dovrei parlare con Alyster, ti dispiace lasciarci soli per un po’?» domandò, la frase più educata che gli aveva rivolto dalla prima volta che si erano parlati probabilmente.

Forse scombussolato in parte proprio da questo, Oz annuì rivolgendosi quindi ad Alyster mentre si alzava dallo sgabello sul quale era rimasto per tutto quel tempo. Le rivolse un sorriso, assicurandogli che sarebbe ripassato o quella sera o il giorno seguente magari.

Fece quindi per dirigersi verso l’uscita, sentendosi comunque richiamare dalla ragazza: voltandosi con metà busto quanto bastava a poterla vedere, poté notare che Elliot aveva già preso posto sullo sgabello che aveva occupato lui.

«Oz, riguardo quello di cui ti ho parlato» esordì, il biondo che si aspettava una raccomandazione sul tenerlo per sé – non ne avrebbe parlato comunque, ma sarebbe stato assolutamente normale sentirsela rivolgere – e fu quindi sorpreso nel sentirla aggiungere: «se dovesse succedere di nuovo… vai a parlarne con Xerxes Break.» concluse, l’espressione che mal celava una vena di preoccupazione.

Sebbene incredulo, decise di annuire solamente ed uscire, lasciandoli parlare come Elliot gli aveva chiesto.

Si diresse lungo il corridoio che conduceva all’atrio, occhieggiando una volta arrivatovi il grande orologio che segnava quasi l’ora di cena: si mosse quindi lateralmente, puntando alla mensa, sentendosi fermare dopo nemmeno due passi da una mano che si era posata sulla sua spalla.

Voltandosi si ritrovò di fronte ad un Gilbert appena ansimante: «…Hai corso, Gil?» domandò perplesso, osservandolo annuire.

«Non proprio. Ti ho intravisto da fuori, volevo fermarti prima che entrassi in mensa.» rivelò il moro, occhieggiandolo mentre Oz si voltava completamente verso di lui in modo da essergli esattamente di fronte.

«Come mai?» chiese riguardo al bisogno di fermarlo: salvo che ci fosse qualche cosa di pericoloso – e ne dubitava, a meno che nel concetto di “pericoloso” non si includesse la possibilità che Alice ogni tanto cercasse di tirare qualche piatto contro il cugino Vincent – non vedeva il motivo di tenerlo fuori.

«Volevo chiederti come sta Alyster.» replicò l’altro, osservandolo.

Oz tacque, non cogliendo appieno perché dovesse chiederglielo in separata sede, ma lasciò perdere pensando a dargli una risposta: «…Non te lo so dire.» ammise inizialmente, abbassando impercettibilmente lo sguardo.

Gilbert non chiese niente, quasi avesse intuito che la replica vera e propria doveva ancora essere formulata: «Mi sembra che stia bene. O almeno, meglio di un mese fa. È ancora debole, però, e ha ancora la febbre.» rivelò il biondo.

«Dunque si può dire che sia stazionaria, giusto?» fece eco a quelle sue parole, come a volerle in qualche modo riassumere; ma qualcosa, nel debole e poco convinto annuire del più giovane gli suggerì che doveva esserci qualcos’altro.

Stava ponderando il modo migliore per chiederglielo ma, per una volta e stupendolo non poco, Gilbert non dovette chiedere; nonostante Oz non fosse incline a parlare di cosa lo preoccupasse, nemmeno quando le domande in proposito si facevano pressanti – soprattutto in quel caso, forse – parlò di sua spontanea volontà.

E nel momento in cui si sentì tirare appena per il braccio e abbassando lo sguardo poté notare che si trattava della mano di Oz che con due dita aveva afferrato la manica della divisa per tirarla appena e richiamarne quindi l’attenzione, Gilbert capì definitivamente che di qualunque cosa si trattasse, non era nulla di buono.

«Gil, secondo te, non… significa nulla vero? Il fatto che ultimamente alcuni sorrisi di Alyster siano… un sacco simili a quelli di Jack. Non significa niente di particolare, giusto?» mormorò.

Gilbert non seppe cosa rispondergli.

 

 

Vedendo il biondo uscire dall’infermeria, si voltò verso Alyster: «Andare da Xerxes? Sicura che si possa definire consiglio?» ironizzò Elliot riguardo la frase che aveva appena sentito rivolgere dalla ragazza ad Oz Bezarius.

Lei abbozzò un sorriso lieve, poggiando la testa al cuscino e rilassandosi finalmente contro di esso.

Elliot storse il naso: «Non dovresti sforzarti meno possibile?» la interrogò, nel tono una nota di rimprovero; lei si limitò a non mutare espressione.

«Quando mi vedono stanca, Oz e Noah si preoccupano di più.» fu la spiegazione piuttosto semplice e sommaria che riferì lei; Elliot fece schioccare le labbra, incrociando le braccia al petto: «In situazioni come questa dovresti preoccuparti di te stessa, non di quanto le persone possano stare in pensiero. Non sono mica dei bambini.» gli fece notare, schietto.

Lei non se la prese affatto, anzi cercò di sorridere un po’ più ampiamente.

Lui, osservandone l’espressione, si riscoprì incapace di tenere la propria dura e severa intatta. Scivolò via come una maschera, lasciando spazio ad uno sguardo preoccupato: «Sta… peggiorando?» mormorò.

E ad Alyster fece tenerezza, quell’Elliot preoccupato e tornato un po’ bambino che era così raro da vedere.

Sospirò lentamente: «Ho mentito ad Oz. Anche se non gli ho risposto, si può dire che io non sia stata totalmente sincera con lui.» ammise, socchiudendo gli occhi e rilassandosi.

«Mi faresti un favore, Elliot?» chiese quindi, senza dargli una risposta vera e propria, nemmeno dovesse dargli la dimostrazione pratica di quanto aveva appena detto di aver fatto con Oz; il castano si limitò ad annuire in silenzio, lo sguardo su di lei.

«Oz mi ha chiesto di aiutarlo ad imparare “Lacie” al pianoforte, per suonarla. Potresti aiutarlo? Ci tiene davvero.» assicurò. Se anche Elliot avesse voluto chiedere perché mai dovesse toccare a lui quel compito ingrato, fu anticipato dalla ragazza: aprì gli occhi, spostando lo sguardo – e l’attenzione di Elliot – sulla propria mano, adagiata in grembo.

Aggrottò appena le sopracciglia, rimanendo accigliata per qualche tempo prima di tornare a rilassare l’espressione.

E, infine, un sorriso mesto.

«Che succede?» chiese Elliot, ma barò. Barò perché sapeva cosa stava succedendo: era nell’aria, era quasi palpabile, come una cortina di un odore terribilmente sgradevole che non si riusciva a far passare nemmeno aprendo le finestre.

Era forse uno dei pochi a saperlo già da qualche tempo, a sapere un po’ tutto – com’era iniziata, come proseguiva e come sarebbe finita.

Anche se chiudeva gli occhi e fingeva di non vedere.

Anche se spesso non ascoltava, e fingeva di non sentire.

«Non riesco più… a muovere le mani bene.» soffiò lei con un tono tale che il castano non riuscì a fare nulla di più sensato che mordersi appena il labbro inferiore in un gesto di frustrazione.

«Da quanto?» sibilò, non per essere aggressivo verso di lei; e Alyster parve capirlo.

«Da un po’.» disse soltanto.

 

 

Più di qualche compagno di Alyster, nelle due settimane che seguirono, ebbe modo di vedere la madre dei fratelli Kolstoj attraversare i corridoi, in special modo quello che collegava l’infermeria alla mensa quando faceva qualche pausa allontanandosi dalla figlia per mangiare.

Era parso strano che la donna mangiasse dalla mensa, ma il mistero si era risolto brevemente nel momento in cui era stato chiaro che dovendosi recare lì comunque per il cibo della figlia, era sensato che anche lei ne usufruisse.

Si allontanava da Alyster solo durante le visite dei compagni, almeno alcune, approfittando forse del fatto che non fosse sola; il padre dei due fratelli era invece capitato più di rado, ma aveva fatto ugualmente visita alla figlia, sincerandosi delle sue condizioni, costretto a ripartire subito.

Oz aveva limitato le proprie visite, ritenendo più giusto – dopo averne parlato anche con Noah ed Alice – lasciare che Alyster passasse più tempo con i genitori ed il fratello che non costantemente accerchiata da qualche compagno.

Tuttavia persino per la ragazza era diventato impossibile ormai nascondere le proprie condizioni a chi l’andava a trovare: perciò anche se Elliot si guardò bene dal riferire la loro conversazione, il fatto che Alyster Kolstoj si stesse aggravando divenne presto qualcosa di quasi risaputo nella scuola.

Nessuno osava parlarne ad alta voce, né a trattare quell’indiscrezione come un pettegolezzo tra i tanti dell’istituto: somigliava ad un rumore di sottofondo quasi impercettibile, un po’ come quello della pioggia, che se non ci si presta particolare attenzione passa praticamente inosservato.

Probabilmente in larga parte era per rispetto: i due capo dormitori erano entrambi stati sempre ineccepibili nei confronti degli altri studenti, pertanto anche gli anni inferiori avevano sviluppato nei loro confronti rispetto ma anche affetto; inoltre c’erano davvero poche carogne tali da azzardare a trattare quella notizia senza delicatezza quando nei corridoi si sapeva di poter incrociare Sirjan.

Se, nel mezzo di uno scambio sull’argomento che riguardava la sorella il ragazzo veniva intravisto, le voci cessavano nascondendosi in un rispettoso silenzio; una volta Oz aveva assistito proprio alla scena, e se ne era accorto: Sirjan non era uno stupido, aveva anzi colto perfettamente il discorso.

Sembrava solo troppo stanco e preso da cose ben più importanti per fermarsi ad intimare di smetterla; inutile sottolineare quanto, dal malore durante il ballo, fosse rimasto lontano dalla sorella per il tempo necessario a quei compiti che non poteva evitare di svolgere.

Nonostante Aedan si fosse sobbarcato di una buona parte di impegni minori, c’erano cose che solo i Kolstoj potevano fare; ma, ad eccezione di quelli, Sirjan era rimasto sempre con lei, spesso assistendo anche alle visite di alcuni di loro.

«Sirjan?» mormorò, attirando nell’immediato l’attenzione dell’altro che alzò subito lo sguardo dal libro che leggeva rimanendole accanto: «Dimmi.» disse, osservandola.

Alyster, sdraiata e coperta, gli rivolse un sorriso leggero: «Ti si stancheranno gli occhi se leggi così tanto qui che c’è poca luce…» gli fece notare con la stessa premura che gli aveva sempre riservato, come se non ci fosse nulla che non andava.

Lui occhieggiò il libro, chiudendolo qualche istante dopo sistemando il segno alla pagina cui era arrivato, posandolo poi sul comodino affianco al letto della sorella. Lei mantenne il sorriso, parlandogli nuovamente: «Hai l’aria stanca.» osservò, una sfumatura di preoccupazione nella voce.

«Non tanto. Tu però dovresti riposare, Alys.» si premurò lui, scostandole una ciocca di capelli dalla fronte.

Ebbe la sensazione che volesse ridacchiare, lei, ma che fosse fin troppo faticoso metterlo in pratica: «Mi mancava, questo nomignolo.» ammise, con dolcezza.

Lui la osservò, abbozzando un sorriso leggero: «Ti ci chiamo ancora, bugiarda.» la prese bonariamente in giro, la mano che sostava delicatamente vicina alla fronte di lei.

Alyster fece uno sbuffo leggero, un accenno di risata probabilmente, dopo il quale seguì una pausa.

Di quanto, Sirjan non avrebbe saputo dirlo: «Mi manca anche un po’ il periodo di quando eravamo bambini. Sorridevi un po’ di più.» disse con nostalgia.

«Non è cambiato niente, da quando eravamo bambini.» la riprese lui, accondiscendente: «Sei ancora la mia sorellina. E io sono sempre…»

«Il fratellone per il quale ogni mio desiderio è un ordine.» lo prese in giro con affetto; lui sorrise appena più ampiamente, annuendo.

«Vuol dire che posso esprimere un desiderio?» domandò dopo qualche minuto in cui erano rimasti fermi, in silenzio e senza aggiungere nulla. Sirjan annuì, rimanendo in attesa, lo sguardo su di lei senza metterle alcuna fretta, lasciando che articolasse la domanda con i suoi tempi: «Rimani qui a dormire con me, Sirjan?» diede quindi voce alla sua richiesta.

A Sirjan ricordò di quando erano bambini, e spesso era capitato che la sorella sgattaiolasse prima in camera sua, poi nel suo letto, spaventata dalle cose più insignificanti a volte – i tuoni, o un mostro che aveva proprio scelto il suo letto per nascondersi.

Annuì, semplicemente, perché non glielo avrebbe mai rifiutato anche se non fosse stata malata come in quel momento: «Certo. Dormi pure tranquilla, rimarrò qui per tutto il tempo.» assicurò.

Si sporse quindi verso di lei, andando a sfiorarle la fronte con le labbra, in un gesto dolce che non avrebbe potuto rivolgere a nessun altro oltre a lei: «Cerca di riposare.» pronunciò un sussurro, il tono morbido e conciliante.

 

Aprì gli occhi, le palpebre appesantite dal sonno e cercò la fonte di quel fresco piacevole che sentiva.

Le ci volle un po’ per mettere a fuoco la stanza dell’infermeria e suo fratello, le braccia incrociate sul materasso, lì affianco a lei, e la testa posata su di esse.

Dormiva placidamente, i lineamenti del volto rilassati.

«Non dorme profondamente, perciò parliamo piano, vuoi Alyster?» sentì pronunciare e, alzando lo sguardo, riconobbe la figura davanti a sé anche se il ricordo che conservava di lui risaliva a qualche anno prima.

Più in là, vicino all’ingresso, una luce soffusa – o quello le sembrava – le suggerì che non era solo: lo osservò cautamente, richiamando alla memoria i tratti di lui che ricordava perché il loro combaciare con quelli che vedeva la portasse alla giusta conclusione.

Così fu: «È la prima volta che riusciamo a parlare dopo tanto tempo, Jack.» pronunciò, il tono che sarebbe stato comunque flebile di suo se anche lei non si fosse comunque sforzata di parlare piano come consigliato dal biondo.

I capelli legati nella lunga treccia morbida, i vestiti semplici e da camera che doveva aver indossato quando era venuto a mancare nella propria stanza, Jack Bezarius sedeva compostamente sul bordo del letto opposto a quello cui poggiava Sirjan. O almeno, era la posizione che aveva, anche se chiaramente non vi era alcun contatto fra lui e il materasso.

Annuì in sua direzione, sorridendole gentile come la prima volta che si erano incontrati anni prima: «Tuo fratello è sempre stato molto più facile da chiamare. Ha una spiccata sensibilità e mi ha visto sempre, fin da quando sono venuto qui una volta morto.» ammise, posando lo sguardo per qualche istante su Sirjan che giaceva addormentato senza il minimo sentore di cosa stesse accadendo attorno a lui.

Alyster annuì impercettibilmente: «Se ne è sempre lamentato. Non gli piace vedere cose che non dovrebbe.» spiegò, quasi a scusarlo della sua condotta e spesso delle sue parole riguardo gli spiriti come Jack; quest’ultimo non sembrava essersela affatto presa, perciò non trovò necessario rispondere a quelle scuse implicite.

«Sei stata forte, oggi. A dire quelle cose ad Oz, nonostante la situazione. Ti ringrazio, di esserti preoccupata di mio fratello per tutto questo tempo.» disse sincero, osservandola con gratitudine.

Lei scosse appena la testa: «Oz è perso, senza di te.» mormorò, il tono di chi ha notato qualcosa ormai da molto tempo.

«Temo che sarà così anche per Sirjan. Vorrei che… Oz capisse davvero quello che ho voluto dirgli. E vorrei anche che lui e Sirjan riuscissero ad aiutarsi a vicenda su questo.» ammise poi.

Jack la guardò con dolcezza, con lo sguardo che un genitore potrebbe rivolgere ad un figlio vedendolo star male, sia anche per una cosa in sé banale: «Dunque te ne eri accorta da abbastanza tempo da decidere cosa dirgli.» sottolineò lui, ma non in maniera negativa.

Alyster sorrise mestamente: «La mia non è una malattia che guarisce. La migliore delle ipotesi è quando ti logora lentamente e ti permettere di vivere più di quanto non faccia quando invece deteriora il corpo in maniera fulminea.» pronunciò, il tono non esattamente incolore, ma come di chi ha preso ormai coscienza di qualcosa il cui svolgimento non dipende da lei.

«Lo sapevamo tutti. Io, mia madre, mio padre… e anche Sirjan.» aggiunse: «Jack, chi c’è vicino alla porta?» domandò quindi, non spaventata ma istintivamente sulla difensiva; il biondo, anche volendo, non avrebbe mai potuto sgridarla per questo.

Sapeva cosa si provava, sapeva quanta paura si potesse avere in un momento simile: era un terrore così personale, incontrollabile e carico di mille altre cose – la tristezza, la preoccupazione, il rimpianto – che rendeva mostruose anche le cose più normali nella propria quotidianità.

Le sorrise rassicurante: «Si tratta di Lacie. Lei è stata la prima di noi a sentirlo. Forse è perché siete due ragazze, o perché in qualcosa vi somigliate. È probabile che siate due anime abbastanza affini.» concluse, spostando lo sguardo sulla ragazza che rimaneva in disparte lì all’entrata dell’infermeria.

«Si è agitata al punto tale che il giorno del ballo si è persino mostrata di sua spontanea volontà a mio fratello.» la informò il biondo, l’incurvarsi di labbra che assumeva una connotazione quasi dispiaciuta.

«Mi dispiace di avervi agitati in quel modo.» si scusò Alyster, osservando a sua volta la sagoma di Lacie che riusciva solo ad intravedere da lì. Jack scosse la testa: «Non scusarti, non è colpa tua. È solo che quando una vita si sta spegnendo… lo sentiamo. Tanto più forte quanto più l’anima di quella persona è simile in qualche modo alla nostra. Ma non è colpa tua.» ripeté per tranquillizzarla.

Non avrebbe mai voluto essere lì per dirle quello, essere lì come presagio di una morte certa.

Eppure, per contro, aveva sentito quasi il dovere di raggiungerla e parlarne prima che il suo tempo si esaurisse, trasformandosi in eternità; perché era difficile, terribilmente, e quando si amava profondamente qualcuno che si doveva lasciare indietro, diveniva qualcosa che sembrava quasi impossibile.

Allungò una mano per accarezzarle i capelli, almeno simbolicamente, ancora per un po’: «Gli hai detto tutto quello che volevi dirgli?» domandò con dolcezza.

Sapeva che sarebbe stato ugualmente doloroso: l’unica cosa che poteva cercare di fare, era renderlo per lei meno… spaventoso, in un certo senso.

«Credo di sì.» mormorò piano, lo sguardo sul viso del fratello.

«Posso darti del tempo fino a domattina, se vuoi. Non devi necessariamente andare via ora.» tentò Jack, osservando entrambi alternativamente.

Ma Alyster scosse una testa: «So che c’è un tempo predefinito.» replicò.

«Il tuo scade all’alba.» rimbeccò Jack, non per essere duro, ma perché era una di quelle verità che non c’è modo di rendere meno sgradevoli: «Un’ora in più, sempre che non si svegli anche prima dell’alba, non sarebbe un problema.» aggiunse per spiegare meglio cosa intendeva.

Ma, nuovamente, Alyster scosse la testa: «Io non credo che… riuscirei a parlare di nuovo senza piangere, Jack.» fu la risposta completamente sincera che gli diede.

Abbassò appena lo sguardo e per la seconda volta da quando aveva pianto da bambina alla scoperta della malattia che l’avrebbe accompagnata per il resto della sua vita, Alyster si lasciò sconfiggere di nuovo da quel qualcosa molto più grande di lei che aveva sempre minacciato di allontanarla dalla persona per lei più importante.

Jack assunse un’espressione di dispiacere misto ad una profonda tristezza, mentre portava la mano a sfiorarle la guancia, sentendola più consistente sotto i polpastrelli che non avrebbero dovuto essere in grado di toccarla affatto.

Non riusciva ancora a sentire le lacrime che ora le rigavano le guance, ma una sensazione di leggero calore che doveva appartenere alla pelle chiara permaneva lì sulle dita: «Mi dispiace…» mormorò piano la cosa più banale del mondo.

Perché non esistevano parole adatte, quando qualcuno moriva.

La vide sussultare appena a causa di un singhiozzo: «Jack, se anche io diventerò uno spirito…»

 

«Non riesco a provare pena per loro.»

 

«…Sirjan finirà con l’odiare anche me?» pronunciò, il tono incrinato.

Dalla paura di un’idea dolorosa che può diventare molto più di un’idea e concretizzarsi dando finalmente forma al tuo incubo peggiore.

Jack portò la mano a carezzarle i capelli con affetto, come se fosse stata sua sorella, proprio come Ada.

Per difenderla, da quel dolore.

Almeno un po’.

Almeno all’inizio, che ironicamente coincideva con la fine; la vita, aveva un senso dell’umorismo davvero di cattivo gusto.

«Non ti odierà, Alyster. Qualunque cosa tu diventi, in qualunque posto finirai, qui dove siamo noi o altrove… Sirjan non sarebbe mai capace di odiarti. Ti vorrà sempre bene. Sarai sempre la sorellina che ha protetto con tutto se stesso fin da piccolo. Sarai sempre il motivo per il quale è diventato quello che è. Piangerà per te, perché sei stata e rimani importante, Alyster.» la rassicurò, mentre piangeva.

«Jack…» mormorò piano, ancora scossa, e le ossa che le provocavano dolore per quella malattia che sussulti non ne prevedeva senza infierire sul corpo: «se dobbiamo morire e dire addio, allora perché diventiamo spiriti che possono rimanere nel luogo in cui i vivi che amano soffrono la loro scomparsa?» articolò a fatica.

«Perché non scompariamo e basta, Jack? Questa è… una punizione?»

Jack non disse nulla: le sussurrò uno “shhht” per calmarla, e le posò un bacio leggero fra i capelli.

 

 

Pioveva quella mattina.

Quando Oz svegliandosi vide che Noah nel letto accanto al suo non c’era nonostante fosse domenica e, poco dopo, notò un biglietto per lui che lo avvisava di scendere.

Quando si vestì velocemente con la sensazione di una morsa allo stomaco e un brutto presentimento vecchio di cinque anni; era scuro il cielo che intravide dalla finestra del corridoio che percorse per raggiungere le scale.

Lo stesso che fu più chiaro e ampio quando percorse quel tratto all’aperto che portava all’edificio centrale, bagnandosi.

Pioveva quella mattina.

Quando l’istinto gli disse di dirigersi in infermeria e davanti vi trovò un Elliot che non lo aggredì e un Reo che poggiava la mano sulla spalla del castano; quando Gilbert abbassò lo sguardo vedendolo arrivare, mentre Noah sfregava un punto del viso – che Oz non identificò subito come gli occhi – con la manica, Marcus al suo fianco.

Il cielo era scuro fuori dalla finestra che dava su quel corridoio illuminandolo ben poco, e il rumore della pioggia in sottofondo era fastidioso mentre Oz chiedeva cosa fosse successo senza volerlo davvero sapere.

Era nell’aria, lo riconosceva.

Era l’odore di qualcosa che non gli sarebbe affatto piaciuta.

Pioveva quella mattina.

Quando un fastidioso nodo si era formato nella sua gola, quando lo sguardo aveva cercando istintivamente il pavimento; mentre Sirjan usciva dalla stanza osservandoli tutti senza guardare nessuno e un attimo dopo era lì a dare un pugno talmente forte al muro che Oz aveva giurato quasi di aver sentito le ossa rompersi.

Il cielo era scuro, ma fu illuminato da un lampo a cui seguì un tuono, mentre Oz pensava che in qualche modo quella pioggia stesse dando una mano a Sirjan e al tempo stesso si stesse burlando di lui: mentre illuminava quel corridoio in cui veniva mostrata l’espressione di chi della vita, persa la persona più importante, non sa che farsene e trova il dolore fisico una pallida ombra di quello che c’è dentro e che lo sta consumando ad una velocità che di umano non ha niente.

Illuminava il corridoio mentre qualcuno, di farsi del male, cercava di impedirglielo – e il tuono copriva un po’ la voce, che non era come le urla, era più bassa, ma era molto peggio.

Pioveva quella mattina.

Mentre Oz osservava Aedan disobbedire per la prima volta nel cingere con le braccia il corpo di Sirjan non in un abbraccio ma in quel tipo di stretta che ti inchioda le braccia lungo i fianchi e ti impedisce di ferire qualcuno, o magari te stesso.

Quando Sirjan gli ordinava di lasciarlo andare, in preda a qualcosa che non era rabbia, non era furia; era solo disperazione.

Il cielo fuori era ancora scuro, mentre Aedan gli rispondeva: «Mi dispiace, non posso.»

Si illuminò con un lampo, qualche istante dopo; ma poi il cielo fu di nuovo scuro mentre Aedan si addossava la colpa di pronunciare le parole che Sirjan non voleva sentire.

«Anche se ti distruggi… Alyster non c’è più da nessuna parte.»

Pioveva quella mattina.

Forse la pioggia aveva lavato via un sacco di cose – sembrava che solo il dolore fosse una macchia particolarmente coriacea – perché a distanza di due giorni ad Oz sembrava di non ricordare granché di quella mattina.

Non ricordava nemmeno se era andato a lezione, né se aveva incrociato qualcuno, né come fosse tornato in stanza dove era chiuso da quella domenica appunto.

Il cielo fuori era scuro anche quel giorno – non aveva ancora smesso di piovere salvo qualche ora con meno acqua e meno umidità – mentre Oz iniziava a chiedersi se continuando a lasciare aperto quell’orologio da taschino non avrebbe finito per esaurirsi la carica.

“Lacie” suonava in quel momento di un rumore metallico, ma immutata nella melodia che la contraddistingueva, mentre Oz guardava fuori: non sapeva nemmeno che ore erano.

Assurdo. L’orologio aperto, ma lui non sapeva nemmeno se era mattina, pomeriggio, o sera.

«Noah» chiamò mentre lo sguardo incontrava, in giardino, la figura di Sirjan che incurante della pioggia era di nuovo fuori a guardare per terra senza che ci fosse nulla da vedere: «secondo te si può impazzire per il dolore?»

Noah non rispose.

La risposta era dolorosamente “sì”.

 

 

Note

In primis, i disclaimer perché poi potrei sclerare e dimenticarli.

La frase in apertura è della canzone “Until the day I die” degli Story of the Year.

Parliamone: so che molti di voi vorranno uccidermi, ok?

Mi rendevo conto, mentre scrivevo, di stare prolungando i momenti con Alyster viva fino a ponderare di non farla morire affatto.

Ma la trama è questa, mi sono detta, e alla fine perdendo un po’ d’anima l’ho scritta.

Mi scuso se il capitolo risulta pesante perché troppo incentrato sui Kolstoj, ma fin dall’inizio avevo avuto in animo di includere nello stesso capitolo qualche flash sul loro passato e la spiegazione del ruolo della loro famiglia; Alyster sarebbe dovuta morire nel 15.

Ma francamente, mi sembrava di allungare la pappardella.

 

Purtroppo sono di fretta e dall’università, quindi scusatemi se non rispondo alle recensioni nella maniera solita

Un grazie per le recensioni a Yoko891, makotochan, Flamma Drakon, Gweiddi at Ecate, Gioielle.

Un grazie inoltre a LitaChan che so continua a seguirmi nonostante, povera, sia sommersa di impegni.

Grazie anche a makotochan e Talpina Pensierosa per aver espresso un voto a favore di Rinnega per il concorso di EFP sui migliori personaggi originali. Ne sono stata davvero lusingata <3

E ovviamente, grazie anche a chi legge soltanto e continua a seguirmi.  

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Capitolo 15
*** Un passo avanti - qualcosa si spezza ***


What about now

Un passo in avanti – qualcosa si spezza

 

 

What about now?

What about today?

What if you're making me all that I was meant to be?

What if our love never went away?

What if it's lost behind words we could never find?

 

 

Anche a distanza di un mese abbondante, il ricordo della morte di Alyster era ancora vivido in molti di loro.

Dalle persone che l’avevano conosciuta più superficialmente, solo come il capo dormitorio femminile, a quelle che invece erano state più coinvolte, amiche.

Il funerale, anch’esso ormai lontano nel tempo di quasi trentatre giorni, era stato straziante.

Tutta la scuola aveva osservato il lutto, e su richiesta della stessa famiglia Kolstoj, la funzione funebre era stata celebrata proprio a Latowidge.

Le disposizioni, sembrava fosse stato Sirjan a darle nonostante la presenza dei genitori.

La pioggia che li aveva tormentati come nella scena drammatica di un libro la mattina della morte di Alyster e i giorni successivi e che pareva aver scelto di dargli un po’ di pace, quel giorno si era invece prepotentemente riaffacciata sul terreno della scuola.

Nonostante questo, le persone erano rimaste ugualmente all’aperto mentre un sacerdote recitava i passi dei testi sacri adatti all’occasione.

Non erano in molti fuori; aveva saputo – in un secondo momento – che Sirjan aveva richiesto esplicitamente la presenza solo di alcuni di loro, senza coinvolgere tutti gli studenti in un dolore che molti di loro, con tutte le migliori intenzioni del caso, non avrebbero potuto condividere.

Per tutta la durata della cerimonia, lo sguardo di Oz non aveva mai abbandonato la bara in legno scuro adagiata nel terreno.

Prima che arrivasse, tuttavia, aveva avuto modo di scorgere visi, o cogliere saluti; non ce l’aveva fatta a rispondere a molti di essi, o forse addirittura aveva distolto l’attenzione dal terreno dove si era fissato ancor prima dell’arrivo della bara, solo per inquadrare la figura di Sirjan.

Seguito dai genitori e con gli abiti da lutto come tutti loro, avanzava diversamente dal padre e dalla madre senza l’ombrello.

Il signor Kolstoj sorreggeva sia quello, sia la moglie, attaccata al suo braccio e singhiozzante già da prima che giungessero lì.

Oz era certo della presenza di Alice e Noah, giunti con lui, e di Marcus che aveva silenziosamente mantenuto la sua posizione al fianco di Noah per tutto il tempo.

Sapeva che ad un certo punto era arrivata Ada, che aveva preso posto al loro fianco, accompagnata da Karin: Clifton e Sally, solitamente insieme le due, non li avevano raggiunti.

In breve, Oz sapeva che anche Gilbert era arrivato, perché aveva sentito Ada rivolgergli un saluto che aveva impiegato fin troppo poco tempo a tramutarsi in un singhiozzo.

Elliot e Reo li aveva visti anche troppo chiaramente quando erano andati a rivolgersi ai Kolstoj nelle condoglianze di rito.

Aedan, non aveva mai lasciato il fianco di Sirjan, né aveva diminuito la distanza di due o tre passi che c’era fra loro per dargli conforto: la sua figura era rimasta immobile e silenziosa per tutto il tempo, sotto la pioggia senza ombrello come molti di loro, rispettosa di un dolore addirittura palpabile.

Forse, c’era stato qualche professore, magari alle loro spalle, ma Oz di questo non era certo.

Nessuno di loro si era mai rivolto la parola per tutto il tempo in cui, sotto la pioggia, erano rimasti lì.

Mentre il sacerdote pronunciava sentite parole di rito, Oz guardava per terra senza riuscire né a mutare espressione, né a distogliere lo sguardo dalla terra.

Persino Alice, che inizialmente forse per istinto gli aveva preso la manica per dargli un minimo di conforto, lo aveva lasciato quando aveva notato la totale mancanza di reazione.

Anche a distanza di un mese, Oz ricordava di non aver provato la rabbia solitamente dettata dall’impotenza di fronte a qualcosa più grande di te.

Né quella tristezza empatica nel sentire i singhiozzi e le parole strozzate della madre di Alyster, stretta nell’abbraccio del marito.

Oz non aveva guardato Sirjan, se non una volta sola: quella in cui aveva visto che l’altro, come lui, guardava per terra con lo sguardo di chi non riesce a crederci.

Anche con la verità ad un palmo dal naso, anche con parole di commiato per un defunto che risuonano vicine alle proprie orecchie, anche con il pianto di tua madre accanto a te.

Oz sapeva come ci si sentiva.

Ad essere forti né per reale forza interiore, né per la nobiltà d’animo che ti obbliga a resistere per essere di supporto agli altri; Oz conosceva quella forza che è dettata da niente di più che non sentire nulla.

Sei solo, semplicemente, vuoto.

A combattere perché il magone non spezzi la tua buona volontà che ti sta aiutando a non piangere.

Sei semplicemente lì, e non c’è niente.

Né dolore, né speranza, né rabbia.

Solo disperazione.

 

 

La vita era proseguita ugualmente.

Per quanto fosse certo che Sirjan lo trovasse insopportabile, Oz ben presto aveva dovuto ammettere che per quanto difficile ed innaturale – soprattutto all’inizio – la vita stava continuando anche senza Alyster lì con loro.

Se avesse affermato che trovava difficile fare le cose che faceva prima ora che la compagna più grande non c’era più, Oz era convinto che avrebbe mentito: non perché non le volesse bene, ma perché sapeva già che per quanto il dolore potesse essere grande, una realtà crudele rimaneva sempre la stessa, dividendo lui, Sirjan e tanti altri come loro da quelle persone che non avrebbero mai potuto rivedere.

Loro respiravano.

Alyster e Jack non più.

«Forza, adesso basta.» sentì pronunciare in corrispondenza di una poderosa pacca sulla schiena che lo fece tossicchiare; voltandosi, non fu difficile riconoscere Noah che aveva un cipiglio indecifrabile in quel momento, ma che Oz supponeva di non sbagliare definendolo deciso, quasi rinvigorito.

Noah portò lo sguardo su di lui: «Non posso dire che “so quant’è difficile”. Ma che non ho intenzione di farti vivere come un vegetale per un altro mese sì. Forza, alzati.» lo esortò nuovamente, gli occhi castani dritti nei suoi, la mano tesa in avanti.

Oz guardò prima quella, poi il compagno, con espressione sorpresa.

Abbozzò un sorriso e fece per dire qualcosa, ma di nuovo l’altro lo anticipò: «Non provare a rifilarmi che “va tutto bene”. Potrei appellarmi al mio istinto materno e prenderti a sberle, Oz. Non sono così stupido. O insensibile.» dichiarò in una sottile minaccia.

Sbuffò quindi appena quando notò che l’altro non si decideva e fece di testa sua, prendendogli il polso e tirandolo appena verso di sé costringendolo ad alzarsi.

Ottenuto quanto voleva, prese a muoversi in direzione dell’edificio scolastico, mentre la prima delle due campanelle che suonava segnalava agli studenti di affrettarsi con la colazione per dirigersi alle lezioni.

Oz si ritrovò a farsi tirare come un ragazzino che fa i capricci; gli occhi chiari abbandonarono la mano di Noah per andare a cercarne il viso, che data la posizione però non riusciva a vedere.

«Noah… posso camminare anche da solo, sai?» gli fece notare, con una sfumatura di ironia leggera. L’altro non annuì, non si voltò, né si fermò.

Si limitò solo ad un: «Ovvio che lo so.» dopo il quale allentò la presa sul polso solo per far scivolare la propria mano a prendere quella del biondo. Non si trattava di quella stretta significativa, di quell’intrecciarsi di dita più tipico degli innamorati.

Ad Oz non sembrò altro che la stretta di qualcuno che cerca di farti forza, a prescindere dal vostro legame.

Si lasciò sfuggire un sospiro lieve, che forse Noah sentì, vista la replica che parve rivolgere proprio a quel suo gesto.

«Nessuno pretende che tu non stia male.» fu la frase con la quale esordì mentre, entrato nell’edificio scolastico, lo guidava verso la classe del professor Wayne per le prime due ore di chimica: «Nessuno se lo aspetta da te. Noi sappiamo che tu, Shaye e Elliot Nightray eravate i più vicini ad Alyster dopo suo fratello. Sappiamo che forse continuerete a stare male ancora per un sacco di tempo anche se non lo dimostrate o lo date a vedere in maniera diversa.» continuò, voltando il primo angolo che portava alle scale.

Probabilmente, visti i pochi studenti ancora intenti a salirle, la maggior parte si era già sistemata nelle aule.

«Va bene se stai male, Oz. Va bene anche se decidi di stare male quando nessuno ti vede e se con noi cerchi di comportarti come sempre. È… un modo per andare avanti, o per provarci. Va bene anche se deciderai di chiuderti in camera quando non ci sono e piangere come un bambino. Però…» indugiò, a pochi passi dalla classe la cui aula era già chiusa.

Si voltò a fissarlo, negli occhi la preoccupazione e la solita sincerità che – nonostante fosse prerogativa di Noah da quando lo conosceva – Oz si sorprendeva sempre di ritrovare in maniera così limpida.

«Però Oz, non è colpa di nessuno se Alyster non c’è più.» disse e tacque per qualche istante in cui quelle parole raggiunsero la mente del biondo come se fosse la prima volta che le ascoltava.

Sgranò appena gli occhi chiari, in maniera quasi impercettibile, ma lo fece.

«Né tua, né di Sirjan. Né di nessun altro. Era una malattia e… nessuno di noi, o di voi poteva fare niente. Perciò dovresti smettere di comportarti come se invece fosse dipeso da te. Sentiti triste per la sua morte, ma non addossartene la colpa. E credo che dovresti dire anche la stessa cosa a Sirjan, tu che ci parli di più.» lo sentì concludere, senza sapere cosa rispondere.

Vide e sentì la mano di Noah posarsi sulla propria testa e scompigliarne energicamente i capelli, prima di un: «Andiamo, che Wayne ci ammazza se siamo in ritardo.» dopo il quale Noah aprì la porta dell’aula, mentre la seconda campanella iniziava a suonare.

Osservandolo, lo vide ridacchiare dopo aver esordito con al posto del solito “buongiorno” «E anche stavolta, miracolosamente, Noah Keynes è salvo!» che fece voltare e ridere diversi compagni, di cui colse alcune repliche divertite ed ilari.

E mentre si intervallavano in aula, poco distanti da lui, frasi come: «Ti sei salvato pure stavolta, Keynes, che razza di fortuna!» oppure «Prima o poi Wayne ti beccherà e non te la farà passare tanto liscia!» o ancora «Noah, io tifo per te tutte le mattine ormai!» Oz sorrise.

Un sorriso lieve, non di quelli soliti che gli incurvavano le labbra facendoti pensare che al mondo andasse tutto a meraviglia o che nella vita di certe persone i problemi non esistessero.

Ma era pur sempre un sorriso, che ancora non sapeva esprimere la gratitudine che nella sua testa era andata formandosi come unico pensiero alle parole del compagno, ma che sarebbe cresciuto pian piano fino a diventare capace di dimostrare quel sentimento senza necessariamente bisogno di dire a voce “grazie”.

 

 

Sente un rumore fastidioso sul comodino, ma lascia che si ripeta incessantemente come fa ogni momento del giorno e della notte.

Odia gli orologi e tutto ciò che ha la stessa monotona, irritante cadenza dei secondi che passano.

Le lenzuola del letto lo coprono fino alla vita.

Le braccia, sono mollemente lasciate inermi lungo i propri fianchi.

Davanti a sé, c’è una parete bianca, con un armadio incolore sulla sinistra e – se si volta – può vedere una finestra che fa entrare luce in quella stanza.

Ma di guardare fuori non ha voglia.

Di stare lì, non ha voglia.

Nella stanza non c’è nessuno: Ada è uscita, a parlare con quell’uomo che ogni tanto passa a trovarlo ma che in realtà sospetta vada lì solo per sua sorella.

Non gli piace affatto quel tipo. Sua sorella è solo una bambina, dopotutto, sotto quell’aspetto.

Scuote la testa, pensa di nuovo ad Alyster.

…O forse non vuole davvero pensarci e la sua testa si sta prendendo gioco di lui.

Fa eccessivamente male pensarci.

Fa male sia al cuore, dove c’è una morsa che rischia di farlo scoppiare, sia allo stomaco dove una stretta analoga gli contorce quasi le viscere – è certo di non esagerare, checché ne dicano!

Non possono capire!

Loro che non hanno mai perso nessuno non possono capire, non capiranno mai!

Fa male persino alle mani, perché una perdita simile gli fa così rabbia che stringe i pugni, fa sbiancare le nocche e poi le unghie affondano nella carne, nei palmi delle mani fino a ferire.

Vede qualcuno entrare di corsa, guardare le mani sporche di sangue allarmata.

«Signor Bezarius! Signor Oz, la smetta di stringere!» gli impone la ragazza al suo fianco – com’è il nome? Miranda Barma.

Non la sopporta, quella lì.

Dal modo in cui tratta i compagni, suoi studenti, al modo in cui gli si sta rivolgendo.

«Signor Bezarius, si sente bene?» domanda, insistente.

Così insistente da essere terribilmente irritante.

È ovvio che non sta bene, lei dovrebbe saperlo, anche se al funerale di Alyster non c’era.

Ma no, lei è estranea a cose simili vero? Magari non le interessa nulla nemmeno del fatto che una sua studentessa sia morta.

Le persone così… gli danno davvero il voltastomaco.

«Stia zitta… zitta, zitta, zitta, zitta, ZITTA!» si sente urlare, vede la propria mano afferrarle di scatto il braccio e stringerlo più forte che può, fino a farle male.

Continua mentre si divincola.

Continua mentre smaniosa cerca qualcosa per chiamare qualcuno.

Continua mentre la porta si spalanca.

E stringe, stringe, stringe sentendola dar voce a dei lamenti di dolore.

Stringe finché non la allontanano.

E allora…

 

Spalancò gli occhi, alzandosi di scatto a sedere.

Respiro affannato, occhi sgranati per lo spavento, mano sul petto quasi a voler calmare il fiatone rumoroso che riempiva la stanza, in contrasto con il respiro regolare e appena percettibile di Noah poco più in là.

Inspirò diverse volte, sentendo qualche goccia di sudore scivolare lungo la tempia e lungo il collo.

Portò un braccio, in corrispondenza della manica, ad asciugare la fronte riscoprendola madida di sudore; mentre il respiro andava lentamente regolarizzandosi, portò lo sguardo in direzione della finestra, scostando le tende quanto bastava per sbirciare fuori senza che troppa luce eventualmente svegliasse Noah.

Il chiarore fuori era leggero e lo indusse quindi a portare lo sguardo sull’orologio sul comodino di Noah che, tuttavia, a causa della figura del ragazzo a coprirlo in buona parte non riuscì a scorgere.

Si alzò, quindi, riuscendo infine a vedere l’ora: le cinque meno un quarto del mattino.

Sospirò, sentendo il compagno di stanza rigirarsi nel letto durante il sonno.

Racimolò una felpa sulla sedia della propria scrivania, indossandola. Nonostante il clima fosse ormai sensibilmente migliorato ora che si affacciavano a Marzo quasi, alle cinque del mattino l’aria era ancora abbastanza pungente.

Mise dei calzini e le scarpe con cui era arrivato lì a Latowidge il primo giorno, dopodiché sgattaiolò fuori dalla stanza, attento a non far rumore nel richiudersi la porta alle spalle.

Non sarebbe riuscito a riaddormentarsi e piuttosto che passare più di un’ora rigirandosi nel letto guardando il soffitto, tanto valeva andarci.

Lì dove stava la lapide – ufficiosa, chiaramente – di Alyster.

Il percorso fu breve, dal momento che a quell’ora tutta la scuola dormiva. Per i corridoi, così come per il sentiero esterno che doveva percorrere per arrivare a destinazione, non aveva incrociato nessuno.

Come aveva immaginato l’aria era fresca, un po’ pungente anche se non ai livelli di quella invernale, ma abbastanza da portarlo istintivamente a sfregare le mani su e giù in corrispondenza delle braccia.

Forse, vedere in lontananza la figura di qualcuno quando fu ormai in zona quasi, non lo sorprese davvero; in realtà, una parte di lui sapeva che in un qualche momento della giornata in cui non era visibile a tutti, Sirjan doveva passare del tempo lì da solo.

Ma in ogni caso, uno stupore leggero da farlo rallentare lo colse ugualmente quando lo riconobbe.

Un po’ come la prima volta che si erano incrociati, Sirjan sedeva per terra sull’erba fresca e umida della rugiada mattutina: indossava qualcosa di pesante sopra quelli che probabilmente erano i pantaloni del suo pigiama e poggiava la schiena al tronco dell’albero che Oz aveva notato anche durante la celebrazione dei funerali, sebbene di sfuggita.

Forse anche i capelli erano un po’ inumiditi, notò Oz, e lo sguardo si perdeva in avanti.

Era fin troppo facile intuire che non vedesse altro che la lapide, ed Oz fu incerto se tornare o meno sui propri passi; tuttavia, per quanto perso nella contemplazione di quella lastra di pietra, Sirjan rimaneva pur sempre la persona che si occupava della gestione del rapporto con degli spiriti lì a Latowidge.

E doveva aver trovato facile accorgersi della presenza di un essere umano, nella fattispecie di Oz.

Il biondo lo vide voltare il viso verso di lui, l’espressione di una persona stanca, che non dorme quanto dovrebbe forse anche se non a livelli da star male fisicamente, e svuotata.

Tuttavia, non senza sorpresa da parte del più giovane, questa mutò nell’ombra di un sorriso cortese, mentre una mano gli faceva cenno di avvicinarsi.

I piedi quasi si mossero da soli, in sua direzione, avvicinandolo fino ad essere a pochi passi da lui.

«Buongiorno.» fu il pacato saluto che Oz si sentì rivolgere e che meccanicamente ricambiò: «Buongiorno.»

Vide Sirjan mantenere lo sguardo calmo su di lui: «Un po’ mattiniero.» gli fece notare, ma non come un rimprovero, né come una domanda guardinga di quelle che era solito porre.

Oz cercò di abbozzare un sorrisetto: «Un po’. Tu invece facendo il capo dormitorio mi sa che sei abituato alle alzatacce.» commentò, cercando di trovare un motivo che non fosse l’ovvio quanto inopportuno “non riesci a dormire perché pensi a tua sorella?”.

La risposta di Sirjan a quell’osservazione si concentrò in un semplice e leggero annuire, dopo il quale calò nuovamente il silenzio fra loro; lo sguardo del più grande tornò sulla lapide poco distante e quasi fosse consequenziale, anche quello di Oz fece lo stesso, come guidato dall’altro.

Per quanto tempo nessuno dei due parlò, il biondo non fu in grado di calcolarlo, né pensò di farlo.

Di sicuro non fu troppo a lungo, a giudicare dal fatto che quando la voce di Sirjan lo richiamò alla realtà, il cielo si era sì schiarito ma non completamente da far supporre che fosse già l’alba.

«Ho ragione di credere che Alys ti abbia già rivelato diverse cose.» esordì, senza portare tuttavia lo sguardo sul più giovane: «Fin dall’inizio si è presa a cuore tutta la questione che ti riguarda. Perciò credo che… nel momento in cui si è resa conto di stare davvero male, lei ti abbia chiesto di parlare o abbia trovato il modo di farti sapere qualcosa che voleva comunicarti.» continuò, Oz che non disse nulla, limitandosi a deglutire a vuoto.

E fu allora che Sirjan voltò appena il viso, portando la propria attenzione sul suo interlocutore: «Non posso dirti “dimmi cosa vuoi sapere e te ne parlerò”. Nonostante io abbia scelto di diventare l’erede di mio padre per evitare un peso a mia sorella, quel ruolo è ormai mio. Anche se Alyster non c’è più, non vuol dire che di punto in bianco abbandonerò quello che la mia famiglia fa da fin troppi anni ormai.» chiarì, nel tono quella nota di austera cordialità e osservazione del proprio dovere che Sirjan aveva sempre mostrato di avere fin dal primo giorno.

Oz annuì lentamente, segno che stava seguendo ciò che l’altro diceva e che probabilmente era anche in grado di capirne le ragioni in qualche modo.

Ma toccò nuovamente a Sirjan stupirlo, perché ricevere un aiuto da Alyster era sempre stato non qualcosa di scontato, ma qualcosa che potevi aspettarti; lo stesso, nonostante le sue intenzioni non fossero cattive, non si poteva dire del suo gemello.

Eppure, Sirjan sorrise. Un incurvarsi di labbra leggero e conosciuto, quello che di solito mostrava la sua pacata educazione rivolta a tutti e nessuno in particolare; in quel momento tuttavia Oz fu certo di iniziare a capire il tipo di somiglianza – oltre quella fisica – che aveva sempre accomunato i fratelli Kolstoj.

In quel sorriso, sebbene in maniera certamente più lieve, vi era una traccia della stessa gentilezza con la quale era solita sorridere Alyster.

Probabilmente, l’espressione del biondo rifletté esattamente ciò che aveva avuto modo di notare e altrettanto probabile era che Sirjan lo avesse in qualche modo intuito; non smorzò il sorriso, mantenendo gli occhi chiari sul ragazzo.

«Nonostante questo» riprese «ciò che è in mio potere dirti, te lo dirò. Avevo pensato questo, il giorno del funerale, quando ti ho osservato.» ammise.

Oz si concesse un’occhiata sorpresa, alla quale Sirjan si lasciò sfuggire fra le labbra uno sbuffo divertito. Non era una risata, non vi era nemmeno paragonabile – e d’altra parte, non era plausibile forse che il ragazzo sorridesse parlando di quella cerimonia – ma era molto più di quanto Oz gli avesse mai visto fare in maniera genuina, senza il retrogusto amaro di una risata sarcastica o di disprezzo come era stato in quell’unico incontro con Cheshire.

«Posso chiederti se ti sorprende di più che io abbia deciso di parlarti o il fatto che lo avessi deciso da un mese a questa parte?» chiese, quasi ilare per quanto la situazione gli permettesse. Oz scosse la testa: «Nessuna delle due cose. O meglio, mi sorprende che tu voglia darmi informazioni che per tutto questo tempo ti sei rifiutato di darmi ma… era per il fatto del funerale.» ammise, quasi lasciandoselo sfuggire, incapace di tacerlo.

«Ero convinto… insomma, ti ho guardato quel giorno e sembrava che a stento tu… riuscissi a vedere Alyster.» mormorò, sentendosi in parte colpevole per stare riportando a galla le immagini di quel giorno e non riuscendo a pronunciare “la lapide”, sostituendovi il nome della ragazza.

«Proprio come te.» fu la replica che gli fece nuovamente alzare lo sguardo.

«Nemmeno tu riuscivi ad alzare lo sguardo da mia sorella. Proprio come il giorno in cui non sei riuscito ad alzarlo da Jack.» gli fece presente, con tono pacato, quasi ad addolcire quella che altrimenti sarebbe stata niente più di una frase dolorosa.

Oz sgranò gli occhi: «Jack… tu eri…?»

«Sì.» annuì Sirjan: «Sia io che Alyster eravamo presenti al funerale di Jack. Ma non abbiamo avvicinato né te, né tua sorella quella volta. Portammo le condoglianze direttamente a tuo padre, accompagnati dai nostri genitori.» spiegò senza entrare nei dettagli, anche perché non c’era molto altro da dire.

«Mi è tornato in mente quando ti ho visto. E, come Sirjan anziché come erede dei Kolstoj, ho pensato… che se ci fossero delle circostanze non chiare sulla morte di Alyster» riprese, una pausa di qualche istante fissando Oz direttamente negli occhi: «o se, in ogni caso, in futuro si capisse che la sua morte è legata a qualche altra cosa poco chiara sebbene non ne sia stata la causa, vorrei saperlo. Non ho dubbi sul fatto che farei di tutto per scoprirlo. In ogni modo possibile, persino il più meschino. E odierei sapere che qualcuno con la capacità di aiutarmi a scoprire qualcosa non lo fa.» concluse.

Oz non seppe dire se a quel modo Sirjan gli stesse semplicemente spiegando cosa lo portava a parlare con lui ora come non aveva mai fatto, o se stesse cercando di punirsi e farsi perdonare per aver taciuto fino a quel momento.

In realtà, egoisticamente non volle pensarci; la sua testa era già così piena di domande, ricordi e confusione, da non necessitare un interrogativo che per ora poteva mettere da parte.

Sirjan a quelle parole non aggiunse altro, dandogli il tempo di assorbirle, comprenderle e decidere se chiedere qualcosa o meno. Oz ne approfittò interamente, chiudendosi nel silenzio e cercando di riordinare nella propria mente le parole già udite da Alyster e le informazioni che contenevano – cercando di non farsi sopraffare dal più semplice e doloroso ricordo di quell’ultima chiacchierata con lei.

«Alyster mi ha detto… che se avessi avuto dei dubbi, avrei dovuto rivolgermi a Xerxes Break. Non ho avuto modo di chiedere precisamente per quale motivo» disse, mordendosi il labbro inferiore in qualche istante di pausa: «ma non capisco.» ammise infine.

Sirjan, osservandolo in completo silenzio per coglierne ogni parola, abbassò impercettibilmente lo sguardo: si rendeva conto che quel ragazzino stava per fare una domanda di cui si sarebbe pentito.

Quasi lo avvertiva nell’aria ancora frizzante che precedeva l’alba.

Si rendeva persino conto del male che gli avrebbe fatto – perché anche volendo, qualsiasi domanda alla quale avrebbe risposto non glielo avrebbe risparmiato – e comprendeva forse per la prima volta la difficoltà di quello che la sua famiglia faceva.

Mantenere segreti non era difficile.

Sopportare il peso delle loro conseguenze lo era molto di più.

Si preparò quando lo rivide alzare lo sguardo: «Sirjan, quante persone sono invischiate in questa situazione? Ogni volta… sembra uscir fuori un nome nuovo. Forse è proprio una di quelle domande a cui non puoi rispondere, però… però Alyster mi ha parlato di voi, di Barma, di Xerxes Break, dei Nightray, dei Baskerville e di spiriti come Cheshire. Mio fratello… è solo morto di malattia. Che cosa c’entrano tutto questo e tutte queste persone?» chiese, l’espressione di chi sta per impazzire senza mai trovare una soluzione, una risposta.

Sospirò.

Non conosceva altro modo che quello, purtroppo.

«Barma ti ha dato il diario di tuo fratello Jack. Non te lo sto chiedendo, lo so perché Rufus me lo ha detto subito dopo avertelo consegnato.» spiegò, per un attimo l’ombra del Sirjan erede dei Kolstoj che riemergeva: «Dalla tua domanda posso immaginare che tu… non lo abbia letto completamente. Alcuni nomi che cerchi, sono proprio in quel diario, scritti dallo stesso Jack. E sono grosso modo le informazioni che Barma e Xerxes Break hanno collaborando con noi. Chiaramente, non sono a conoscenza di tutto quello che sa la mia famiglia.» gli fece presente, l’espressione seria anche se non in un certo senso rigida com’era stato in passato.

Vide Oz annuire impercettibilmente e proseguì.

«Posso accennarti solo ai nomi che sono sul diario di tuo fratello, dal momento che sono cose che leggeresti e verresti comunque a sapere da solo. Oltre questo, hai altre domande?» chiese, probabilmente prima di iniziare a sciorinare l’elenco di presunti nomi.

Oz quasi non gli diede tempo di finire di pronunciare quella domanda: «Barma mi ha dato il diario dicendomi che leggendo avrei capito qualcosa sulla morte di Glen Baskerville che a lui interessa. Ma… io so solo che è morto prima di Jack, per cui…»

«Rufus ti ha detto questo?» lo interruppe Sirjan, l’espressione quanto mai seria.

Oz annuì colto alla sprovvista.

Vide Sirjan portare una mano vicino al volto, l’aria di chi sta velocemente soppesando pro e contro di qualcosa; alla fine di quel teorico processo, lo sentì distintamente sospirare.

«Non ricordo di avertene parlato o meno, perciò forse mi ripeterò. Glen Baskerville si è suicidato, e ti assicuro che non aveva motivi “ufficiali” per farlo. Per questo molti suppongono che si sia trattato di qualcosa che non comprendeva problemi di alta società o che potessero emergere facilmente. Il motivo preciso, è qualcosa che nemmeno io so. L’unico che potrebbe parlarne è Glen, ma immaginerai tu stesso che non si tratta di qualcuno facile da avvicinare. E personalmente, non ho interesse nel farlo. Non sono un investigatore, il mio compito è solo mantenere celato quello che mi affidano in termini di segreti ed informazioni.» spiegò più chiaramente possibile.

Oz, prestando la massima attenzione, sembrò ricordarsi di un episodio accaduto ormai mesi prima; probabilmente l’unico contatto con Glen Baskerville, se aveva ragione di credere che fosse lui.

«Quindi lo spirito di Glen è qui?» domandò a bruciapelo; senza scomporsi particolarmente, Sirjan annuì: «Sì. Ma ti assicuro che il pessimo carattere che aveva in vita non è affatto cambiato dalla sua morte. Inoltre è uno spirito che ricerca la solitudine. Ho ragione di credere che tu sia stato l’unico che abbia avvicinato.» assicurò.

L’espressione che Oz assunse, probabilmente tradì i suoi pensieri.

O forse, Sirjan li aveva semplicemente messi in conto nel momento stesso in cui aveva deciso di parlargli con franchezza.

«Il consiglio che voglio darti, è di non cercarlo. Glen Baskerville intendo.» lo ammonì: «Temo di poter essere quasi certo del motivo per cui ti abbia avvicinato a suo tempo. E cioè, devi aver fatto qualcosa che lo ha disturbato. Non è un bene mettersi contro gli spiriti in generale, perciò evita se puoi.» gli suggerì, nel tono quella sfumatura di gentile preoccupazione che aveva sempre dimostrato di avere verso gli studenti, tra i quali Oz non aveva mai fatto eccezione, anzi.

Era forse la persona che si era sentito rivolgere quel tipo di raccomandazioni più spesso.

Il biondo annuì, senza fare domande, e Sirjan abbozzò lo stesso sorriso di prima a quel cenno.

«I nomi.» esordì poi, dopo aver sbirciato l’orologio da taschino sotto gli occhi di Oz, che gli rivolse ancora una volta completa attenzione.

«Ho letto il diario abbastanza volte da essere più o meno certo di non dimenticarne nessuno. Le persone che lì vengono nominate sono… quasi tutte persone che conosci. Alcune le abbiamo tenute d’occhio da quando sono qui a Latowidge, te compreso. Posso dirti che finora non hanno dato modo di farci pensare che stessero architettando qualcosa, ma non sono nemmeno così ingenuo da credere che se lo stanno facendo non siano più che in grado di nasconderlo. Anche perché ad occuparci di questa questione siamo sempre stati solo io, Rufus, Alyster, Aedan e Xerxes Break.» fu la premessa che fece, ed Oz non seppe davvero dire che ciò che Sirjan cercava di comunicargli era di stare attento a tutti i nomi che avrebbe di lì a poco pronunciato, o se invece al contrario gli stesse suggerendo di non doversi preoccupare di tutti come se tramassero alle sue spalle.

«Le persone menzionate da Jack sono Charlotte e Glen Baskerville. Lei è stata una servitrice di Glen per anni e non ha mai completamente accettato l’amicizia con tuo fratello. Tutti e tre i fratelli Nightray: anche se non so dirti quanto Gilbert ricordi dopo l’amnesia che sostiene di aver avuto. E… c’è qualcuno, fra le persone a te vicine, Oz. Qualcuno che volente o nolente non ti sta dicendo la verità. Ma il suo nome, non posso dirtelo.» dovette ammettere, per quanto le sue intenzioni fossero buone.

Si alzò, così senza preavviso che Oz sussultò involontariamente.

Fece per dire qualcosa, vedendolo togliere qualche filo d’erba rimasto sui pantaloni e in procinto di andare via, ma il maggiore lo interruppe.

«Ma ti dirò questo.» aggiunse, quasi volesse farsi… perdonare, per la mancanza del nome?

«So che sarà doloroso. Ma cerca di arrivare in fondo a quel diario, è l’unica cosa che non può mentirti dal momento che è stata scritta dallo stesso Jack, e che non ha restrizioni su cosa può rivelarti e cosa no, come invece ho io. Ti consiglio di andare da Xerxes Break, ma dopo averlo letto e solo quando avrai domande precise da porgli. Lui cercherà di metterti alla prova, ti farà sudare quelle informazioni: anche con parole crudeli o subdole insinuazioni. Ma se riesci a dare a lui e Barma quello che vogliono, o ad entrare nelle loro “grazie”, sono alleati preziosi se davvero hai deciso di andare in fondo a questa storia.» continuò, quando mai aveva parlato così a lungo e rivelato così tanto.

Lo vide fissare il proprio sguardo nel suo, e non seppe dire cosa aspettarsi ancora.

«Non importa quanto le domande e le risposte che avrai ti porteranno vicino a Glen Baskerville. Non cercarlo, Oz. Non è detto che torneresti indietro. Scopri di lui solo quello che ti è davvero strettamente necessario e se ti avvicina nuovamente tramite Elliot Nightray, vattene. Sarebbe persino meglio se, per allora, tu non rimanessi affatto da solo con lui. Chiederò ad Aedan di aiutarti in questo.» assicurò.

Oz sentiva la stessa sensazione che probabilmente dovevano provare i margini di un fiume prima che il corso d’acqua straripasse.

Aveva il sentore che non sarebbe riuscito a fare chiarezza su quella situazione nemmeno ordinando tutto su degli schemi per delle intere settimane.

«Lacie.» lo sentì pronunciare e fu certo di essersi perso un pezzo, quello che collegava quell’unica parola al resto del discorso.

«Eh?» balbettò infatti di rimando, fissandolo oltremodo confuso.

«Lacie non è solo il nome di uno spartito, Oz. Ricordatelo.» concluse, più vicino di quanto Oz lo ricordasse e riuscisse effettivamente a vederlo mentre inspiegabilmente la vista si faceva pessima.

«Lacie, chi…?» tentò di articolare, ma perse i sensi prima di concludere quella domanda così importante.

 

«Sembra… essersi calmato per fortuna.»

«State bene, Miranda?»

«Sì, non preoccupatevi.»

Se fosse sveglio coglierebbe tutto quello, ma in realtà sente solo voci e suoni indistinti intorno a sé, in quell’istante prima della totale perdita di coscienza.

«Grazie dell’aiuto, signor Kolstoj, il suo sangue freddo è stato provvidenziale.»

«Anche se il metodo per addormentarlo non è molto consono.»

…Kolstoj?

È Alyster? No. Signore.

Allora è Sirjan.

Ha una sensazione molto vaga, di una mano che scosta qualche ciocca dalla fronte.

Ma non è sicuro di stare sognando o di essere sveglio.

Come non è sicuro che non sia la sua immaginazione, a fargli avvertire il respiro lieve di qualcuno vicino all’orecchio, come se stesse per sussurrargli qualcosa.

Deve cercare di sentirla.

Deve provarci, deve ascoltare, perché sembra che sia così importante…

 

Gli scostò i capelli dalla fronte, osservandolo con la stessa espressione preoccupata che aveva rivolto sempre e solo ad Alyster, il viso abbastanza vicino al biondo.

Abbastanza da far sì che un sussurro fosse più che sufficiente.

«…Cerca di accorgertene in fretta, Oz.»

 

 

Calciò l’aria, annoiata, la schiena poggiata contro la parete: si stava annoiando da morire, a dirla in maniera semplice e concisa.

La mattina – tanto per cambiare, violando il regolamento interno dei dormitori che teoricamente impediva alle ragazze di entrare in quello maschile e viceversa – aveva deciso di passare a prendere Noah e Oz per andare a lezione insieme.

Lei non era stata depressa tanto quanto Oz, e in realtà non capiva davvero fino in fondo cosa portasse il biondo a dilaniarsi a quel modo; non voleva essere assenza di sensibilità nei suoi confronti. Semplicemente, quando si era soffermata a pensarci, si era resa conto di non avere un riscontro per poter cercare di capire Oz. Figurarsi Sirjan – ma di Kolstoj in realtà non gli interessava molto.

Quando si impegnava a cercare di ricordare, a farlo davvero quando magari era sola in stanza, non faceva altro se non riproporre alla sua testa dei ricordi che dire vaghi avrebbe significato osservarli da un punto di vista ottimista e procurarsi l’emicrania.

Il risultato migliore che aveva ottenuto era stato ritrovare la sensazione di qualcosa che si perde: ma di certo, non avere presente cosa fosse, quando fosse successo e come, non ti permetteva di poter dire “so cosa si prova”.

Oltretutto, aveva lasciato perdere in ben poco tempo.

Affogare nei ricordi, letteralmente, non era cosa per lei: dopotutto, con la sua vita attuale non stava male, perciò non aveva mai capito l’utilità di sforzarsi a recuperare qualcosa che tanto non torna comunque. Più specificatamente, non capiva quell’idiota di suo cugino.

Gilbert ne aveva fatto una vera e propria malattia, anche se non era stato sempre così.

Ora non ricordava con precisione tutti i particolari di quando erano più piccoli, ma era sicura che per Gilbert non fosse mai stato proprio di vitale importanza ricordare.

Anche solo prendendo come punto di riferimento il loro ingresso a Latowidge, Alice era quasi certa che il moro avesse sempre vissuto abbastanza tranquillamente in casa Nightray, felice di aver ritrovato il fratello e di possedere una famiglia.

Non aveva memoria di un Gilbert così ansioso di ricordare anche il minimo dettaglio, che addirittura arrivava ad investigare e a chiedere a suo padre – lo avrebbe volentieri preso a pedate quando all’ultima riunione, per colpa sua, la cena si era protratta per quasi un’ora andando avanti a discussioni sull’argomento.

Sembrava diventata un’ossessione; quasi quasi, paradossalmente, si ritrovava più in Vincent che se ne fregava altamente: lui, fintanto che aveva ritrovato Gilbert, sembrava vivere in pace con il mondo.

Strusciò la punta della scarpa sul pavimento, tanto per fare: Noah le aveva detto, quando era andata a prenderli – oltre il solito: «Tu mi farai cacciare via, maledizione.» imbronciato – che Oz non si sentiva troppo bene e che quindi aveva deciso di non andare a lezione per quella mattina.

Mi sa che mi sono raffreddato, ma vorrei evitarmi la febbre, aveva asserito Oz quando lei non contenta delle spiegazioni di Noah aveva insistito per affacciarsi alla loro stanza.

Ed effettivamente il biondo era al letto, coperto fino alla vita e un po’ pallido. Ma la cosa continuava a puzzarle lo stesso.

E comunque ora che le lezioni erano finite e Noah era stato letteralmente rapito da Marcus, lei si annoiava.

Tanto.

Troppo.

E lei odiava la noia.

«Maledetto servo, questa gliela farò pagare.» borbottò imbronciata tanto che se Oz l’avesse vista in quel momento sicuramente avrebbe commentato con uno dei suoi stupidi “waaah, che carina Alice con il broncio!”.

Uno di quei commenti imbarazzanti che, sebbene gli valessero spesso calci agli stinchi, continuava a fare per chissà quale vena masochista del suo carattere.

«A~lice!» sentì pronunciare e non le piacque. Per nulla.

Si voltò comunque in direzione della voce che l’aveva chiamata e sperò davvero che quello che le veniva incontro non fosse il cugino Vincent; purtroppo non sempre la speranza era destinata a realizzarsi, a quanto pareva.

Notò che l’altro, mentre le si avvicinava, sorrideva con quell’incurvarsi di labbra che l’aveva sempre irritata pesantemente in tempi così brevi da chiedersi se fosse davvero possibile, a volte.

Non si mosse, più che altro si irrigidì appena sul posto, serrando la mascella: non doveva insultarlo, almeno finché l’altro non gliene dava motivo. Lo mal sopportava, certo, ma quando Vincent assumeva l’espressione di chi ha appena ottenuto di farti passare dalla parte del torto ed è quindi consapevole di avere il coltello dalla parte del manico beh, in quel caso arrivava proprio ad odiarlo.

Dovette alzare appena lo sguardo, inclinando il capo indietro quando lo ebbe direttamente di fronte – maledetta differenza d’altezza – e rimase in attesa.

Perché suo cugino non l’avvicinava mai senza un motivo.

«Buongiorno.» la salutò, il sorriso cordiale quanto il tono, gli occhi dissimili fissi su di lei.

«’giorno.» fu il suo massimo impegno che si tradusse, tra l’altro, in un saluto abbastanza secco. Lo sentì ridacchiare e sentì che i suoi buoni propositi, costruiti con tanta fatica, si sgretolavano in una manciata di secondi.

«Sei sempre arrabbiata quando parliamo. Devo ritenermi particolarmente sfortunato, cugina?» gli sentì chiedere e non poté evitare ad un sorrisetto sarcastico di incurvare le proprie labbra.

«No Vince» replicò, e non serviva sottolineare quanto poco lo chiamasse Vince «è proprio che parlare con te mi mette di cattivo umore.» lo provocò – lo aveva detto che i buoni propositi erano andati per altri lidi, no?

Vincent rise, di nuovo: «Alice non è per niente carina con me.» osservò, quasi casualmente, ed Alice si chiese quale fosse il problema di Vincent e Break con la sua presunta mancanza di femminilità.

Fu comunque distratta dall’ulteriore avvicinarsi di lui, che la sorprese: lei e il cugino non si erano mai particolarmente amati, né lontanamente piaciuti.

Il biondo, fin da quando per la parentela che li legava avevano iniziato a frequentarsi da bambini, si era sempre dimostrato antipatico verso di lei.

No, forse “antipatico” non era il termine esatto; forse si trattava più di essere…

meschino, formulò mentalmente.

In ogni caso, se c’era stato uno dei tre fratelli che più degli altri due aveva sempre mantenuto le distanze facendoglielo volutamente pesare, quello era sempre stato Vincent. La guardava in un modo diverso dalla voluta distanza mantenuta per etichetta da Elliot, e diverso anche da quel particolare tipo di timidezza di cui era preda Gilbert allora.

Era… quella sibillina distanza di chi si diverte alle tue spalle osservandoti da lontano come si farebbe con un giocattolo particolarmente divertente in quel momento.

O con una preda che hai puntato e malgrado gli sforzi non riuscirà a fuggire.

Quando accennò ad arretrare – inutilmente, dato il muro alle sue spalle – Vincent era così vicino che i loro corpi quasi si sfioravano; lei deglutì a vuoto: non era tipo da farsi mettere facilmente in soggezione, tanto che non si era mai preoccupata del fatto che il cugino avesse preso il pessimo vizio di mettergli alle calcagna Echo per controllarla.

Fastidio, certo, ma mai inquietudine.

Eppure ora, quello sguardo non le piaceva per nulla, molto meno del solito.

Le metteva i brividi.

«Sai, Alice, è un peccato che io non ti piaccia. Perché a me la mia cuginetta piacerebbe anche, se non mi trattasse sempre così male.» mormorò, il tono caldo e una mano che aveva sfiorato con fare distratto una ciocca dei capelli castani, legati.

Lei indurì lo sguardo, e fece per articolare un “ma figurati!”, ma fu gelata dallo sguardo che Vincent le rivolse. O forse no.

Probabilmente, ciò che davvero la fece irrigidire lì dov’era, terrorizzata, fu che quello sguardo ebbe una corrispondenza. Nella sua mente, nello stesso istante in cui vide di fronte ai propri occhi quello di Vincent che si era chinato verso il suo viso.

Occhi che non si potevano confondere con quelli di qualcun altro: e in quel momento, quelli che vedeva e quelli che erano nella sua mente, in uno di quei ricordi che non si era mai data la pena di riportare a galla, dicevano la stessa identica cosa.

Vorrei tu sparissi dalla faccia della terra, per sempre.

«Mi irrita terribilmente.» lo sentì mormorare ancora più piano ma ugualmente udibile, vicino al suo orecchio quasi: «Ti guardo, Alice, e mi irrita. Perché sei lì, e ti comporti come se avessi il diritto di essere felice… e tu lo sai, che non ce l’hai.» sussurrò.

Alice sussultò, sgranando appena gli occhi, il cambio di espressione invisibile a Vincent data la posizione.

«E mi irrita anche quel ragazzino. Bezarius.» sembrò sputare veleno su quel nome: «Lo circondate come se fosse Dio. Come se fosse Jack.» e quel nome la fece rabbrividire e, anche senza ricordi degni di essere definiti tali, le fece provare un dolore all’altezza del petto che – si disse – doveva somigliare molto a quello che Oz aveva sentito davanti alla tomba di Alyster.

«Ma sai» vide la propria ciocca scivolare fra le dita del più grande, mentre il viso e lo sguardo tornavano visibili: «vi state illudendo. Tu e Gilbert. Quel ragazzino non è Jack, e voi non lo riavrete indietro. Nessuno di noi può farlo tornare indietro. Lo state insultando. Continuando a fingere che quell’insulso ragazzino possa prendere il suo posto.» continuò il tono invariato per tutto il tempo.

Fino a quel momento, quando strinse la ciocca tirandola appena con tutte le intenzioni di farle male, e lo sguardo si riempiva di rabbia quasi cieca.

Le sfuggì un gemito fra le labbra, le mani che istintivamente venivano portare a quella di Vincent per liberarsi della presa.

«Proprio tu che hai insultato la memoria di Jack a quel modo, tu che sei così bugiarda. Non meriti di stare qui, non meriti di stare con quel bamboccio, di essere felice. Sei soltanto una disgrazia, niente più di una ragazzina che nessuno voleva. Se tu fossi morta, saremmo stati tutti più felici!» sbottò con rabbia.

«Smettila, smettila!» gridò lei, la voce che riecheggiò nel corridoio deserto.

E lui la lasciò.

Si allontanò lentamente di qualche passo, il viso che si era contratto in una smorfia quasi furibonda che era tornata tranquilla, sorridente com’era sempre.

Non si diede nemmeno la pena di guardarsi intorno.

«Alice, Alice… lo sai come funzionano gli specchi?» se ne uscì, senza un senso logico. Non attese la sua risposta: «Ti restituiscono la stessa immagine che hanno davanti. Sai… forse io potrei diventare il tuo specchio, Alice.» pronunciò, il tono morbido e quasi conciliante, per nulla affine alle parole che stava pronunciando.

Si voltò, per andarsene come se nulla fosse, ma la castana si mosse addirittura prima di rendersene conto lei stessa; allungò una mano, riuscendo ad afferrargli la manica della divisa.

Lui si limitò ad osservarla da sopra la spalla, senza nemmeno degnarsi di voltarsi totalmente.

Sul suo viso ritrovò l’espressione di una bambina persa, che non sa a cosa credere e che vede in te qualcosa di simile all’unica speranza che ha di capire.

Anche se tu non sei affatto la sua speranza.

«…Che vuol dire quello che hai detto?» la sentì chiedere.

E di quello smarrimento, ne fu profondamente soddisfatto.

«Vai a chiederlo all’altra Alice, se ci tieni tanto.»

 

 

Quando aveva ripreso conoscenza, si era ritrovato nella propria stanza, con Noah che era intento a prepararsi. Registrando grosso modo quanto accaduto, compreso l’aver perso conoscenza in giardino ed essere stato presumibilmente riaccompagnato in stanza da Sirjan, si era sorpreso del fatto che notandolo sveglio Noah gli avesse rivolto un sorriso, piuttosto che un rimprovero per l’ennesima uscita notturna – o presunta tale, considerando che quella volta era quasi l’alba.

Poi era stato tutto più chiaro quando Noah aveva parlato: «Sirjan ti ha riportato in stanza, ha detto di averti trovato addormentato su un divanetto giù in sala.» gli aveva spiegato brevemente, soffermandosi poi ad osservarlo mentre Oz mentalmente ringraziava il più grande e ripercorreva velocemente il discorso che avevano fatto.

«Ti senti bene, Oz? Sei un sacco pallido.» gli aveva chiesto Noah, ed Oz aveva in parte colto la palla al balzo: «Mh, non tanto a dire il vero…» aveva mormorato.

Si sentiva scombussolato, persino lo stomaco non sembrava al massimo della propria forma.

Noah gli aveva scompigliato piano i capelli – dopo che Alice, bussando alla loro stanza aveva insistito per entrare a vedere come stesse – per poi uscire e raccomandarsi con lui di riposare per il resto della giornata e che lui e la ragazza lo avrebbero lasciato in pace fino a sera, senza fare avanti e indietro dalla camera.

Era ora l’ora di pranzo, e il massimo che lui era riuscito a fare era stato stare sdraiato al letto fissando il soffitto, limitando al lavarsi l’unica attività degna di nota.

Aveva ripensato alle parole di Sirjan, cercando di darvi un ordine, provando a stabilire cosa avesse la precedenza su cosa. Per quanto dopo l’ultima lettura il pensiero non lo entusiasmasse particolarmente, continuare il diario di Jack sembrava l’opzione più logica.

Ma anche presa coscienza della cosa, la sua mano non aveva avuto nessuna intenzione neanche vaga di allungarsi fino a raggiungere il cassetto del comodino, né di aprirlo e ancor meno di estrarne il diario in questione.

Sospirò nello stesso istante in cui, senza nemmeno un bussare a precederlo, sentì pronunciare dall’altra parte della porta un: «Sto entrando, Oz.» in cui riconobbe la voce di Gilbert, stupendosi quando lo vide socchiudere l’uscio quanto bastava ad entrare. Il biondo, che aveva fatto perno sul gomito per tirarsi su a sedere, lo guardò interrogativamente mentre l’altro lasciava che la porta si richiudesse alle sue spalle.

Quando poi Gilbert riportò lo sguardo su di lui abbozzando un sorriso, Oz pronunciò istintivamente un: «Che ci fai qui, Gil?» che ne tradì in parte la sorpresa.

La quale, probabilmente, si ridimensionò in poco quando entrambi – Oz dopo averci riflettuto per qualche istante – pronunciarono contemporaneamente: «Noah.»

Oz ridacchiò mentre si sistemava a sedere, mentre il sorriso di Gilbert lasciò intravedere una sfumatura divertita; il più grande prese posto sul bordo del letto occupato.

«Come stai?» gli chiese, studiandone il viso con discrezione. Oz gli rivolse un sorriso leggero ma gentile: «Sto meglio, dopo essermi riposato.» assicurò.

Gilbert non lesse alcuna bugia, in quella risposta; tuttavia, allungò una mano a sfiorargli la fronte, scostando leggermente una ciocca di capelli, l’espressione del viso pacata, quasi rassicurante: «Non intendevo solo fisicamente.» rivelò, lasciando perfettamente intendere a cosa si riferisse.

Oz abbozzò un sorriso indecifrabile, quasi perfettamente a metà fra il mesto e quella connotazione che un nome preciso non lo aveva, ma che era tipica di Oz quando cercava di nasconderti qualcosa su come si sentiva: «Sto meglio.» pronunciò piano.

«Non è vero.» ribatté praticamente subito Gilbert, ma senza che sembrasse un vero e proprio rimprovero.

Oz abbassò lo sguardo: «Allora perché me lo chiedi?» domandò.

Gilbert, dopo qualche istante, ritirò la mano rimasta protesa in avanti: «Perché ultimamente menti in maniera meno credibile. Ed è più facile così, piuttosto che se rimani in silenzio.» fu la sua replica, dopo la quale non parlò nessuno dei due, finché Gilbert non riprese la parola.

Aveva osservato Oz a discapito del fatto che forse si fosse notato poco o non si fosse notato affatto: aveva guardato il biondo al funerale di Alyster al quale anche lui era stato presente. Il tipo di dolore che aveva visto negli sguardi di Sirjan, Elliot ed Oz era stato così diverso e così simile in tutti e tre, da fargli provare inconsciamente un tipo di soggezione tale che aveva sentito quasi l’obbligo di abbassare il proprio.

Con la sensazione, quasi, di non avere il diritto di essere lì; e – Oz non aveva potuto notarlo – si era allontanato prima della fine della funzione. Non per un motivo particolare, ma perché era successo di nuovo, come al concerto.

Una fitta che sembrava volergli dividere la testa a metà, e immagini vaghe, veloci. Dolorose.

Di qualcuno scomparso in maniera simile ad Alyster… diversi anni prima.

Vincent… perché doveva morire proprio una persona come Jack?

E la sensazione di dolore e angoscia di quel giorno, anche se i ricordi non erano ora niente più che flash: «… Mi sono ricordato di Jack. Anche se solo un po’. Perciò non dirmi che stai bene, Oz. Non devi… dimostrare nulla, e—»

«Forse dovresti andare via, Gil.» lo interruppe, lo sguardo basso coperto anche in parte dalla frangia. Gilbert sgranò gli occhi a quelle parole, senza capire.

«Ma Oz…»

«Io non so se è fra le cose che ricordi, però stavi spesso con me nella stanza di Jack, quando venivi a trovarlo.» esordì, interrompendolo nuovamente. Gilbert fu certo di scorgere, in quel momento, un sorriso che non gli piacque affatto.

Era lo stesso che aveva visto sul viso di Oz quando, dopo la riunione fra genitori ed insegnanti, aveva sentito per caso il biondo mentre parlava con la sorella nell’atrio, osservando l’ingresso appena oltrepassato dal padre che andava via.

Ada… papà sarà tranquillo, ora che ha visto suo figlio ed è tornato a casa?

Era l’espressione che faceva Oz quando aveva per un motivo o per l’altro la certezza di non essere accettato. O di essere la vergogna di qualcuno.

Strinse appena il pugno libero, l’altra mano che sorreggeva il peso del corpo proteso appena in avanti.

Cosa significava quel “forse dovresti andare via”?

«Penso che a te faccia male, Gil. Stare qui adesso che io sono al letto. Non ti ricorda Jack?» gli sentì chiedere, ritrovandosi a sussultare e sgranare appena di più lo sguardo.

«Ma che stai dicendo?» chiese, incredulo, continuando a fissarlo e notando che a quelle parole, anche fisicamente, Oz parve chiudersi ancora di più su se stesso.

Lo sguardo rimaneva basso, spostato lateralmente con il preciso intento di non incrociare il suo; e persino il corpo sembrava volesse allontanarsi, come se Gilbert potesse bruciarlo o fare chissà cos’altro di materialmente impossibile.

«Insomma, magari non te ne accorgi perché non lo ricordi, però… è così no? Quindi forse non ti fa bene. Lo so, di somigliare a mio fratello. Non preoccuparti se lo hai pensato, va bene. Lo so perché anche mio padre… lo ripete in continuazione.» mormorò, sciorinando spiegazioni incomprensibili e che non c’entravano nulla, ma che soprattutto Gilbert faticava a seguire.

Non voleva ascoltare.

Non voleva vedere Oz in quello stato, di nuovo – era già successo una volta, in uno dei pochi ricordi stabili che aveva, prima di lasciare casa Bezarius.

«Va bene se adesso, mentre sei qui, lo fai perché ti senti in colpa o perché ti hanno portato dai Nightray nel periodo in cui poi Jack è stato male… non mi fa arrabbiare. Se ti preoccupi così tanto perché temi che quello che è successo a lui succeda anche a me. Se—»

«Adesso basta.» sibilò, interrompendo Oz che portò lo sguardo tra lo stupito e il perplesso su di lui, facendo per ribattere, ma venendo anticipato da Gilbert.

La voce gli tremava di rabbia – proprio a Gilbert, che non si arrabbiava mai.

«Stai dicendo che sono qui per cosa, per pietà? O per il senso di colpa verso tuo fratello?» lo interrogò, il tono accusatorio.

«Stai cercando di dirmi che secondo te, sto scontando l’essermi sempre accusato di non esserci stato nel periodo in cui Jack era malato attraverso di te, ora? Stai dicendo che ti sto usando, Oz?» alzò lo sguardo, puntando gli occhi dorati nei suoi: «Stai veramente pensando una cosa del genere?!» tuonò, alzando la voce all’improvviso – proprio lo stesso Gil timido che in passato parlava con tono che era a stento udibile.

E per contro, l’espressione che assunse il biondo fu altrettanto inusuale, l’aria di chi non ne poteva più di quello che vedeva, o che sentiva, o addirittura che pensava.

O di tutte e tre le cose insieme – proprio lui, che aveva sempre sorriso a tutto, anche quando una persona dovrebbe fare tutto tranne che sorridere.

«Non sto dicendo che mi stai usando, solo—»

«E invece è proprio quello che stai dicendo!» alzò la voce, aggredendolo quasi, il corpo maggiormente proteso in avanti e Oz che quasi lo imitava nemmeno fosse il suo riflesso nello specchio.

«Tu non lo sai cosa vuol dire, Gil!» sbottò il più giovane, senza dargli tempo di interromperlo nuovamente: «Non sei tu che vivi nell’ombra di tuo fratello! A Latowidge non sei “il fratello di”, non continuano a guardarti come se fossi un fantasma e tuo padre ti chiama con il tuo nome!» alzò i toni.

«Io non so nemmeno chi è il mio vero padre!»

«IO VORREI NON SAPERLO!» gridò, sentendo qualcosa raschiare violentemente la gola mentre il tono si spezzava a metà quasi, come chi… sta per piangere.

Gilbert era rimasto imbambolato.

A guardare davanti a sé quell’Oz che non aveva mai visto.

Boccheggiò appena, lo sguardo praticamente fisso sul biondo, come se avesse appena detto qualcosa a cui non volesse in alcun modo credere.

Con la mano cercò quella di Oz, o il polso, o il braccio – solo, necessitava di un contatto, per avere la certezza che la risposta sarebbe stata reale.

«Non… stai dicendo che non vorresti esistere, vero, Oz?» mormorò pianissimo, cercando lo sguardo dell’altro col proprio.

Oz non lo guardò.

E questo lo mandò in paranoia; tirò appena la sua manica: «Oz, non era quello che intendevi, vero?» chiese, il tono appena più udibile.

Riuscì a scorgere Oz mordersi appena il labbro inferiore, prima di articolare un: «No, Gil.» che però non riuscì a convincerlo totalmente.

Perché per un sacco di tempo, precisamente proprio dalla morte di Jack forse, aveva temuto che ogni giorno fosse quello in cui per un motivo o per l’altro – disperazione, solitudine, dolore o chissà cosa – Oz gli avrebbe detto che non ce la faceva.

Che, semplicemente, non ce la faceva più.

Strinse la presa, estendendola al polso.

«Oz?» lo chiamò, tirandolo appena: «Oz… guardami un attimo.» lo esortò, stringendo la presa ulteriormente.

Quando però il biondo si voltò a guardarlo finalmente, Gilbert era molto più vicino di prima e lo fissava con la stessa espressione di chi non ha alcuna intenzione di perdere la persona più preziosa che ha. Anche se, egoisticamente, dovesse andare contro i desideri di quella persona per assecondare solo i propri.

«Gil…?» mormorò piano, quasi in un soffio.

«Non andare via.» fu la replica che gli sentì bisbigliare, la presa sul polso che si allentava perché la mano scivolasse via, cercando la sua in maniera più appropriata, finché le dita non si intrecciarono a quelle del biondo – sensazione di dejà-vu, di quello stesso anno e in quella stessa stanza.

«Prometti che non andrai via, Oz.» sussurrò, mentre poggiava la fronte alla sua.

Oz sentì qualcosa, lì allo stomaco, che non riuscì a decifrare o che forse in parte ignorò.

Non poteva esserne certo, ma ebbe la sensazione che quel qualcosa fosse dovuto alle labbra di Gilbert che si posavano sulle sue mentre socchiudeva gli occhi lentamente, la mano che stringeva la sua.

 

 

11 Febbraio

 

Glen è passato a trovarmi, questo pomeriggio.

Non credo che… stia bene.

L’ho trovato pallido, e anche se ti guarda sembra che, con la mente, sia altrove.

E non posso che preoccuparmi.

Mi sento… terribilmente in colpa verso di lui.

Mi sento egoista abbastanza da non avere il diritto,

di definirmi il suo migliore amico come fatto finora.

Non più.

 

Non si chiese perché Gilbert lo stesse facendo.

Né perché lui stesse rispondendo, non solo alla stretta della sua mano, che nel caso di Gilbert era sempre stata un po’ “tipica” – di qualcuno che vuole assolutamente farti sapere in qualche modo che è lì per te, e ci resterà.

Non si chiese nemmeno, anche se sicuramente lo avrebbe fatto poi, quale fosse stato il momento in cui aveva pensato per la prima volta a Gilbert né come il servitore di quando era bambino, né come il proprio migliore amico.

Quando, esattamente, l’altro avesse fatto lo stesso.

Né quando, in sostanza, erano giunti alla conclusione che un bacio non sarebbe stato… una colpa, in fondo.

Anche se li avrebbe resi non più “amici”; nel bene o nel male.

 

19 Febbraio

 

Mi chiedo se faccio bene.

Pur essendomi reso conto di cosa Glen stia per fare,

non ne ho parlato a nessuno.

Nemmeno con lui.

Non tocchiamo mai l’argomento, quando siamo insieme.

Lui si limita a fissare fuori dalla finestra e stare in silenzio,

per la maggior parte del tempo.

Solo ogni tanto mi dice: «Jack, quanto rimarrai ancora?»,

ma lo fa sempre senza guardarmi.

La mia risposta non cambia mai.

«Finché vorrai, Glen.»

Non so chi dei due stia mentendo di più, fra noi.

 

Lo sentì allontanarsi, pur rimanendo ad una distanza minima.

Lo avvertì dal respiro del moro contro le proprie labbra, più che dal vederlo o meno – specie perché teneva gli occhi chiusi, più che sicuro di essere arrossito. E, con ogni probabilità, che Gilbert avesse fatto lo stesso.

Lo sentì trattenere appena il respiro, ad un certo punto, e la cosa lo indusse ad aggrottare appena le sopracciglia, facendo per aprire gli occhi.

Desistette, quando si sentì posare un bacio sulla fronte.

«Non andrai via, vero Oz?» colse quindi, nuovamente in un sussurro.

Scosse impercettibilmente la testa, formulando una domanda che riuscì a rivolgersi forse per pura fortuna, sentendosi in fondo un po’ meschino, forse: «…Quanto rimarrai al mio fianco, Gil?»

 

23 Febbraio

 

Oggi Gilbert e Vincent sono passati a trovarmi.

Gilbert è gentile come sempre,

e mi preoccupa sapere che potrebbe sentirsi in colpa, in futuro.

Però, mi solleva sapere che fra qualche anno,

sarà sicuramente uno degli amici più fidati di Oz.

Mio fratello, che per colpa mia soffrirà molto più di Ada.

Nostro padre, dopo la morte di nostra madre,

è divenuto schiavo della disperazione.

Temo che dopo la mia morte,

non sarà più in grado di vivere come prima, come ora.

Tutto ricadrà su mio fratello, eppure…

Egoisticamente, non riesco a far altro che sorridergli,

promettendogli che guarirò.

Io sono… una persona orribile.

 

«Finché vorrai, Oz.» lo sentì mormorare.

Fu certo di riuscire persino a cogliere una sfumatura impacciata, dovuta probabilmente al gesto appena compiuto.

Mosse appena il pollice, sfiorando con esso il dorso della mano con cui ancora teneva le dita intrecciate, come per dire che non era arrabbiato, che andava tutto bene.

«Mh…» mormorò in risposta, anche se una vera e propria non era.

Avvertì le proprie labbra incurvarsi in un sorriso, quasi indipendentemente dalla sua volontà, come se non si trattasse di qualcosa decisa da lui.

«Gil, ascolta…» riprese, la mano libera rimasta posata sul materasso fino a quel momento che salì a prendere un lembo della manica dell’altro fra le dita, quasi per richiamarne l’attenzione o, al contrario, per distogliere la propria da quanto stava per dirgli: «riguardo Jack, lo so che non mi stai usando.» assicurò.

«Lo so.» ripeté, volendo essere certo di essere sincero e che l’altro capisse.

Si sentì rivolgere di rimando le stesse parole da lui appena pronunciate, mentre – il Gilbert di una volta non avrebbe avuto tutto quel coraggio – il viso del moro rientrava nel suo campo visivo, lo sguardo fisso nel suo.

«Lo so. Ti conosco abbastanza da sapere che non… penseresti una cosa simile di qualcuno.» mormorò, un sorriso leggero e gentile sulle labbra.

Oz ne abbozzò uno a sua volta: «Di qualcuno forse. Di Gil no.» chiarì, per un attimo l’ombra del solito, sfacciato Oz.

Non si diede il tempo di ascoltare la replica di Gilbert, andando a poggiare la fronte contro la sua spalla.

Finché vorrai.

…Da allora, sembravano parole terribilmente facili da rendere false.

 

15 Marzo

 

Glen è morto.

Ed è come se lo avessi ucciso io.

 

Sentendo la presa sulla propria manica farsi più serrata, sul momento Gilbert si limitò a passare un braccio attorno alle spalle di Oz.

Ma fu proprio per quello che cogliere un sussulto leggero fu più facile.

E ancor più semplice fu avvertire la sensazione che qualcosa non andasse: «…Oz, va tutto bene?» soffiò, non avendo bisogno di alzare il tono.

Lo vide scuotere la testa, senza ricevere però una risposta a parole.

«Oz, ma cosa…?» iniziò, lasciando in sospeso il resto della domanda piuttosto intuibile, abbassando lo sguardo quanto sarebbe teoricamente bastato per guardare in viso Oz.

Ma il biondo rimaneva fermo, ad eccezione di un nuovo scuotere la testa, strusciandola appena contro la stoffa; Gilbert poté avvertire le spalle irrigidirsi e a quel punto non ebbe bisogno di chiedere.

 

Vide Oz andargli incontro, abbracciarlo senza una parola.

Non esitò a ricambiare l’abbraccio del dodicenne, sentendolo in breve irrigidirsi dopo aver sussultato – pur cercando di trattenersi, così gli sembrava.

«Padron Oz?» tentò, incerto.

«…Non sono più il tuo padrone, Gil.» lo sentì mormorare, ritrovandosi a sorridere, soffiando un “è vero” più a se stesso che non a lui.

«Che succede?» chiese, osservandolo ma vedendo niente più che la testa bionda appena scossa, cogliendo la fronte strusciare contro la propria spalla.

Poi, un singhiozzo non trattenuto e braccia minute che si stringevano alla vita.

«Gil… Jack non c’è più.» aveva mormorato.

 

Strinse appena l’abbraccio.

Dei ricordi che aveva, quello in cui Oz pianse per la prima volta incontrollatamente davanti a lui non sarebbe mai svanito, probabilmente.

 

 

Note dell’autrice

Questo capito mi ha uccisa, ok? Uccisa.

Non finiva più, maledizione. *il momento in cui un’autrice inizia ad  odiare la sua fanfic*

Comunque, passiamo alle segnalazioni, avvisi e ringraziamenti di sorta *srotola lista*

 

Disclaimer: la canzone in apertura è “What about now?” di Chris Daughtry (si ringrazia Litachan per il passaggio stile mercato nero dell’amv GilOz con questa canzone XD). Che vanta ben tre significati nel capitolo (tié XP), ossia: “come l’amore per la sorella avesse cambiato Sirjan e ora dopo la sua morte lo cambi di nuovo”, “come fra Gilbert e Oz sta succedendo qualcosa che avevano capito anche i muri ma loro due nisba” e “le parole che Glen e Jack non si sono mai detti”.

Sono brava con le citazioni, eh? *rotola*

 

Avvisi: avviso che il 16 di Rinnega ritarderà con la pubblicazione per due motivi principali. Primo, sono ancora in fase sessione estiva d’esami e scrivo quasi solo di notte o durante le pause XD Vedendo quanto sono lunghi i capitoli, sono certa capirete da voi :3

Secondo: a Luglio “Rinnega” compie un anno <3 Per cui ho pensato ad un capitolo speciale, che verrà steso prima del 16 e presentato come oneshot a se stante (essendo oltretutto comico-demenziale, sarebbe osceno metterlo dentro rinnega XD).

 

Ringraziamenti

 

Gioielle: io sapevo che ti avrebbe uccisa, ma che ti avrebbe addirittura fatta piangere non lo avrei detto, giuro °_° *momento di senso di colpa* in ogni caso sono contenta che, nonostante la devastazione, sia stato di tuo gradimento.

Ammetto poi che riguardo Sirjan, tu mi dai un riscontro che non potevo che adorare: ho cercato, in questo capitolo, di mostrare “l’altra metà” del cambiamento di Sirjan, e il fatto che così come si era in un certo senso irrigidito per proteggere la sorella, nel momento in cui Alyster è venuta a mancare quella rigidità non c’è più o è comunque minore.

Spero che la cosa te lo possa far apprezzare ugualmente <3

Quanto alla SirjanAedan, sapevo che l’avresti flashata e dunque leggerlo nella tua recensione non è stata una novità XD Credo di averti detto (tramite questo spazio o in separata sede) quale sia la controparte shonen-ai di Aedan ma ehi, chi sono io per impedirti di avere flash? XD

Infine, spero che la dose di GilOz sia stata apprezzata e per il figlio illegittimo dei Nightray, pazientate ancora un po’: non so quando, ma sarà tutto chiaro prima o poi XD

 

Makotochan: lo so, di averti devastata e so che in questo capitolo non avrò fatto di meglio molto probabilmente x°

Che dire? Fa sempre piacere vedere che il mio stile non annoia chi legge ma anzi – contrariamente a quello che purtroppo vedo io grazie alla mia pesante autocritica/auto devastazione XD – riesce a trasmettere quello di cui vorrei fare portavoce i personaggi.

Come accennato, la questione del figlio dei Nightray rimarrà aperta ancora per un po’, e temo che la chiacchierata con Sirjan che Oz si è fatto in questo capitolo abbia aperto qualche altra parentesi – e forse lo ha fatto anche il diario di Jack, o i pezzi qui riportati. Consolatevi tutti con una cosa: prima o poi finirò i misteri da introdurre e ci si avvierà solo alla loro scoperta e soluzione XD (il che, sappia telo, io per prima spero avvenga presto).

E avverrà per un motivo preciso: ossia, che io stessa sto iniziando a perdere il filo *fissa inquietata il quaderno pieno di appunti di Rinnega, malgrado il quale si perde comunque spesso qualcosa per strada*

 

Fiamma Drakon: ti ringrazio dei complimenti e di continuare a seguirmi <3

La parentesi dei gemelli è stata una sofferenza anche per me che ho scritto e, anche se avevo quasi messo in conto che dopo il 14 Alyster sarebbe “sparita” per forza di cose, scrivendo il 15 è stato davvero inevitabile mantenerla ancora lì, come una presenza non proprio effettiva ma che aleggia lì ugualmente.

Spero che per voi che leggete non sia stata troppo pesante, o indesiderata :3

 

Infine, un ringraziamento a chi so che ha problemi nel recensire, ma legge (o chi mi commenta in diretta XD): LitaChan, Yoko891 e Gweiddi at Ecate.

E naturalmente, a tutti quelli che leggono, e aggiungono la fanfiction fra preferiti, da ricordare e seguiti <3

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Capitolo 16
*** C'è una cosa che desidero mostrarti ***


C’è una cosa che desidero mostrarti

C’è una cosa che desidero mostrarti

 

Nice to meet you, my pain.

 

 

Nausea.

Un profondo senso di nausea, lo stomaco quasi contorto da essa.

Odore fetido.

Qualcosa di pesante, impastato nonostante sia liquido, che scivola fra le dita.

Sinuoso. Si appiccica e al tempo stesso ti dà quella sensazione di qualcosa che non riesci ad afferrare.

Sfuggente, un po’ come il vento.

Un po’ come la vita.

Rosso. C’è rosso ovunque.

Un profondo, inquietante ed intossicante rosso scuro che macchia il pavimento, allargandosi come una macchia di colore ad olio sulla tela candida.

L’inconsapevolezza di toccare qualcosa che non dovresti vedere.

Che non dovresti sfiorare. Non ancora.

Per te c’è tempo.

Un volto affascinante: pelle candida e perfetta, lineamenti nobili e virili, labbra perfette, naso perfetto; le palpebre nascondono gli occhi come in un gioco – chissà che espressione celano.

Abiti regali, scuri, eleganti.

In un cupo presagio di morte, forse.

Sembra dormire, le mani dalle dita affusolate mollemente a contatto con il pavimento di moquette scura, bordeaux – che tuttavia, va scurendosi, si impregna e puzza, puzza da morire.

Non proprio da morire.

Odora di morte.

Odora di morto.

Le dita della piccola mano si imporporano di sangue, non colpevoli; lo sguardo la inquadra, la nota.

Quella lama che trafigge il petto.

«Cosa…? Padrone! Padron Glen! Padron Glen!» urla atterrite di fronte ad un’immagine inattesa.

Alzi lo sguardo perché non capisci, allunghi una mano minuta macchiata di sangue non tuo.

Quella cameriera si avvicina, tasta il polso e spera chissà cosa, e quando inorridisce lascia andare la mano del padrone come se toccarla l’avesse bruciata.

La mano cade a terra inerme.

Il sangue schizza un po’.

Ne senti il calore e la pesantezza, quasi, sulla guancia e chissà perché solo in quel momento lo pensi.

C’è un uomo morto lì a terra.

C’è un uomo morto in una pozza di sangue, trafitto da una spada.

C’è un uomo morto, e tu sei macchiato di quel sangue che è ovunque, ti circonda, ti bagna le vesti, ti macchia il corpo.

Orrore.

Paura.

Terrore.

Qualcuno è morto… e tu sei lì.

Qualcuno entra, lo senti perché tanti passi si affrettano per il corridoio e si fermano d’improvviso in quella stanza; non alzi lo sguardo, incatenato alla figura di Glen Baskerville che giace senza vita.

Ma qualcuno nota te.

«Elliot, vieni via!»

 

 

«Allora vado.» pronunciò rivolto a Noah, occhieggiandolo.

L’amico, steso sul materasso, annuì dopo uno sbadiglio che aveva coperto all’ultimo minuto con la mano: «Va bene, io invece farò violenza al letto.» comunicò con fare scherzoso, al quale Oz sorrise divertito.

«Potevi dormire prima, avrei trovato il modo di passare il tempo, sai?» lo prese bonariamente in giro, meritandosi il lancio di un calzino – ormai non si stupiva del fatto che ne avesse sempre a portata di mano, considerando il caos umano che gli abiti di Noah rappresentavano lì nella stanza.

«Maledetto ingrato, e io che ti ho fatto compagnia fino all’ora della tua scappatella!» lo rimbeccò fingendosi profondamente offeso, tra l’altro senza risultare più credibile ormai.

Oz gli fece la linguaccia: «Sai che affare, vado a parlare con Break.» gli fece presente, ricordandogli che sì, visto cosa andava a fare avrebbe di gran lunga preferito rimanere a dormire lì, specie considerando che era mezzanotte e che non prevedeva una chiacchierata breve.

Noah alzò le spalle: «Io non ho ancora capito perché Break ti chiede di andare da lui a quest’ora. Ok, lo sappiamo che non è un docente normale, e lui non fa molto per nasconderlo tra l’altro, ma i colloqui si fanno o prima o dopo le lezioni.» osservò anche con una certa logica, tale almeno da far apparire quell’intervento abbastanza serio per essere di Noah.

Peccato l’aggiunta.

«…Mica ti svenderai per un voto in più a matematica?!» se ne uscì fingendo panico nel tono di voce.

Il calzino fu brutalmente lanciato indietro al suo proprietario, nel tentativo di prenderlo in un occhio volendo – con nessun risultato, purtroppo.

«Guarda che quando torno voglio dormire, non avere degli incubi!» rimbeccò Oz perché sì, sognarsi di sedurre Break sarebbe stato un trauma irreversibile.

«Comunque è perché non si tratta di argomenti scolastici suppongo.» aggiunse, anche se era superfluo perché ne aveva parlato a Noah.

Dopo quanto avvenuto con Gilbert – sì, beh, a parte il bacio ecco – e dopo aver parlato con Sirjan soprattutto, si era reso necessario parlare con Xerxes Break o Rufus Barma.

Dal momento che con Barma sembrava esserci ancora quella specie di accordo secondo il quale Oz sarebbe dovuto tornare da lui appena avesse avuto un’idea più precisa sul contenuto del diario di Jack che si riallacciasse alla morte di Glen Baskerville, aveva preferito puntare su Break.

Lo aveva fermato a fine lezione con la scusa di un chiarimento sulla stessa, e aveva quindi accennato al vero argomento della conversazione.

Era stato in quel momento che Break aveva assunto un’espressione piuttosto interessata, molto diversa da quella semplicemente scanzonata – o da faccia da schiaffi – e aveva detto che avrebbe preferito parlarne a quattr’occhi in un posto più consono. E gli aveva dato appuntamento per quella sera, ad un orario in cui era piuttosto ovvio che nessuno girasse per i corridoi.

Uscire senza farsi notare da Noah sarebbe stato impossibile, perciò Oz aveva trovato più sensato dirgli direttamente cosa andava a fare, anche se aveva accennato ad una chiacchierata su degli “affari di famiglia”, senza raccontargli tutti gli avvenimenti per filo e per segno.

Questo dopo aver osservato che se anche fosse uscito senza farsi beccare, Noah avrebbe potuto seriamente minacciarlo di fargli ingoiare gli ormai famigerati calzini se lo avesse scoperto al rientro o simili, magari alzandosi per andare al bagno durante la notte.

E a parte la minaccia di quegli indumenti, Oz aveva semplicemente pensato per una volta… di voler mentire il meno possibile. Almeno a Noah, almeno per questa volta, in un personalissimo modo di ringraziarlo riguardo quanto gli aveva detto per cercare di farlo reagire alla morte di Alyster.

«Ah Oz, a proposito» ne richiamò l’attenzione Noah, facendogli alzare lo sguardo in sua direzione: «per questo mio silenzio riguardo questo fugone notturno lo sai, vero, che vorrò un dettagliato resoconto degli ultimi avvenimenti con Gilbert Nightray?» gli fece notare con un sorriso furbo.

Oz, che non se lo era minimamente aspettato, si ritrovò ad arrossire prima di imporsi di non farlo e apparire naturale: «Con Gil? Che…?» tentò di dissimulare, ma Noah aveva un vantaggio.

Su certe cose aveva troppo intuito.

«Per favore, cosa credi che guardi io quando siamo a colazione?»

«…Marcus e il tuo piatto?» azzardò Oz, facendo ridacchiare l’altro.

«Anche sì, ammetto che l’accoppiata Marcus-bacon sono il mio primo pensiero la mattina in mensa, ma oltre a quello osservo te, caro mio. Te e Nightray e senti, parliamone. Mi aspetto da una mattina all’altra che tubiate come colombi. Perciò non rifilarmi un “non so di che parli”, perché non vuoi sapere cosa succede quando mi impegno per scoprire qualcosa che mi interessa.» consigliò tra il divertito, il divertito e il divertito.

E l’estremamente divertito, sì.

«Sento di avere un moto d’odio nei tuoi confronti, sai Noah?» osservò in maniera falsamente casuale, rivolgendogli un sorriso palesemente costruito. L’unica risposta del compagno fu agitare una mano come se stesse scacciando un insetto, quasi a dirgli “va bene, va bene, vai che ne riparliamo quando torni”.

Oz sospirò rassegnato, uscendo e richiudendosi la porta alle spalle.

Noah era una dannata pettegola, ecco cos’era.

 

Raggiunse la porta dell’alloggio di Break e tacque, senza bussare subito.

Personalmente avrebbe preferito l’ufficio del docente come luogo d’incontro, ma aveva dovuto dargli ragione quando l’altro aveva fatto notare che sarebbe apparso più sospetto un ufficio con le luci accese a quell’ora di notte che non un alloggio privato. Sospirò, bussando finalmente e ricevendo quasi subito un “avanti” in risposta.

Aprì la porta, entrando velocemente e richiudendosela alle spalle.

Break si era degnato di aspettarlo con abiti consoni e non in pigiama almeno, cosa che pensava potesse essere vista come un buon punto di partenza: non aveva le vesti dei docenti con cui il biondo era abituato a vederlo, ma qualcosa di inaspettatamente sobrio.

«Rimani sulla porta, Oz?» lo prese bonariamente in giro mentre prendeva posto su una poltroncina dall’aria piuttosto comoda, facendogli segno di imitarlo e indicandogli quella libera di fronte a lui. Sebbene Oz si fosse quasi convinto che andando a parlare con Break vi avrebbe trovato anche Rufus Barma, questo non era avvenuto almeno apparentemente.

Si sedette.

«Sirjan mi aveva accennato che probabilmente saresti venuto.» chiarì subito, senza troppi preamboli, sporgendosi verso il tavolino basso che c’era fra loro: esso ospitava un vassoio con due tazzine, una teiera con del tè e un piccolo bricco di latte. Accanto a quest’ultimo quella che era senza dubbio la zuccheriera. Vicino alla teiera, un piattino che conteneva una generosa porzione di biscotti.

«Prego, prego.» lo esortò Break con quel sorrisetto tipico che aveva anche a lezione, e che Oz dal loro ultimo colloquio aveva osservato spesso, giungendo ad una conclusione che in un primo momento non era stata altrettanto ovvia.

Il motivo per cui Break leggeva attraverso le sue bugie così facilmente, era che mentiva molto più di lui.

Break mentiva sempre.

«I biscotti sono tuoi, eh. Io mi limiterò alle caramelle.» aggiunse, portando un lecca lecca alle labbra, quasi ad enfatizzare le proprie parole.

«Allora» esordì quindi mentre Oz si stava versando del tè: «cos’è che vorresti chiedere?» disse, il tono che non appariva frettoloso. Come se avessero, anzi, tutto il tempo del mondo.

Oz tacque, quasi prendendo tempo: c’erano diverse cose che avrebbe voluto chiedere, anzi, così tante che non erano altro che una matassa ingarbugliata nella sua mente.

«Sirjan ha parlato di tante cose. Per esempio… di Glen Baskerville e mio fratello.» rivelò, portando gli occhi chiari sul docente: «Lei cosa sa?» domandò quindi.

«Più che ai Bezarius, all’epoca i Baskerville erano legati ai Nightray. Ho idea che tuo fratello fosse proprio un’eccezione. Il livello sociale della sua famiglia e di quella di Glen erano molto diversi, e furono davvero in pochi a non stupirsi di quell’amicizia, sai?» replicò Break. Aveva l’aria di qualcuno che raccontava una storia banale e noiosa.

Nonostante la cosa non lo entusiasmasse, Oz tacque: non sembrava una grande idea mettere fretta all’altro, soprattutto considerando che era lui a volere delle informazioni da Break, fino a prova contraria.

«Glen Baskerville ha studiato qui esattamente come tuo fratello, ed è qui che si sono conosciuti. Avvicinare Glen non era cosa da tutti: il signorino era selettivo a dir poco, o più semplicemente a suo avviso nessuno era alla sua altezza. Un ragazzino irritante, come te per certi versi Oz. Se la sua fosse arroganza o meno, nessuno lo sapeva dire con certezza. Baskerville non ti permetteva di conoscerlo tanto da scoprirlo. Però Jack divenne una sorta di eroe qui a scuola: “quello che parla con Glen”, lo chiamavano. È stato così per mesi.» dichiarò divertito, il parlare un po’ impastato dal lecca lecca tenuto in bocca durante tutto il discorso.

Oz parlò prima che l’altro riprendesse: «…conosceva Jack? A scuola intendo.» domandò perplesso e anche un po’ incredulo, suscitando un’espressione in Break che somigliava molto al sadico divertimento – sebbene mascherato da ingenuo interesse.

«Eravamo di anni diversi, ma lo avevo ben presente. Diciamo che scordarsi uno come Jack era difficile.» commentò con falsa casualità.

Benché l’istinto di chiedere a Break aneddoti dei tempi scolastici di Jack fosse estremamente forte – quasi quanto la pressante curiosità di cosa fosse capace di fare Xerxes Break studente considerando l’adulto che era ora – Oz si impose di non interromperlo per una cosa simile, concentrandosi sulle rivelazioni che aveva davvero bisogno di conoscere.

«Ha detto che i Baskerville erano legati ai Nightray?» domandò, rimuginando su quanto ascoltato fino a quel momento, nonostante Break l’avesse soltanto accennato.

Lo vide mordicchiare il lecca lecca, giochicchiandoci, e tacque in nervosa attesa.

Break sembrava intenzionato a parlare ai propri ritmi, incurante della fretta o della curiosità del suo allievo: «Sì, i Baskerville e i Nightray erano legati. O meglio, i due capofamiglia si conoscevano da anni e avevano qualche affare in comune. Non immaginare due famiglie che fanno crescere i propri figli insieme nello stesso giardino a giocare, però. Ad avere legami, peraltro di tipo strettamente amministrativo, erano solo il padre di Glen e quello dei nostri Nightray preferiti.» comunicò quasi ammiccante, ed Oz ebbe la pessima sensazione che ci fosse qualcosa che Break sapesse e che stesse insinuando.

Si disse che era paranoico, perché tutto ciò che era successo con Gilbert – cioè, “tutto”, non che fosse accaduto nulla più di quel bacio! – era avvenuto nella sua stanza e non c’era modo che Break lo potesse aver scoperto, o visto.

Sospirò, cercando di darsi una calmata, ricordando che il docente aveva fatto quel tipo di insinuazione già quando si erano incontrati per caso in città, accompagnati lui da Gilbert e l’altro da Rufus Barma.

«Dimmi, Oz» riprese il docente, allungando una mano a prendere la tazzina del tea per berne qualche sorso, distogliendo il più giovane da quelle congetture inutili: «hai letto il diario di Jack, o no?» domandò a bruciapelo, lo sguardo penetrante dell’unico occhio visibile puntato su Oz.

Quasi ad impedirgli di sfuggire alla domanda.

Oz non si era minimamente aspettato la cosa, anche se considerando il rapporto che sembrava esserci fra Xerxes e Rufus, avrebbe dovuto immaginare che il docente di Storia avesse detto qualcosa all’altro.

Strinse impercettibilmente i pugni: «Non tutto.» borbottò sulla difensiva, mentre Break continuava a bere tea totalmente a suo agio.

«E quali parti hai letto?» insistette, sebbene velatamente.

«Fino a quando Jack accennava alla morte di Glen Baskerville. Saltando alcune parti però.» chiarì. Aveva letto saltuariamente, quasi casualmente in realtà.

Forse perché ogni volta che aveva iniziato, andare avanti pagina dopo pagina – giorno dopo giorno, respiro dopo respiro di suo fratello – era stato troppo difficile e troppo doloroso.

Come se ogni parola scritta d’inchiostro fosse stata una goccia del sangue di Jack, ed ogni pagina un prezioso minuto della sua vita che veniva mangiata da una malattia.

«Allora ti sarai chiesto…» indugiò, una pausa voluta, lo sguardo che si posava su Oz serio. Senza la derisione che normalmente lo caratterizzava e facendolo risultare quasi… inquietante, a suo modo. Gelido, per certi versi: «“mio fratello era forse un assassino?”» recitò come se avesse raggiunto la battuta chiave del protagonista di quella favola che fiaba per bambini decisamente non era.

Oz alzò lo sguardo di scatto quasi, l’espressione basita e arrabbiata: «Jack non era affatto un assassino!» esclamò subito, senza la minima esitazione, eppure con un’evidente traccia di panico nel tono.

«Ovviamente.» replicò Break con calma quasi palpabile, snervante: «Persino io non potrei considerare Jack Bezarius un assassino se anche lo vedessi nell’atto di uccidere. Tuo fratello era così buono che non potevi fare a meno di pensare che sarebbe morto giovane. E non vuole essere un’ironia di dubbio gusto, la mia.» chiarì, atono.

Sembrava che d’improvviso, avesse non perso interesse in quello scambio di informazioni – anche se in realtà il docente era l’unico a darne per ora – ma che avesse perso quella vena di intrinseco divertimento nel dosarle quasi con crudeltà.

«Ma se non era un assassino» riprese con estrema tranquillità: «perché Jack Bezarius si considerava alla stregua dell’omicida del suo migliore amico?» ipotizzò, ma falsamente. Era più che evidente che avesse già la risposta: si capiva dal modo in cui aveva posto la domanda, e dal fatto che non stesse più guardando in direzione di Oz ma il proprio lecca lecca.

«Sai com’è morto Glen Baskerville?» domandò quindi, alzando pigramente lo sguardo sul suo allievo.

Oz non riuscì a nascondere nulla, non ci riusciva da quando aveva messo piede lì dentro, come se l’alloggio di Xerxes avesse chissà quale facoltà particolare o influenza precisa su di lui.

Perciò nemmeno in quel caso riuscì a fingere di non essere interessato – non che fosse nelle sue intenzioni – e soprattutto di non essere in qualche modo smosso dall’eventualità di addentrarsi in qualcosa che fino a quel momento aveva cercato di capire.

Esattamente come un tassello mancante; gli tornarono in mente le parole di Sirjan – Break cercherà di metterti alla prova, tu prendi da lui le informazioni che ti servono, ma per il resto stai lontano da ciò che riguarda Glen Baskerville e che non ti serve.

Ma era difficile: come poteva riconoscere cosa gli potesse servire e cosa invece fosse superfluo senza ascoltare tutto indistintamente?

E una volta che l’avrebbe ascoltato… non avrebbe certo potuto dimenticarla a proprio piacimento.

Scosse la testa in risposta alla domanda di Break, che a quel cenno sembrò ritrovare interesse e quel suo sorrisetto irritante che tornò ad incurvargli le labbra.

«Il professor Barma ha detto che si è suicidato.» rettificò Oz, chiedendosi l’attimo dopo che cosa ci fosse da ridacchiare, visto che Xerxes qualcosa sembrava averla trovata.

«Rufy è veramente privo di tatto, eh?» scherzò su, in maniera totalmente inopportuna vista la serietà del momento: «Posso dirti qualcosa di più, ma sarebbe un po’ noioso. Facciamo un gioco, ne Oz?» se ne uscì cogliendolo alla sprovvista nonostante gli avvertimenti del capo dormitorio.

Lo fissò quasi incredulo, sebbene riuscì a mascherarlo almeno sul momento.

«Facciamo una domanda a testa. Se tu non rispondi alla mia, io posso scegliere di non rispondere alla tua. Che ne dici?» propose, anche se era fin troppo evidente che non gli lasciava davvero scelta. Era un patto disonesto – perciò, a quanto pareva, era fatto apposta per uno come Break.

Almeno per come aveva avuto modo di inquadrarlo fino a quel momento.

«Cosa vuole sapere?» chiese quindi, un broncio involontario visibilissimo sul viso giovane.

Break sorrise, ma non di un sorriso genuino: «All’inizio ho pensato che il tuo interesse fosse dovuto da una sorta di senso di impotenza. Insomma, il fratello minore che indaga sulla morte del fratello maggiore. Però ho anche pensato che in fondo Jack è morto di malattia, e mi sono detto “non è un po’ strano che un semplice sedicenne indaghi sulla morte del fratello senza motivo, considerando che per quanto ne sa è stata naturale?”» ripeté la domanda come se stesse rimuginando per la prima volta su tutto quello ad alta voce, come se Oz non fosse lì.

«Chiederti chi ti ha insinuato il dubbio sarebbe sprecare una domanda, perché è qualcosa a cui posso arrivare da solo.» chiarì, guardandolo in maniera quasi subdola.

«Perciò dimmi, signor Bezarius» disse, tornando a quel “signor” come se la domanda fosse ufficiale solo ora: «perché ti interessa tanto tutta questa vicenda di Glen Baskerville?»  

Oz tacque, valutando quanto sinceramente dovesse rispondere; tuttavia, prima ancora di arrivare ad una decisione, si ritrovò già a parlare con completa franchezza. Non perché avesse deciso di cambiare atteggiamento, né tanto meno perché Break gli ispirasse completa fiducia – decisamente no.

Semplicemente… Break aveva qualcosa che lui, Oz, voleva.

E se questa era la prova a cui Sirjan aveva accennato, lui l’avrebbe superata ottenendo le risposte che voleva.

Dopotutto poteva anche avere senso: una verità per una verità.

Si fece strada sul viso del biondo il sorrisetto spesso e volentieri arrogante che non faticava ad irritarti, quello con cui quasi per abitudine aveva preso a rapportarsi al docente: «Forse perché da quando sono qui ho visto più stranezze che cose normali. Guardie del corpo che mi seguono, capi dormitorio che nascondono il passato scabroso delle famiglie dell’alta società, spiriti non completamente umani che mi attaccano senza un perché dicendomi di andarmene, ed altri umani che mi avvicinano al solo scopo di confondermi. Qui tutti sembrano sapere tutto di me, ma perché? Senza contare le persone reali, vive, che mi chiudono in un angolo minacciandomi e oltre tutto questo… cosa farebbe lei se Glen Baskerville la contattasse di persona, dicendole di non ficcare il naso?» chiese, ma era retorica la domanda.

Nonostante ciò, Oz vi diede risposta, il sorriso furbo e che ostentava anche più sicurezza di quanto non avrebbe dovuto: «Le viene esattamente voglia di ficcanasare.» concluse.

Break lo fissò, l’espressione persino buffa mentre osservava Oz; si sciolse quasi subito in una risatina divertita delle sue, proprio di quelle che le senti e ti chiedi che cosa ci sia da ridere esattamente.

«Risposta soddisfacente.» gli concesse, recuperando una caramella e scartandola con tutta calma: «Ora tocca a te fare la domanda.» gli ricordò, quasi a voler sottolineare che lui era uno che rispettava le regole di quel loro insensato gioco improvvisato.

Era conveniente, pensò Oz. Dopotutto, vincevano entrambi qualcosa.

«Voglio sapere di Glen.» ripeté, pur immaginando che chiedere fosse una mera formalità visto quanto fosse già chiaro l’argomento che gli interessava.

Break non indugiò oltre.

«Glen Baskerville fu trovato morto nella sua stanza.» iniziò: «A terra, in una pozza di sangue. Non fosse stato per quello e per la spada che lo trafiggeva, sarebbe sembrato placidamente addormentato. Un’immagine quasi poetica, ne?» osservò, ripensandoci riguardo la caramella e portando una mano a raggiungere uno dei biscotti, al solo scopo di rigirarselo tra le dita mentre continuava a parlare, senza mangiarlo.

«Si sarebbe potuto pensare ad un assassinio, se soltanto la spada non fosse stata proprio quella di Glen Baskerville. E se Jack Bezarius non lo avesse praticamente confermato.» concluse, addentando finalmente il biscotto.

Oz – era ormai più freddo che caldo, il tea nella sua tazzina – guardò il docente con l’espressione di chi è lì per dire qualcosa ma si sta trattenendo, forse per prendere tempo.

Tacevano entrambi ormai da diversi minuti, quando Oz pronunciò un «Cosa?» che fece alzare lo sguardo annoiato di Break, che gli lanciò un’occhiata interrogativa: «Cosa confermò mio fratello?» chiarì il biondo, rimanendo in attesa.

Per quella che gli parve l’ennesima volta, l’espressione di Break si trasfigurò: le labbra sottili si incurvarono in un sorriso che mescolava soddisfazione e senso di vittoria quasi.

Per che cosa, Oz non riuscì ad indovinarlo.

«Quando dissero a Jack della morte di Glen, tuo fratello fu enormemente addolorato, certo, ma non sembrò affatto sorpreso. O meglio: non era sorpreso. Perché Jack lo sapeva già, che Glen sarebbe morto. Fu una conferma così palese che dissipò anche il più piccolo dubbio possibile. Salvo che Glen Baskerville vedesse il futuro, cosa chiaramente impossibile, poteva esserci solo un modo di conoscere con precisione quando sarebbe morto al punto tale da non stupire con il suo decesso nemmeno il suo migliore amico. Quell’unico modo, era decidere di suicidarsi.» chiarì, alzandosi in piedi per aggirare il tavolino e farsi più vicino alla poltrona dove sedeva Oz.

Quando gli fu alle spalle, parlò nuovamente: «Sai chi trovò Glen Baskerville?» domandò, le mani poggiate allo schienale della poltrona.

Si chinò appena in avanti, il volto affiancato a quello di Oz, infantilmente.

«Chi…?» fece per chiedere il giovane, ma Break lo anticipò.

«Elliot Nightray.»

 

 

Sospirò rumorosamente, abbandonando definitivamente l’idea di concentrarsi sul libro che teneva aperto sulla scrivania. Se non altro perché dubitava che si sarebbe rivelato molto utile rileggere per la decima volta cosa aveva segnato l’anno del 1716, visto che non arrivava a fine frase senza perdersi di nuovo in pensieri suoi.

Si chinò in avanti, andando a poggiare la fronte sulla scrivania, fissando le proprie gambe alla ricerca di chissà cosa che potesse dargli un minimo di concentrazione o di voglia di studiare.

Aveva passato da solo qualche ora la traumatica fase dell’imprecazione verso se stessi e la propria stupidità: era passato dall’argomentazione secondo cui era assolutamente fuori questione che un servitore baciasse il proprio padrone a quella per cui doveva essere del tutto impazzito – questo perché si era ricordato che, tecnicamente, non era più il servitore di Oz.

E alla fine, dopo quasi due ore che si era messo lì con il preciso intento di studiare Storia per il giorno successivo, era di nuovo fermo a guardare un punto a caso dei suoi pantaloni.

«La crisi del 1716 è così drammatica e difficile, fratellone?» domandò con tono divertito Vincent, una mano poggiata sulla scrivania. Gilbert gli rivolse un’occhiata di sbieco, sospirando nuovamente e imbronciandosi senza nemmeno rendersene conto, un po’ come quando erano bambini – ma questo il moro non lo ricordava probabilmente.

«Ah, quindi c’è stata una crisi? Perché nella riga che sto rileggendo da due ore ancora non lo accenna.» borbottò come se fosse colpa del libro.

Persino uno come Vincent non poté non stupirsi di quella risposta: Gilbert era sempre stato riflessivo, e su quello non c’erano dubbi, ma era pur vero che suo fratello trovava una soluzione più o meno a tutto. Vi pensava molto, forse anche troppo per lo standard di Vincent, ma mai al punto da ridursi a quel modo: soprattutto, suo fratello una volta messo sui libri era una specie di mostro.

Non lo distraeva mai nulla.

«Come rileggi la stessa riga da due ore?» gli fece infatti eco il biondo, lo sguardo su di lui.

Fu chiaro che la situazione era piuttosto grave quando in risposta ci fu il rumore sordo della fronte di Gilbert contro la scrivania – un colpetto leggero, più significativo per il gesto in sé che non per la sua entità.

«Gil?» tentò nuovamente Vincent, sempre più perplesso.

Gilbert alzò finalmente la testa, chiudendo il libro e arrendendosi definitivamente, per poi incrociare le braccia sulla scrivania e posarvi il mento; a Vincent ricordò un episodio di quando erano bambini, anche se non lo disse.

Era successo quando erano da poco entrati ufficialmente a far parte della famiglia Nightray.

Rientrando nella stanza che in quel periodo condividevano – si era categoricamente rifiutato di dormire da solo e soprattutto lontano da Gil – aveva trovato il fratello proprio come in quel momento lì, a distanza di anni: chinato sulla scrivania, sospirante e con il broncio. O forse sarebbe stato più appropriato dire che aveva l’espressione corrucciata di chi continua a ripensare allo stesso problema senza riuscire a trovarvi una soluzione adeguata.

«Fratellone, che è successo?» aveva chiesto a Gilbert quella volta, osservandolo preoccupato, perché non lo aveva mai visto così e soprattutto non riusciva a capire cosa gli passasse per la testa.

«Ho litigato con Elliot.» aveva borbottato, senza spostare lo sguardo sul biondo, ma anzi evitando quello indagatore del minore affondando la faccia fra le braccia.

«Non capisco perché, ma sembra odiarmi davvero.» aveva mormorato afflitto, e Vincent gli aveva posato una mano fra i capelli rivolgendosi a lui con un sorriso gentile, anche se il moro da quella posizione non lo aveva visto. Ma, poiché si trattava di Gilbert, di certo lo aveva comunque percepito dal tono con cui Vincent aveva parlato.

«Non è colpa tua, fratellone. Tu sei gentile con Elliot. Alla fine gli piacerai, sono sicuro.» aveva detto.

Poi era andato a parlare con Elliot e il più piccolo, in un modo o nell’altro, si era calmato quanto bastava perché quell’espressione sul viso di Gilbert si ripetesse rarissime volte – con soddisfazione di Vincent: la chiacchierata con Elliot, allora, era evidentemente servita al suo scopo.

Ebbene, in quel momento Gilbert sembrava tornato il ragazzino che non sapeva come avvicinare il suo nuovo fratello minore.

«Vince?» si sentì chiamare, riscuotendosi da quel pensiero, riportando prontamente lo sguardo e l’attenzione sul moro, con un sorriso dei suoi: «Dimmi Gil.»

«Stavo pensando» disse Gilbert quando fu certo di avere l’attenzione del fratello: «tu… non trovi che sia un po’ strano?» esordì, l’aria quasi colpevole, come se temesse le proprie stesse parole, e stesse ancora ponderando se fosse davvero il caso di pronunciarle o meno.

Vincent attese pazientemente, fin troppo abituato ad ogni sfaccettatura del carattere del maggiore; Gilbert era così: rimuginava, rimuginava, si colpevolizzava, ma alla fine parlava sempre. Se lo concedeva solo con lui, e Vincent lo sapeva bene.

Per questo non temeva mai che il moro potesse nascondergli qualcosa – magari ci  provava, certo, ma non ci riusciva mai molto a lungo.

«Cosa?» domandò quindi.

«Che non ricordiamo quasi niente fino a poco prima dell’entrata a Latowidge.» replicò, portando esitante gli occhi dorati sul fratello.

Vincent, con un sorriso bonario, sospirò: non era la prima volta che a Gilbert prendevano quelle mezze crisi d’identità sul perché non ricordassero delle cose, sul perché avessero quell’amnesia.

Su quello, era vero, non era stato sincero con Gil: non gli aveva detto che ad avere l’amnesia era solo lui, non gli aveva mai detto che i propri ricordi erano pressoché intatti. Ma aveva un buon motivo per farlo.

Suo fratello era già… stato male una volta.

Non occorreva affatto che succedesse di nuovo.

«Forse è un po’ strano, ma non mi sembra così grave. Alla fine, crescendo ci si dimentica comunque di episodi di quando si era bambini. A noi è solo successo prima. Per i nostri veri genitori, se avessero voluto ci avrebbero trovati facilmente, da quando siamo parte di una delle famiglie ducali più famose Gil. E per il resto, se ci fosse stato qualcosa di veramente importante, trauma o non trauma, penso che l’amnesia avrebbe risparmiato quei ricordi, no? Insomma, io di te mi ricordavo, dopotutto. Un legame come quello fraterno non si dimentica facilmente, o comunque noi siamo stati fortunati. Se ci fosse stato qualcun altro così importante, non credi che ce ne saremmo ricordati?» spiegò fluidamente, come se fosse stato un pensiero articolato così tante volte da renderlo ormai proprio.

Gilbert sospirò: ammirava il fatto che Vincent fosse così certo della cosa. Lui, invece, si ritrovava costantemente pieno di dubbi.

Ad esempio, perché ricordava Oz ma non il periodo a casa Bezarius?

Gli unici ricordi degni di tale nome in proposito erano sostanzialmente tre: quello riaffiorato al concerto a Latowidge – che più che un vero e proprio frammento di passato Gilbert avrebbe piuttosto definito “vago flash”, il ricordo da poco affiorato di un Oz più giovane che gli diceva della morte di Jack e infine il ricordo molto vago di un sorriso gentile e di una mano che gli scompigliava i capelli, che supponeva appartenessero entrambi allo stesso Jack.

Ma per il resto, non sapeva nemmeno distinguere se si trattasse di veri e propri ricordi, o di nozioni acquisite col tempo: Ada, per esempio, o Oscar Bezarius, o lo stesso Zai.

Li ricordava a prescindere, o il fatto di averli incontrati poi in società aveva risvegliato in lui la sensazione di conoscerli?

Non lo sapeva, e quell’incertezza lo stava facendo impazzire.

Jack avrebbe dovuto essere importante. Il tempo con Oz avrebbe dovuto esserlo.

Eppure perché… non ne aveva praticamente memoria?

«Ultimamente ho ricordato una cosa.» se ne uscì dopo diversi minuti di silenzio, facendo trasalire Vincent. Non per le parole inaspettate, quanto per il chiaro significato dietro di esse che il biondo vi leggeva: Gilbert stava iniziando a ricordare, il che significava che qualcuno o qualcosa stava facilitandogli il compito.

«Credo sia un ricordo di quando non ero già più a casa Bezarius. Mi chiedevo… so della morte di Jack, ma non riesco a ricordare il momento in cui l’ho saputo. Ho solo delle immagini vaghe di Jack al letto, di un Jack sorridente, quindi… quindi ho visto Jack stare male. Ma allora perché non ricordo con precisione? Se sono cose così importanti, perché lo sono e perché Jack è stato importante per noi, perché solo delle immagini? Perché non ricordi interi, precisi?» ragionò ad alta voce, mentre Vincent in silenzio cercava di comprendere quanto fossero supposizioni del fratello e quanto, davvero, fosse riemerso dalla sua amnesia.

«Gil, cos’hai ricordato che ti ha smosso così?» chiese, premuroso, il sorriso più leggero ma presente.

«Quando Oz… è venuto a dirmi che Jack era morto.» mormorò: «Forse è perché eravamo in una situazione simile a quella, e mi è tornato in mente, non lo so.» aggiunse, un rossore leggero che gli imporporò le guance ma che – a giudicare dalla mancanza di reazione di Vincent – non fu troppo evidente probabilmente.

L’espressione del biondo si era fatta più seria, quasi fredda, forse approfittando del fatto che in quel momento Gilbert non lo stesse guardando.

Ma presto la sostituì con l’ennesimo incurvarsi di labbra, di quelli che si sarebbero potuti definire enigmatici: «Era questo che intendevo, Gil.» se ne uscì in risposta, non molto chiaro. Ma non tardò a spiegarsi: «La vicinanza di Oz Bezarius ti sta creando problemi e nient’altro. Da quando lo abbiamo incontrato al rientro a Latowidge, hai più spesso il mal di testa, sei confuso, e hai queste immagini che ti vorticano in mente e ti fanno stare male.» commentò, Gilbert che alzava lo sguardo su di lui dapprima sorpreso, poi perplesso.

«Forse dovresti allontanarti un po’?» buttò lì, con tono casuale.

 

La sentì ridere, ma non somigliava affatto alla risata gentile di una ragazza per bene.

Era sguaiata, maligna; di chi ha tutte le intenzioni di farti del male, e nel momento in cui ha la consapevolezza di esserci riuscito, ne gode internamente e completamente.

«Non dirmelo, non lo sapevi?» lo canzonò, sibillina.

«Proprio tu, che vuoi così bene a Jack non lo sapevi? Oh, forse non te lo hanno detto perché non sei stato un bravo bambino, Gilbert.» proseguì, lo sguardo su di lui.

Gilbert strinse i pugni, le mani che tremavano.

«O forse» riprese: «perché conosci il suo assassino, Gilbert. Lo sai per colpa di chi è morto Jack?» insinuò, crudele.

«Smettila! Jack era malato, era soltanto malato, non è colpa di nessuno!» le gridò contro Vincent, al proprio fianco.

Gilbert continuava a tremare, e a guardarla.

E riusciva solo ad odiarla ogni volta che parlava.

Anche ora che rideva, di una risata acuta e penetrante – di nuovo: «Questa è la verità che hanno detto a Gilbert?» chiese, retorica, osservandolo. Ma l’espressione mutò dal sadico divertimento alla freddezza, all’odio.

«Ti proteggono, ti proteggono, non fanno altro che proteggerti. Ti trattano bene, perché sei il figlio dei Nightray, ora. Ti odio, ti odio, ti odio, ti odio. È tutta colpa tua, se Jack è morto, è solo colpa tua! Se fossi andato più spesso a trovarlo, se ti fossi preso più cura di lui, Jack sarebbe guarito. È colpa tua! Sei un assassino, un assassino, UN ASSASSINO!»

«SMETTILA!»

 

«G-Gil…!» sentì pronunciare e inorridì quando vide la propria mano stretta attorno al collo del fratello, che teneva le proprie sul polso del maggiore nel tentativo di allentare la presa. La sciolse immediatamente, allontanandosi di qualche passo da Vincent, spaventato dal proprio stesso gesto.

Lo osservò tossire, gli occhi sgranati mentre il fratello minore riprendeva fiato, il volto appena arrossato dalla sua presa di poco prima.

«Io… io…» borbottò, completamente nel panico, le immagini di quel ricordo che non sapeva collocare ancora lì, nitide nella sua mente e spaventose.

«Gil, sta tranquillo, va tutto bene…» mormorò Vincent, facendo per avvicinarsi, una mano appena protesa in avanti verso il fratello. Gilbert la colpì istintivamente prima ancora di rendersi conto del proprio stesso gesto, allontanandola da sé.

A quel punto, non era chiaro se l’espressione più spaventata fosse la sua o quella di Vincent; di certo quella del biondo fu quella che tornò prima ad uno stato vicino alla calma, o ad un tentativo di somigliarvi.

«Gil… cos’hai visto?» chiese così a bruciapelo che se soltanto Gilbert non fosse stato tanto sconvolto, avrebbe trovato piuttosto sospetta tutta quella certezza nel porgli quella domanda.

Era chiaro che Vincent fosse praticamente sicuro che il fratello avesse visto qualcosa, come se si fosse sempre aspettato che prima o poi qualche ricordo sarebbe tornato a galla, e che fosse solo questione di tempo.

Gilbert tacque, rifiutandosi di rispondere, scuotendo la testa – e Vincent capì che stava succedendo di nuovo, mentre l’immagine di un Gilbert più piccolo si sovrapponeva a quella del fratello.

Il Gilbert del suo ricordo si portava le mani a sorreggere la testa, chiudeva gli occhi e rannicchiato in un angolo continuava a ripetere “non è vero”.

Il Gilbert di ora… quanto sarebbe durato prima di precipitare nuovamente in un principio di follia che lo aveva già fatto sprofondare anni prima?

Vincent lo abbracciò, stringendolo possessivamente: «Andrà tutto bene.» mormorò vicino al suo orecchio.

«Va già tutto bene Gil. È stato solo un momento, ora ti passa. Non pensarci più.» continuò, il tono basso e conciliante – non avrebbe permesso che succedesse di nuovo, a costo di fare in modo che Oz Bezarius si allontanasse da quella scuola, anche con mezzi meschini.

Gilbert tacque, le parole del fratello udibili, ma che non lo raggiungevano del tutto.

Nella sua mente si ripeteva, sovrapponendosi continuamente, la stessa frase.

Quella di quel ricordo, era davvero Alice?

 

 

Fece capolino con la testa da dietro l’angolo dove stava nascosta, controllando che non ci fosse nessuno nel corridoio in cui si stava immettendo.

Accertatasi che fosse completamente deserto, si mosse in avanti, rivelando la figura nella sua interezza: aveva indossato degli abiti che di femminile avevano poco, optando per quelli piuttosto che per il pigiama. Erano vestiti semplici, quasi smessi e che poco si adattavano all’ambiente di una scuola come Latowidge; la maglia, inoltre, era evidentemente più grande della sua taglia.

Alice di solito non girava in piena notte per la scuola, non tanto per il rispetto delle regole, quanto per due motivi precisi: innanzitutto, aveva delle abitudini di vita a loro modo sane, e che ricordavano un po’ quelle di un bambino. Mangiava alle ore dei pasti e dormiva durante la notte – cosa che ogni persona normale avrebbe dovuto effettivamente fare.

Secondo, ma non meno importante, quando aveva saputo che poteva succedere che o i capo dormitorio o i professori facessero delle ronde per controllare, un fatto era stato chiaro per lei: un conto sarebbe stato incrociare Sirjan Kolstoj – doveva ammettere che una cosa di ciò che dicevano le oche nella sua classe era vera, e cioè che Kolstoj era innegabilmente di bell’aspetto.

Un conto sarebbe stato incrociare il docente di Matematica e no, incontrare nel pieno della notte Xerxes Break era tutto tranne che un suo sogno proibito.

Anzi, era certa che sarebbe somigliato molto più ad un incubo – incubo che come minimo l’avrebbe perseguitata per almeno una settimana, altroché.

Il motivo per cui, quindi, aveva interrotto la sua sana routine di nove ore di sonno filate, era stata quasi banale: la sera precedente aveva visto Oz sgattaiolare verso l’edificio scolastico ad un’ora improponibile, in cui lei era sveglia per puro caso. E ricollegarlo al discorso che tempo addietro le aveva fatto Noah, riguardo la sua preoccupazione per le piccole fughe notturne del biondo, aveva completamente acceso la sua curiosità.

Perciò, anche se non era proprio certa che avrebbe trovato Oz in giro a quell’ora quella sera, era riuscita ad uscire senza essere beccata e a dirigersi lì.

Quando però era stato chiaro che del biondo non c’era nemmeno l’ombra… le era venuto istintivo dirigersi in quel corridoio. Quello dove aveva incrociato quella ragazza identica a lei, forse nella speranza di vederla nuovamente per chiederle chi diamine fosse – non era affatto soddisfatta della risposta che aveva ottenuto l’ultima volta, ed era stata troppo sorpresa per contestarla.

Sbuffò, notando che non sembrava davvero esserci nessuno, né compagni o professori, né quella tizia.

«Dannazione.» borbottò sommessamente, lanciando un’ultima occhiata indagatrice, senza volersi arrendere nemmeno all’evidenza.

E lo vide: un guizzo strano, poco più avanti.

Si mosse praticamente subito, quasi correndo, non più attenta a cose come non fare rumore o al non farsi vedere; quando però voltò l’angolo, chiunque fosse era sparito. O così parve; dovette ricredersi quando sentì una risata leggera, cristallina.

«Di nuovo alle spalle, maledet—» sbottò voltandosi di scatto, ma zittendosi quando i suoi occhi registrarono la figura che la guardava divertita.

Fu immediatamente chiaro che non si trattava della stessa persona, ma allo stesso tempo Alice fu certa che fossero due entità molto simili: non sentiva odori particolari, avevano entrambe una figura quasi eterea e davano la sensazione di qualcosa che non potesse essere toccato.

Tuttavia, le loro immagini erano profondamente diverse: la ragazza che ora stava davanti a lei aveva i capelli lunghi e scuri, lisci e gli occhi chiari, azzurri. Il vestito che indossava era palesemente estivo, e quello di una ragazza molto semplice, non appartenente all’alta società o comunque di un rango piuttosto inferiore rispetto a quello medio lì all’istituto.

La pelle era diafana e senza imperfezioni, i lineamenti delicati che ad Alice ricordarono un poco Alyster Kolstoj: si chiese, per un attimo, se quella delicatezza fosse della stessa natura della compagna più grande da poco scomparsa.

Poi, notò, il sorriso le incurvava le labbra e la risata cristallina di poco prima si ripeté nuovamente; Alice si imbronciò: «Che cavolo hai da ridere?» rimbrottò, osservandola con le braccia incrociate al petto.

La vide portare una mano a coprire le labbra, per poi girarle intorno – Alice non amava particolarmente quando qualcuno lo faceva – compiendo un intero giro.

Dopo di esso, si allontanò da lei, ma sembrava quasi invitarla a seguirla: invito che non si fece rivolgere una seconda volta. Era anche una questione di orgoglio, visto che quella lì continuava a ridere.

Tuttavia non andarono lontano: non avevano percorso neanche metà corridoio, che l’avanzata come la risata si interruppero bruscamente, lo sguardo della ragazza che guardava oltre Alice.

La castana allungò una mano nell’esatto momento in cui quella sconosciuta spariva; perplessa, sobbalzò quando avvertì una voce alle proprie spalle.

«Ti prego di scusarmi, è andata via per causa mia, temo.» sentì pronunciare, voltandosi nell’immediato.

Sentì mancare un battito, distintamente, in un punto del petto preciso.

Davanti a lei stava un ragazzo la cui figura era sbiadita nella propria mente, ma di cui era sicura di sapere qualcosa. Poi, lo ricordò: era la figura che anche Oz gli riportava alla mente, quella su cui per tutto quel tempo aveva indagato.

«…Jack?» soffiò pianissimo, osservandolo quasi con timore.

L’altro non si era probabilmente aspettato che l’altra conoscesse il suo nome e quindi la sua identità, perché assunse un’aria sorpresa che sciolse quasi subito in un sorriso gentile, annuendo.

Allungò una mano verso di lei, prendendo la sua ed effettuando un perfetto baciamano da gentiluomo: «Non pensavo conoscessi il mio nome, Alice.» osservò.

«Non pensavo che quelli come te potessero toccarmi.» fece lei di rimando, sulla difensiva; bastò a Jack per capire che il motivo per cui Alice conosceva il suo nome fosse diverso da quello che lui aveva appena ipotizzato.

«Dipende da spirito a spirito.» spiegò semplicemente: «Alcuni di noi, come la ragazza di prima, non riescono.» aggiunse.

Alice, sebbene senza avvicinarsi né ritrarsi, come se lo stesse ancora studiando e valutando, annuì leggermente: «E da cosa dipende?» indagò. Jack si limitò a sorridere, senza sentirsi offeso da quella domanda: «Da molte cose. Di solito anche da quanto e quante persone pensano a noi, o pregano, ma dipende molto anche dai sentimenti che abbiamo. Se sono forti, oltre a tenerci in questo luogo ci permettono contatti leggeri. Naturalmente, ci sono cose che non possiamo fare come se fossimo vivi.» chiarì, pronunciando quel “vivi” con estrema dolcezza, facendo sussultare Alice.

La castana scosse appena la testa, cercando di frenare il battito del cuore, innaturalmente velocizzato: non aveva corso, e non era nemmeno particolarmente spaventata, eppure qualcosa nella figura del fratello di Oz – perché di lui si trattava – le metteva addosso inquietudine e felicità al tempo stesso. A cosa fossero dovuti quei due sentimenti tanto diversi e la confusione che scatenavano mescolandosi, non avrebbe davvero saputo dirlo.

«Tu sei il fratello di Oz, vero?» domandò, retoricamente, tanto che non attese la risposta pur notando l’annuire dell’altro: «Quella ragazza…?» aggiunse invece, riferendosi a quella che era sparita poco prima.

«Sta per sparire, credo. Definitivamente.» replicò, ma non con la tristezza di chi sta per separarsi da qualcuno: «I sentimenti che la portano qui sono di natura diversa dai miei, o da quelli di altri come noi che sono in questo luogo. Lei è rimasta finora perché qualcuno pensava ininterrottamente a lei… e forse un pochino anche perché anche io volevo vederla.» ammise infine, osservando il punto in cui era scomparsa.

Alice cercò di sbirciare sul suo viso, alla ricerca di un qualche particolare che le rivelasse qualcosa in più, ma non lo trovò.

«La conosci allora.» osservò soltanto, basandosi su quanto detto da lui.

Jack sorrise appena più ampiamente, e annuì: «Eravamo compagni di scuola, qui. Io e Lacie.»

 

Perché lo avesse seguito, Alice non avrebbe saputo dirlo con precisione.

Sapeva soltanto che nel momento in cui Jack aveva proposto di spostarsi dal corridoio, le era venuto completamente naturale assecondarlo; era come se qualcosa, in un punto imprecisato del suo corpo, sapesse che era la cosa giusta da fare.

Se fossero ricordi stipati nella sua mente, se fosse il corpo che istintivamente si muoveva o se fosse il cuore che ancora batteva velocemente, Alice non lo capiva.

Ritrovarsi sola con lui però aveva in un certo senso risvegliato qualcosa che, con ogni probabilità, c’era ancora e per assurdo già da molto tempo prima: era un miscuglio senza una vera forma, fatto di dolcezza, di felicità e di nostalgia. Di completa fiducia, ma anche di timore.

Era qualcosa che, un po’ come tutte le cose che riguardavano il passato di cui non aveva memoria precisa, Alice non riusciva a spiegare con le parole, fossero queste pronunciate ad alta voce o solo nella propria mente.

Jack era una presenza particolare: era qualcuno che sentiva di dover ascoltare e che nascondeva qualcosa.

Avevano parlato di cose che Alice non aveva mai saputo, e di cui non si era mai interessata prima; degli spiriti, per esempio. Di Lacie, nello specifico, e di altri il cui nome era un mistero su cui non aveva indagato. Forse il biondo glieli avrebbe anche detti, se lei avesse chiesto, ma ad Alice non interessavano.

Era probabile che comunque li avrebbe dimenticati.

Lacie, secondo quanto spiegato da Jack con le parole semplici e gentili che si rivolgono ad un bambino, era una presenza “leggera”. Era qualcuno che si trovava in questo luogo senza sapere perché.

«Non sempre gli spiriti conservano il ricordo della propria vita. Alcuni dimenticano, specialmente chi non ha nulla che lo trattenga fra i vivi.» aveva spiegato: «Lacie non è qui perché ha qualcosa da fare. È probabile che stia finalmente per tornare nel luogo in cui dovrebbe stare.» aveva aggiunto.

«Parli dei rimpianti, e delle questioni in sospeso e quella roba lì?» aveva domandato Alice, guardandolo, basandosi solo su alcune cose che aveva letto – più racconti fantastici che non studi in proposito.

Jack aveva sorriso, una sfumatura genuinamente divertita: «Qualcosa del genere. Lacie più che dal rimpianto era animata dalla tristezza e dal dispiacere, credo. Ma con il tempo, lo ha dimenticato. L’oggetto di quei suoi sentimenti… ora non è più tra voi.» era stata la risposta, che a dire il vero Alice non aveva capito completamente.

Eppure Jack aveva catturato totalmente la sua attenzione, quasi come se le stesse raccontando una favola.

«Non ti dispiace che sparisca?» gli aveva chiesto, ingenuamente e senza alcuna malizia.

Lo sguardo di Jack si era fatto triste. Era stata la prima cosa che aveva notato, e che per la prima volta le aveva fatto rimpiangere di aver aperto bocca senza riflettere; se ne era stupita: lei aveva il vizio – perché difficilmente poteva considerarsi un pregio – di aprire bocca incurante di quanto le proprie parole potessero ferire, o essere comunque brusche.

Ma non le era mai capitato di pensare: “non avrei dovuto dirlo”. Con Jack era la prima volta.

«Mi dispiace perché sono egoista.» fu l’inizio della risposta che catturò nuovamente la sua attenzione: «So bene che essere bloccati qui non fa bene, a quelli come me e come Lacie. I sentimenti che ti inchiodano senza permetterti di fare un passo in avanti e lasciarti la vita alle spalle… non sono mai sentimenti positivi.» mormorò piano, come se fosse un segreto solo fra lui ed Alice.

Alice, osservandolo, si chiese se una persona così potesse davvero essere animata da sentimenti negativi.

«Tu… non mi sembri una persona cattiva.» diede subito voce a quel pensiero, il broncio leggero come se Jack avesse offeso in qualche modo lei. Lui la osservò, l’espressione un po’ sorpresa forse, ma le sorrise comunque.

«È un po’ difficile da spiegare.» ammise: «Quando parlo di sentimenti negativi intendo negativi per noi. La tristezza, il rimpianto, la solitudine. A volte anche la rabbia, purtroppo.» si spiegò meglio, ma non avrebbe potuto immaginare la domanda a bruciapelo che seguì quel chiarimento da parte sua.

«Per te il motivo è Oz?» chiese Alice, nello sguardo la sfumatura decisa e per certi versi autoritaria che era tipica di lei, come se per un attimo i ruoli si fossero invertiti, e il bambino a cui spiegare pazientemente le cose fosse stato Jack.

Lui ridacchiò piano, di una risata nervosa e imbarazzata: «Sono un fratello troppo protettivo, secondo te?» domandò di rimando, rispondendo quindi anche alla sua domanda e portando una mano dietro la nuca in un gesto impacciato che Alice riconobbe facilmente, perché tipico anche di Noah.

«Beh, hai tutte le ragioni di preoccuparti.» se ne uscì in quella che non era propriamente una premessa rassicurante: «Oz è uno stupido e un testardo. Attira i guai, e soprattutto le persone ambigue. Come Vincent, ad esempio. O anche quel pagliaccio feticista delle bambole e Anna dai capelli rossi.» proseguì infastidita – volendo soprassedere sulla risata spontanea che Jack cercò di trattenere agli epiteti rivolti a Break e Rufus.

«Quando ha bisogno di aiuto non lo chiede mai, e si pianta in faccia quel sorriso stupido che ormai non convince più nessuno. E lo fa come se credesse davvero che io e Noah non ce ne accorgiamo. E insomma, se ne accorge persino quello scemo di Gilbert, quindi ho detto tutto. Dice bugie a non finire, e io odio le bugie. E alla fine, quando poi le cose vanno male, sorride di nuovo anziché piangere!» sbottò arrabbiata, stringendosi le ginocchia al petto come se i poveri arti fossero in qualche modo colpevoli.

Poi, quando ormai chiunque si sarebbe aspettato una sequela di insulti a concludere il tutto, l’espressione della castana si addolcì appena: «Però… ultimamente è cambiato un po’. Non è tanto, e ancora sorride dicendo bugie effettivamente. Ma l’Oz che è arrivato qui all’inizio, quando ti sorrideva non comunicava nulla. Era solo un’espressione vuota come ce ne sono un sacco. Oz adesso… sorride davvero. È solo una volta ogni tanto, ma quando guardi la sua espressione, adesso riesci almeno a capire se sta bene o se sta male. Si sta impegnando, credo. Piano piano… sta migliorando.» mormorò, suscitando in Jack un sorriso dolce mentre gli occhi verdi erano fermi sulla sua figura.

«E poi ora tuo fratello è il mio servitore. Perciò, che faccia cose sbagliate o cose giuste, ci sono comunque anche io a proteggerlo. E anche Noah: è un po’ scemo, ma non è male. Poi un giorno se vuoi te lo presento.» aggiunse con aria saccente.

Aria che mutò in una sorpresa e quasi spaesata quando si sentì sfiorare le guancia e, voltandosi verso Jack, si rese conto che era proprio una mano del biondo a toccarla.

Il contatto non era né particolarmente caldo, né freddo: era tristemente come se non ci fosse, ma allo stesso tempo abbastanza palpabile per essere percepito. Leggero, come se Jack stesse sfiorando qualcosa di prezioso.

Le sorrise, grato e gentile; senza un motivo logico, Alice pensò che fosse l’unico modo in cui Jack Bezarius sapesse sorridere.

«Alice è diventata una ragazza buona e forte. Sono contento.» mormorò piano, con dolcezza.

La castana non seppe definire, stavolta, la sensazione che ebbe: seppe solo che Jack e Oz, per un momento soltanto, si erano sovrapposti nella sua mente e davanti ai suoi occhi. E che sentiva di voler piangere.

Ancor prima di rendersene conto, tuttavia, gli occhi si erano fatti pesanti a tal punto che tenerli aperti non era diventato più possibile.

Prima di chiuderli del tutto, sprofondando in un sonno improvviso e pesante, formulò un solo pensiero incoerente.

Il sorriso di Jack – e di Oz? – non era vero che poteva essere solo dolce e gentile.

Il sorriso che gli si addiceva di più era… quello triste che riusciva ad intravedere in quel momento, come un’ombra sfocata.

Jack la osservò, l’espressione dispiaciuta: «Scusami Alice.» sussurrò.

«Pensavo che le avresti raccontato la verità.» lo interruppe una voce pacata, impersonale. Non doveva davvero alzare lo sguardo per capire di chi si trattasse, ma lo fece ugualmente trovando facilmente conferma nella figura che inquadrò, e che si stava avvicinando con passo lento.

«E io pensavo che mi avresti fermato molto prima, Sirjan.» replicò con gentilezza, con il tono di un fratello maggiore; dopotutto, il legame con i gemelli era stato di poco differente.

Sirjan gli rivolse un sorrisetto divertito: «Non stavi dicendo nulla che sia mia competenza nascondere. Che vuoi farci, mi sto rammollendo Jack.» osservò falsamente casuale. Il biondo vi lesse diverse cose, nel tono e nella frase, ma non domandò nulla.

Sarebbe stato superfluo chiedergli come stava.

«Credo ti si addica di più. Quando si ha un’indole gentile, essere severi è molto più difficile.» commentò, con un sorriso complice.

Sirjan si chinò in avanti, prendendo Alice fra le braccia, ma rimanendo in un primo momento inginocchiato alla stessa altezza di Jack, che era seduto: «Ti sta bene che Oz scopra da solo la verità? Ti sta bene anche che Alice non si ricordi di te?» domandò a bruciapelo, lo sguardo significativo e puntato negli occhi verdi del più grande.

Jack sospirò piano, lentamente.

«Che sono un codardo, ce lo insegna anche la storia. Alice è… diventata più forte. Nei miei ricordi è una bambina estremamente fragile, da difendere quasi da ogni cosa che la circondava. Credo che sia così anche perché non ha ricordi. In questo, lei e Gilbert sono simili ma diversi. Lui si colpevolizza perché non ricorda, e non avere memoria lo paralizza a volte. Alice invece riesce a guardare avanti, anziché indietro. Ed è… un dono, secondo me. Io che sono qui per il passato, so quanto sia importante riuscire a non essere completamente inglobati da esso.» parlò piano, udibile per Sirjan nel silenzio che li circondava.

Il ragazzo tacque, osservandolo.

Non ripeté la domanda per sollecitare una sua risposta riguardo ad Oz.

«Mio fratello… se lo incontrassi, probabilmente starebbe molto, molto più male di come starà quando avrà scoperto la verità. Per una volta, Sirjan, una sola… vorrei non essere egoista. Lo sono stato nei confronti di mio padre, e di Oz. Ho preteso che il primo mi capisse pur sapendo com’era fatto, e ho caricato le spalle del mio fratellino delle aspettative perdute di mio padre, del dolore di Ada e di quello che ero. Sono stato egoista nei confronti di Glen, e ora lo sono persino con Lacie, aspettandomi un perdono che lei non è nemmeno cosciente di dover dare. Per questa volta, nonostante parlargli è una cosa che desidererei fare… vorrei cercare di agire per il suo bene, non per il mio.» concluse, lo sguardo sul viso di Alice che – Sirjan ne era certo – non vedeva davvero la ragazza.

 

 

Come si fosse arrivati ad una cosa del genere, Oz non se ne capacitava.

Nemmeno ora, mentre erano nel pieno di un vero e proprio litigio – per altro, nell’atrio dell’edificio scolastico, dove di certo non dovevi discutere se non volevi che almeno mezza scuola sapesse i fatti tuoi.

Lui e Ada non litigavano mai.

Un po’ perché erano sempre stati molto legati e perché andavano d’accordo fin da piccoli, un po’ perché lei per lui era stata sempre come una figura materna oltre che quella di una sorella maggiore.

Ada aveva un carattere così mite, almeno quando erano insieme e per la maggior parte del resto del tempo, che era piuttosto difficile discutere aspramente con lei. E Oz non si era certo mai impegnato in tal senso.

Ada era stata… una fiaba raccontata per far addormentare un bambino spaventato da un incubo; si era presa cura di lui, lo aveva affiancato ripetendogli che sarebbe andato tutto bene. Specialmente dopo la morte di Jack.

Già, suo fratello.

Il motivo per cui ora stavano alzando la voce per la prima volta l’uno contro l’altra.

Oz a dire il vero non avrebbe mai voluto dirle di essere entrato in possesso del diario di Jack, né delle cose in cui si stava immischiando guidato da esso. Le aveva chiesto durante la colazione se sapeva dove fosse Elliot, nel momento in cui non aveva notato il minore dei Nightray – in verità non c’era ancora nessuno dei tre – in mensa.

Gli era parsa una domanda come tante altre, che non suscitasse chissà quale dubbio; ma evidentemente, per Ada c’era stato qualcosa, perché lo aveva guardato come se Oz le avesse appena chiesto di dirle dov’era il loro peggior nemico.

«…Come mai vuoi parlare con Elliot?» era stata la domanda che aveva sostituito la semplice risposta con una locazione che Oz si era aspettato. L’aveva guardata stupito, e forse quello l’aveva tradito.

O magari, ad averlo smascherato era stata la propria risposta: «Devo chiedergli una cosa che riguarda il periodo in cui Jack c’era ancora.»

Ammetteva che non fosse certo la cosa più intelligente da dire, ma era pur vero che potevano essere milioni di cose quelle che voleva chiedere: poteva riguardare Gilbert, ad esempio, o poteva riguardare lo stesso Elliot. E dal momento che erano di anni diversi, sarebbe suonato strano usare la scusa dello studio, persino del pianoforte – considerando che non aveva fatto chissà quali progressi, insomma.

Ada, se possibile, l’aveva guardato persino più preoccupata di quando gli aveva posto la domanda: «Lascia stare.» gli aveva detto, lasciandolo in parte perplesso e in parte… irritandolo.

Ora non era nemmeno libero di chiedere di suo fratello? Ora anche Ada si comportava come se Jack fosse un passato troppo lontano per essere ancora rivangato o ricordato?

Non avrebbe saputo dire cosa fosse meglio: se quello, o suo padre che si era convinto della non esistenza di un figlio minore perché in lui era convinto di avere in realtà di nuovo il suo amato primogenito vivo.

Il risultato, comunque, era lo stesso.

Nonostante fossero coscienti di stare praticamente dando spettacolo – non che urlassero così forte, ma due fratelli che discutevano animatamente nell’atrio, sebbene con toni ancora controllati, attiravano l’attenzione comunque.

Non si accorse nemmeno dei Nightray che arrivavano in quel momento, probabilmente diretti alla mensa per fare colazione, né di Gilbert che nello specifico aveva avvicinato Noah ed Alice, imitato poi dai fratelli.

«Che sta succedendo?» aveva chiesto perplesso a Noah, che sembrava combattuto fra l’intervenire e il non immischiarsi in quello che ormai era decisamente un affare di famiglia.

«Ti giuro Gilbert, non ci ho capito nulla nemmeno io. Stavamo mangiando tutti insieme, Oz ha chiesto di Elliot ad Ada, e quando le ha detto che lo cercava per chiedergli una cosa di quando il fratello era vivo hanno iniziato a discutere.» riassunse brevemente, lo sguardo che continuava ad alternarsi fra i due fratelli poco distante e il suo interlocutore.

Gilbert parve spaesato e cercò lo sguardo di Elliot, che non sembrava meno perplesso di lui: «Cosa deve chiederti?» chiese confuso, ottenendo in risposta un’occhiata altrettanto dubbiosa.

«Non ne ho la più pallida idea, non ne so niente.» disse sincero il minore, ma se Gilbert avesse voluto replicare, lo scambio tra Ada e Oz glielo impedì totalmente.

«Insomma, qual è il problema?! Non sai nemmeno cosa gli devo chiedere!» obiettò Oz, testardo, fissandola.

Ada sembrava spaventata. Se dal fratello che non aveva mai litigato con lei così bruscamente, o se dall’idea che sapesse qualcosa di cui lei era già a conoscenza, Oz non poteva dirlo.

«Dico soltanto… che non è necessario! Neanche Jack avrebbe—»

«IO NON SONO JACK!» fu l’esclamazione che fece tacere non solo Ada, ma che zittì anche il leggero brusio che aveva iniziato a diffondersi nell’atrio.

Gilbert non riusciva a staccare gli occhi da Oz.

«Ci sto provando, va bene? Ci sto provando da anni! Tu non hai nemmeno un’idea vaga di quanti tentativi io stia facendo, ma non importa quante volte provo, non riesco ad assomigliare a Jack più di così, va bene?! Non ci riesco!» continuò, incapace di fermarsi.

Non avrebbe voluto dirlo, e non avrebbe dovuto dirlo.

Anche Ada era stata male. Anche lei soffriva come lui; per contro, però, c’erano cose che lei non poteva capire.

«Mi dispiace se lui non avrebbe voluto, o se non lo avrebbe fatto e mi dispiace se pensi che lui si sarebbe comportato in un altro modo e se quindi ti aspetti che io faccia lo stesso. Ma io non sono Jack Bezarius, sono soltanto Oz!»

Mentre si allontanava dall’atrio, e qualche docente – ignaro di quanto accaduto e appena giunto placava il chiasso che si era alzato richiamandoli all’ordine – qualcuno seppe che quel “soltanto” aveva più significati di quanto potesse sembrare.

 

 

Corse.

Non importava quanto fosse vietato, considerando che i docenti erano verosimilmente tutti a colazione.

Voleva solo allontanarsi.

Dalla mensa, da sua sorella, da Gilbert, da Latowidge.

Da tutti quelli che avevano visto o conosciuto Jack e che inconsciamente continuavano a paragonarli.

Non importava che fosse istintivo, voluto, in buona fede.

Era solo stanco di sentirselo dire persino dove era scappato per non ascoltarlo più dalle labbra di suo padre – perché era quella la realtà, anche se non l’aveva detta a nessuno.

Sapere di andare a Latowidge era stata una liberazione: lontano dalle mura di casa Bezarius, impregnate di ricordi e aspettative, sarebbe stato meglio. Era stato convinto, quando aveva varcato il cancello, che lì sarebbe andato tutto bene.

Come nelle favole che Ada raccontava quando erano bambini, finché lui non si addormentava placidamente permettendole di andare a dormire a sua volta.

Ma Oz lo sapeva, perché ogni tanto fingeva solo di appisolarsi e poi sgattaiolava fino alla camera della sorella; Ada, ogni tanto, piangeva da sola.

E la mattina andava a svegliarlo con un sorriso e gli occhi rossi e un po’ gonfi.

Voltò un angolo a caso, bloccandosi quando lo riconobbe.

Era il corridoio in cui Sirjan gli aveva vietato di andare e in cui una volta era stato salvato per un pelo da Aedan.

Abbassò lo sguardo, indeciso sul da farsi.

Nella sua mente, le parole di Sirjan erano ancora chiare come se il più grande le stesse pronunciando in quel momento lì, di fronte a lui.

Non avvicinarti a Glen Baskerville più dello stretto necessario.

Quello era molto più dello stretto necessario, e persino più del limite consentito, ma… alle parole di Sirjan, in quel momento, si sovrapponevano altre parole.

Quelle di Rufus – perché mai Glen Baskerville avrebbe dovuto suicidarsi? – e soprattutto quelle di Break, che da qualche sera prima continuavano ad invadergli i pensieri, nonostante si fosse sforzato di ricacciarle indietro e archiviarle da qualche parte lasciando che svanissero da sole col tempo.

Xerxes Break ti metterà alla prova.

Quella lo era sicuramente.

 

«Ah, Oz, prima che te ne vada.»

lo aveva interrotto, facendolo voltare

quando era ormai in prossimità della porta.

«Dai ascolto al tuo capo dormitorio.

Sarebbe davvero un grosso problema,

se ti imbattessi nello spirito di Glen Baskerville la prossima volta.»

 

Glielo aveva detto di proposito.

Break sapeva perfettamente che in un modo o nell’altro lui, Oz, sarebbe finito nuovamente lì.

E sapeva anche che una parte di verità poteva scoprirla solo facendo domande direttamente a Glen Baskerville – non pensò a quanto potesse essere pericoloso, considerando il primo e unico avvertimento che lo spirito gli aveva dato tramite Elliot.

Fissò di fronte a sé, nel punto in cui una volta aveva già visto quella stessa porta che ora stava prendendo forma davanti ai suoi occhi come in un gioco di prestigio.

Si aspettava persino Cheshire, ma… non arrivò nessuno.

La porta era lì, ferma, chiusa e non si sentivano né voci, né rumori.

Era un invito ad andarsene, o ad entrare?

 

Probabilmente,

solo Glen potrebbe rispondere.

 

Scosse la testa, muovendo un passo in avanti e poggiando la mano sulla maniglia.

Inaspettatamente non accadde nulla di strano o pericoloso; semplicemente la porta si aprì, lasciando intravedere quella che sembrava una stanza buia, vecchia e abbandonata da tempo.

Ne varcò la soglia, deglutendo.

E chissà perché, non si stupì affatto di sentire l’uscio richiudersi alle proprie spalle, sebbene senza colpi violenti, ma anzi come se qualcuno l’avesse socchiuso per lui.

E solo quando riportò lo sguardo davanti a sé, intravide la figura che non aveva mai visto, ma che sospettava non potesse essere confusa con nessun altro: ne conservava un ricordo vago, anche piuttosto annebbiato in un certo senso.

Ma tutto nella persona che era placidamente ed elegantemente seduta sulla vecchia poltrona, accanto alla finestra dalle tende tirate, sembrava dire che si trattava di Glen Baskerville.

Dalle movenze affascinanti, al viso perfetto, al cipiglio austero, agli occhi scuri che annoiati ma penetranti si posarono su di lui.

Vi sostarono poco, e quando tornarono alla piccolissima porzione di vetro non nascosto dalle tende, la voce di Glen riempì il perfetto silenzio che era aleggiato fino a quel momento.

«Toglimi soltanto una curiosità.» esordì tediato dall’argomento o forse – più probabile – dal proprio interlocutore: «Per quanto mi applichi, mi sfugge se la tua sia stupidità o mero istinto masochista.» concluse scortese, nonostante il modo di parlare impeccabile.

Oz si morse il labbro inferiore, senza rispondere.

Sussultò impercettibilmente quando gli occhi freddi di Glen tornarono su di lui: «Io credo sia stupidità.» concluse, come se avessero disquisito per ore e fossero finalmente arrivati alla risposta.

 

Non mi piacciono,

le persone che ficcano il naso nei miei affari.

 

Non riuscì a dire nulla, come paralizzato sul posto, mentre di nuovo lo sguardo di Glen lo abbandonava per passare ad altro, l’espressione comunque annoiata.

«Jabberwocky.» chiamò semplicemente, senza nemmeno voltarsi.

Oz non seppe quando la stanza era mutata attorno a lui, distorcendosi quasi e assumendo sembianze che di una stanza non ricordavano nulla, somigliando più ad una dimensione piena solo di buio e nient’altro.

Seppe solo che qualcosa brillò nell’oscurità, che un verso gutturale e grottesco ne riempì il silenzio, e che il dolore improvviso al braccio si tradusse in un liquido denso che sentì a contatto con la propria mano quando istintivamente la portò all’arto colpito.

Ed infine, che Glen Baskerville stava sorridendo.

 

 

 

Note

Voglio morire. Questa è la frase che una ficwriter arriva a pronunciare in un momento di disperazione, che può essere dato da vari fattori. Nel mio caso, dall’immondo ritardo causa esami XD

Soprassediamo e arriviamo al dunque.

 

La frase in apertura (Nice to meet you, my pain) è presa da un’immagine trovata per il web, tra l’altro a sfondo Durarara!!

Mi è piaciuta tanto che alla fine l’ho inserita come citazione di inizio capitolo *sisi*

 

Qui non si vede la fine degli intrippi mentali della trama, ma almeno avete visto l’inizio di qualche chiarimento XD

Passo a rispondere alle recensioni:

 

Gioielle: ogni volta che tu tessi le lodi di Noah io vado in brodo di giuggiole, ne sei consapevole, sì? XD

Purtroppo ci sono volte in cui posso muoverlo fino alla nausea e volte in cui mi sparisce totalmente (il lato negativo di aver messo troppa gente collegata alla trama base 8D). Quanto alla tua analisi di Oz, posso solo dirti di continuare ad analizzare, perché qualsiasi cosa io dica finirei in un modo o nell’altro per spoilerare qualcosa XD

Come avrai visto, Oz ha fatto esattamente l’opposto di quanto detto da Sirjan all’inizio: per quanto riguarda la persona vicina ad Oz che si suppone nasconda qualcosa… no, non mi posso sbilanciare, ma diciamo che qualche indizio vago è stato lasciato recentemente, e non dico altro XP

Il rapporto Sirjan-Oz è uno di quei rapporti che si è sviluppato da solo: all’inizio non dovevano affatto ritrovarsi così vicini, ma temo che con Alyster a fare da “collante” alla fine fosse inevitabile.

Ti ringrazio molto per i complimenti su Vincent (è uno di quei pg che scrivo di getto, ma poi ho mille ripensamenti sul suo IC) e per la scena GilOz, che so aspettavate tipo tutti da almeno 10 capitoli XD Sul risvolto, come il rating stesso dice, non sarà approfondito più di un certo limite (leggasi: niente lemon). Più che altro, penso di poter impazzire se inserisco pure più romanticismo oltre alle beghe di trama che mi ritrovo 8D

 

Yoko891: donna, tu risollevi il mio ego. *annuisce*

Ti ringrazio per i complimenti riguardo l’essere riuscita a portare la trama di ph (con dovuti accorgimenti per forza di cose), in  questa AU. Era uno dei miei obiettivi, e sapere di esserci riuscita quantomeno finora mi ripaga dei mal di testa che mi stanno venendo quando nel mezzo di una scena mi rendo conto di sputtanare qualcosa che avevo già scritto – sì, succede perché è tutto troppo intrippato.

Felice che la GilOz tanto attesa ti sia piaciuta, e della tua predilezione per Sirjan ormai sappiamo tutto tutti quanti XD

Grazie anche per i complimenti allo stile e tranquilla, sei perdonata anche se commenti ogni due capitoli <3

 

Makotochan: sì, io ti ucciderò andando avanti così, ormai si è capito XD *pat pat*

Vorrei poter dire, in merito anche alla tua recensione al 15, qualcosa come “visto? C’era una scena VinceGil!”, ma considerando come si è svolta, non so quanto fosse adatta a conciliare il cuore di una fangirl XD

Mi ha fatto particolarmente piacere il commento riguardo la descrizione dei sentimenti: purtroppo per me è sempre estremamente drammatico descrivere i luoghi. Faccio fatica come autrice e come lettrice e questo comporta che non mi ci sia mai applicata troppo prima di Rinnega, anche perché è questa la prima esperienza di longfic che faccio. Perciò sapere di riguadagnare terreno con le descrizioni introspettive mi fa piacere <3

Il lato oscuro di Oz è solo all’inizio (o almeno credo). So soltanto che il moccioso mi sta dando delle grane non indifferenti *non capisce mai quando lo tiene IC e quando no*

Prendo nota e ti riconfermo per il fan club di Noah, eh? ù.ù

 

Fiamma Drakon: ammetto che, arrivata a rispondere alla 4^ recensione, non mi aspettavo che il dialogo Sirjan-Oz piacesse a tal punto. Temevo quasi di appesantirvi, ma d’altronde non ci posso fare granché. Sono esattamente 15 (o possiamo dire 16?) capitoli che vi riempio di interrogativi e iniziare a spiegare serve. E di solito il personaggio a cui tocca l’ingrato compito ci rimette sempre, ma sono lieta che – a quanto pare – non sia stato così :3

Non saprei dire, infine, se la situazione stia migliorando: posso dirvi solo di non riporre troppe speranze, ma di leggere capitolo per capitolo – finché vorrete seguirmi – e prenderne quel che ne viene. È un modo carino per dire che le beghe non son finite XD

 

Bacinaru: la tua recensione mi ha tolto dieci minuti di autonomia cerebrale. Perché non importa che io sia l’autrice e che ami questa longfic nel bene e nel male: non è umano (in senso buono eh!) leggerla in due full immersion. Cioè, è troppo persino per me che l’ho scritta X°D

Hai tutta la mia ammirazione, oltre che gratitudine ovviamente <3

Sono felice che la parte di Alyster sia stata chiara nei sentimenti che venivano espressi: come scrissi già una volta mi sa, ci tenevo particolarmente. Tengo a tutto, scontato dirlo, ma parti come i sentimenti di Alyster che rimangono leggeri e quasi taciuti per 13 capitoli, condensati in uno solo temevo non rendessero l’idea, ma per fortuna ero in errore :3

Ti ringrazio per i complimenti sullo stile, e spero che anche questo capitolo sia stato di tuo gradimento ^^

 

NatsuVIII: felice di leggerti in recensione <3

Gilbert dorme un po’ da piedi, ma c’è da dire che povero, Oz non è proprio facile come persona da capire XD Vincent e il suo lato bastardo imperano tanto per cambiare, ma sia mai che questo in un modo o nell’altro dia anche una scossa a Gilbert (ormai ribattezzato Monnalisa in sede di recensione xD)

Zai è il personaggio che io più odio in tutto Pandora Hearts, e ho idea che non si faccia molta fatica a intuirlo dal ruolo che gli ho dato anche qui. Vedremo se combinerà ancora altri danni, o se basta così.

Spero che anche questo nuovo capitolo ti sia piaciuto :3

 

Infine, un grazie a tutti coloro che hanno letto e recensito “Ciak, si gira!”: FiammaDrakon, makotochan, NatsuVIII, nacchan, Gioielle, Yoko891, bacinaru e Meimei <3

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Capitolo 17
*** La verità che continui a cercare ***


Già

La verità che continui a cercare

 

 

All’improvviso,

ho sentito un tremendo bisogno di piangere.

 

 

Sbatté un paio di volte le palpebre, cercando di focalizzarsi non sul dolore che sentiva all’arto, ma su quello che riusciva a distinguere in quel buio che gli si parava davanti e che lo circondava.

Il sangue non sembrava uscire in maniera così copiosa da far pensare ad una ferita molto profonda o che potesse mettere in pericolo il braccio; tuttavia ne usciva abbastanza da lasciar intendere che non fosse nemmeno un graffio che ci si procura accidentalmente nella vita di tutti i giorni per distrazione.

Oz puntò lo sguardo di fronte a sé e sulla figura di Glen Baskerville in piedi, ora che la poltrona – come tutto ciò che fino a poco prima era stato nella stanza – sembrava essere sparito.

L’uomo pareva completamente a suo agio: lo sguardo freddo sul ragazzino di fronte a lui, alzò una mano portandola a sfiorare qualcosa in un punto impreciso sopra la propria spalla. Qualcosa che Oz non riuscì a distinguere subito, come se i suoi occhi avessero ancora bisogno di abituarsi all’oscurità che senza preavviso era calata lì.

Quando però riuscì a scorgere con più chiarezza la figura dietro Glen, rabbrividì: enorme rispetto alla persona dietro la quale si trovava, non c’era nulla di umano. Somigliava – se proprio Oz avesse dovuto descriverlo accostandolo ad una figura conosciuta – ad un grifone di quelli che si vedevano nelle illustrazioni dei libri antichi, spesso anche di ambientazione medioevale.

Gli occhi brillavano di una luce sinistra e, così gli sembrava, maligna; tuttavia, Glen carezzava proprio in quel momento le piume poco sopra il becco, come se quel bestione fosse un animaletto domestico come un altro.

«Quello…?» fece per chiedere Oz, senza riuscire a trovare qualcosa di razionale o conosciuto nell’esistenza di una creatura simile.

Glen non perse il sorrisetto divertito che aveva assunto all’apparizione di quella creatura, alla quale rivolse uno sguardo veloce: «Jabberwocky. Una figura che mi affianca ormai da diversi anni.» si limitò a dare come unica spiegazione.

«Creatura affascinante, non trovi?» lo incalzò quindi, come se all’improvviso e a dispetto dell’indole sempre dimostrata nei confronti del biondo, avesse avuto voglia di fare conversazione per passare un po’ di tempo.

Oz scelse saggiamente di tacere per il momento: aveva la sensazione che, se avesse detto qualcosa di particolarmente sgradito a Baskerville non solo non avrebbe avuto le risposte che cercava, ma avrebbe rischiato molto più di un taglio al braccio.

«Sai, devo ammettere che sei dotato di una dose di sfortuna particolarmente abbondante.» riprese Glen in tutta tranquillità, lo sguardo che era sulla creatura chiamata Jabberwocky.

«Seguito dagli spiriti, affiancato da persone che mentono e le poche sincere ti lasciano… come la figlia dei Kolstoj.»

«Sai di Alyster?»

«Differentemente da quanto sei portato a credere non sei il centro dell’esistenza di nessuno.» lo interruppe freddamente portando lo sguardo scuro su di lui per una manciata di secondi, il tempo necessario ad estendere quella freddezza anche agli occhi.

«Le cose accanto a te si evolvono a prescindere dalla tua – perdonami – mediocre vita. E, se proprio vogliamo esprimere un concetto chiaro e preciso, è certo che siano più gli spiriti che non gli umani ad avvertire una vita che si spegne. Al livello spirituale, certamente.» concluse.

Il tono era atono, per certi versi forse anche annoiato, riflettendo la tediosità di un argomento che viene spiegato per l’ennesima volta ad un allievo particolarmente tonto o privo di intuito.

Oz in tutto quel discorso trovò il tempo di formulare in un angolo della sua mente un pensiero che non aveva granché a che fare con il discorso che il moro stava facendo in quel momento: Glen Baskerville più parlava, meno gli piaceva. Soprattutto, iniziava a chiedersi come fosse stato possibile che quella persona, di indole così cupa e diversa da quella di Jack, fosse considerata da suo fratello addirittura il proprio migliore amico.

Tacque, tuttavia, e tenne per sé quel pensiero; supponeva infatti che non sarebbe stato particolarmente gradito.

«Dunque» riprese Glen: «hai intenzione di trattenerti per molto, ancora?» lo incalzò.

Parve che il poco interesse nel fare due chiacchiere si fosse nuovamente spento del tutto in lui. Oz assunse un cipiglio deciso: non era andato ad infilarsi in una presunta tana di spiriti – peraltro abbastanza violenti – per noia o per fare da compagno di chiacchiera a Glen Baskerville assecondandone i capricci del momento.

Anzi, se lo sarebbe volentieri risparmiato se il problema fosse stato solamente quello.

«Quanto basta a chiederti di mio fratello.»

«Non avevo sottolineato nel nostro primo ed unico incontro che non gradisco affatto che ci si immischi nei miei affari?» sottolineò Glen guardandolo.

Oz deglutì, ma cercò di non farsi intimorire: «Sì, ma sei l’unico che sembra possa darmi delle risposte. Il diario di mio fratello lo dipinge come un assassino… ma non credo che sia tutto lì. Ed in ogni caso Jack era mio fratello. Non sono soltanto affari tuoi.» azzardò.

Non seppe cosa di quello che aveva detto avesse attirato l’attenzione di Glen, ma fu chiaro dal mutamento nel suo sguardo che doveva aver detto qualcosa di relativamente importante.

Il moro tacque, per un lasso di tempo che ad Oz parve eccessivo, complice lo stato di ansia misto ad aspettativa – e una certa dose di inquietudine e soggezione – che lo animava in quel momento.

«Attento alle domande che poni. Jabberwocky ti ha ferito una volta e ti assicuro, non esiterà a farlo di nuovo.» gli fece presente, nel tono qualcosa di indecifrabile. Oz, però, fu abbastanza attento da capire che in quel monito vi era un permesso di parlare che sebbene riluttante, Glen gli aveva accordato.

Sorpreso, cercò quasi febbrilmente il modo migliore di chiarire i propri dubbi tramite lo spirito che forse meglio di chiunque altro tra i vivi aveva conosciuto suo fratello.

«Jack…»

«…non era affatto un assassino. Non lo è mai stato e, se anche fosse vissuto a lungo, non lo sarebbe mai diventato.» chiarì in maniera quasi brusca il moro.

Oz, nonostante tutto se ne sorprese: se c’era una cosa certa era che Glen avesse dimostrato dal primo istante in cui gli aveva parlato tramite Elliot, era il pessimo temperamento e il carattere assai discutibile che aveva. Se questo fosse peggiorato dopo la sua morte o fosse sempre stato così Oz non lo ricordava, ma dubitava seriamente – vedendolo e parlandoci ora – che in vita fosse stato un uomo affabile, cortese e sorridente.

Questione di sensazioni.

«Allora perché dice di averti ucciso?» chiese Oz a bruciapelo, portando gli occhi chiari a fissare direttamente quelli scuri di Glen, cercando di non vacillare. Questi aggrottò le sopracciglia, come se qualcosa per un attimo gli fosse sfuggito.

«Perché tuo fratello era uno stupido.» commentò laconico; di primo impatto, dava persino l’impressione di stare insultando la memoria del suo migliore amico. Ma ad Oz sembrò – non sapeva bene perché, visto che non poteva certo vantare chissà quale conoscenza di Glen Baskerville – che fosse uno “stupido” bonario.

Come se non fosse stato davvero un insulto pronunciato con cattiveria o con il chiaro intento di offendere.

«Aveva la pessima abitudine di colpevolizzarsi di ogni minima cosa che gli accadeva intorno. Sarebbe stato capace di dire che quel giorno nevicava perché svegliandosi aveva posato a terra il piede destro anziché il sinistro.» chiarì senza che fosse richiesto.

Se non si fosse trovato nel completo buio dove l’unica cosa visibile oltre Glen era quel grifone gigante e se solo non avesse avuto la sensazione che muovendo un dito in maniera errata gli si sarebbe potuto avventare contro chissà cosa, magari Oz avrebbe anche ridacchiato.

Jack era… esattamente il tipo di persona che Glen con quella frase aveva descritto con ironia bonaria.

«Non nego che nella mia morte sia implicata la sua presenza. Ma in termini strettamente fisici… io ho ucciso me stesso. Nessun altro è colpevole di nulla.» concluse.

Oz cercò di analizzare meglio che poté quelle sue parole; cercava di capire se ci fosse qualcosa di preciso che avrebbe dovuto cogliere, quasi dovesse obbligatoriamente esserci un indizio che potesse rivelargli più di quanto non facesse la frase pronunciata.

«Perché ti sei… tolto la vita?» chiese con cautela, quanta più poté almeno.

Glen incurvò le labbra nel sorriso sardonico che gli aveva già rivolto in precedenza: «Manchi completamente di tatto, giovanotto.» lo apostrofò – e in quel “giovanotto” sembrava esserci più derisione per un’infantilità che aveva colto, piuttosto che l’affetto dell’amico di tuo fratello che ti ha visto crescere.

«Ed io, peraltro, non sono tenuto a risponderti. Quello che cercavi da me non era forse la conferma dell’innocenza di tuo fratello? L’hai avuta. Ora vai, dunque. La tua presenza non è richiesta; e, dopotutto, non è questo un luogo che si addica ai vivi.» concluse, l’espressione che – chissà perché e dovuto a cosa poi – era tornata annoiata, priva di interesse per qualsiasi cosa.

Oz si morse il labbro inferiore.

Non poteva ancora andare via, per quanto fosse pericoloso tentare la sorte con Glen e il suo presunto animaletto da compagnia.

«Io non ho mai dubitato di Jack. Sono stato stupito da quello che ho letto dal suo diario, è vero, ma non ho mai pensato di mio fratello che fosse una persona cattiva. Lo conoscevo e… e so che non avrebbe mai potuto uccidere nessuno. Quel diario è… triste. Terribilmente. Ma non solo per la malattia di cui Jack parla. È triste per Gilbert e Vincent, anche se non so bene cosa temesse mio fratello. Era triste per me e la nostra famiglia. E… sembrava triste per te.» azzardò.

Sembrava, o così Oz aveva colto, che nel parlare di Jack Glen tendesse ad ammorbidirsi quel tanto che bastava a non minacciarlo né a tentare di allontanarlo con la forza.

Per cui sperava che, almeno così, avrebbe avuto il permesso di continuare a parlare quanto serviva per riuscire almeno a capire; notò Glen guardarlo con la coda dell’occhio, e interpretò il suo silenzio come un invito a proseguire, almeno per il momento.

«Jack si accusava di molte cose nei tuoi confronti. Di averti mentito, o di pretendere troppo. Io non ho idea di cosa intendesse, ma se c’è una cosa chiara è che… Jack ti considerava esattamente come se anche tu fossi stato della famiglia. Nonostante ti descriva come qualcuno di rango superiore ai Bezarius, come una persona distante… tu eri il migliore amico di mio fratello. Jack stava morendo. E una delle ultime cose che ha scritto in un diario che forse pensava sarebbe andato perso dopo la sua scomparsa… è stata la data della tua morte.» continuò, facendo una breve pausa.

Nemmeno per lui era facile parlare: condividere qualcosa di Jack, era stata una cosa che non aveva mai fatto. Da quando era morto, di suo fratello in casa non si era praticamente più parlato.

Troppo presto un Oz bambino aveva imparato che “non doveva parlare del fratellone davanti a papà”; lentamente la morte di Jack era rimasta solo nella sua testa, e giorno dopo giorno si era quasi torturato ricordando tutto ciò che poteva del periodo in cui il primogenito dei Bezarius era ancora vivo.

Lo aveva fatto da solo: né con Ada, che avrebbe potuto ampliare la gamma di ricordi di cui disponevano, né con Gilbert che non aveva più visto per diversi anni.

Jack era stato un tesoro estremamente prezioso la cui esistenza era stata taciuta e soffocata nella propria testa per tanti anni: un po’ per paura, un po’ per il dolore.

Un po’ – egoisticamente e infantilmente – per il timore che parlandone, quel ricordo potesse svanire.

«Perché qualcuno come te doveva…?»

«Solo perché non ti viene data risposta, non significa che la domanda non sia chiara.» lo interruppe Glen, freddamente ma apparentemente abbastanza propenso a parlare. O a non cercare di farlo azzannare.

«Avvicinati.» comandò, osservandolo e rimanendo in attesa.

Oz deglutì, senza alcuna certezza che eseguire fosse la cosa giusta da fare; si avvicinò, lentamente, senza distogliere lo sguardo dal moro.

Si fermò quando fu a pochi passi da lui, in silenzio: Glen tacque a sua volta, osservandolo.

«Quando pensi a Jack, quali sentimenti ti animano?» domandò quasi a bruciapelo e, complice che fosse l’ultima domanda che si sarebbe aspettato, Oz rimase imbambolato quasi.

«Non voglio una risposta ovvia. Una verità per una verità.» lo anticipò l’altro, ed Oz abbassò lo sguardo.

«…Sono arrabbiato.» se ne uscì: «Quando penso a Jack c’è… ci sono così tante cose che mi rendono debole, da farmi rabbia. Ma soprattutto perché lui? Era… giovane. So che razionalmente non è giusto pensare che la morte per qualcuno sia “dovuta”  e per qualcun altro no. So che è così. Eppure Jack era giovane, era sempre stato bene e all’improvviso, senza un motivo, una malattia lo porta via senza che nessuno possa fare nulla. È così… frustrante. E so che anche se non l’ho trovato giusto e vorrei vederlo… Jack non c’è più. Proprio come Alyster, lui non c’è più da nessuna parte. Non c’è nulla che io possa fare, non esiste un modo per incontrarlo, non importa quanti anni io aspetti. C’è solo quello che ricordo e fa solo male.» pronunciò, il tono basso, che forse nonostante il suo impegno tremava un po’.

Svelarsi a Glen non era geniale.

Nulla gli garantiva che quella risposta andasse bene, né che ci fosse effettivamente una “risposta giusta”; a maggior ragione, non aveva nessuna sicurezza che ora, toccato dal suo discorso Glen avrebbe risposto alla sua domanda – sempre ammesso che ne avesse mai avuta l’intenzione.

Avvertiva il suo sguardo, senza però una sensazione particolare con esso: non avvertiva freddezza né dolcezza, non c’era irritazione ma nemmeno benevolenza.

«Non c’è solo il ricordo.» lo corresse: «Quando pensi a Jack, lo ricordi. Da quel punto in avanti, c’è soltanto la tua disperazione.» aggiunse, tacendo qualche istante.

«Una disperazione così buia che un abisso qualsiasi non reggerebbe il confronto. Quella è una delle due possibilità per chi rimane in vita. L’altra, perché tu lo sappia, è dimenticare ogni giorno quello che la causa, ricordandolo forse in un anniversario di morte finché persino quell’unica volta perderà di significato.» concluse, forse cinicamente, ma Oz sentì di capire in qualche modo cosa intendesse.

Glen si mosse, dunque, ripristinando la distanza fra loro come se non avesse mai chiesto al biondo di avvicinarsi a lui; si sedette – su cosa, con tutta quell’oscurità, Oz non avrebbe saputo dirlo – e portò nuovamente la mano a sostenere il volto.

Sospirò, e ad Oz parve stanco quasi; Jabberwocky era fermo ed immobile, come se la lontananza del suo presunto padrone significasse per lui l’immobilità assoluta.

«Io non avrei potuto dimenticare. Non vi ero riuscito, con Jack sarebbe stato un tentativo altrettanto inutile.» spiegò senza riserve, almeno in quel caso: «Per contro, la disperazione di cui entrambi siamo ancora a conoscenza era stata mia compagna già abbastanza a lungo perché io ritenessi impossibile convivere da solo con essa ancora per molti anni.» aggiunse infine con un sospiro leggero che sfuggì appena fra le labbra, i capelli scuri che coprivano parzialmente il volto ora.

Oz lo osservò e parlò prima che il buon senso o qualsiasi altra cosa potessero fermarlo.

«Prima di Jack avevi già perso…» voleva dire “qualcuno”, ma il collegamento mentale – benché non confermato da nulla in realtà – fu istintivo, totalmente: «…Lacie era una persona?» sputò fuori quasi, in un misto di sorpresa, consapevolezza e qualcosa di contrastante con tutte le sensazioni che aveva avuto da quando stava fronteggiando Glen.

La prima cosa di cui prese coscienza il biondo, fu la propria schiena che cozzava violentemente contro la parete – o almeno supponeva che fosse quella.

In sequenza, dopo di essa, ci fu il fiato caldo e pesante di Jabberwocky pericolosamente vicino al suo corpo e il gelo dello sguardo di Glen addosso mentre lui perdeva fiato per un istante a causa del contraccolpo e tossiva l’attimo dopo.

«Non tornare mai più in questo luogo. La prossima volta non ti sarà risparmiata la vita.» pronunciò Glen, glaciale, senza scostare lo sguardo da lui.

«Non lascerò che nessun altro interceda per te una seconda volta: né il patto di non aggressione agli umani con l’erede dei Kolstoj, né altro. Non avvicinarti mai più a questo posto. Giacché non sei Jack, per me la tua vita non ha il minimo valore.»

 

 

Richiuse la porta, facendogli cenno di accomodarsi dove preferiva.

Sirjan mantenne per qualche istante lo sguardo sul docente, prima di eseguire e sedersi su una poltroncina; Break lo imitò in breve, mentre Rufus Barma rimaneva in piedi, lo sguardo sul ragazzo.

Sirjan non attese di essere incalzato né altro, e parlò direttamente, il tono calmo che lo aveva sempre contraddistinto: «Mi dispiace per l’ora tarda, ma ho pensato fosse importante abbastanza da comunicarvelo il prima possibile.» esordì, suscitando quasi subito la curiosità di Break.

Sirjan solitamente non aveva mai rapporti così urgenti sugli studenti, perciò quello poteva considerarsi un episodio più unico che raro; annuì leggermente, per incalzarlo a proseguire.

«Non vengo come capo dormitorio.» aggiunse il più giovane, destando stavolta anche l’attenzione di Rufus. Se Sirjan non veniva come tramite fra gli studenti e i docenti, significava che l’unico altro ruolo che poteva ricoprire in quel momento era quello di erede dei Kolstoj.

Barma tacque: aveva idea che averlo lì in quella veste non fosse proprio una cosa di cui essere lieti. Conosceva quel ragazzo da abbastanza tempo da intuire che non fosse per complimentarsi con loro, quel colloquio richiesto quasi frettolosamente.

«Arriverò velocemente al punto. Le cose stanno andando in un modo tale che, fra poco, rischio di essere costretto ad intervenire.» chiarì da subito il soggetto principale della questione, senza aspettare cenni o altro, ma proseguendo per proprio conto.

«Non mi interessa se cercate la verità per vostro diletto o altro. Dal momento che è ben difficile ottenerla non mi preoccupa, e d’altronde nulla nelle regole della mia famiglia mi impone di far sì che le persone non cerchino di scoprire qualcosa. Io devo custodire delle informazioni. Diciamo quindi che, in linea di massima, finché rimanete in una posizione “innocua”, i vostri movimenti non mi interessano.» spiegò più chiaramente possibile.

Break sorrise, un incurvarsi di labbra fra il divertito per aver smosso addirittura l’erede dei Kolstoj e quello di chi è stato beccato in flagrante con un infantile “ops” a palesarlo.

«E quindi sei qui perché…?» lo incoraggiò a proseguire, anche sfacciatamente da un certo punto di vista.

Sirjan puntò lo sguardo su di lui, mentre Rufus sospirava appena seccato – quell’idiota di Xerxes non avrebbe mai imparato a fare l’adulto a suo avviso.

«Sono qui perché state sfruttando uno studente, l’unico che ho l’obbligo di allontanare dalla verità peraltro, per i vostri comodi. Vi sto avvisando che, se doveste continuare, io non potrò intercedere per nessuno e dovrò mettermi di mezzo.» replicò, serio.

Break fischiò d’ammirazione: «Oh-oh, questo sì che è preoccupante. Non ti ho mai visto intervenire come Kolstoj, non ho avuto questo piacere lo ammetto.» commentò, ma non sembrava davvero preoccupato, né prenderlo troppo seriamente.

Sirjan accigliò appena lo sguardo, più che infastidito come se gli sfuggisse qualcosa del suo interlocutore.

Il docente mantenne lo sguardo su di lui, con la stessa espressione quasi beffarda: «Lungi da me infierire sull’argomento o manipolarlo, Sirjan, ma non sarà che stai prendendo Oz in simpatia? O sotto la tua ala protettiva? Perché vedi, mi sarei fatto un’idea in proposito.» buttò lì quasi casualmente, Rufus che abbassava lo sguardo verso di lui come se non capisse per primo dove l’altro stesse andando a parare.

Sirjan stesso non mutò particolarmente espressione, limitandosi ad un: «Sarebbe?»

«Sarebbe che in fondo a te, delle sorti di Oz Bezarius, non è mai interessato granché. Non è un’accusa, bada bene: dopotutto tu non sei la balia di nessuno, il ruolo è un altro e non hai l’obbligo di proteggere qualcuno che continua ad immischiarsi nella verità che devi nascondere, giusto?» incalzò, ma non ne attese la risposta – era chiaramente una domanda retorica.

«Dunque mi stupisco di questo improvviso, mh… attaccamento? Riguardo? Chiamalo come preferisci. Mi sono fatto l’idea che forse ti senti in dovere perché Alyster lo aveva preso in simpatia. Ma è solo una supposizione, chiaramente.» aggiunse l’ultima constatazione quando, in un movimento veloce e quasi impercettibile, Sirjan lo aveva bloccato sulla poltrona, la mano pericolosamente vicina al collo del docente.

Il ginocchio faceva perno su un lato della poltroncina, e il corpo era proteso in avanti; l’espressione del viso, nonostante i lineamenti non fossero sfigurati palesemente da rabbia e irritazione, risultava inquietante: se Oz l’avesse vista, di certo gli avrebbe ricordato quella spaventosamente disgustata e piena d’odio che aveva intravisto quando Sirjan aveva fronteggiato Cheshire.

Break non mosse un muscolo, non mutò espressione a sua volta, né ritrattò quanto detto.

«Non mi stupisco che dall’alto della tua indole meschina, piuttosto famosa aggiungerei, osi mettere di mezzo il nome di mia sorella. Ti consiglio di non farlo una seconda volta. Ti piaccia o meno, qui ho più potere di te, signor professore. E ti ricordo anche che, nonostante tu faccia finta di nulla, devi a me di avere ancora almeno un occhio funzionante. O quasi.» mormorò piano, il tono gelido.

Rufus non si mosse per fermarlo: sapeva a cosa Sirjan alludeva – all’incidente di qualche anno prima con Cheshire, in cui Break aveva quasi perso entrambi gli occhi, uno dei quali era salvo solo grazie all’intervento di Sirjan in quell’occasione. Anche se, comunque, la vista di Break da quell’unico occhio stava peggiorando considerevolmente col passare del tempo.

«Quindi, lascia che io concluda il monito per cui sono venuto a quest’ora.» riprese il più giovane senza muoversi dalla sua posizione attuale: «Smetti di ficcanasare. O, se proprio ci tieni, smetti di usare Oz Bezarius. Ci siamo intesi?» pronunciò, spostandosi quindi e tornando in posizione eretta, senza sedersi di nuovo però.

Break, l’espressione indecifrabile, incurvò labbra in un sorriso che risultò più seccato che altro: «Ecco perché odio i ragazzini saccenti.» commentò solamente, ma Sirjan parve leggervi la risposta che voleva sentire.

Si mosse quindi verso la porta, senza aggiungere altro, facendo per uscire; fu Rufus a fermarlo: «A prescindere da quello che facciamo, quel ragazzo finirà in mezzo alla verità che tanto vuoi allontanare da lui, non importa quanto impegno ci metterai. Lo sai, vero?» lo interrogò.

Sirjan si voltò: «Se succederà, sarà perché ci arriverà da solo. Perché ti assicuro che né Jack né Glen Baskerville, sono interessati a metterlo in mezzo ad una questione che è morta insieme a chi vi era invischiato. E non si tratta né di un segreto di Stato, né di qualcosa che potrebbe salvare o distruggere il mondo. È solo il segreto di due persone, forse tre, che ormai non ci sono più. Si tratta solo di far soffrire o meno le persone che sono rimaste in vita.» fece presente, parlando chiaramente, sincero come per il suo ruolo era in poche occasioni.

Abbozzò un sorrisetto enigmatico: «Ma questo istinto di protezione, non pretendo che voi lo capiate. Buonanotte.» pronunciò, richiudendo la porta dopo essere uscito.

 

 

Era da poco passata l’ora di cena, quando Oz si alzò dal tavolo dove aveva mangiato con la solita compagnia: anche se Noah non aveva preso il discorso a tavola, era quasi certo che avesse raccomandato ad Alice e Marcus di non toccare l’argomento “litigio” mentre erano a cena.

Aveva apprezzato la premura e aveva mangiato tranquillamente, parlando di argomenti leggeri e ridendo di uno dei tanti aneddoti del suo compagno di stanza – supponeva che non si sarebbe mai annoiato ad ascoltare le imprecazioni dell’amico contro la Barma, perché aveva una fantasia tale che non suonavano mai ripetitive.

Aveva cercato di non guardare verso Ada, al tavolo con i compagni di anno; piuttosto aveva tenuto d’occhio, sebbene con discrezione per evitare di farsi notare proprio dalla sorella, Elliot.

Al tavolo con i fratelli e Reo come al solito, aveva aspettato che si alzasse e che varcasse la soglia della mensa. E ora, si era appena congedato da Noah e gli altri – devo dire una cosa ad Elliot, ci vediamo dopo in stanza Noah, aveva detto, uscendo quindi anche lui.

Si mosse veloce, occhieggiando nell’atrio per ritrovare la figura del più giovane dei Nightray, riuscendo fortunatamente ad inquadrarlo prima che sparisse fuori dalla porta dell’ingresso principale.

«Elliot!» chiamò per attirarne l’attenzione, riuscendovi senza difficoltà; il castano si voltò, l’aria interrogativa che assunse forse un’aria perplessa quando notò chi l’aveva chiamato. Si fermò comunque – meglio che voltarsi e tirare dritto fingendo di non averlo sentito, almeno… - rimanendo in attesa, Reo al suo fianco.

Oz li raggiunse, rispondendo con un sorriso all’incurvarsi di labbra amichevole di Reo; passò lo sguardo su Elliot che, una mano sul fianco, sembrava in attesa di qualsiasi cosa Oz dovesse dirgli per poter tornare alle proprie occupazioni.

Il biondo tentennò: «…hai un po’ di tempo?» borbottò. Non che fosse particolarmente a disagio con Elliot – l’ultima volta che avevano parlato non era andata così male, perciò forse potevano avere un rapporto almeno da civili compagni di scuola.

Elliot parve sulla difensiva, come se non capire dove Oz volesse andare a parare lo facesse sentire in qualche modo vulnerabile: «Stavo andando a prendere gli spartiti per tornare a suonare nell’altro edificio.» replicò, lasciando che il biondo valutasse se quanto doveva dirgli avrebbe richiesto più o meno tempo da essere compatibile con la cosa.

Oz sembrò pensarci su qualche istante, dopodiché rivolse all’altro uno sguardo deciso: «Posso venire ad ascoltarti?» chiese, con l’agitazione di un bambino che emozionato chiede di poter osservare da vicino un suo beniamino – sebbene celata nella voce: aveva pur sempre una dignità da difendere, con Elliot.

La reazione di Elliot fu inaspettata, almeno per lui: sgranò appena gli occhi dalla sorpresa, nonostante ci fu un palese tentativo di non darlo a vedere. Dopodiché – Oz fu certo di scorgerlo complice l’illuminazione del giardino dell’istituto – ci fu un rossore imbarazzato leggero ad imporporare le guance del castano.

Assunse però quasi subito un’espressione seccata, stizzita, voltandosi dall’altra parte: «Tsk, fai come ti pare se hai tanto tempo da perdere!» sbottò, iniziando ad avviarsi.

Oz rimase fermo per qualche attimo, stupito, cercando quasi una conferma in Reo che sorrise con fare complice prima di avviarsi al fianco di Elliot, invitando il biondo a fare lo stesso con un cenno del capo.

 

Aveva ascoltato Elliot suonare, per quanto non lo sapeva.

Ma, dal momento che guardando dalla finestra le luci dei dormitori risultavano quasi tutte spente, Oz aveva supposto che si fosse trattato di ore. Almeno due.

Era rimasto in silenzio, senza dire nulla ad Elliot; aveva atteso seduto vicino alla finestra dell’aula di musica, il gomito poggiato al davanzale, lo sguardo fuori che non aveva osservato nulla di particolare.

Aveva ascoltato ogni brano che il castano aveva suonato, quasi tutti senza imperfezioni; aveva ascoltato Lacie, dapprima suonata da sola e poi a quattro mani – cosa che lo aveva portato a spostare l’attenzione e lo sguardo verso il centro della stanza, dov’era il pianoforte, per notare Reo seduto al fianco di Elliot che suonava con lui.

Se ne era un po’ stupito, perché non sapeva né aveva sospettato che anche Reo suonasse il piano: tuttavia l’effetto che ottenevano insieme era bello, e piacevole all’udito.

Perciò ora ascoltava, ancora in completo silenzio, la melodia che insieme stavano facendo giungere al termine.

Fu solo quando le note si interruppero sfumando nel silenzio della stanza e il sospiro di Elliot fu l’unica cosa che le seguì che Oz parlò; con un sorriso ammirato, si rivolse a Reo: «Sei bravo, non sapevo suonassi anche tu.» esternò la considerazione fatta mentalmente.

Reo stava per dire qualcosa, probabilmente un ringraziamento per il complimento di Oz, ma Elliot lo interruppe parlando per primo.

«Insomma, cosa c’è?» se ne uscì, agitato a quanto si coglieva dal tono di voce appena impaziente: «Non penso proprio che tu sia venuto qui per ascoltarmi suonare due ore di fila.» commentò eloquente.

Solo per essere smentito pochi istanti dopo; Oz abbozzò un sorrisetto, l’indice che sfiorò la guancia in una movenza un po’ infantile ed impacciata: «A dire il vero a me piace ascoltare quando suoni.» fece presente, come se avesse pensato che fosse ovvio e si fosse invece ritrovato a dover spiegare qualcosa che dava per scontata.

Ciò che accadde dopo fu una reazione prevedibile, ma anche la condanna a morte dell’orgoglio di Elliot Nightray; il castano arrossì, anche se non vistosamente abbastanza da essere visibile. Imbarazzato, ribatté con uno sgarbato: «Non prendermi in giro, nano!» rivolto ad Oz.

Il biondo lo fissò dapprima sorpreso e poi, cercando di trattenere una risata.

Senza un vago successo, tra l’altro.

Ma la vera rovina di Elliot, fu che nel momento in cui Reo aprì bocca fu chiaro da che parte stava: e non era quella dell’erede dei Nightray.

«Perdonalo Oz, Elliot si imbarazza facilmente quando si complimentano riguardo il pianoforte.» fece, placido, neanche fosse la madre del castano e ne stesse scusando l’indole burbera; l’interessato non fece in tempo a dire nulla, che il biondo lo precedette: «Oh, davvero? Ma non dovrebbe sentirsi in imbarazzo! È una sua peculiarità, no?» fece eco, rivolgendosi al moro come se Elliot non fosse nemmeno presente nella stanza.

«Concordo, ma sai, è di indole timida.»

«Più che timida, è un po’ scorbutico… o dici che è per nascondere la sua anima gentile e fragile?»

«Mh… è un punto di vista interessante. In effetti, quando era piccolo e Padron Gilbert era appena arrivato a casa, Elliot per ammirazione lo trattava veramente male.»

«…Ma che modo di ammirare sarebbe?»

«Credo si tratti di—»

«La volete piantare?!» sbraitò Elliot, interrompendoli bruscamente e dando uno scappellotto – neanche tanto leggero – ad Oz, lanciando invece un’occhiataccia a Reo che, con perfetta calma e compostezza accompagnate da un sorriso leggero commentò con un: «Elliot, questo non è un po’ eccessivo?» indicando il punto colpito dal castano.

Mentre Oz si massaggiava la parte lesa, Elliot riempiva la stanza con la sua voce decisamente poco soave, rivolgendo al servitore un: «Mi sfotti con quel nano biondo e poi vieni a dire a me che sono eccessivo?!»

Reo ridacchiò, senza replicare – cosa che, effettivamente, non fungeva da calmante sul castano.

Elliot fece schioccare le labbra in un verso stizzito, tornando su Oz: «E quindi? Hai anche litigato con tua sorella perché dovevi parlarmi e lei non voleva, giusto?» tirò in ballo, senza la minima parvenza di tatto che fu accolta da un sospiro del moro al suo fianco, senza commenti stavolta.

Oz sgranò appena gli occhi, quasi lo avesse dimenticato, sfruttando la musica di Elliot per trascurare almeno un po’ il discorso che avrebbe voluto affrontare con lui.

Nonostante la mente fosse piena ancora della voce e delle parole di Glen Baskerville, questo non gli aveva permesso di accantonare completamente il discorso fatto con Break e soprattutto la rivelazione che il docente gli aveva fatto volutamente.

«Ho parlato con una persona.» iniziò, prendendola un po’ alla larga forse, ma nemmeno lui sapeva esattamente come porre la domanda. Ma capì un po’ dall’occhiata di Elliot – mentre questi si sedeva nuovamente incrociando le braccia al petto – un po’ da solo, che tirarla per le lunghe di certo non lo avrebbe ben disposto, né avrebbe agevolato il discorso o lo stesso Oz.

Perciò sospirò, come a cancellare quelle prime parole e a ricominciare da capo.

«Elliot, vorrei parlare con te di Glen Baskerville.» disse, il tono deciso a non lasciar perdere il discorso anche se l’altro si fosse dimostrato ostico nel portarlo avanti. Gli occhi chiari si soffermarono su di lui, quasi a volergli dare il tempo di assimilare l’argomento e al tempo stesso spiandone la reazione.

Contrariamente a quanto si era aspettato forse, Elliot non fece nulla di particolare: tacque, ricambiando lo sguardo come se fosse in attesa del resto del discorso per poter decidere se rispondere o meno. Reo lo guardava portando l’attenzione ora su uno, ora sull’altro.

«E cos’è che vorresti sapere da me? Non sono né un lontano parente, né qualcuno che ne abbia studiato la storia come se fosse un personaggio famoso.» gli fece notare, una nota stizzita nel tono di voce che usava per parlare in quel momento. Oz non deviò lo sguardo, rimanendo serio: «Ma sei stato tu che lo hai trovato.» rimbeccò.

Sapeva che non era il modo migliore di prendere l’argomento; immaginava che, se davvero Elliot lo aveva trovato da bambino, la cosa doveva essere stata a dir poco traumatizzante.

Un ragazzino che trova un cadavere in una pozza di sangue sarebbe stato uno spettacolo discutibile già per un adulto, figurarsi nel caso del castano. Però Oz aveva perso la lucidità per analizzare le situazioni, per pensare ad una qualsivoglia strategia che potesse portargli più informazioni possibili.

Era solo stanco e, infantilmente, voleva trovare presto delle risposte.

Voleva solo sapere che suo fratello, come aveva sempre creduto d’altra parte, era un ragazzo normale che era morto sì in giovane età, ma senza essere messo in mezzo a nulla di strano.

Dopodiché, egoisticamente, di cosa fosse accaduto a Glen Baskerville o al perché si fosse ucciso non era interessato; se non sfiorava in qualche modo la memoria di suo fratello, allora non era nulla che lo riguardasse.

Anche la questione degli spiriti che sembravano dimorare a Latowidge, avrebbe perso di importanza se soltanto non avesse più volte finito con l’incrociarli nella ricerca della verità.

Elliot non gli sbraitò contro. Assunse un’espressione che Oz non gli aveva mai visto, piuttosto: un sorriso leggero, mesto e amareggiato come se avesse ricevuto una grossa delusione e stesse deridendo se stesso per essere stato così sciocco da credere a quel qualcosa che ora si rivelava tutt’altro.

«Alla fine, quindi, non sei diverso da tutti gli altri. Anche tu vieni, incuriosito chissà perché dall’idea di un ragazzino che trova un cadavere. Pensi che sia stato divertente, immagino, o almeno degno di attenzione. Allora va bene, ti accontento. Tu e la tua schifosa curiosità.» esordì, parole dure e piene di disgusto.

Probabilmente, pensò Oz, molti adulti allora dovevano aver indagato sulla cosa sottoponendo Elliot allo stesso racconto per chissà quante volte.

Però voleva chiarire che ciò che voleva sapere, non era quello che Elliot stava certamente immaginando in quel momento.

«Vuoi sapere cosa, mh? Quanto sangue c’era? Molto. Più di quanto tu possa immaginare sul cadavere di una persona. O vuoi sapere com’è morto materialmente?» lo incalzò, senza però dargli tempo di rispondere ponendo domande a sua volta: «C’era una spada. Si è trafitto con una spada, ecco com’è morto ed ecco il perché di tutto quel sangue. E se vuoi sapere com’era, era come qualsiasi altro defunto sulla faccia della terra: era pallido, era immobile e sembrava che dormisse. Ma questo tu non dovresti forse saperlo meglio di me?» insinuò, forse crudelmente a giudicare anche dalla mano di Reo che andò a posarsi sulla sua spalla in un tacito monito riguardo le sue parole.

«O forse vuoi sapere com’è stato trovarlo? È stato uno schifo. C’era puzza, avevo la nausea, ed era uno spettacolo che mi sarei risparmiato a dir poco volentieri, ecco com’è stato!» sbottò, alzandosi in piedi istintivamente, quasi ad enfatizzare le parole.

Oz aveva abbassato lo sguardo, e le prime parole che scivolarono fra le labbra suonarono probabilmente incoerenti con la sua decisione a volerne sapere di più.

«Ti chiedo scusa.» pronunciò, il tono basso che risultava udibile solo per il silenzio che aveva nuovamente riempito la stanza dopo le ultime parole dell’altro: «Hai ragione. So meglio di te che aspetto ha una persona morta. E so che vederlo da bambini non è affatto divertente.» aggiunse, come a fargli notare che anche nel suo caso se lo sarebbe volentieri risparmiato.

Anche se la situazione di Jack era stata molto diversa, di certo meno traumatica visivamente.

«Però io non volevo ficcanasare su questo.» chiarì Oz, portando nuovamente lo sguardo su Elliot, sincero: «Quello che volevo chiederti è… come mai lo hai trovato proprio tu, ad esempio. Di tante persone che probabilmente lo circondavano, come la servitù, lo hai trovato tu. In casa Baskerville.» puntualizzò.

Era strano che proprio il figlio minore dei Nightray trovasse morto l’erede di un’altra famiglia in un giorno qualsiasi; il problema era che qualsiasi altra supposizione sfiorava il surreale.

Elliot era un ospite abituale dei Baskerville? Difficile. Non c’erano bambini della sua età che lo giustificassero e dubitava che Glen avesse l’indole tipica di chi ama giocare con un ragazzino tanto più piccolo di lui.

Glen si era ucciso con i Nightray in casa? Bizzarro. Dubitava si fosse suicidato per qualunque cosa avesse portato la famiglia di Elliot alla tenuta dei Baskerville quel giorno, perciò era difficile che fossero stati loro la causa scatenante. E – ma era qualcosa di azzardato, perché non conosceva Glen a tal punto – era sconveniente togliersi la vita con degli ospiti quando appartenevi all’alta società.

Significava fare volontariamente della propria morte uno scandalo.

Elliot era lì per puro caso? …sembrava assurdo pensare ad una casualità da qualche tempo a quella parte.

Non esternò tutte quelle ipotesi che aveva fatto, ma rimase in attesa di una risposta da parte dell’altro; il castano, per contro, sembrava confuso. Come se non si fosse aspettato quella fra tutte le domande possibili, e come se non sapesse nemmeno bene come rispondere.

Alla fine sospirò, portando una mano a scompigliare leggermente la zazzera castana, in un gesto che Oz non gli aveva mai visto fare – insomma, era molto più da Noah che da Elliot, tanto per essere chiari.

«Io non è mi ricordo granché di Glen Baskerville a dirla tutta. Ero un bambino. Mi ricordo solo che non era proprio raro che andassimo alla loro tenuta. Qualche volta era il padre di Glen a venire da noi, ma in quei casi il figlio non c’era mai. Anche quando siamo andati da loro, l’ho incrociato pochissime volte e ho un ricordo molto vago. Perciò non è che avessi chissà quale profondo rapporto con lui. Per la verità erano i nostri padri che avevano a che fare l’uno con l’altro. Questioni amministrative suppongo.» spiegò, un po’ a disagio, il tono di voce quasi stanco.

Oz ne fu colpito perché quel tipo di stanchezza, gli ricordò in qualche modo la propria: non di tipo fisico, quanto più l’essere stanchi di una situazione e di qualcosa che evidentemente – sebbene non la stessa – affliggeva Elliot da tempo sufficiente a rendere la cosa mentalmente spossante.

«Semplicemente è successo. Sono entrato in quella stanza… non so perché. E c’era Glen Baskerville steso per terra in un pozza di sangue e la spada che non so cosa fosse, forse un cimelio di famiglia, che aveva procurato la ferita. Non mi ricordo granché più di questo.» concluse Elliot, asciutto, lo sguardo su un punto impreciso del pavimento.

Oz tacque a sua volta, cercando di fare ordine nella propria mente innanzitutto.

Se era davvero tutto lì allora non c’era modo di venirne a capo: Glen Baskerville era stato chiaro, non avrebbe detto nulla di più e anzi ad un prossimo incontro non sarebbe andata di lusso come quel primo che c’era stato. Altri – viventi – non sapevano nulla.

E Jack non era di certo interpellabile.

…Se avesse sostenuto di non averci mai pensato, alla possibilità che Jack potesse essere uno spirito esattamente come si era rivelato Glen, Oz avrebbe mentito; però lui cercava volutamente di non prendere la cosa in considerazione. Non si trattava di mancanza di affetto verso suo fratello, piuttosto il contrario forse.

Parlare con Sirjan era stato quasi illuminante per quanto triste e in una situazione tale – dopo la morte di Alyster – in cui avrebbe dovuto fare più male che altro.

Sirjan, per quanto di certo avrebbe desiderato riavere la sorella con sé, aveva continuato ad affermare di non desiderare nuovamente rivederla se avesse significato fare di lei uno spirito. Questo perché gli spiriti erano animati da sentimenti che li incatenavano quasi; e il pensiero che fossero qualcosa dalla quale non avrebbe mai potuto difendere Alyster nemmeno volendo, era qualcosa di insopportabile per lui.

Oz si era ritrovato perfettamente d’accordo: immaginare Jack costretto a vagare ancora fra i vivi, afflitto dalla tristezza o dal dolore, era qualcosa di molto simile ad un incubo. Specie per chi come lui, nonostante tutto, conservava il ricordo di un Jack che sorrideva con dolcezza com’era solito fare alle persone a cui voleva bene.

«Ho incontrato Glen Baskerville.» disse, senza sapere bene nemmeno lui perché.

Non alzò subito lo sguardo su Elliot e Reo: era cosciente del fatto che a chiunque quell’affermazione sarebbe suonata assurda. Probabilmente anche a lui stesso, se non l’avesse vissuta in prima persona. Il silenzio aleggiava nella stanza senza che nessuno dei tre dicesse nulla; quando Oz alzò lo sguardo per capire quale reazione ci fosse stata dall’altra parte – derisione, incredulità, sorpresa – vide le mani di Elliot tremare leggermente. Di rabbia, pensò, ma dovette ricredersi.

Lo sguardo che il castano gli rivolse, infatti, Oz lo definì istintivamente “perso”; come se avesse appena smentito le certezze dell’altro.

«Che significa che hai… incontrato Glen Baskerville?» chiese Elliot, cauto.

Oz si rese conto che, effettivamente, poteva sembrare che la frase si riferisse al passato, quello in cui Glen era vivo e non uno spirito.

Si demoralizzò, perse coraggio.

Ma, inaspettatamente, Elliot parlò nuovamente – dal tono e dallo sguardo sembrava non crederci nemmeno lui: «Tu… lo hai visto di recente.» mormorò come se dirlo ad alta voce potesse avere chissà quali ripercussioni. Oz cercò di capire in base a cosa lo stesse affermando, ma non vi riuscì del tutto; tuttavia annuì lentamente.

Elliot sembrò sciogliersi in un sospirò prolungato: portò una mano sulla propria fronte, e ad Oz parve ancora più stanco di prima.

«Da quanto lo incontri? Questa è stata la prima volta?» chiese, senza portare lo sguardo su di lui per il momento.

Oz scosse la testa: «La seconda. La prima è stata quando eravamo in corridoio e ti ho detto che avevi avuto un mancamento o qualcosa del genere.» rivelò.

Elliot lo fissò basito stavolta: «Che cosa?!» esclamò «In quell’occasione è apparso Baskerville?!» chiese, brusco. Oz, pur sapendo che non fosse la cosa ideale da dirgli visto il panico dilagante, si lasciò sfuggire istintivamente: «Più che apparso ti ha… mh, posseduto?» ipotizzò.

Elliot mutò l’espressione in quella di chi sta seriamente per esplodere: «Senti un po’, ma tu lo sai cos’è il tatto?!» sbottò fissandolo.

«No, ma sono in compagnia, fidati!» ribatté a tono il biondo, riferendosi chiaramente all’altro.

Elliot stava per replicare a sua volta quando Reo li interruppe con uno scappellotto ad entrambi: «Smettete di litigare, questo è un discorso serio.» disse, passando lo sguardo dall’uno all’altro. Oz si massaggiò la testa – nonostante il colpo non fosse stato fortissimo, chiaramente – ed Elliot sospirò seccato.

«Ascolta» prese la parola Oz prima di essere battuto sul tempo dal più grande: «perché Glen dice che per lui parlare tramite te ed avere il controllo sulla tua mente è più facile che con chiunque altro?» domandò forse a bruciapelo, e senza il minimo tatto come aveva sostenuto il castano. Però, per come erano andate le cose e a giudicare dalle sue parole, Elliot era l’unico a sapere qualcosa in più e di conseguenza Oz non poteva permettersi di avere scrupoli nel fare domande.

Elliot parve colpito dalla sua richiesta e alla fine sembrò cedere: «Ti dirò quello che vuoi sapere, ma tu dovrai fare lo stesso.» pose come condizione, alla quale Oz acconsentì con un cenno del capo, l’espressione seria.

Elliot sospirò: forse, non era facile nemmeno per lui.

«È perché la mia menta è predisposta, diciamo così. O almeno credo.» esordì il castano: «Dopo averlo trovato in quella stanza… per molto tempo, crescendo, ero riuscito a rimuovere quelle immagini quasi completamente. Poi, senza un motivo particolare, una notte ho sognato qualcosa di strano.» proseguì mentre Oz, alla parola “sogno”, trasaliva impercettibilmente.

«Sembrava il classico incubo da ragazzino, di quelli che non hanno molto senso a dirla tutta. Un edificio che andava a fuoco, qualcuno che urla nella stessa stanza in cui ti trovi e la sensazione che siano posti e voci che non conosci, ma che nel sogno sembrano di importanza vitale. Nulla di anomalo insomma.» spiegò. Fece una pausa, cercando con occhi il viso di Oz.

Il biondo taceva, l’attenzione su di lui.

«Però poi» riprese Elliot «è diventato un sogno frequente. Anche troppo. E con il passare del tempo si aggiungevano particolari del ricordo che avevo  rimosso. Il sangue una volta, la spada un’altra. E infine Glen Baskerville. All’inizio non mi parlava, non mi si rivolgeva mai. Era come spiarlo senza essere visti. Poi però mi guardava sempre più spesso, senza dire nulla. E un giorno, alla fine, mi ha chiesto: “Hai intenzione di ficcanasare ancora per molto, ragazzino?”.» si interruppe, tornando a cercare chissà quale espressione rivelatrice sul viso del biondo. Ma a giudicare da quella che assunse lui, non la trovò.

«Se stai pensando che sia pazzo, fai come vuoi, l’ho pensato anche io e non l’ho ancora escluso del tutto.» dichiarò sulla difensiva: «Tuttavia questa è la risposta alla tua domanda di qualche mese fa.» aggiunse.

Oz ne fu confuso: «Quale domanda?» chiese infatti.

«Come e perché conosco il brano di “Lacie”. Anche se la risposta “lo conosco e basta” che ti avevo dato non era poi tanto una bugia, come vedi.» ammise con un sorrisetto ironico ad increspargli le labbra.

«Eh?! Vuoi farmi credere che… che lo hai sognato?!» esclamò Oz dopo qualche istante di silenzio, incapace di trattenersi.

Elliot annuì, lasciando vagare lo sguardo per la stanza; Reo, rimasto in piedi fino ad allora si sedette accanto al castano, dov’era stato per suonare a quattro mani con lui. Nonostante sapesse tutto essendo rimasto al suo fianco per tanti anni, il moro lasciava che fosse Elliot a parlare: non solo per i loro ruoli sociali e perché la questione riguardava l’altro di persona, ma anche perché era la prima volta che – in un modo o nell’altro – Elliot trovava il coraggio di parlarne con qualcuno che non fosse lui.

«Puoi non crederci, te l’ho già detto.» ribadì il castano, ma Oz volle interromperlo subito: «Ci credo. È strano, ma… ci credo.» disse, forse persino troppo partecipe per il modo in cui era abituato a trattare con l’altro. Tant’è che Elliot ne fu stupito.

«E in base a cosa?» chiese infatti, com’era prevedibile probabilmente. Oz non rispose subito, ma solo per trovare il modo più corretto di spiegarlo: «Perché… questa cosa di fare sogni strani succede anche a me da quando sono qui.» confidò, anche se non proprio sicuro. Anche per lui si trattava della prima volta in cui ne parlava.

«Sono diversi dai tuoi, e in realtà potrebbero non essere nulla di strano, però…» indugiò, quasi si aspettasse di essere interrotto, cosa che però Elliot non fece né sembrava intenzionato a fare.

«Però sembrano tutti collegati fra loro. E in ogni caso, anche lasciando stare questa cosa, io Glen l’ho visto. Non potrei non crederti.» fece presente.

Elliot annuì, e ad Oz sembrò – ma non poté esserne certo – che l’altro avesse sorriso leggermente.

«Cosa ti ha detto Baskerville quando lo hai incontrato?» domandò Reo, inaspettatamente dato il silenzio quasi completo che c’era stato fino a quel momento da parte sua. Oz spostò lo sguardo su di lui: «La prima volta di non impicciarmi dei suoi affari.» replicò, iniziando dalla cosa più semplice.

«Cosa che avresti dovuto fare, decisamente.» commentò Elliot con fare quasi brusco: «Ma qualcosa mi dice che ovviamente tu non hai seguito il consiglio.» aggiunse, battendo sul tempo il biondo, che assunse un broncio leggero.

«Non potevo. Non è colpa mia se metà della storia di Glen Baskerville si incrocia a quello che voglio sapere.» ribatté nuovamente a tono. Elliot non fece domande in proposito – mentalmente si disse che le avrebbe fatte in breve però: «E la seconda volta? Quando è stata e cosa ti ha detto?» chiese invece.

«Dopo il litigio con Ada, e—»

«Cosa?! Ma parliamo di ieri mattina!» lo interruppe Elliot alzando appena il tono di voce. Oz sospirò: «Avevo bisogno di sapere la verità.» mormorò, abbassando lo sguardo verso il pavimento.

Elliot forse intuì la delicatezza dell’argomento in cui si stavano addentrando; non lo incalzò né altro, lasciando che si prendesse il suo tempo come aveva fatto lui a sua volta: «Voglio sapere perché mio fratello era convinto di aver ucciso il suo migliore amico se in realtà Glen si è suicidato. Voglio sapere perché, a distanza di anni, le loro morti si stanno intersecando in questo modo.» rispose infine Oz.

Elliot aggrottò appena la fronte, cercando di collegare le cose: sapeva che Jack Bezarius e Baskerville erano stati amici, ma non aveva mai sentito parlare di accuse per la morte di quest’ultimo. Pensò che al momento non fosse comunque qualcosa di cui doversi impicciare.

«Ti ha dato le risposte che ti servivano?» chiese invece, osservandolo; istintivamente, Oz portò una mano al braccio colpito da Jabberwocky, che era andato a farsi medicare il giorno prima – con non poche difficoltà: spiegalo tu all’infermiera perché ti sanguina un braccio a quel modo.

«Non del tutto, a dire il vero.» ammise: «Qualcosa di vago. Come il fatto che, materialmente, Jack non c’entra nulla in tutta questa storia. Ma allora “non materialmente” c’entra qualcosa invece?» diede voce al dubbio che aveva avuto fin da subito. Elliot rimase in silenzio, come se anche lui stesse soppesando la questione: in effetti, in questo stato supponeva fosse ovvio che – nonostante i vari moniti ricevuti – quel ragazzino continuasse a cercare un “contatto” con Glen, non curandosi di quanto potesse rivelarsi pericoloso.

«Ha detto chiaramente di non tornare. Che, dal momento che non sono Jack» gli scappò un incurvarsi di labbra di troppo, seppur quasi impercettibile e di certo non divertito dalla cosa «la mia vita per lui non ha alcun valore.» riportò.

Elliot lo guardò con fare indagatore, sospettoso quasi. Oz, accorgendosene, ricambiò con uno sguardo incuriosito.

«C’è qualcosa che non va.» se ne uscì Elliot senza una spiegazione logica: «Ti ha minacciato di morte, praticamente. O comunque ha lasciato intendere che non farebbe nulla se cercandolo tu finissi nei guai. Cosa c’è da sorridere?» chiese diretto, senza tanti inutili giri di parole.

Oz sussultò; non si era minimamente accorto di aver sorriso, e pertanto quella domanda era apparsa – scioccamente – come se il castano gli avesse letto nel pensiero o qualcosa del genere.

Oz si vergognò della risposta, sebbene non le diede voce immediatamente. Abbassò lo sguardo, mortificandosi per il pensiero formulato.

«Glen… non vede Jack in me. Vede suo fratello minore, che con lui non ha nulla a che fare. Non ricerca in me alcun tratto di lui, al contrario sembra quasi cercare più differenze possibili per far sì che nulla di quello che vede in me glielo ricordi. Come se per lui Jack fosse stato una persona unica, che non può essere sostituita da nessuno anche se questo qualcuno gli somiglia.» ammise, parlando sinceramente come forse non aveva mai fatto con nessuno dalla morte del fratello.

Elliot non replicò subito.

Quando lo fece, l’espressione era seria e sembrava quasi dura ma Reo – fin troppo abituato ad intuire dalla sua espressione quello che spesse volte il castano non diceva – vi lesse anche una sfumatura di dispiacere forse; ma questo, lo sapeva, non avrebbe impedito all’altro di pronunciare parole che sarebbero certamente state simili ad una ramanzina.

«Ti stai lasciando illudere da qualcosa che non esiste. Te ne sei accorto, vero?» pronunciò duramente.

«Ti stai aggrappando a parole che Glen Baskerville non ha pronunciato né per rincuorarti, né per farti sentire protetto.»  continuò, severo: «Non leggere nulla di questo, perché se c’è una cosa su cui Baskerville è stato sincero nei tuoi confronti è che della tua vita, come di te, non gli interessa nu—»

«Smettila!» sbottò Oz, lo sguardo basso e i pugni chiusi; alzò però quasi subito gli occhi verdi sull’altro: «Credi che non lo sappia?! Sto solo dicendo quello che mi ha detto, e la sensazione che mi ha dato! Che problema c’è se penso che sia l’unico che finalmente non vede su di me l’ombra di qualcun altro?! Cosa importa a te se anche mi lascio prendere in giro da una mia convinzione, visto che da quando mi conosci non hai fatto altro che dire “odio i Bezarius qui”, “odio i Bezarius là”?!»

«Infatti non mi interessa! Vai pure a farti ammazzare per quel che me ne importa, ma sarà una morte idiota! Ma forse sarebbe degna di te!»

«Non parlare di morte come se ci scherzassi su, non ho certo detto che vado a suicidarmi!»

«Invece è precisamente quello che rischi di fare! Pensi che non mi sia accorto che hai intenzione di tornare da Glen Baskerville? Certo, forse è per la verità che vai cercando, ma ti assicuro che tu ci vai per lasciarti coccolare da quello sdegno che hai colto nelle sue parole e che hai voluto scambiare per la gentilezza di dirti che tu sei tu e basta. E allora, hai davvero bisogno che qualcuno te lo dica, pezzo di deficiente?! Non è forse ovvio che tu non sei e non puoi essere altri che te stesso?!» sbraitò Elliot, alzatosi in piedi nell’impeto del discorso.

«Ma tu cosa cavolo vuoi da me?! E se anche fosse?! Saranno pure affari miei, cosa—» fece per replicare Oz, interrotto da uno schiaffo che Elliot gli diede in pieno viso e che, essendo inaspettato, colpì il biondo in pieno.

Oz si portò una mano sulla guancia offesa, dove si stava spargendo il rossore dovuto al colpo.

«Mi irriti e basta! Me lo sogno ogni cazzo di notte, e tu non stai nemmeno provando a resistere un minimo alla prospettiva di abbandonarti ad una bugia o a qualcosa che vedi solo tu! Se non riesci nemmeno ad avere coraggio abbastanza da mettere la tua vita davanti alla prospettiva di un po’ di respiro di fronte alla sofferenza, come pensi di arrivarci alla verità per cui ti stai distruggendo da solo, eh?! Se non sei in grado di fare nemmeno questo, forse allora saresti dovuto davvero morire tu al posto di tuo fratello!» gridò quasi, praticamente.

Oz non disse nulla.

Sentì solo Elliot che si allontanava, un pugno che colpiva sonoramente lo stipite della porta, e la mano di Reo che si posava appena sulla sua spalla prima di allontanarsi seguendo il castano.

 

 

Oz non era tornato subito al dormitorio.

Avrebbe significato seguire Elliot, e non aveva voluto; il tempo era trascorso, mentre aspettava nella stanza dove avevano discusso, in maniera quasi ovattata.

Il silenzio aveva nuovamente avvolto ogni cosa, e il biondo era tornato a sedersi quasi senza accorgersene: rivolto alla finestra, aveva poggiato la fronte contro il vetro freddo, socchiudendo gli occhi.

Era rimasto in quella posizione a lungo – non sapeva quanto, ma era tanto – e ad un certo punto, senza un motivo preciso, si era semplicemente alzato.

Pur non avendo l’orologio da taschino con sé in quel momento, aveva potuto supporre che fosse ormai tardi abbastanza. L’aria all’esterno – aveva dovuto percorrere il solito vialetto per passare dall’edificio centrale in cui erano, al dormitorio – era fredda, come altre volte l’aveva sentita sulla pelle quando si era mosso in piena notte ad orari improponibili.

Spinse il portone verso l’interno, aprendo quanto bastava per entrare.

Quando ebbe richiuso alle proprie spalle e si fu voltato verso l’interno, Oz vide una figura fra le poltroncine, vicina al camino acceso di un fuoco in procinto di spegnersi lentamente.

Il ragazzo – logico visto che erano nel dormitorio maschile – era voltato verso di lui, come se avesse aspettato di vedere qualcuno apparire sulla soglia; Oz non poteva esserne certo, ma poiché erano potenzialmente solo due le persone che poteva aspettare, suppose che fosse lì su richiesta di Sirjan.

Aedan, seduto, lo osservava: gli rivolse un cenno leggero col capo, invitandolo con un gesto della mano a sedersi su una delle poltroncine libere.

Oz avrebbe voluto andare in stanza, infilarsi sotto le coperte e dormire fino a tardi approfittando dell’arrivo del fine settimana. Non aveva davvero voglia di parlare, men che meno con Aedan; nulla contro di lui, ma considerando che spesso altri non era che il messaggero di Sirjan, supponeva che anche in quell’occasione non fosse diversa. Per un attimo pensò che forse, sebbene gli sfuggisse ancora come, Sirjan era venuto a sapere del suo incontro con Glen.

Rimase in silenzio, immobile dov’era, forse nella speranza che il moro distogliesse lo sguardo al suo muto rifiuto. Ma Aedan mantenne l’attenzione su di lui, e alla fine Oz si arrese. Avanzò fino a raggiungere il posto a sedere indicatogli dall’altro, dove prese posto: affondò con schiena e testa nel cuscino morbido della poltrona, e tacque, le mani mollemente poggiate sulle ginocchia.

Si era aspettato che, a quel punto, Aedan iniziasse subito a riportare un eventuale rimprovero o messaggio del capo dormitorio – gli era parso di capire che il moro non amasse particolarmente perdere tempo con dei giri di parole – ma così non fu.

Aedan, semplicemente, rimase a sua volta immobile e in silenzio a guardarlo. Le mani sui braccioli, rimase così per un po’ mentre Oz – sempre più perplesso – attendeva che parlasse, finché non capì che forse l’altro si aspettava che fosse lui a parlare.

Per dire cosa, non ne aveva idea.

«Aedan, c’è qualcosa che devi dirmi?» ruppe infine il ghiaccio, confuso. Aedan, senza mutare espressione come suo solito, scosse la testa.

«Quindi non ti manda Sirjan?» domandò Oz senza capire.

«Sirjan non c’entra. Sono venuto ad aspettarti perché volevo.» replicò l’altro, sorprendendolo. Era la prima volta, infatti, che Oz sentiva usare da Aedan l’espressione “volere”.

«Tu e Sirjan, vi ho guardati.» esordì nuovamente il moro inaspettatamente: «Vi somigliate.» chiarì, anche se Oz non riuscì a cogliere dove l’altro volesse andare a parare.

«Io e Sirjan? Non credo di somigliargli granché a dire il vero.» buttò lì in risposta, con un sorrisetto leggero – anche se di sorridere non aveva voglia.

«All’inizio non molto. Ora però sì. Specialmente quando fai quella faccia lì.» spiegò, indicando l’espressione di Oz in quel momento. Il biondo suppose che si stesse riferendo a quell’incurvarsi di labbra forzato e, improvvisamente, lo colse una consapevolezza.

Era qualcosa che era rimasta una sensazione sopita per molto tempo, che gli era costantemente sfuggita l’attimo prima di riuscire a darle un nome e una forma. Aveva colto in Aedan – nel suo atteggiamento – qualcosa che aveva già visto, ma che non poteva esattamente definire familiare.

Ed ora, senza apparente motivo, aveva finalmente capito cos’era.

Aedan aveva la stessa sensibilità e mentalità, per certi versi, di un bambino: i concetti, le opinioni e quella capacità di cogliere i sentimenti altrui erano puri, istintivi. Aedan capiva le cose nella loro semplicità di fondo.

Per lui non c’erano dubbi sulla maggior parte delle questioni che affrontava; capì che contrariamente a quanto aveva sempre pensato, Aedan non eseguiva qualsiasi ordine per mancanza di una volontà propria, ma per completa fiducia in Sirjan – e, supponeva, in quell’Ethan Sparrow.

Allo stesso modo quindi, il suo mettere la propria vita in secondo piano in confronto a quella dello stesso Ethan, forse non era scarsa considerazione per se stesso, quanto più… un affetto incondizionato nei confronti dell’altro.

«Tu non piangi mai?» se ne uscì il moro.

Ok, rettificò mentalmente Oz in quel momento, a volte Aedan aveva anche le uscite “scomode” tipiche dei bambini, oltre a tutto il resto.

«Alla mia età sarebbe un po’ imbarazzante, no? E poi adesso come adesso non c’è qualcosa di preciso per cui vorrei piangere, quindi…» rimase sul vago, a disagio per quella domanda.

Ma il moro lo sorprese nuovamente quando parlò; spostò lo sguardo dalla figura dell’altro, portandolo verso una delle finestre presenti lì in quella fungeva quasi da sala comune per gli appartenenti al dormitorio.

«Serve un motivo preciso, quando si vuole piangere?» chiese, ingenuamente come un bambino che non sa nulla del mondo.

Oz alzò quindi istintivamente lo sguardo su di lui, ironicamente proprio ora che Aedan aveva fatto l’esatto contrario. Era perplesso e stupito da quella domanda che, nonostante di primo impatto non sembrasse particolarmente sensata, aveva insinuato silenziosamente il dubbio in lui in quel momento.

Serviva? C’era qualcosa di “necessario” per poter dire “ora piango”?

«Io credo che vada comunque bene.» riprese Aedan senza preavviso, senza che avesse mai parlato così a lungo di sua sponte, dando un parere personale su qualcosa che sembrava toccarlo in qualche modo, chissà perché.

«Penso che a volte venga solo voglia di piangere senza alcun motivo. Guardi fuori e vedi qualcosa che pensi somigli a qualcos’altro che hai visto quando non stavi bene, o qualcosa non andava. E ti viene voglia di piangere, magari perché lo avevi fatto anche quella volta o forse proprio perché allora non lo avevi fatto.» proseguì, senza mai guardare il biondo mentre parlava.

Si spiegava con parole semplici, elementari e in qualche modo sembrava ripetersi come se il vocabolario che possedeva fosse limitato; eppure colpiva tutto molto più che se lo avesse detto con parole più complesse o ricercate.

«Credo che non sia molto importante, il perché. Va bene anche se ora piangi per qualcosa di poca importanza e la usi come scusa per sfogare qualcos’altro. In un modo o nell’altro, l’importante è arrivare a non avere più la forza nemmeno di tenere gli occhi aperti. Quando ti sveglierai andrà meglio.» continuò.

Oz era rimasto in silenzio, ma non riuscì a tenere per sé un: «Stai parlando di piangere senza controllo e senza motivo apparente?» confuso, ma anche speranzoso in un modo contorto che non avrebbe potuto spiegare.

Era come se aspettasse che Aedan, rispondendo affermativamente alla sua domanda, gli desse il permesso di essere debole almeno per un po’.

Se ne vergognò.

Ultimamente sembrava niente più che un ragazzino che si lagnava in continuazione senza fare alcun passo avanti; forse, Elliot non aveva torto.

«Non fa nulla se il motivo non è apparente o chiaro per gli altri. Tu lo sai perché ridi, o perché piangi, perché ti arrabbi o perché reagisci in un modo piuttosto che in un altro. E agli altri, in fondo, non interessa sapere tutto di te. Ad alcuni potrebbe bastare vederti stare bene.»

 

 

Sirjan si era allontanato, dopo quelle parole.

Il fatto che Aedan avesse dichiarato di voler parlare da solo con Oz di una cosa lo aveva inizialmente impensierito – o forse, più che altro, incuriosito – ed aveva voluto controllare.

Ma, nel momento in cui aveva colto il significato di ciò che Aedan stava pronunciando, si era allontanato per non interferire; benché fosse probabile che il moro avesse colto la presenza di qualcuno, allenato com’era per il ruolo che ricopriva, doveva aver ritenuto inutile smascherare la sua presenza.

Nel muoversi verso l’edificio centrale – avrebbe approfittato della ronda, controllando che anche Nightray fosse rientrato dalle sue sonate notturne autorizzate per dar tempo a quei due di finire di parlare – qualcosa aveva catturato la sua attenzione.

Non aveva faticato a capire di cosa si trattasse: l’aveva seguita, con passo sicuro, e aveva infine raggiunto la persona in questione – malgrado tutto, nel suo caso Sirjan non avrebbe potuto definire Jack semplicemente “spirito”, nonostante la sua natura fosse ormai quella.

«Non è molto tipico di te lasciare che io ti segua quando vuoi parlarmi.» lo riprese, ma con tono morbido; Jack sorrise come un ragazzino beccato in flagrante mentre rubava la marmellata dal barattolo, cosa peraltro non proprio fuori dagli schemi per il biondo e il suo carattere.

«Scusami, è che è un po’ imbarazzante forse. Faccio la figura del fratello maggiore iperprotettivo.» ammise, il tono un po’ impacciato che avrebbe fatto tenerezza a chiunque in quel frangente. E d’altra parte, chi meglio di Sirjan poteva capire quel lato di Jack?

«Vuoi parlare con Oz, mh?» tirò ad indovinare – non che ci volesse un grosso sforzo.

Jack però ne parve comunque sorpreso, qualche istante prima di sorridere nuovamente: «Non ti si può nascondere proprio nulla, quando si tratta degli accordi che abbiamo vero?» disse, una sfumatura particolare del tono che però l’altro non commentò.

Abbozzò un sorriso leggero invece: «No, sei solo tu che sei particolarmente prevedibile Jack.» gli fece presente, tranquillizzato ulteriormente dalla risata leggera in cui l’altro si sciolse.

«Hai il permesso di parlare con lui. Tuttavia ci sono cose che non puoi dirgli, specialmente riguardo una precisa questione.» aggiunse, serio nel suo ruolo che ancora manteneva.

Jack lo osservò, rivolgendogli un incurvarsi di labbra gentile, molto simile a quello che gli aveva riservato quando lo aveva incontrato per la prima volta insieme alla sorella: «Ogni concessione ha le sue regole, giusto? Dimmi Sirjan, qual è la questione a cui non vuoi che accenni?» domandò Jack, il tono pacato e lo sguardo chiaro sul ragazzo.

Questi portò il proprio sul viso di Jack, la serietà e la severità che lo avevano sempre distinto in qualche modo nel suo adempiere ai propri doveri – condivisi o meno che fossero.

«Il figlio illegittimo dei Nightray. Oz non deve sapere che si tratta di Alice Lewis.»

 

 

Note

Quante maledizioni mi state lanciando in questo momento? ;D *bello che almeno ne è consapevole*

Io so che sono molte, ma so anche che sono piene di amore <3 (ma anche no).

Teoricamente (non è un caso che sia sottolineato e corsivo XD) da qui in poi man mano dovrebbero venire i nodi al pettine come si suol dire; sto cercando di dosare comunque le rivelazioni perché non vorrei proprio che dopo avervi fatto soffrire 16 capitoli con inghippi della trama tutta la spiegazione risultasse poco “graduale”.

Spero di riuscire nell’intento (voi non lo sapete, ma sono io quella che vorrebbe chiarire tutto e subito più di chi legge XD).

 

La frase in apertura è del manga yaoi “Doushitemo Furetakunai” di Yoneda Kou <3

 

Passo alle risposte alle recensioni :3

 

Bacinaru: spero che la tua vita non sia finita al precedente capitolo, innanzitutto XD come vedi Oz è ancora vivo, e a quanto pare Elliot non è un assassino (ma perché, qualcuno ci aveva creduto? LOL *bastarda*)

Per la questione Lacie-Jack dovrete pazientare – salvo tragedie (che con me tutto è possibile), dovrebbe essere tutto o quasi nel prossimo capitolo o giù di lì <3

Ti ringrazio per i complimenti sull’IC, che per me è un dramma perpetuo. I riscontri da parte di chi legge sono quindi sempre un piacere e qualcosa di istruttivo :3

Mi dispiace di aver impiegato tanto con questo aggiornamento, e spero quindi di farmi perdonare con il capitolo e che possa piacerti come i precedenti <3

 

NatsuVIII: Noah e i calzini, io ho paura seriamente che voi lettrici ne farete un fan club XD

Incontrare Break CON Rufus sarebbe la gioia di una yaoi fan girl, ma non di Oz a quanto pare. Poi devo dargliene atto: mi sbucasse Break di notte da un corridoio penso che non vivrei abbastanza per raccontarlo XD *inquietata*

Gil in crisi è un mio sadico divertimento e tale rimarrà – dovrò pur sfogare il mio stress di autrice no? XP

Quanto ad Oz è finalmente esploso ma che non si illuda: per lui c’è ancora da patire (come è giusto che sia, è il protagonista u.u)

Spero che questo capitolo ti sia piaciuto :3

 

Fiamma Drakon: Noah è un fanboy. Uno yaoi fanboy. E in quest’affermazione è racchiusa l’essenza di ogni cosa che fa e di ogni idiozia che dice XD

Ringrazio anche te per l’IC, come detto anche sopra a bacinaru :3 Sono contenta che le parti un po’ più corpose – come la seconda con Gil e Vince, o quelle con molte spiegazioni o dialoghi lunghi – non risultino troppo pesanti. Non sempre riesco a calibrare il modo in cui tramite i personaggi do informazioni sulla trama, quindi è un bene che non vi risulti di difficile lettura <3

Ecco infine quel che Glen ha fatto ad Oz (secondo me, gli è andata di lusso xD)

Spero sia stato di tuo gradimento :3

 

Meimei: dai che tanto lo so che ami Noah uwu

La parte che ti interessa (leggasi: Lacie) è ormai alle porte, per la tua immensa felicità XD Jabby è amore. Il mio sogno proibito è riuscire a inserire la scena di Jack che lo grattinizza senza farla apparire completamente fuori luogo in Rinnega XD (impresa ardua, vista l’atmosfera tutt’altro che allegra di ‘sta fic XD).

Attenderò gli altri tuoi scleri sul presente capitolo XD

 

Un grazie infine anche a chi so che legge a parte, o che mi commenta in separata sede :3

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Capitolo 18
*** Qualcosa che non so dire ***


Qualcosa che non so dire

Qualcosa che non so dire

 

«Non riesco mai a dirlo.»

«Che cosa?»

«...Addio.»

 

«Non voglio che gli riveli che la figlia illegittima dei Nightray è Alice Lewis.» pronunciò Sirjan, lo sguardo su Jack mentre gli accordava il permesso di stabilire un contatto con il più giovane dei Bezarius, ma gli proibiva di pronunciare di fronte a lui quella verità che andava nascosta.

Chissà perché, poi.

Jack tuttavia si limitò ad incurvare le labbra con quel fare gentile e accondiscendente che rivolgeva a Sirjan ogni volta che avevano occasione di interagire.

«Hai la mia parola. Questo argomento non sfiorerà le mie labbra in presenza di Oz.» assicurò al più giovane, di cui colse un sospiro impercettibile; lo incuriosì, come una sfumatura nuova colta per la prima volta.

Anche Sirjan dovette notare la rinnovata attenzione di Jack, e inarcò appena un sopracciglio: «Cosa c'è?» chiese infatti, diretto. L'altro ridacchiò sommessamente, divertito.

«Sembri più stanco, dell'ultima volta. Uhm, in positivo, intendo.» si corresse subito, perché non sembrasse un rimprovero. Sirjan non parve convinto, però: mise le mani in tasca – cosa ben lontana dall'etichetta che esibiva sempre alla perfezione – poggiando la schiena al muro.

«Cosa c'è di positivo nel sembrare più stanco del solito?» domandò infatti, perplesso.

Jack portò una mano dietro la nuca, in un gesto meccanico che anche in vita aveva fatto spesso. O almeno, a Sirjan era familiare.

«Forse mi sono espresso male.» iniziò il biondo: «Non è che sembri più stanco. Forse, è l'impressione che ho perché stavolta non lo stai nascondendo, differentemente dalle altre in cui ci siamo visti.» si corresse Jack, lo sguardo chiaro sull'altro. Sirjan sbuffò, assumendo un'espressione che – lo avesse visto qualcuno – avrebbe fatto crollare l'opinione generale dell'intero istituto: un'aria seccata, ma non di quelle  che rivolgeva a Cheshire nei loro (fortunatamente) rari incontri.

Era un misto dell'irriverenza di un ragazzo giovane, e di quel fastidio dato dal dover mostrare sempre una facciata perfetta per il perfetto mondo in cui si vive. La stanchezza per la finzione, mescolata al fastidio per il doverla calare anche solo un minimo per respirare.

«Tch, quindi mi stai dicendo che sono diventato uno smidollato. Non c'è nulla di simile ad un complimento in queste parole, sai Jack?» lo apostrofò, come se fosse lui il maggiore e il biondo il più piccolo da riprendere.

«Posso farti una domanda, Sirjan?» domandò Jack, eludendo quella domanda retorica che di risposte non aveva bisogno. Sirjan mantenne l'attenzione su di lui a quelle parole: «Quale?» lo incalzò.

«Se sai che scoprire di Alice non sarebbe certo un pericolo per Oz, allora come mai tanto affanno per nascondere la cosa?» chiese a bruciapelo, stupendo forse un poco il suo interlocutore. Kolstoj era stato convinto che Jack, in quanto spirito, sapesse. O, in caso contrario, che potendo osservare i vivi quanto i morti – in special modo quelli di Latowidge – lo avesse capito da solo. Ma la domanda smentiva quel pensiero, sorprendendolo.

«Davvero non lo hai capito da solo?» indagò infatti.

«Più che non averlo capito, diciamo pure che ho un'ipotesi di cui però non ho conferme.» chiarì il biondo, sincero. Nella condizione in cui era, non aveva motivi per mentire, tantomeno a Sirjan che era a conoscenza di molte più cose rispetto a lui.

Il più giovane sospirò piano, quasi con voluta lentezza.

«Diversi motivi. In primis, poiché custode dei segreti di tutte le famiglie, il mio compito in quanto Kolstoj è appunto far sì che certe cose non si sappiano. Questa è fra le tante. I Nightray non ne sarebbero affatto entusiasti.» fu la premessa a cui l'altro diede voce: «Puoi immaginare da te che sarebbero in molti a porsi delle domande. I tre fratelli Nightray che studiano qui per esempio. Senza contare la stessa Alice: non ho da rivelare molti dettagli in proposito, ma quella ragazza sembra non serbare alcun ricordo. Per lei la condizione di Lewis, cugina dei Nightray, è la normalità. Non sospetta minimamente di esserne la sorella minore, seppur illegittima.» continuò, spostando lo sguardo fuori dalla finestra che era l’unica fonte di luce e solo grazie alla luna, il cui leggero bagliore non era offuscato dal cielo nuvoloso che ultimamente sovrastava l'istituto.

«Inoltre, sai bene anche tu dell'odio di Vincent Nightray per Alice. È una catena destinata a spezzarsi, se una sola delle informazioni trapelasse e giungesse all'orecchio di qualcuno dei diretti interessati. Caso vuole che Oz sia molto legato ai principali protagonisti di questa storia: Alice e Gilbert, innanzitutto. E se legati a quest'ultimo, si è inevitabilmente a contatto con Vincent. Inoltre, ho infine avuto modo di notare che tuo fratello sembra in qualche modo anche abbastanza vicino ad Elliot. Capirai quindi da solo che non posso lasciare che scopra nulla. Né potrei mai fare affidamento su una sua promessa di tacere.» aggiunse, facendo forse la figura della persona malfidata.

Ma Jack non parve pensare che fosse per scarsa fiducia, non in senso strettamente offensivo almeno.

«...Tuo fratello ha la sfortuna di essere un amico leale. Per questo non posso dirgli nulla, ed è questo che lo mette nei guai.» pronunciò infine Sirjan, dopo qualche istante in cui aveva mantenuto il silenzio.

Jack socchiuse gli occhi, limitandosi ad un sorriso leggero che l'altro sbirciò fugacemente, senza commentare.

«Piuttosto, Sirjan» riprese il biondo, cambiando argomento: «qualcuno si è appena allontanato dopo averci sentiti parlare, o aver sentito almeno te farlo. Non è da Sirjan Kolstoj permettersi distrazioni simili.» gli fece notare, prendendolo bonariamente in giro. L'altro, ancora nella medesima posizione, socchiuse gli occhi con tutta calma.

«Avevo notato la sua presenza, e so di chi si tratta. È qualcuno già a conoscenza di tutti gli argomenti che abbiamo toccato, pertanto non era necessario preoccuparsene.» disse semplicemente.

 

 

Strinse appena gli occhi, aprendoli lentamente in quella sequenza tipica del risveglio.

Mosse leggermente una mano, ritrovandosi a sfiorare qualcosa che non era stoffa: abbassando lo sguardo, notò che erano senza dubbio capelli. Mise lentamente a fuoco la figura che per una manciata di secondi non sembrò altro che un'ombra indistinta; in un secondo momento – mentre, chiunque fosse, alzò la testa per posare lo sguardo su di lui – ne riconobbe i tratti peculiari: capelli neri, occhi dorati.

Associare le due cose a Gilbert fu istintivo ed immediato.

«Gil...?» mormorò, il tono impastato dal sonno che evidentemente gli impediva ancora dei ragionamenti coerenti. Il moro gli sorrise accondiscendente, aspettando che Oz si tirasse su a sedere. Così fece il biondo, poggiando la schiena al cuscino fra sé e la testiera del letto.

Parve confuso, mentre guardandosi intorno riconosceva la sua stanza: «Aedan è venuto a bussare alla mia porta.» iniziò a spiegare anche se Oz non aveva ancora posto la domanda, intuendo forse quell'interrogativo prima che l'altro gli desse voce.

«Aedan?» mormorò Oz. Impiegò poco a ricordare il discorso affrontato con Shaye nella saletta, soli vista l'ora; le parole dell'altro lo avevano incredibilmente smosso, e si era sfogato fino a crollare esausto lì dove erano. Era plausibile pensare che Aedan fosse andato a chiamare Gilbert perché si occupasse di lui.

Se ne vergognò un po'.

«Ha detto che ti avrebbe portato su personalmente, se Sirjan non avesse avuto bisogno di lui. Ha chiesto a me di accompagnarti in stanza.» riportò l'altro fedelmente. Il biondo gli rivolse un sorriso, uno di quelli soliti, forse solo meno smagliante a causa del torpore che ancora lo avvolgeva. Con esso, in breve, sopraggiunse l'imbarazzo: il ricordo del bacio era ritornato prepotentemente e senza il minimo preavviso. Infantilmente, Oz pensò che non fosse affatto corretto tutto quello.

Per contro, Gilbert sembrava un servitore conscio di aver tradito il proprio padrone e che attendeva la punizione che immancabilmente si sarebbe abbattuta su di lui. Il che era quasi allucinante, non fosse stato che era proprio da Gilbert un atteggiamento simile.

«Uhm, Noah?» buttò lì, cercando di non prolungare quel silenzio scomodo che si era venuto a creare. Gilbert parve lieto di cogliere la palla al balzo: «Mi ha aperto quando ti ho riportato in camera. Vedendo che non rientravi, stava per venire a cercarti. Ha detto che sarebbe stato da Wellesday per stanotte.» replicò, chiamando Marcus per cognome – in effetti, pensò Oz, non avevano quasi mai interagito. Suppose che anche Marcus chiamasse praticamente tutta la scuola per cognome; non sarebbe stato affatto sorprendente scoprire che si rivolgeva con familiarità solamente a Noah e forse a Ethan, che aveva appreso essere uno dei pochi esseri umani che Marcus Wellesday considerasse amic--- beh.

Magari “compagni meno odiosi degli altri”, sì.

«Ho capito.» disse Oz ritrovandosi a fissare l'altro perplesso quando questi, senza il minimo preavviso, assunse un'aria serissima, protraendosi in avanti come se dovesse rivelargli una questione della massima urgenza ed importanza.

«Oz, dobbiamo parlare!» esclamò infatti quasi frettolosamente, come se temesse di dimenticare la cosa da riferire se non le avesse dato voce ora, subito. Il biondo rimase in silenzio quasi ad incalzarlo visto che, di qualunque cosa si trattasse, sembrava premergli particolarmente.

Gilbert, deciso, proseguì: «Riguardo al ba--» o meglio, probabilmente l'idea era di continuare sull'onda di quel cipiglio determinato improvviso. Peccato che avvampando l'effetto non fosse esattamente quello.

Quell'arrossire, peraltro, lasciò bene intendere ad Oz quale argomento l'altro stesse cercando di tirar fuori; si sentì in imbarazzo più in risposta al timido disagio del moro che per altro.

Rivedendo in quell'atteggiamento il preludio di un blocco psicologico al quale il più grande era stato soggetto fin da quando si conoscevano, decise di prendere in mano la situazione: si schiarì appena la voce, forse anche nel tentativo di allentare un minimo la tensione.

Era difficile di punto in bianco affrontare il discorso: Gilbert aveva diciannove anni, e certamente non la viveva esattamente come lui, che a sedici anni poteva vantare le poche esperienze avute esclusivamente con una controparte femminile. Peraltro, mai nulla di serio – e non che fossero così numerose o intime. Era pur sempre nell'alta società, dove i rapporti con gli altri erano sotto lo stretto controllo di precise regole: eri molto più soggetto allo scandalo, rispetto ad un normale adolescente.

Inoltre, Oz aveva studiato in casa, prima di andare a Latowidge. Non era esattamente il massimo per potersi dire uomo di mondo.

Se anche avesse messo tutta questa questione da parte, il disagio era comunque presente.

Gilbert era stato il migliore amico – di qualche anno più grande – che dall'infanzia era stato sempre presente finché non era andato via. Servitore, confidente, quasi fratello; spalla su cui piangere quando c'era stata una perdita dolorosa, compagno nei giorni spensierati che avevano preceduto quell'avvenimento.

Poi tanto tempo senza vedersi o essere in contatto, se non tramite i racconti di Ada e le lettere nei periodi scolastici in cui non tornava neanche nel week-end.

Ora, all'improvviso, passava dal lento ricostruirsi del rapporto di amicizia e lealtà reciproca al ruolo di... non sapeva bene come definirlo. Non si erano poi dichiarati o che. E non aveva nemmeno un'idea precisa sul significato di quel bacio.

Sospirò; si stava arrovellando il cervello su discorsi troppo complicati, quando Gilbert sembrava – dal suo colpo di tosse – in attesa di una sentenza di morte: «Non hai fatto nulla di male. Perciò smetti di guardarmi come se dovessi punirti da un momento all'altro.» se ne uscì, forse nel modo che più gli si addiceva, data la sua indole.

Non voleva essere superficiale in merito all'accaduto, ma per contro non voleva nemmeno che ci fosse una costante tensione fra loro da lì in avanti. Forse pretendeva troppo, o una situazione irreale data da una visione infantile.

Gilbert però parve capire: come sempre era stato, come quando in passato ad Oz non era servito pronunciare chissà quali discorsi per arrivare al moro, per fargli comprendere esattamente cosa volesse dire. Gilbert aveva sempre fatto tutto da solo, in quel senso, circondandolo con la gentilezza tipica di lui, che nei confronti del biondo non era mai venuta meno nemmeno a distanza di anni.

Oz se ne accorse quando sentì una mano del moro spostare qualche ciocca bionda dalla sua fronte, per posarvi un bacio leggero; alzando appena lo sguardo, lo notò ancora rosso in viso sebbene meno rispetto a prima – e d'altra parte era lui, ora, ad essere arrossito maggiormente a quel gesto inaspettato.

Lo guardò forse stupito, senza volere.

«Ti ringrazio. Ora... dovresti riposare ancora.» mormorò.

«Che ore sono?» domandò d'istinto Oz mentre seguiva docilmente la leggera pressione delle mani di Gilbert che, sulle sue spalle, lo guidavano per farlo sdraiare.

«Quasi le tre del mattino.» rivelò, rimboccandogli le coperte. Ad Oz venne istintivamente da sorridere; quelli erano i momenti in cui si sentiva come se fosse tornato bambino e Gilbert badasse ancora a lui come un servitore e al tempo stesso un fratello avrebbe dovuto fare.

La sola differenza, era quella sensazione di calore probabilmente fittizia che coglieva sulla pelle, lì dove il moro aveva posato le labbra. Tacitamente, si disse che per lui quella era una risposta sufficiente ai dubbi o alle perplessità che aveva. O almeno, per ora bastava.

«...Dovresti dormire anche tu.» gli fece notare, un broncio leggero e una sfumatura di rimprovero nel tono. Gilbert sorrise.

«Tornerò in stanza non appena ti sarai addormentato.» assicurò: «...domani parleremo di tutto quello che vuoi, Oz. Di Ada, o di Elliot... o di qualsiasi altra cosa.» aggiunse, quel tono di preoccupazione che suo malgrado, quando si trattava del biondo, non era mai in grado di nascondere completamente.

Oz non poté obiettare a quella premura e a quella gentilezza tanto familiari.

Differentemente da quanto accadeva negli ultimi tempi, prese sonno facilmente.

 

 

Si sentì sfiorare una guancia, e nel pieno del dormiveglia diede per scontato che non potesse trattarsi di altri se non Gilbert. Non era nelle condizioni migliori per formulare pensieri complessi, ma confusamente un angolo della sua mente si chiedeva, in effetti, come mai il moro fosse lì.

Man mano che prendeva coscienza, riaffiorava infatti il ricordo di un Gilbert che gli assicurava di rimanere, ma solo fin quando l'altro non si fosse addormentato; si era quindi trattenuto fino a quel momento?

Aprì lentamente gli occhi, mentre una considerazione più sensata prendeva forma: forse Gilbert era semplicemente venuto a svegliarlo. Avrebbe potuto effettivamente pensare a Noah, ma dubitava che l'altro lo svegliasse in maniera così delicata, a dirla tutta.

Quando mise a fuoco la figura che vedeva sopra di sé, ebbe quasi la totale certezza di stare sognando: i capelli biondi, la cui frangia – se la persona si fosse chinata maggiormente verso di lui – avrebbe potuto sfiorargli una guancia erano familiari. Gli occhi verdi che con gentilezza lo abbracciavano tramite il solo sguardo, inconfondibili.

Le labbra incurvate in quel sorriso dolce che gli aveva sempre rivolto... che faceva quasi male.

«...Jack?» riuscì a chiamare stupidamente, con un filo di voce.

Non poteva essere che un sogno, se Jack ora gli sorrideva comprensivo annuendo, come a dire “sono tornato”.

La mano sinistra del più grande si avvicinò con lentezza e un certo timore ingiustificato, fino ad insinuare leggermente le dita fra i capelli del fratello minore; per un attimo sembrò stupirsene lui stesso, come quando un gesto ci è mancato per così tanto tempo che lo si riscopre nel momento stesso in cui lo si fa o lo si riceve nuovamente.

Quella sorta di apparente disagio non durò a lungo: la mano calda di Jack si mosse in breve con più naturalezza in un vero e proprio scompigliargli i capelli, movimento al quale Oz socchiuse gli occhi infantilmente, quasi.

Tutto gli era mancato terribilmente: quel gesto, quel modo di fare, quell'attenzione anche nelle dimostrazioni d'affetto, come se persino quelle potessero ferire.

Nonostante avesse formulato come primo pensiero un razionale “deve trattarsi di un sogno”, fu del tutto istintivo alzarsi di scatto con un colpo di reni e accertarsi di quella presenza sporgendosi verso di essa, alla ricerca di un contatto.

Di un abbraccio, ad essere completamente sinceri.

Ma persino Oz, nel suo sperare in quella conferma fisica, non riuscì a non stupirsi quando il proprio capo finì col poggiarsi al petto del più grande, che sentì lasciarsi sfuggire uno sbuffo divertito poco prima di circondarlo a sua volta con le braccia.

«I tuoi abbracci sono sempre stati un po' un agguato, in effetti...» fece notare con tono bonario nel suo essere canzonatorio; Oz strinse appena gli occhi, godendosi quella sensazione a lungo proibita dall'assenza dell'altro.

Per un attimo sperò infantilmente che la morte di suo fratello fosse stata un sogno e che quella fosse la realtà. Anche se lo sapeva, che non era davvero così.

«Oz?» lo chiamò Jack, il tono calmo; il minore rispose a quel richiamo con lo stringersi dell'abbraccio che non sembrava intenzionato a sciogliere, nell'ingenua convinzione che così ci fossero più probabilità di mantenere “in equilibrio” quel momento, senza permettergli di sbiadire portandosi via Jack.

Questi sospirò impercettibilmente, intuendo forse i pensieri che affollavano la mente del fratello.

«Sono felice. Mi mancavi tanto, fratellino.» mormorò con dolcezza, sincero. Forse si stava dimostrando codardo, pronunciando parole simili come se dovesse rendere il tutto meno difficile, mascherando da fiaba con lieto fine la realtà a cui avrebbe dovuto dar voce in breve.

Nonostante volesse fare tutto tranne che causare dolore ad Oz, non poteva rischiare che l'altro prendesse nel verso errato quella possibilità di incontrarsi; non poteva permettersi e permettergli di credere che sarebbe potuto accadere in ogni momento, o che si sarebbe protratta a lungo quella situazione. Dopotutto era lui, Jack, ad aver approfittato della facilità di uno spirito di insinuarsi nei sogni di una persona particolarmente vicina.

Sentì Oz strusciare appena la testa contro di lui, esattamente come faceva da bambino, e ne fu intenerito; al tempo stesso, però, capì che il motivo di quel gesto era che l'altro si era perfettamente reso conto della precarietà di quel momento.

«Mi dispiace non poter rimanere a lungo. Di non poter tornare. Forse... non avrei nemmeno dovuto mostrarmi ora, ma avevo bisogno di parlare con te, Oz.» aggiunse, abbassando appena lo sguardo ma riuscendo a far rientrare nel proprio campo visivo niente più che il capo del fratello minore.

Non durò molto, tuttavia: colpito e riportato in un certo senso alla realtà dalle parole di Jack, Oz si scostò allentando l'abbraccio quanto bastava per poter alzare il viso verso l'altro.

Ritrovò il sorriso che Jack aveva sempre, sempre rivolto a lui e ad Ada.

«Anche tu mi sei mancato. Mi manchi, Jack.» mormorò come prima cosa, aggiungendo solo in un secondo momento: «Anch'io devo chiederti delle cose.»

Non riuscì a frenare il fiume in piena che il pronunciare quella frase aveva scatenato; troppe volte aveva desiderato poter chiedere la verità direttamente a Jack senza poterlo davvero fare.

«Jack, continuano a chiedermi di te, della tua morte... Mi hanno dato il tuo diario, e mi hanno chiesto di leggerlo. Hanno detto che vi avrei trovato anche la verità su Glen Baskerville, e Sirjan ha anche detto che ci sono persone in questa scuola, che mi mentono. Persone che conosco. Poi ho incontrato Cheshire, e Glen, e...» continuò, incapace di fermarsi, bloccato da un dito di Jack che gli sfiorò appena le labbra suggerendogli di tacere, sebbene senza alcun rimprovero nello sguardo.

«So che hai incontrato Glen. So più o meno ogni cosa. Ho continuato ad osservarti a lungo...» fece una piccola pausa, lasciandosi sfuggire un sorrisetto che Oz riconobbe immediatamente come di quelli impacciati che il fratello ogni tanto mostrava in momenti di particolare disagio: «Mi hanno detto già che sono troppo protettivo anche ora.» ammise in aggiunta, infatti, facendo sorridere anche Oz.

Non era cambiato nulla, sembrava quasi che il tempo – fermatosi – avesse ripreso a scorrere, semplicemente.

«Mi hai osservato... quindi sei sempre stato a Latowidge?» chiese, acquisendo in un secondo momento quella consapevolezza.

L'espressione sul viso di Jack assunse quasi una connotazione colpevole.

«Mi dispiace non averti mai avvicinato in maniera diretta. Ma Sirjan ha detto una cosa molto saggia e giusta: il mio tempo, quello mio e di Glen, si è concluso. Sarai stanco di sentirtelo dire ormai, ma... credo che tu, Oz, debba vivere senza il fantasma di tuo fratello che puntualmente torni da te a ricordarti solo la parte dolorosa del passato.» disse lentamente, dando quasi l'impressione di stare scandendo le parole.

Oz tacque, mordendosi appena il labbro inferiore: lo capiva, ma allo stesso tempo non voleva capirlo affatto.

Jack gli diede qualche istante, consapevole di aver pronunciato una verità dura per l'altro, come per se stesso; dopo un silenzio che minacciava di protrarsi ancora a lungo, riprese la parola: «Nonostante io sia a conoscenza del fatto che tu abbia parlato con Glen, non mi è stato possibile essere lì o ascoltare cosa vi siate detti. Anche se conosco Glen forse troppo bene per non riuscire ad immaginarlo.» ammise con un sorriso lieve.

Oz rimase in silenzio, lasciando che fosse l'altro a parlare.

«Immagino che abbia innanzitutto scongiurato una mia implicazione nella sua morte.» rivelò, cercando conferma nel fratello. Oz annuì lentamente: «Jack... tu e Glen...?» lasciò in sospeso, non sapendo bene come esprimersi mantenendo un minimo di riguardo nei confronti dei sentimenti del maggiore.

«Vuoi sapere se ci siamo mai incontrati come spiriti?» domandò, anticipandolo e facendolo quasi sentire a disagio per la curiosità che ora – differentemente da come era in qualsiasi caso – gli pareva terribilmente fuori luogo.

Si limitò ad annuire nuovamente.

«No, mai. Il contratto che vincola Glen a Latowidge è diverso dal mio o da quello di altri spiriti che sono qui. Si tratta... di scelte diverse che si fanno. Inoltre io sono giunto qui più tardi, rispetto a lui.» spiegò, accorgendosi forse di non essere chiarissimo per qualcuno che non conosceva il modo di rapportarsi degli spiriti, non essendo uno di loro.

Sorrise con uno sbuffo leggero, divertito quasi: «Aspetta, cercherò di spiegarmi meglio.» bloccò sul nascere qualsiasi dubbio del minore «Io ho scelto Latowidge solo nel momento in cui Ada prima e tu dopo siete giunti qui. Ma non vi sono vincolato: vi giro per mia scelta, perché si tratta di un luogo a cui diversi aspetti del regno dei vivi mi legano. Mio fratello e mia sorella, e il mio aver frequentato il medesimo istituto.» spiegò con maggiore chiarezza, paziente.

Oz pendeva dalle sue labbra, immagazzinando ogni minima informazione: «Glen è vincolato a questo luogo. Vediamo... se Sirjan è il tramite tra vivi e morti, Glen lo è tra morti e vivi. Sirjan fa sì che nessuno studente si imbatta negli spiriti di Latowidge e Glen lo stesso. Entrambi cooperano per il quieto vivere, diciamo così.» continuò, anche se Oz al ricordo di Jabberwocky dubitò seriamente che uno come Glen potesse puntare alla coesistenza pacifica. Anche se doveva ammettere di essere stato lui a violarne per primo il territorio, in quel caso.

«Per il tipo di ruolo che ha, Glen è confinato in un luogo privo di spazio e di tempo, in un punto imprecisato di Latowidge e allo stesso tempo in una dimensione completamente estranea alla tua. Vi risiede con Cheshire, per il semplice fatto che questi è uno spirito inquieto che sfugge facilmente al controllo. Glen gli garantisce qualcosa, che non ho bene appreso a dire il vero, ed in cambio Cheshire gli tiene lontano i ficcanaso. Ma è un tipo irruento, e Sirjan non lo ama per questo. Tempo addietro attaccò anche Xerxes Break. Se non ci fu un caso di uccisione, devono tutto a Sirjan e Glen lo sa. Per questo, a maggior ragione, cerca di calmare Cheshire. Immaginerai, se hai visto Jabberwocky, che non fatica molto in questo compito.» concluse, con una nota di sottile ironia.

Ma Oz era stato colpito da altro, e più precisamente dalla parte riguardante Break.

«Xerxes Break è stato attaccato da Cheshire? Perché?» domandò, lo sguardo che non abbandonava nemmeno per un istante Jack. Questi si sorprese appena: aveva creduto che Break, insieme a Barma e a quel loro tentativo palese di scoprire la verità tramite Oz piuttosto che tramite gli spiriti, avesse parlato di quell'episodio a suo fratello.

«Break si era avvicinato fin troppo a qualcosa a cui Cheshire fa la guardia. È qualcosa su cui non potrò darti dei dettagli, ma Cheshire fu fermato e quasi annientato completamente da Sirjan. Anche se persino lui subì qualche danno. Ad ogni modo, Xerxes perse completamente la vista da un occhio, e ha seriamente rischiato di perdere l'altro e la vita. Sirjan era furibondo: minacciò di recidere completamente il contratto che consentiva agli spiriti di dimorare lì. Credo che poi abbia trattato con Glen la cosa, ristabilendo le condizioni del loro patto.» concluse il racconto riguardo quell'episodio, mentre nella mente di Oz si delineavano maggiormente i ruoli e le figure del capo dormitorio e di Glen.

Jack tacque per dargli tempo di assimilare quelle informazioni, aspettando un gesto del fratello per proseguire con il vero motivo per il quale ora era lì con lui.

Quando Oz annuì, l'espressione meno confusa, Jack gli sorrise.

«C'è una sola verità che posso mostrarti Oz. Ma la mia speranza è che sia sufficiente ad allontanarti da tutto ciò che di sovrannaturale c'è a Latowidge, e dai segreti che non hai davvero bisogno di sapere per vivere senza dubbi la tua vita.» pronunciò, una nota di palese preoccupazione nel tono di voce.

Oz ne fu un po' stupito, e si sentì in colpa senza effettiva ragione – per il momento.

«Di quale verità stai parlando?» domandò in un mormorio, la voce che tremò per un istante.

«Della mia morte e di quella di Glen.» pronunciò Jack.

 

Era stata una sensazione stranissima, quella di avere l'istinto di stringere gli occhi mentre la stanza veniva inghiottita nel buio e, riaprendoli, ritrovarsi in un luogo completamente diverso.

Differente sì, ma non sconosciuto: si trattava infatti dell'atrio di Latowidge, senza il minimo dubbio. Jack era al suo fianco, e nessuno sembrava averli minimamente notati. I volti che Oz vedeva erano tutti estranei, nonostante la divisa scolastica fosse quella e non lasciasse il minimo dubbio sul fatto che si trattasse di studenti esattamente come lui.

Cercò una qualsiasi conferma sul viso di Jack, il quale gli sorrise leggermente, posandogli una mano sulla spalla e chinandosi appena verso di lui; l'altra mano, indicò un punto davanti ad Oz: «Guarda lì.» esortò.

Il minore spostò lo sguardo nella direzione indicata dall'altro, e sgranò appena gli occhi stupito: più avanti a loro, un Jack sedicenne – alto più o meno come Oz, i capelli più corti legati in un codino anziché nella familiare treccia, l'espressione spensierata che avrebbe mantenuto anche da adulto.

Camminava accanto ad un ragazzo sicuramente della stessa età, ma che sembrava molto più maturo dagli atteggiamenti che mostrava: portamento elegante e privo di difetti, serioso e in qualche modo anche altezzoso. I capelli neri e lisci sfioravano appena il viso con le ciocche più lunghe, la pelle chiarissima gli conferiva un fascino non indifferente nonostante fosse ancora nel pieno dell'adolescenza e lontano dall'essere un uomo fatto e finito. Gli occhi ametista, aveva un atteggiamento ben diverso dal Jack al suo fianco, che camminava chiacchierando divertito di chissà cosa, le braccia incrociate dietro la testa con fare ben poco nobile.

Nonostante le differenze che saltavano a dir poco all'occhio, quel giovane Glen non sembrava affatto infastidito dal comportamento del biondo e viceversa; a stupirsi e commentare molto di più erano i compagni che li notavano.

Il Jack al fianco di Oz, ridacchiò divertito: «All'epoca Latowidge, o almeno il suo lato pettegolo, era diviso in due fazioni. Quella che non capiva come potessi sopportare un altezzoso arrogante come Glen, e quella che non capiva come Glen potesse accompagnarsi ad uno scemo privo di pudore come il sottoscritto.» commentò, e Oz colse chiaramente nel tono un affetto smisurato per il migliore amico e per la situazione che ricordava piacevolmente.

«Eravate amici già a quest'età?» domandò Oz incuriosito, per un attimo dimentico del motivo per il quale l'altro gli stesse mostrando tutto quello. Non aveva mai avuto modo di chiedere al fratello alcune cose: in passato aveva sempre sentito parlare di Glen quando Jack tornava a casa per i week-end o per le vacanze, e più avanti forse il moro era anche capitato a casa Bezarius, almeno una volta. Ma a livello di avventure scolastiche, non c'era stato modo di parlarne granché, anche per la differenza d'età fra loro.

«Glen si è arreso ad avermi fra i piedi a metà del primo anno. Quindi sì, eravamo già amici. Vieni.» lo incalzò, muovendosi con naturalezza verso il se stesso di quel ricordo – era a quel punto ovvio che non potesse trattarsi di altro.

Oz lo seguì senza fiatare, spostando lo sguardo sul Jack a lui coetaneo che parlava con Glen guardando l'amico anziché in avanti. Cosa che non si rivelò molto intelligente, visto che in pochi istanti il biondo urtò contro una studentessa, con l'unico risultato di ritrovarsi entrambi a terra – specie considerando che l'altra era arrivata di corsa, probabilmente di fretta per una lezione o qualcosa del genere.

Jack, mugolando dolorante, spostò lo sguardo davanti a sé notando solo in quel momento contro chi era andato a sbattere; probabilmente la riconobbe di vista, ma non la conosceva di persona visto come le si rivolse: «Scusa, va tutto bene?» chiese, portando una mano a grattarsi la nuca un po' in imbarazzo per l'accaduto.

Glen aveva osservato la scena come qualcuno che si aspettava prima o poi qualcosa del genere, specie visto che l'amico probabilmente camminava spesso senza fare caso a dove andava.

La ragazza sembrava anche lei della loro età, notò Oz: capelli castani piuttosto lunghi, gli occhi di un castano caldo. Era piccolina, dal fisico minuto, ma sorrise impacciata verso Jack senza la minima traccia di arrabbiatura per l'accaduto.

«S-Scusami tu, correvo senza guardare dove andavo...» mormorò quasi frettolosamente, imbarazzata anche lei. Jack le sorrise più apertamente, mentre Glen si chinava leggermente e porgeva la mano proprio alla ragazza: «Non scusarti, se anche avesse battuto la testa, l'ha così dura da non arrendersi a guardare dove va anche dopo un anno che glielo faccio notare. È quindi probabile che non se la sarebbe rotta comunque.» commentò, ironico tanto che Jack si imbronciò.

La ragazza, con lo stesso fare impacciato rivolto al biondo, accettò la mano e l'aiuto ad alzarsi bofonchiando un'ennesima scusa verso Jack; questi fissò Glen: «Gleeen, sei cattivo! E se mi fossi davvero fatto male?» commentò offeso, o cercando di apparire tale vista la sua totale incapacità di arrabbiarsi col moro, già comprovata l'anno precedente.

Glen sbuffò appena, rassegnato, allungando quindi la mano verso l'amico: «Se non ti va bene allora le nostre strade potrebbero anche dividersi qui, sai Jack?» lo stuzzicò.

Non rideva, né faceva alcun gesto che desse ad intendere che non stesse parlando seriamente. Tuttavia, sia lo Jack che prendeva la sua mano alzandosi e borbottando qualcosa del tipo “figurati se ti do questa soddisfazione” sia quello al fianco di Oz sembravano aver capito, da chissà cosa, che quella dell'altro era una bonaria presa in giro.

Oz si chiese in che modo si potesse arrivare ad avere un'amicizia tanto profonda da interpretare persino espressioni che non venivano mostrate.

Analizzò con più attenzione il volto della ragazza che si era scontrata con Jack, e notò due cose: somigliava vagamente ad Alice – i capelli soprattutto, anche se il modo di fare era totalmente diverso e lei sembrava molto più fragile dell'amica, anche da un punto di vista fisico – ma soprattutto gli ricordò quello spirito che aveva incontrato una sola volta, proprio nell'atrio di Latowidge.

Si voltò verso Jack, aprendo la bocca per dire qualcosa ma venendo anticipato da un: «L'hai riconosciuta, vero? La ragazza che hai visto come spirito.» disse, il tono che Oz non riuscì a decifrare con precisione.

«Come lo sai?» chiese istintivamente, osservandolo stupito.

Jack tornò con lo sguardo sul se stesso di quel ricordo: «Lacie non interagisce con gli spiriti. Lei... vaga, senza quasi rendersi conto di dove va. È legata al mondo dei vivi dalla paura e dalla tristezza. Spesso smarrisce persino la strada, si ritrova in mezzo ai vivi e si spaventa. Se uno spirito è mosso da emozioni instabili, potrebbe anche arrecare danno agli esseri umani. Solitamente, la seguo. A volte da lontano, perché ci sono dei momenti in cui anche la mia presenza la spaventa.» spiegò, il tono un misto tra la preoccupazione e il dispiacere. Era evidente che erano stati amici a lungo, e che non fosse certo idilliaco non essere riconosciuto dalla ragazza o essere addirittura temuto da lei.

Però un attimo il minore immaginò che la stessa cosa potesse accadere con Alice, con la quale aveva instaurato un legame che forse non si poteva paragonare a quello di anni fra Jack e Lacie, ma che lui reputava ugualmente importante.

Sarebbe stato… triste.

Si distrasse nel notare che lo scenario sembrava incupirsi lentamente e al tempo stesso sbiadire; suppose che in breve sarebbe cambiato, così com'era stato dalla stanza in cui si era risvegliato a quell'atrio di diversi anni prima.

«Lacie era di origini più umili sia di me che di Glen. Però, anche se all'inizio sembrava intimidita, alla fine diventammo amici. Lei era importante, sia per me che per Glen, e noi lo eravamo per lei.» pronunciò Jack.

Ad Oz sembrò che in quelle parole ci fosse più il rimpianto che qualsiasi altro sentimento.

 

Quando fu possibile mettere nuovamente a fuoco ciò che aveva davanti e che lo circondava, Oz si chiese se non ci fosse qualcosa di sbagliato, poiché ad un primo sguardo era chiaro che si trovavano ancora nell'atrio, vicini all'ingresso stavolta.

Voltandosi però, fu evidente che quello doveva essere un ricordo diverso: il luogo era infatti addobbato a festa, in un modo non molto diverso da come lo era stato quel Natale a cui Oz aveva preso parte per la prima volta.

Molti studenti attendevano le proprie dame, altri le avevano appena incontrate; il clima di festa era palpabile, e gli abiti tutti diversi fra loro sia per colore che per modello – differentemente dalla divisa di tutti i giorni – lasciavano intuire che il Ballo di Natale fosse una tradizione di molto precedente anche all'arrivo di Vincent o Gilbert, che erano al loro ultimo anno a Latowidge.

Prima che potesse chiedere qualsiasi cosa, Oz fu distratto dalla voce simile e per certi versi non proprio uguale a quella del Jack a cui era abituato; voltandosi, inquadrò il biondo di quel ricordo: i capelli ormai lunghi oltre la metà della schiena e già legati nella treccia a cui era abituato, i lineamenti e la voce innegabilmente più adulti, ma non ancora definitivamente fuori dal periodo adolescenziale.

Tra l'altro, in quel momento la voce si stava esprimendo in un lamentoso: «Ahi, ahi, ahi» - che Oz non riusciva a capire se fosse dolorante o divertito, per assurdo – dovuto al fatto che una ragazza in abito da sera stava tirando la povera treccia e il relativo padrone al seguito, l'aria arrabbiata.

«Lottie, Lottie, non arrabbiartiii!» implorò infantilmente Jack, mentre a dir poco stupito Oz si voltava verso il fratello al proprio fianco.

«Charlotte Baskerville? La mia docente?!» se ne uscì come se non avesse la forza di crederci, in maniera forse anche un po' comica. Jack ridacchiò, annuendo: «Proprio lei. Esattamente come Echo è a Latowidge come servitrice di Vincent, Lottie aveva lo stesso ruolo per Glen.» spiegò brevemente, mentre Oz tornava con lo sguardo sulla scena che non avrebbe mai potuto immaginare da solo.

Charlotte Baskerville doveva aver certamente infranto qualche cuore a scuola: i capelli lunghi erano legati in un ordinato ed elegante chignon da un fermaglio floreale sul bordeaux, che riprendeva il colore dell'abito da sera. Le spalle erano scoperte , l'abito non troppo gonfio nella parte inferiore le scendeva abbastanza fluidamente lungo i fianchi, esaltandone la figura snella. Le scarpe, com'era norma, non si vedevano e le mani erano coperte non oltre il polso da dei guanti fini; il viso, forse appena truccato senza il minimo eccesso, era incorniciato da due ciocche lasciate libere dall'acconciatura. Nella semplicità di un abito privo di particolare lavorazione, era splendida. Jack, in quel momento trascinato, non era comunque da meno: camicia bianca appena visibile sotto la giacca nera formale che arrivava poco sopra al ginocchio, e pantaloni neri con scarpe del medesimo colore. Anche se non avresti mai pensato a Jack accostandolo ai colori scuri, nell'eleganza dell'occasione il nero gli donava esaltandone la figura slanciata, i capelli – al momento nella presa di Lottie – che nel loro colore dorato quasi risaltavano sulla stoffa scura.

Finalmente la ragazza sembrò fermarsi, smettendo di trascinarsi dietro Jack – peraltro Oz non aveva potuto non notare i risolini divertiti degli altri studenti che li avevano notati, come se quella fosse una scena abituale ormai.

Lasciata finalmente la treccia e permesso a Jack di tornare in posizione eretta, non più costretto a seguire la ragazza, Lottie si voltò verso di lui con espressione ancora palesemente arrabbiata.

«Perché non me lo hai detto?! E non dirmi che non lo hai notato finora, perché nemmeno tu sei così stupido Jack. Cos'era, lealtà verso Padron Glen?!» lo incalzò irritata.

Jack, le mani leggermente alzate quasi in segno di resa, abbozzò un sorriso leggero: «Lottie, non è questione di notare o di lealtà verso Glen. In realtà non ne ho mai parlato direttamente con lui, quindi... non pensare che volessi nasconderti nulla, per favore.» ammise, il tono calmo sebbene con una nota di dispiacere, probabilmente per quella situazione che si era creata o si stava creando.

Lottie non sembrava convinta da quella risposta: «Ma tu sei con lui tutto il tempo! Cos'è, è divertente sapere dei miei sentimenti per Padron Glen, Jack? Se scopro che mi stai prendendo in giro– »

«Non è affatto così.» la interruppe bruscamente Jack, lo sguardo che si era fatto serio all'improvviso mentre una mano aveva afferrato, pur senza gesti bruschi, il polso esile della ragazza. Gli occhi verdi erano puntati su di lei, mentre parlava.

«Non mi sarei mai preso gioco dei tuoi sentimenti Lottie e questo lo sai bene. Non trovo affatto divertente né vedere i tuoi sentimenti non ricambiati, né nulla del genere. È vero che mi ero accorto di questa cosa, forse persino prima di Glen, ma... è un altro, il motivo per cui non ho affrontato il discorso con nessuno. Perciò...»

«E quale sarebbe questo motivo, sentiamo. Lacie ti aveva chiesto di non dire nulla? Per questo non ti sei potuto nemmeno fidare di me? Sai perfettamente che sono consapevole del mio ruolo di servitrice dei Baskerville, e che non avrei mai osato esternare questi sentimenti, eppure– »

«Sono stanco!» sbottò Jack abbassando lo sguardo pur senza alzare il tono di voce, conscio probabilmente che potessero esserci orecchie indiscrete ad ascoltare quel discorso visto che erano nell'atrio dopotutto.

Oz poté notare lo sguardo di Lottie farsi confuso, come se improvvisamente le fosse sfuggita un'informazione di vitale importanza per quel discorso.

La ragazza osservò Jack, senza capire: «Stanco?» ripeté, il biondo che sembrava non riuscire ad alzare nuovamente gli occhi chiari su di lei.

«Già.» confermò: «Stanco di dover... di dovermi preoccupare esclusivamente dei sentimenti degli altri.» sussurrò. A cosa si riferisse, Oz non lo comprendeva ancora del tutto. Ma il tremore delle mani di Jack lungo i fianchi, era qualcosa di impossibile da ignorare.

La voce di Lottie che rispondeva, lo sguardo ammorbidito rispetto alla rabbia ostentata fino a quel momento, si affievolì sempre più finché Oz non fu del tutto incapace di cogliere anche solo una delle parole che sembrava rivolgere al Jack di fronte a lei. Capì che era l'intero ricordo a sbiadire, ed automaticamente portò lo sguardo su suo fratello ancora fermo al suo fianco.

Il più grande manteneva gli occhi chiari sulla scena, a cui poteva assistere come un ospite speciale già a conoscenza delle battute degli attori che lui aveva vissuto in prima persona.

«Ero davvero infantile, in un certo qual modo.» pronunciò dopo un silenzio che ad Oz era sembrato interminabile. Non lo incalzò chiedendo cosa intendesse, perché Jack aveva l'aria di chi avrebbe comunque saziato la sua curiosità senza bisogno di porgli altre domande.

«Lottie aveva rivelato i sentimenti che nutriva per Glen solo a me. Ma per la persona immatura che ero a quel tempo, rifiutai di condividerli per paura che schiacciassero i miei o, che al tempo stesso, li portassero alla luce. Lasciai credere a Lottie che il motivo di quel turbamento erano dei sentimenti per Lacie che non avevo mai confessato, ma... immagino che, a lungo andare, abbia comunque capito a cosa mi riferissi davvero.» parlò quasi stancamente, come se un peso invisibile all'improvviso lo stesse schiacciando.

Oz si chiuse per qualche istante in un silenzio meditabondo che Jack non spezzò, lasciandogli tutto il tempo di cui aveva bisogno.

Alla fine alzò lo sguardo su Jack per una manciata di secondi prima di portarlo poi nuovamente davanti a sé, in attesa che un nuovo ricordo andasse formandosi: «Io non credo che fossi totalmente dalla parte del torto.» pronunciò quasi a sorpresa. Né una domanda, né un giudizio: una constatazione fatta un po' seguendo la verità, un po' seguendo l'affetto verso il fratello.

Quella sensazione di essere schiacciato dai sentimenti altrui senza poter dar sfogo ai propri, e la volontà al tempo stesso di voler nascondere quelli che si reputano solo segni di debolezza, Oz la conosceva.

In maniera forse ipocrita, osservarli su Jack lo aveva portato istintivamente a pensare che nel cedere ogni tanto... non ci fosse nulla di male, che fosse del tutto umano e comprensibile.

Aveva pensato, osservando quel fratello più giovane e vicino alla sua età in un ricordo di anni prima, che fosse quasi legittimo.

«Eri solo spaventato. Lo so, perché... sono spaventato anch'io.» mormorò con un filo di voce, ammettendolo ad alta voce e sinceramente per la prima volta.

Quando alzò lo sguardo sulla figura di Jack fu per il: «Non è sbagliato quello che dici. Ma le mie furono parole crudeli, probabilmente.» che aveva pronunciato, al quale era seguito un sussurro che Oz aveva colto per pura fortuna – o così credeva.

«Come le bugie rivolte al mio unico, migliore amico.»

Oz sussultò dopo che l'ultima immagine del ricordo del ballo fu sbiadita del tutto, lasciando il posto ad un'oscurità inconsistente prima di prendere di nuovo forma.

Il sorriso che aveva intravisto sul viso di quel Jack più giovane, rivolto ad un Glen nel cui sguardo era passato un guizzo di preoccupazione per l'amico, era identico a quello che Oz aveva sempre, sempre rivolto a chi lo circondava.

Quell'incurvarsi di labbra che racchiudeva la convinzione di riuscire a mentire nascondendo la verità, e la fragilità di chi poteva spezzarsi da un momento all'altro.

 

 

Strinse i pugni, lo sguardo sul corpo di Oz che sotto le lenzuola continuava ad agitarsi nel sonno, nonostante i vari tentativi di Noah di scuoterlo e svegliarlo.

Era rientrato per cambiarsi con calma per uscire, approfittando del fine settimana; quando aveva notato in un primo momento quell'agitarsi non si era preoccupato eccessivamente, attribuendo il tutto ad un sogno o simili. Ma i lamenti si erano fatti più frequenti, perciò aveva pensato di svegliare il compagno di stanza: solo allora si era accorto del sudore freddo che gli imperlava la fronte. E nonostante lo avesse scosso e chiamato diverse volte, Oz non aveva dato il minimo segno di risveglio.

Probabilmente suonava assurdo dire che la cosa lo aveva mandato nel panico. Ma il punto era che Oz aveva avuto altre volte un sonno così agitato da svegliarsi urlante, e soprattutto il sonno di una persona poteva essere pesante ma mancava poco che Noah quasi lo buttasse letteralmente giù dal letto.

Senza contare che il sudore freddo – aveva notato in secondo momento che non si trattava unicamente del volto, ma che il pigiama aderiva leggermente al corpo, bagnato da quello stesso sudore – poteva stare a significare anche un malore.

Fu per quello che decise di aprire la porta, e allontanarsi per rivolgersi all'infermeria o al capo dormitorio se lo avesse trovato più celermente; uscendo in fretta e furia, tuttavia, poco mancò che la porta cozzasse contro qualcuno che evidentemente si stava dirigendo verso la loro stanza, o semplicemente camminava nel raggio d'apertura della porta.

«Ehi!» sentì sbottare il povero mal capitato, chiunque fosse: «Guardare prima di aprire la porta come un folle non ti farebbe male, Keynes!» aggiunse, non proprio l'esempio della cortesia, mentre Noah faceva mente locale e riconosceva la voce. Confermò l'identità del suo interlocutore portando lo sguardo su di lui ed incrociando quello ceruleo di Elliot Nightray.

Notò fugacemente Reo al suo fianco, ma non vi si soffermò più di tanto; considerando che il castano indossava abiti con cui di solito Noah lo aveva visto uscire dall'accademia, il suo cervello e lo stato abbastanza precario in cui normalmente esso versava avevano portato ad un farfugliare incomprensibile.

Quando se ne rese conto, allungò una mano a prendere il polso di Elliot, tirandolo appena verso di sé e la porta della propria stanza. Lo lasciò praticamente sulla soglia, la spiegazione: «Oz sta male e non riesco a svegliarlo! Continua a scuoterlo, io vado a chiamare Kolstoj o chi per lui!» che fu praticamente mezza urlata mentre già si allontanava di corsa.

Perplesso, Elliot fu anticipato da Reo che entrò prima di lui, passandogli di fianco.

 

 

«Jack, perché continua ad essere buio?» domandò confuso, notando che lo scenario che già altre volte era mutato per mostrargli dei ricordi non prendeva una forma definita. Il più grande si guardò intorno per qualche istante, prima di dare una risposta.

«Probabilmente il tempo a nostra disposizione si sta avvicinando alla fine. È probabile che qualcuno stia cercando di svegliarti; forse, è già mattina.» dichiarò, il tono un misto di tante cose che Oz credeva di riconoscere, risultando magari arrogante. Avvertiva il peso della separazione che si avvicinava, della consapevolezza che dopo quella volta forse non lo avrebbe davvero rivisto. Magari Jack non avrebbe più potuto avvicinarlo, forse il patto con Sirjan glielo avrebbe impedito. Oppure chissà, quella di parlare con lui poteva essere la famosa “questione in sospeso” di cui si leggeva nei libri, e allora Jack sarebbe andato semplicemente in un posto lontano e inconsistente, che non si vede e non si può raggiungere.

«C'è un'ultima cosa che posso mostrarti, nel tempo che ci rimane. Credo che sia la più importante, perché tu possa capire.» risuonò nuovamente la voce di Jack, mentre la sua mano raggiungeva quella di Oz e la prendeva gentilmente, cercando di rassicurarlo il più possibile.

Il più giovane strinse la presa di rimando, puntando lo sguardo di fronte a sé: per una volta, dopo tanto tempo, sentiva che qualsiasi cosa si fosse parata davanti ai suoi occhi non avrebbe dovuto guardare altrove.

E vide di nuovo una scena farsi sempre più chiara, acquistando senso.

Non era Latowidge, questo fu chiaro, ma Oz riconobbe ugualmente quel luogo – non senza stupirsene: una stanza in penombra che conosceva fin troppo bene si era delineata di fronte a loro. La camera di Jack, del periodo in cui il fratello era sempre più frequentemente costretto al letto; istintivamente, Oz gli strinse ancora di più la mano, come se fosse un appiglio per non sfuggire alla realtà.

Il Jack del ricordo era a letto, gli abiti informali di una persona malata: era più pallido, e la stanchezza si notava sul volto nonostante gli occhi verdi non avessero del tutto perso quel guizzo brillante che li aveva sempre caratterizzati. Il lenzuolo e la coperta lo coprivano fino alla vita, mentre la schiena poggiava su due guanciali sistemati in modo che la posizione da seduto non lo stancasse ulteriormente.

I capelli biondi erano legati in una treccia, ma molto più morbida, data l'intimità della propria stanza; gli occhi passavano dalle proprie mani – l'una vicina a quello che Oz riconobbe come il diario del fratello, l'altra posata sulla copertina dello stesso – ad un punto preciso della stanza, vicino alla finestra.

Anche Oz deviò la propria attenzione in quella direzione, e sussultò impercettibilmente notandovi la figura di Glen in piedi che aveva ormai imparato a riconoscere. Tuttavia non avrebbe davvero saputo dire chi, tra Jack e Glen, fosse la persona malata: il moro aveva lo sguardo spento, era ugualmente pallido, e sembrava guardare fuori dalla finestra come se non ci fosse nient'altro al mondo degno della sua attenzione più di un giardino visto chissà quante volte.

Il Jack in quel ricordo non azzardava a spezzare il silenzio che pesantemente gravava nella stanza; l'espressione mesta si mescolava ad una carica di senso di colpa.

Oz si chiese se non fosse stato quello il giorno in cui suo fratello aveva scritto sul suo diario di considerarsi un assassino, nonostante non avesse commesso alcun reato in vita.

«...Jack?» sentì chiamare il nome del biondo da Glen, in un tono basso appena percettibile. L'altro voltò appena la testa verso di lui, rispondendo con un: «Dimmi, Glen.» poco più alto di un mormorio.

Oz vide il Glen di quel ricordo alzare appena la testa, ma continuare a guardare fuori.

Era quasi certo che in realtà non vedesse nulla.

«Non era un incidente.» decretò quasi freddamente. Eppure, al tempo stesso, nel tono con cui pronunciò quelle poche parole ad Oz parve di cogliere disperazione e rabbia, di quelle che ti logorano e non ti lasciano scampo.

«Lacie è stata uccisa.» aggiunse il moro. Mentre quella pesante accusa riecheggiava nella stanza e nella mente di Oz, questi spostò istintivamente lo sguardo sul Jack che nel suo letto di morte prossima stringeva appena la copertina di un diario.

«Glen... c'è una cosa che devo dirti.» mormorò piano, trovando chissà dove il coraggio di alzare lo sguardo su di lui esattamente mentre il moro portava il proprio sul suo migliore amico.

«Io... sto morendo Glen. Non c'è possibilità che io... possa rimanere con te ancora a lungo.» pronunciò.

Mentre l'immagine di due persone consumate dalla solitudine e dal dolore spariva come gli altri ricordi avevano fatto fino a quel momento, Oz fu certo di sentirla.

Una voce che si scusava disperatamente.

Era la voce di Jack.

 

 

«...Jack!» pronunciò, boccheggiando appena come se gli fosse mancata l'aria, svegliandosi di soprassalto; una mano verso l'alto, gli occhi chiari spalancati inquadrarono in breve la figura di Elliot che sopra di lui l'aveva probabilmente scosso fino a quel momento.

Quando quel pensiero divenne concreto nella sua testa, scattò con rabbia verso di lui, afferrandolo malamente per il colletto della camicia.

«Perché mi hai svegliato?! Perché... perché mi hai...?

«Datti una calmata!» sbottò quello di rimando, afferrando il polso del moro in una presa salda e costringendolo a lasciarlo andare. Oz fu per un attimo perso, e confuso.

Rimase con la mano a mezz'aria, in parte protesa verso Elliot – solo allora notò Reo dietro di lui – senza sapere esattamente cosa fare o come muoversi. Cosa credere.

Poi, quasi violentemente, l'immagine del diario stretto tra le mani di Jack nell'ultimo ricordo lo fece voltare verso il comodino: senza la minima attenzione alle lenzuola, o al pigiama che gli aderiva addosso a causa del sudore, aprì malamente il cassetto in cui aveva nascosto il diario dalla propria vista per molto tempo.

Recuperatolo, lo sfogliò febbrilmente, senza curarsi degli sguardi confusi e increduli dei due Nightray nella stanza. Temette quasi di perdersi qualche pagina per strada a causa dell'impazienza, dell'urgenza improvvisa di sapere quello che aveva voluto ignorare per molto tempo.

Poi, la trovò.

La pagina di diario scritta dopo la morte di Glen Baskerville.

 

 

Non sono mai andato fiero di aver mentito a Glen,

anche se dirlo il giorno del suo funerale può sembrare ipocrita.

Dopo la morte di Lacie, Glen è sprofondato nella disperazione;

guardava il mondo con gli occhi di chi vede qualcosa di vuoto e completamente inutile,

e lo disprezza.

Ma al tempo stesso,

Glen non era mai stato in grado di abbandonare il mondo dov'era stata Lacie.

"La felicità è scomparsa"; credo fosse questo che pensava..

Ma sosteneva che in un parte del suo cuore, c'era una piccola speranza ancora.

Lo ha detto una sola volta, a voce.

Sussurrava, per la verità.

«Jack, tu sei una speranza piccola come la fiamma di una candela.»

Sapevo che Glen non avrebbe resistito,

alla disperazione di perdere anche la  speranza a cui si aggrappava

per non cedere al dolore che lo stava logorando;

e pur sapendolo, gli ho detto che non sarei vissuto ancora a lungo.

...Non mi importa se pensano di me che sono un egoista, un assassino, un eroe, o chissà cos'altro.

Io ho mentito a Glen su molte cose,

compreso il tipo di sentimento che avevo:

non ero davvero felice, quando osservavo lui e Lacie.

Ma non l'ho fatto per eroismo, né sono qualcosa di anche solo vagamente simile ad un martire.

Io credo che a volte si possa, o si debba mentire; logorarsi, e restare a guardare.

Anche quando la felicità degli altri non coincide con la nostra.

Credo che sia semplicemente... sì.

Credo solo che sia anche questo un modo di amare qualcuno.

 

 

Come la decantata metafora letteraria di un puzzle, Oz vedeva le parole di quella pagina unirsi ai ricordi osservati in quel sogno in cui suo fratello era stato nuovamente una presenza tangibile al proprio fianco.

Jack non era mai stato innamorato di Lacie.

In un modo persino più profondo di quanto fosse accaduto ad Oz nei confronti di Gilbert, il legame che aveva unito Jack a Glen era mutato in maniera univoca; il biondo si era riscoperto a provare un amore che con il tempo era diventato tante e troppe cose diverse – quello per il migliore amico prima, per un fratello poi, ed infine per una persona dalla quale si vorrebbe ricevere egoisticamente tutto forse.

Jack era stato confuso, spaventato da quel sentimento che aveva infine scelto di soffocare totalmente. Nonostante non avrebbe mai voluto mentire alla persona per lui più importante, lo aveva fatto per garantirne la felicità. Tuttavia Oz capiva anche che Jack non si era mai idealizzato per quello.

Capiva che suo fratello aveva rinunciato non solo per la felicità di Glen, ma anche per la paura che – al pensiero di essere allontanato se si fosse esposto – lo paralizzava.

Il legame tra suo fratello e il suo migliore amico era stato forte, per certi versi incomprensibile dall'esterno. Era qualcosa che probabilmente nemmeno i diretti interessati avrebbero potuto spiegare con chiarezza; allo stesso modo, la morte che li aveva uniti ancora una volta – date non troppo distanti, e l'apparente dipendenza l'una dall'altra – non aveva alcuna verità da rivelare forse.

Jack non era morto a causa di Glen, e Glen non era morto a causa di...

 

«Lacie è stata uccisa.»

«Io... sto morendo Glen.»

 

Oz sgranò appena gli occhi, ignaro dell'espressione di Elliot che si era fatta preoccupata, nonostante il castano non avrebbe di certo voluto darlo a vedere. Il biondo, però, iniziava a preoccuparlo: non aveva detto nulla dopo quello scatto nervoso con cui lo aveva afferrato per il colletto ed ora aveva l'espressione di chi non riesce a credere a quello che vede – la conosceva bene, Elliot, la sensazione di terrore di fronte ad una verità da cui si vuole distogliere lo sguardo.

Allungò istintivamente una mano, posandola sulla spalla di Oz per scuoterlo appena, con un'insospettabile delicatezza. Il più giovane, quasi fosse stato riportato alla realtà, alzò lo sguardo su di lui pur senza lasciar sfumare la sensazione di confusione ed incredulità che lo animava.

«Glen Baskerville...» soffiò appena, tanto che Elliot non sarebbe stato certo di aver sentito bene se solo fosse stato appena più lontano da lui.

«Glen Baskerville ha... scelto di morire.» aggiunse ancora incredulo.

Contrariamente a quanto chiunque avrebbe potuto pensare, sembrava a quel punto ovvio il motivo del suicidio, la ragione che sfuggiva a tutti – perché l'erede dei Baskerville aveva sempre avuto tutto agli occhi di chi lo osservava. E invece gli erano state portate via le uniche cose che aveva desiderato, senza che lui potesse fare nulla.

Impotente contro un omicidio.

Impotente contro una malattia.

«Bezarius, non capisco cosa stai dicendo.» pronunciò Elliot, il più garbato possibile: si rendeva conto che l'altro era di poco lontano da uno stato di shock, e non sarebbe stato di certo l'ideale scuoterlo maggiormente.

«Io... devo incontrare Glen ancora una volta.» mormorò Oz: «Devo... devo assolutamente riferirglieli.»

«Cosa?» fece eco Elliot istintivamente, senza soppesare più di tanto la domanda.

Oz tacque, la frangia che copriva appena lo sguardo, tanto che i due Nightray non avrebbero saputo dire che espressione avesse mentre stringeva il diario.

«I sentimenti di Jack.»

 

 

Note dell'autrice (ancora viva)

 

Ebbene sì, ogni tanto resuscito dalle mie ceneri 8D

Nonostante io sia stata brutalmente boicottata (esami, esami, esami, e fatemi pensare... esami?), il 18 ha visto la luce – spero senza mietere vittime fra i lettori x°°

Non ho ancora fatto un calcolo ben preciso (che probabilmente farò in occasione di Rinnega 19), ma non siamo proprio lontanissimi dalla fine. Diciamo che ci stiamo avviando, cosa che forse era intuibile dal minimo di chiarezza che man mano acquistano tutte quelle questioni che avevo disseminato prima XD

La frase in apertura è del telefilm “Brothers & Sisters”.

Passo a rispondere alle recensioni! <3

 

FiammaDrakon: come hai sottolineato, Sirjan è un personaggio in continua evoluzione in un certo senso. Siccome è un original inserito, non credevo nemmeno io che alla fine avrebbe avuto un ruolo simile. Tra l'altro, spesso mi sorprendo anche io nello scoprire che un determinato atteggiamento gli si addice XD Credo che il suo avere tanti lati “nascosti”, sia dovuto al fatto che è stato tante cose diverse, molte delle quali influenzate (nel bene) da Alyster <3

Elliot è amore. Di conseguenza, renderlo ancora più amore appena se ne ha la possibilità è doveroso u_u tra l'altro adoro i battibecchi a tre con Oz e Reo, fin dalla prima volta che la Mochizuki li ha anche solo accennati, quindi appena posso ne piazzo uno *_*”

Aedan era l'unico a cui vedessi bene addosso quel ruolo in quel momento: tanto per cambiare non era pianificato, ma è a conti fatti forse l'unico personaggio (battendo persino Noah) che possiede quell'ingenuità e quella semplicità che si ritrovano solo in un bambino.

Per la questione di Alice, dovrete pazientare, ma è tutto molto vicino! XD

 

Nuit: innanzitutto lasciami dire grazie e complimenti per la pazienza di riscrivere la recensione XD (ho notato che hai dovuto farla di nuovo).

I tuoi complimenti mi lusingano davvero: sono contenta che lo stile, le vicende narrate e l'IC dei personaggi siano di tuo gradimento, e ti ringrazio in special modo per il giudizio sui pg originali che temevo potessero non risultare graditi all'inizio. Riguardo il ruolo di Alice in quanto figlia illegittima e al legame suo e di Gilbert con Jack senza lo zampino dell’Abisso a fare casini, dovrete pazientare, ma come ho detto in risposta a Flamma, non tantissimo XD

Infine sì: Break e Rufus non hanno concezione della parola “tatto”. Fortunatamente, Sirjan sa giostrare bene la cosa XD

Ti ringrazio infine, per la segnalazione che ha permesso a questa longfic di essere aggiunta fra le Storie scelte. E' stata una piacevole sorpresa, ed una grande soddisfazione <3

Spero che anche questo capitolo sia stato di tuo gradimento!

 

AcchanBaka: tu devi essere partecipe dell'immensa difficoltà che io ho avuto nel descrivere Jabberwocky inquietante, dopo che in altre sedi l'immagine ricorrente che ho di lui è quella di un grifone formato caricatura che fa la faccia beata mentre Jack lo grattinizza (e non dirò altro oltre il fatto che in quella stessa sede, Jack lo chiama “Jabby”XD).

Detto ciò, ti ringrazio per i vari complimenti alle varie scene (che ho già commentato nelle altre due risposte, e che è superfluo ripetere) e per quelli allo stile. Ci sono periodi in cui, come sai, mi scervello per cambiare lo stile che puntualmente mi sembra troppo pesante; ma suvvia, se non vi lamentate voi che leggete, suppongo che sia accettabile XP

Ed ecco finalmente in questo capitolo l'incontro che aspettavi. So che soffrirai come un vitello, sì 8D *pat pat

 

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Capitolo 19
*** La me stessa che non voglio ricordare ***


La me stessa che non voglio ricordare

La me stessa che non voglio ricordare

 

 

Tu starai sempre con me, vero?

 

Sentendo quelle parole, Elliot ebbe bisogno di inspirare profondamente e fare appello a tutta la propria pazienza: di testardi ne aveva incontrati molti finora, ma – parola sua – Bezarius li batteva veramente tutti. Anche chi era mosso dall’orgoglio o spinto dal desiderio di vendetta prima o poi, irrimediabilmente, veniva fermato dal buon senso di fronte ad una situazione pericolosa. Al contrario, Oz era mosso da sentimenti teoricamente più deboli, ma nemmeno l’eventualità di essere ferito anche in maniera piuttosto seria sembrava preoccuparlo o costituire un impedimento per lui.

«…Elliot?» tentò il biondo, preoccupato dell’improvviso e totale silenzio che aveva sostituito il naturale sbraitare dell’altro che si era aspettato. Tuttavia, la sua preoccupazione non era destinata a durare a lungo: uno scappellotto si abbatté implacabile sulla sua testa, e ad esso seguì la voce di Elliot in risposta all’istintivo «Ahi, ma perché?!» sfuggito ad Oz.

«Mi snervi!» sbottò l’altro ad alta voce: «Ogni volta che parliamo finisci col blaterare a proposito di Glen Baskerville, come se non ti avessi già fatto capire come la penso sulla faccenda. Me lo fai apposta?!»

Oz rimase per un attimo imbambolato a quelle parole; fino ad allora, a dire il vero, non ci aveva mai badato ma quello che diceva Elliot era vero. Da quando aveva iniziato a parlare di Glen quasi solo con lui? Ma perché poi? Ci pensò per la prima volta: forse in parte era stato per la morte di Alyster, l’unica con cui ne aveva discusso senza sentirsi ogni volta sotto esame.

Forse era stato anche perché sapere che Elliot, seppur da bambino, lo aveva incontrato aveva reso il castano qualcuno con cui condividere qualcosa che si era tenuta nascosta a tutti gli altri. Sì, doveva essere proprio quello il punto.

Elliot era l’unica persona per la quale Glen Baskerville non era solo il nome di un morto o uno spirito che nessun altro aveva mai visto oltre lui.

Si portò una mano alla nuca con fare un po’ impacciato ed Elliot rabbrividì: non era mai un bene se uno con la faccia di bronzo di Bezarius faceva il timido.

«Beh, che c’è?!» lo incalzò, un po’ sgarbato in realtà.

Oz abbozzò un sorrisetto: «È che non ci avevo mai pensato. Lo avevo… sempre fatto istintivamente. Però è vero che sono quasi sempre finito a parlarne con te.» diede voce al ragionamento appena concluso nella propria testa. Elliot sospirò quasi esasperato, iniziando a perdere il filo: «E quindi?»

«Grazie.» disse solo Oz, sincero.

Toccò ad Elliot sorprendersi, ma durò molto meno; portò lo sguardo a vagare per la stanza e si limitò a mettere su una specie di broncio, limitando la risposta ad un burbero: «Tch. Non che avessi altra scelta a parte ascoltarti.» proprio tipico di lui.

«Ad ogni modo non è questo il punto.» riprese subito il castano, ritrovando una sua compostezza: «Devi veramente piantarla con questa storia. Anche se hai buone intenzioni, credi davvero che dopo l’avvertimento che ti ha dato Glen starebbe ad aspettare che gli spieghi la situazione? Che poi, più che avvertimento immagino suonasse molto più come una minaccia.» aggiunse non senza una leggera ironia. Oz si morse nervosamente il labbro inferiore, conscio che Elliot avesse ragione almeno in parte.

«Lo so, però…» altro scappellotto: «E questo per cos’era?!» sbottò portando la mano a massaggiare la parte lesa. Ma Elliot non sembrava affatto dispiaciuto: «È perché continui a cercare una scappatoia! “È così, ma…”, “Hai ragione, però…”, però un corno!» gli sbraitò di nuovo contro.

«Non ci sarà alcun “se” o “ma” che terrà se andrai di nuovo di fronte a Glen Baskerville. Ti stai facendo l’idea che quell’uomo sarà preso da un momento di comprensione, ma è un’idea totalmente sbagliata! Per non dire folle. Una persona che non ha esitato un solo istante ad uccidersi non ha paura della morte e non ha nulla da perdere. E tu pensi davvero che uno così avrebbe degli scrupoli? È già tanto che ti abbia risparmiato ben due volte!» esclamò.

Oz avrebbe mentito se avesse detto che trovava le parole di Elliot delle idiozie prive di fondamenta,  o che non aveva sentito una sensazione di paura attanagliargli lo stomaco in presenza di Glen. Tuttavia, dopo aver finalmente compreso i sentimenti di Jack, non voleva nemmeno lasciare nulla di intentato.

«Io non posso rinunciare tanto facilmente.» mormorò «Non dico che hai torto, ma anche Glen aveva un profondo affetto per Jack. Se gli dico che è un suo messaggio…»

«Sei davvero così ingenuo da credere a quello che stai dicendo?» lo interruppe Elliot, lo sguardo incredulo su di lui. Oz si sentì preso in giro, ed assunse un’espressione quasi indispettita.

«Come puoi essere sicuro del contrario invece?» rimbrottò, fissandolo.

«Cos’è, hai dimenticato chi ha trovato Glen Baskerville morto?» rimbeccò sardonico Elliot: «O la parola mia e di Gilbert non basta?!» alzò la voce, iniziando a perdere completamente quel briciolo di calma mantenuto – chissà come – fino a quel momento.

«Tu… e Gil?» fece eco Oz, perplesso. Elliot sgranò appena gli occhi: mai se l’era lasciato sfuggire con qualcuno. Persino Reo lo aveva saputo molto tempo dopo essere diventato il suo servitore.

«Ah… quello…» iniziò il castano, ma Oz non seppe dire se fosse per dirgli cosa intendeva o per smentirlo. In quell’istante la porta si aprì, rivelando Reo e Noah, il primo rimasto evidentemente fuori per tutto quel tempo, l’altro con il fiatone. Vedendo Oz sveglio e con un colorito umano, Keynes si ritrovò fra il felice, il sollevato e l’imprecazione probabilmente dovuta al polmone perso nella corsa che si era fatto – e aveva trovato l’infermeria vuota. Maledetta vecchia.

 

 

In silenzio percorse con Reo il corridoio per poter tornare alla propria stanza. Il moro non aveva chiesto nulla riguardo la presunta conversazione tra lui e il biondo – di cui certamente doveva essergli arrivato qualche stralcio se era rimasto per tutto il tempo fuori dalla stanza – né di cosa portasse Elliot a chiudersi ora in quel silenzio meditabondo.

Nel mentre, nella mente del castano tornavano di tanto in tanto le parole pronunciate da lui stesso, quell’ammissione sulla presenza di Gilbert al ritrovamento del corpo di Glen. Aveva finto di averlo dimenticato, come se il trauma l’avesse rimosso dalla sua memoria, in un modo simile a quello in cui Gilbert era stato colpito dall’amnesia qualche anno prima. In quel modo, evitare di parlarne era stato facile; persino col Duca Nightray, che vantava non poco ascendente sul suo figlio minore.

Perdonatemi padre, aveva mormorato mortificato, non riesco a ricordare.

Ma in realtà non aveva mai dimenticato. E d’altra parte come avrebbe potuto, se quello scenario tornava a fargli visita in sogno quasi periodicamente?

 

Entra quasi senza pensare, senza badare troppo a quale stanza sia – quella casa è immensa, e lui ci entra per la prima volta. Perciò non fa caso al fatto che si trova nell’ala privata, dove ci sono le stanze del padrone e della famiglia Baskerville.

Entra, e se fosse un adulto istintivamente guarderebbe la stanza nell’insieme: ma Elliot dopotutto è solo un bambino ancora, e dell’accortezza di un adulto non sa nulla. Lui è preso dal magnifico pianoforte sulla sinistra, e quasi incantato si muove istintivamente verso di esso.

Sfiora il nero lucido dello strumento e sorride emozionato come se ne vedesse uno per la prima volta.

«…Elliot?» è un mormorio così impercettibile che, se solo non ci fosse tutto quel silenzio, è sicuro che non lo sentirebbe.

Lo sguardo cerca istintivamente la fonte del richiamo, e non impiega molto a trovarla: è alla sua destra, un po’ in avanti rispetto al punto in cui si trova lui. È Gilbert, che lo guarda con un misto di tantissime cose – ma Elliot è solo un bambino dopotutto, e non è in grado di riconoscerle tutte.

Vede il fratello maggiore, e se c’è una cosa che capisce è che è spaventato; quello che non coglie è il desiderio quasi disperato nello sguardo dell’altro.

“Portatemi via.”

“Non guardarmi.”

“Vattene da qui.”

“Non guardarmi, non guardarmi, non guardarmi.”

Elliot si sente confuso, e davvero non capisce finché non rientra nel suo campo visivo.

Il corpo senza vita di Glen Baskerville giace a terra: sotto di lui il sangue ha impregnato la moquette, e più lui si avvicina quasi ipnotizzato dalla paura che si fa strada in lui, più Gilbert trema e sembra provare il forte istinto di alzarsi e scappare via.

Ma sono le gambe che non glielo concedono, che hanno ceduto inchiodandolo lì a terra; Elliot la vede, la pistola che Gilbert ha tra le mani, e che è troppo grande per lui.

Però Elliot è solo un bambino: mentre il sangue gli sporca le mani, non pensa nemmeno per un istante che suo fratello sia un assassino.

 

 

«Vorrei sapere dove accidenti è Elliot.» bofonchiò Gilbert, il passo spedito che percorreva il corridoio del dormitorio maschile.

«Quando saprò dov’è Oz lo ridurrò in pudding.» sbraitò Alice, priva di una qualsivoglia delicatezza, camminando quasi al fianco di Gilbert che le scoccò un’occhiataccia a quella specie di minaccia.

«Beh, che hai da guardare?» chiese subito lei sulla difensiva, notandolo: «Niente, niente.» la blandì scocciato lui, senza la minima voglia di mettersi a litigare. Oltretutto, avrebbe voluto sapere anche lui dove fosse Oz: specie da quando Echo – che poi, cosa ne sapeva se in teoria era sempre con Vince? – aveva detto che ultimamente il biondo era spesso con Elliot.

Cosa che gli sembrava di aver sentito dire anche ad Ada, recentemente – in tutto ciò non aveva ben capito nemmeno se lei e Oz si fossero tacitamente riappacificati o se avessero parlato chiarendosi.

…Non che fosse geloso, comunque.

«Ohi» richiamò l’attenzione di Alice, indugiando per cercare le parole adatte a spiegarsi al meglio senza essere frainteso: «non vieni a casa nemmeno alle prossime vacanze?» buttò lì. Era un argomento di cui non avevano mai parlato per scelta di entrambi.

E dire che sarebbe stato più comodo e del tutto legittimo che ogni tanto tornasse con loro. Ma Alice non lo aveva mai fatto, finché non era stata praticamente obbligata. In pessimi rapporti con Vincent – per motivi che ignorava – senza particolari legami con Elliot, scambiava qualche parola (meno sgarbata del solito) solo con Reo.

Quanto al resto, un atteggiamento arrogante e supponente l’aveva sempre caratterizzata, e resa insopportabile a Gilbert per partito preso quasi.

«…Cos’è, ti hanno fatto il lavaggio del cervello?!» sbottò Alice fissandolo allucinata dalla proposta; Gilbert tossicchiò: non che potesse darle torto, viste le premesse del loro pseudo rapporto tra cugini.

«Ho solo pensato che ogni tanto male non ti fa. Presto andremo quasi tutti a casa, Oz compreso probabilmente. Considerando che i tuoi rapporti si limitano quasi del tutto a lui e Keynes, piuttosto che annoiarti qui non sarebbe più sensato?» fece notare, voltando l’angolo.

Alice lo imitò e mise su un’aria stizzita: «E che ci verrei a fare? Restare qui sarebbe lo stesso, stupido idiota.» rispose. Giorni interi con Vincent per casa e tutti i pasti da consumare con lui?

Piuttosto si faceva adottare da Break.

«E allora?!» rimbeccò Gilbert – la pazienza lasciata al corridoio prima forse: «Saresti almeno in famiglia, idiota!» sbraitò, aumentando appena il passo.

Alice non lo raggiunse di proposito: quel cretino aveva osare dire qualcosa di imbarazzante cogliendola alla sprovvista!

Il moro nel frattempo rallentò, indeciso se proseguire per le scale raggiungendo il piano di Elliot, o se accompagnare prima la cugina da Oz – sempre che fosse nella propria stanza.

…Glen!

Chiuse un occhio per riflesso alla fitta improvvisa alla tempia.

È tutta colpa di Glen!

Si bloccò, portando una mano alla testa, lasciandosi sfuggire un mugolio di dolore quasi impercettibile. Alice lo fissò spaesata: «Ohi, che hai adesso?» indagò, quasi guardinga. Gilbert fece per scuotere appena il capo.

È colpa sua! Se sei così arrabbiato, allora perché non lo uccidi?!

Impallidì, boccheggiando appena.

Non riusciva assolutamente a riconoscere la voce – il dolore alla testa la faceva arrivare quasi ovattata – eppure era sicuro di conoscere la persona a cui apparteneva. Era un ricordo vago, tenuto inconsapevolmente sigillato fino a quel momento, e ancora annebbiato; tuttavia non gli dava una sensazione di estraneità.

«Ehi, che cavolo ti pren—»

«Gil?!» sentì esclamare, e spostando lo sguardo verso le scale individuò Vincent che con espressione preoccupata si avvicinava a loro, Echo al seguito.

Il moro intanto si era poggiato leggermente al muro alla propria sinistra, inspirando nella speranza che qualunque cosa fosse, passasse in breve.

Vincent gli fu subito accanto: «Ti senti bene?» chiese, nel tono la preoccupazione evidente.

Gilbert annuì appena: «È solo mal di testa, una delle solite fitte. Ora mi passa.» assicurò. Il biondo annuì senza scostarsi, ma spostò lo sguardo su Alice: un’occhiata penetrante e piena d’odio la colpì come una secchiata d’acqua gelida. Accusatoria, sembrava minacciarla di fargliela pagare, come se la colpa di quel malore fosse sua.

Indietreggiò di qualche passo, borbottando quindi un: «Io vado da Oz.» con sguardo basso, iniziando ad allontanarsi.

Le aveva messo i brividi.

Se per l’occhiata in sé, per tutto l’odio condensato in un solo sguardo o perché le sembrasse terribilmente familiare nonostante Vincent non gliel’avesse mai rivolta prima, questo Alice non avrebbe saputo dirlo.

E non lo voleva nemmeno scoprire; come se a quella sensazione di gelo fosse suonato un campanello d’allarme nella sua testa.

 

 

Non si prese nemmeno il disturbo di alzare lo sguardo dal libro che stava leggendo quando sentì la porta del proprio alloggio sbattere nel venire richiusa. Non c’erano molte persone che entravano a quel modo lì dentro: nello specifico o si trattava di Xerxes Break in uno dei suoi (numerosi) momenti migliori, o di Vincent Nightray, come in quel momento.

L’unica differenza fra i due era che Xerxes era molto più rumoroso. E meno sopportabile.

Alzò finalmente lo sguardo sul biondo, notandone l’espressione: era decisamente furioso, in quel momento.

«Se hai intenzione di sfogare la tua irritazione sui miei soprammobili, potrei finire con lo sfogare il mio conseguente disappunto su di te. Giusto per avvisarti.» disse con tutta calma, tornando con lo sguardo sul libro e voltandone una pagina.

Vincent le lanciò un’occhiataccia, ma lei non parve rendersene conto; il biondo affondò su una poltrona dove spesso faceva i suoi comodi quando – arbitrariamente – decideva di dover andare a trovare la sua docente.

Né lui né Charlotte Baskerville, comunque, si erano mai presi la briga di definire il loro rapporto: Vincent si recava lì probabilmente per pura noia. Si era scherzosamente definito più volte attratto dalla giovane docente, e aveva fatto persino più di qualche avance apparentemente seria. Charlotte, tuttavia, lo aveva sempre respinto: magari in maniera sarcastica il più delle volte, mentre altre lo aveva lasciato giocare a fare lo studente innamorato della sua professoressa, ma c’erano limiti precisamente imposti da lei che a Vincent non era permesso ignorare.

E in ogni caso, lui non era mai stato davvero serio – e a Charlotte non interessavano i marmocchi.

Ultimamente, tuttavia, quel ragazzo non aveva fatto altro che parlarle di Oz Bezarius, specie in relazione al fratello Gilbert – ma quel brother complex, al contrario, non era affatto una novità.

Inoltre, ogni volta che Bezarius aveva inconsapevolmente minato all’equilibrio emotivo di Vincent – che già di suo non era propriamente “stabile” – il giovane si presentava lì, sbatteva la porta, e poco dopo si slanciava in esclamazioni rabbiose nei confronti dell’altro studente.

Seriamente, che ragazzino complicato.

«Quando finisce la tua crisi di isterismo, fai un cenno.» disse solo, sottilmente provocatoria. Cosa voluta, neanche a dirlo.

«Risparmiati il sarcasmo, Lottie.» replicò, calcando il nomignolo.

La cosa gli sarebbe costata un libro in pieno viso, se non avesse avuto la prontezza di alzare un braccio e deviare quindi l’oggetto: «Ti ho già detto che quel nome non devi usarlo o pronunciarlo. Vedi di stare al tuo posto, o quella è la porta.» chiarì, fissandolo quasi minacciosa.

Non che sperasse di spaventarlo, sarebbe stato inutile; ma Vincent aveva un carattere tutto particolare. Non aveva ancora capito se apprezzasse chi gli teneva testa o se invece capiva dal tono altrui fin dove potesse spingersi.

Ad ogni modo il risultato ottenuto era comunque positivo per lei e la sua scarsa pazienza. Vincent lasciò che le proprie labbra si incurvassero in un sorrisetto scherzoso e infantile – e falso.

«Allora, in che modo Oz Bezarius ti avrebbe irritato, oggi?» domandò quasi annoiata dal ripetersi di una solita, identica situazione. Ma fu costretta a stupirsi e ad abbandonare il libro concentrandosi su Vincent quando questi rispose stizzito: «Lascialo perdere, per una volta che non c’entra.»
«Questo sì che è strano.» buttò lì casualmente, studiando l’espressione dell’altro.
«Si tratta di Alice. Di nuovo, è sempre di mezzo, sempre! Tutte le volte che succede qualcosa di sgradevole a Gil, lei è sempre coinvolta!» sbottò nervoso – e Charlotte aveva avuto modo di notare che gli scatti nervosi di Vincent Nightray non erano esattamente qualcosa da prendere sottogamba. Un po’ come accadeva con tutte quelle persone che erano sempre calme o che si mostravano costantemente sorridenti in qualsiasi circostanza; finiva sempre che il loro perdere quella naturale tranquillità aveva un che di inquietante e – in casi particolarissimi – di pericoloso.

«Alice, eh? Che ultimamente è sempre con Bezarius. Buon sangue non mente, sempre circondati da donne.» osservò, il tono irritato; palesemente non tanto da Oz, quanto dall’esempio di Bezarius che lei aveva avuto modo di conoscere per anni.
Vincent spostò lo sguardo su di lei, lasciando stare per un attimo la questione Alice: non era la prima volta che Charlotte si lasciava andare a commenti di quel genere, ma mai una volta aveva risposto chiaramente a qualche sua domanda in proposito. Non sapeva bene se fosse una sorta di riguardo, ma aveva quasi subito eliminato quella possibilità: innanzitutto Charlotte non era proprio di quelle persone che si curavano di fare attenzione a quello che dicevano per paura di ferire il proprio interlocutore, inoltre dubitava fortemente che sapesse che lui e Gilbert erano stati a contatto con Jack Bezarius prima che morisse.

«Non ho mai capito cos’hai contro Jack Bezarius, anche se sto iniziando a puntare sull’opzione di una giovane ragazza abbandonata dall’amore della sua gioventù.» ammise, in una palese insinuazione in cui poi, in realtà, non credeva nemmeno lui.
Più che altro, non gli sembrava di ricordare che Jack avesse mai accennato a Charlotte in quel modo; anzi, non ricordava nemmeno che ne parlasse così spesso, per la verità.
Era stata solo una questione di nomi già sentiti, quando incontrandola a Latowidge per la prima volta si era ritrovato a pensare “Ah, lei deve essere Lottie”.
L’altra sembrò non apprezza quell’insinuazione, a prescindere da quanto il biondo ci credesse o meno; gli lanciò infatti un’occhiata gelida: «Di quel traditore? Mai.» sibilò a metà fra la rabbia e il puro disgusto alla sola idea.
Vincent ne fu piuttosto perplesso: aveva conosciuto Jack e non si poteva certo dire di lui che tradisse abitualmente le persone. Ne fu anche un po’ infastidito, forse: nei suoi ricordi di ragazzino, Jack Bezarius era stata una persona molto importante, di quelle che rimangono sempre come sono nei tuoi ricordi, e di cui non vuoi che venga mai detto nulla di male anche se fosse la verità.
«Se Padron Glen è morto… è stata solo colpa sua.» aggiunse Charlotte, nel tono del palese risentimento, mordicchiandosi nervosamente il labbro inferiore. Glen Baskerville sembrava essere sempre l’unica cosa in grado di scombussolarla e farle perdere quell’aria di arrogante calma che sembrava ostentare quasi.
«Glen Baskerville si è suicidato.» osservò atono Vincent, neanche dovesse farglielo notare lui per la prima volta.

Di nuovo, lei lo guardò con odio – un odio che, con ogni probabilità, non era davvero rivolto a Vincent.

«Ma Jack lo sapeva! Jack aveva capito cosa stava per fare Padron Glen e nonostante questo non ha nemmeno pensato di fermarlo! Ha lasciato che si uccidesse, nonostante fosse il suo migliore amico! Se non è questo un tradimento, allora cosa dovrebbe esserlo, eh?!»

 

 

Elliot prima di andarsene con Reo si era raccomandato almeno tre volte di non fare idiozie – dove “raccomandarsi” nel vocabolario del giovane Nightray collimava casualmente con “sbraitare” – tanto che Oz si era sentito trattato come un ragazzino da tenere d’occhio.

Anche se, effettivamente, non avrebbe potuto dargli torto.

Quando poi i due se ne erano andati, Noah aveva raccomandato ad Oz di riposare.

«Se decidi di alzarti» aveva aggiunto «assicurati di trovare Gilbert ed Alice. Credo che ti stessero cercando, e Elliot magari gli dirà che non stavi bene se li incontrerà prima di te. Si preoccuperanno.»

Dopodiché Oz aveva cercato di stendersi e riposare, ma troppe cose gli affollavano la mente e addormentarsi era diventato in breve pura utopia. A quel punto, si era detto che tanto valeva andare a cercare i due compagni.

Perciò, il tempo di sistemarsi e indossare nuovamente la divisa ed era uscito dalla stanza.

Certo, in alcun modo si sarebbe potuto immaginare di trovare Alice voltando l’angolo… o almeno di trovare qualcuno che, di primo impatto, avrebbe preso per Alice. E che, ad un’occhiata più attenta, fosse semplicemente qualcuno che le somigliava in modo impressionante, come una goccia d’acqua.

Ma al tempo stesso, ad Oz bastò esserle abbastanza vicino da vederla in volto per rendersi conto che non si trattava dell’amica; la sensazione nell’osservare quella Alice era tanto simile e diversa al tempo stesso, una confusa opposizione tra il desiderio di prenderla per mano e rassicurarla e quello di allontanarsi più in fretta che poteva.

E – visti i recenti avvenimenti e le ultime rivelazioni su Latowidge – si era forse convinto ad optare per la seconda scelta quando quella Alice parve notarlo. La vide mutare espressione, dapprima in una evidentemente sorpresa di vederlo, e poi con uno sguardo che sembrava esprimere una certa urgenza mentre si avvicinava a lui.

Oz si rese conto dell’effettiva diminuzione della distanza tra loro solo quando si sentì prendere la mano tra quelle della ragazza. Portò lo sguardo su di esse, per poi tornare sul suo viso.

Sembrava quasi che lo avesse cercato ovunque per chissà quanto tempo, preoccupandosi sempre di più per lui, e che soltanto ora lo avesse finalmente ritrovato.

Oz assunse un’aria confusa, perplesso da quell’atteggiamento, cercando di restare all’erta.

«Cosa…

«Perché non sei più tornato?» lo interruppe lei, il tono un misto di ansia, preoccupazione e speranze disilluse.

«Eh?» fece eco il biondo, senza capire.

Tornato dove, esattamente? Lì dove si trovava Glen?

«Avevi promesso che saresti tornato ancora tante, tante volte. Che saresti venuto a giocare, e a bere del tea, e che poi saresti rimasto finché avessi voluto…» riprese lei, il tono sempre più dispiaciuto «Però non sei mai più venuto.» concluse, abbassando lo sguardo.

Le sue mani guidarono quella di Oz vicino al proprio viso, fino a portarla a contatto con la propria guancia: «È stata colpa mia? È perché… sono stata cattiva con Gilbert?»

Fino a quel momento Oz aveva taciuto, senza riuscire a capire a cosa quella “Alice” si riferisse. Aveva pensato di dover ascoltare e basta, forse, e poi magari sarebbe… svanita da sola.

Perché la vera Alice era viva, e quello non poteva essere il suo spirito; ne conseguiva che Oz sapesse ancora meno come trattarla. Tuttavia, sentendole pronunciare quel nome non aveva potuto evitarsi un: «Gilbert?», sorpreso di sentirglielo nominare.

Mai avrebbe potuto prevedere la reazione che ne seguì: fu conscio che si trattava di lacrime vere solo quando, rigandole le guance, finirono per bagnare anche la sua mano.

«Mi dispiace…» prese a pronunciare, scossa da qualche leggero singhiozzo: «Mi dispiace tanto… non volevo essere cattiva, ma è stata anche colpa sua.» parlò, il tono simile ad una bambina che è stata sgridata duramente e fra le lacrime cerca di spiegare le proprie ragioni anziché ascoltare semplicemente il rimprovero.

Oz le prestò la massima attenzione però: non aveva idea di quanto le sue parole potessero essere attendibili o dovessero essere considerate tali, ma se fossero state parte di quel passato che né Gil né Alice ricordavano?

…Forse entrambi avrebbero voluto saperlo, se gliene fosse stata data la possibilità.

Fu per questo che non si ritrasse, nonostante ormai avrebbe dovuto sapere che restarle così vicino non poteva essere una buona idea. Lo sguardo ancora su di lei, si ritrovò a pensare per un attimo a quanto quella Alice sembrasse… fragile. Una fragilità che l’altra che aveva sempre al proprio fianco, quella che lui conosceva, era brava a nascondere e a mascherare, e che forse in fondo proprio “sua” non era.

Probabilmente, i ricordi se l’erano portata via lasciando in lei solo quella risolutezza un po’ sgarbata, ma che lo aveva tirato su nonostante non sfruttasse parole gentili o tipiche di espressioni di conforto.

“Cos’è successo con Gilbert?”, aveva pensato di chiederle; tuttavia ci aveva riflettuto su, bloccandosi sul nascere. Chiunque fosse quella ragazza, era chiaro che doveva averlo scambiato per qualcuno – o, per quanto ne sapeva, anche “un altro Oz” non sarebbe stato strano a quel punto.

A prescindere da chi fosse questa persona, però, lei sembrava dare per scontato che sapesse di cosa parlava: e non sarebbe stato strano, dunque, se lui avesse fatto domande in quel senso?

«Perché ti sei comportata male con lui?» chiese quindi, sperando che suonasse più come un volerla capire che non come un’accusa: «Volevi farlo arrabbiare?» azzardò quindi, andando un po’ alla cieca.

Parve però aver colto nel segno con entrambe le domande, a giudicare dall’espressione di lei; lo guardava spaventata, e colpevole.

Non dispiaciuta per Gilbert, quanto più all’idea di essere mal giudicata proprio da Oz.

Il biondo non la incalzò oltre, lasciandole il tempo di articolare la risposta, non volendo causarne né l’irritazione, né tantomeno un’eventuale fuga.

«Quando non sei più tornato… mi sono sentita così sola.» mormorò lei in quella che, inizialmente, ad Oz non parve affatto una risposta.

«Nemmeno Gilbert veniva più da me. Ero sola, e aspettavo, sempre. Ma non tornava più nessuno. Poi un giorno Gilbert è arrivato… ma a lui non importava niente!» cambiò improvvisamente tono, facendo sobbalzare Oz a quella nuova sfumatura rabbiosa e inaspettata, piena di quello che gli sembrava inequivocabilmente… odio.

«Lui non era stato solo per tutto quel tempo!» lo accusò, agitata: «Lui era rimasto insieme a Vincent! E loro due si erano dimenticati di me! Perché solo io dovevo stare così? Perché loro avevano una famiglia e io no?! È stata colpa loro, se tu non sei più venuto… hanno portato via anche te!» alzò il tono della voce, ed Oz fu sicuro di aver visto i vetri delle finestre in quel corridoio tremare pericolosamente.
È colpa tua, tua e di Glen Baskerville!

Quella frase, che non era stata pronunciata dalla Alice di fronte a lui, ma da una voce che già una volta gli era arrivata all’orecchio senza che ci fosse nessuno in vista, lo fece rabbrividire. Allo stesso tempo, sembrò che anche la ragazza di fronte a lui si fosse momentaneamente interrotta udendola. A meno che non si trattasse solo di un caso.

Se sei tanto arrabbiato, allora vai a prendertela con lui…

«Non era tornato per me…» sussurrò Alice, quasi a voler spiegare quelle parole che riecheggiavano nel corridoio senza una spiegazione logica: «Nessuno dei due era tornato per me.» continuò, ed Oz immaginò che si riferisse a Gilbert e Vincent.

Vai ad uccidere Glen Baskerville, no?!

«Erano venuti solo per arrabbiarsi con me… e allora li ho mandati via!» esclamò scoppiando a piangere, senza più limitarsi alle lacrime silenziose che c’erano state fino a quel momento, e cogliendo Oz di sorpresa ancora una volta.

Quella Alice non l’aveva detto chiaramente, quindi forse era solo una supposizione errata, ma… sembrava proprio che per la tristezza, avesse spinto Gilbert a fare qualcosa di orribile.

Anche se Oz quasi non riusciva nemmeno ad immaginare un Gilbert – specialmente se più giovane di quello di ora – che si macchiava di una cosa come l’omicidio.

Soprattutto considerando quanto sapeva della morte di Glen Baskerville, ossia che era stato suicidio.

È solo colpa di Glen, se Jack non c’è più! Ed è anche colpa tua!

«Oz!» si riscosse, sentendosi chiamare e voltandosi in direzione della voce; impiegò poco a riconoscere la figura di Alice – la solita Alice – che gli si faceva in contro, l’espressione decisa. L’altra, che fino a quel momento non aveva mai lasciato le mani di Oz, arretrò di un passo, quasi atterrita da quella nuova presenza.

Il biondo spostò lo sguardo dall’una all’altra più volte, finché Alice non fu abbastanza vicina da allungare la mano fino a raggiungere il polso di Oz, afferrandolo.

«Allontanati da lei!» esclamò quasi arrabbiata: «Quella lì non sono io! Non so chi sia, ma non mi piace!» aggiunse. Oz la osservò un po’ spaesato da quella “doppia presenza”.

«Ma Alice…» tentò inizialmente, senza poter concludere la frase; allontanarsi maggiormente, alla vista di Cheshire che si frapponeva tra loro e l’altra Alice, divenne la priorità.

Istintivamente, Oz si mise davanti alla castana almeno in parte: sapeva per esperienza che la presenza di Cheshire non era affatto una buona cosa, mai.

Specie se, come in quel momento, era palesemente in procinto di attaccarli entrambi, l’espressione inferocita come se avessero oltrepassato un limite che non gli era consentito superare.

Oz si morse appena il labbro inferiore: aveva creduto che Cheshire fosse solo a guardia del luogo in cui era Glen. Perciò, nell’avvicinare quella “Alice”, non aveva minimamente considerato la possibilità che potesse rivelarsi tanto pericoloso.

E il fatto che ora, lì con lui, ci fosse anche l’amica rendeva l’intera situazione ben peggiore che se fosse stato solo come la prima volta; tra l’altro, nulla gli dava la certezza che Aedan o Sirjan sarebbero arrivati, stavolta.

Mosse lentamente un passo indietro, portando Alice a fare lo stesso, senza distogliere lo sguardo da Cheshire. Questi, intanto, sembrava irritarsi ad ogni singhiozzo che sfuggiva tra le labbra della ragazza dietro di lui, che a quanto pareva tentava di proteggere.

Per un istante Oz si chiese se il compito di Cheshire nei confronti degli spiriti non fosse un po’ come quello di Sirjan per i vivi, e se non fosse questo il motivo alla base di quella non sopportazione che provavano l’uno per l’altro.

«Cheshire aveva detto che ti avrebbe lasciato stare» sibilò il felino, gli occhi ridotti a due fessure che restavano puntati sul biondo: «ma tu sei pericoloso! Cheshire lo aveva detto!» soffiò più forte, rabbioso.

Oz capì che se non fosse riuscito a calmarlo… no.

Non avrebbe nemmeno dovuto provarci, ma limitarsi ad andare via subito portando Alice con sé.

Proprio la castana, in quel momento, strinse appena la presa sul suo polso: «Oz…» lo richiamò a voce appena più bassa «cos’è quello?» chiese, riferendosi chiaramente a Cheshire, che forse per la prima volta portò lo sguardo sulla ragazza dietro il biondo. Parve studiarla, sia con gli occhi che annusando l’aria; nel farlo, sembrò ad un certo punto turbato da qualcosa.

Tornò con lo sguardo fermo su Oz: «Cosa hai lì?» sibilò quasi più ferocemente di prima.

Il biondo fece, inconsapevolmente, un errore quando si voltò pronunciando un: «Alice, andiamocene da qui.»

Quelle parole – o meglio, quel nome – portò al culmine la furia di Cheshire: «Alice è dietro Cheshire!» gridò con una nota isterica nella voce «Oz Bezarius mente! Vuole rubare Alice e le cose importanti! Vuole rubare a Cheshire!» continuò, iniziando ad avanzare pericolosamente.

Oz soppesò febbrilmente quanto potesse essere saggio dargli le spalle per provare ad allontanarsi da lì il più velocemente possibile.

Tuttavia non ebbe molto tempo per valutare razionalmente la cosa: Cheshire scattò, veloce, con tutta l’intenzione di ferire sia lui, sia quell’Alice che sembrava considerare falsa in qualche modo.

Oz stava per spingere l’amica il più lontano possibile quando tra lui e il felino si fece avanti qualcuno che inizialmente non riuscì a riconoscere e che colpì – come, Oz non lo vide – lo spirito.

Anche se non sapeva quanto l’espressione “colpire” potesse essere corretta, appunto.

Cheshire fu comunque scagliato abbastanza lontano, mentre quel loro improvvisato salvatore gli si rivolgeva: «Non sai che soddisfazione, dartele di santa ragione~» osservò con tono derisorio quello che – a quel punto – Oz riconobbe come Xerxes Break.

Il docente aveva un sorriso ad incurvargli le labbra, un sorriso che Oz avrebbe definito quasi insano, però: non portava con sé alcun sentimento positivo, infatti. Solo soddisfazione per la sofferenza altrui, per un senso di appagamento dato da quella che sembrava in tutto e per tutto una vendetta personale.

«Professore…?» tentò Oz, senza ricevere risposta inizialmente. L’attenzione di Break sembrava totalmente su Cheshire, che si stava rialzando.

Senza idea del come o del quando, Oz notò che l’altra Alice era sparita.

«Sai, sto cercando di ricordare il motivo per cui il signor Kolstoj si è sempre preso la briga di proteggere entità come te.» riprese Break senza curarsi dei due studenti dietro di lui: «Ma proprio non mi viene in mente altro. Piuttosto, sai cosa, fantasma di un sacco di pulci?» lo apostrofò con tono di disgustato sarcasmo, fissandolo ancora con quel sorrisetto che iniziava ad avere dell’inquietante.

«Mi torna in mente che oltre alla poca simpatia che già avevo allora per il sovrannaturale, al nostro primo incontro mi hai portato via anche un occhio.» continuò, facendo sobbalzare Oz e rabbrividire Alice: «E mi sono chiesto da allora» proseguì avvicinandosi con tutta calma a Cheshire «non è strano che un essere di solo spirito tocchi una persona viva al punto da ferirla così gravemente?» domandò, ma era chiaramente una domanda retorica.
Oz, in quel momento, sembrò trovare risposta a qualcosa che era rimasto a lungo senza una spiegazione logica nella sua mente: Cheshire gli era stato presentato come spirito ma, tanto per iniziare, non era nemmeno del tutto umano. E in secondo luogo, nonostante la sua natura non viva, il contatto fisico non gli era mai stato precluso – specie in maniera aggressiva, a quanto sembrava.
Ma questo non rispecchiava esattamente l’idea di spirito; e lo stesso Glen, dopotutto, si era approcciato ad Oz la prima volta attraverso il corpo di un vivente.

Non era… strano?

«Alla fine però, sono arrivato ad una risposta.» comunicò con tono improvvisamente – ed innaturalmente – allegro Break: «Vuoi essere reso partecipe?» quasi lo canzonò, muovendo verso di lui l’ennesimo passo per avvicinarlo. Cheshire era sulla difensiva, innervosito da qualcosa di non ben comprensibile, pieno di quell’agitazione data più dalla paura che dalla non sopportazione di qualcosa.

Quando Break si chinò verso di lui, il felino fece per muoversi con intento piuttosto ostile verso di lui, ma di nuovo il docente sembrò anticiparlo: «Ah-ah, io non lo farei.» lo ammonì neanche avesse a che fare con il bambino più tranquillo del mondo.

«Non credo proprio, che se tu ferissi ancora qualcuno, il signor Kolstoj sarebbe propenso a lasciarti libero come sei stato finora. Ed è già così difficile coprire questo increscioso incidente con il signor Bezarius…» lasciò cadere, meschino, alludendo a qualcosa di ben preciso. Lo stava palesemente mettendo in condizioni di non fare altro se non obbedirgli.

«Non mi mostreresti quel campanello che porti al collo?» chiese quindi con falsa dolcezza, tendendo la mano in avanti; Cheshire tuttavia sgranò gli occhi, caricando il colpo con una delle zampe anteriori, del tutto intenzionato ad attaccare l’albino.

Né Oz né Alice furono in grado di dire con esattezza come si fosse mosso Break: era solo stato estremamente veloce, tanto da ricordare un po’ Aedan al biondo che lo aveva visto all’azione, e sempre contro Cheshire.

Il docente sembrava aver evitato quell’attacco – forse prevedibile – senza troppe difficoltà. Ed ora, a qualche passo di sicurezza dal felino sorrideva soddisfatto.

Alzò una mano, quanto bastò a far dondolare il campanello che aveva in mano e che doveva aver chiaramente sottratto a Cheshire prima di allontanarsi da lui; questi sembrò entrare nuovamente nello stesso stato di isterismo che aveva provocato Oz stesso poco prima.
Si mosse nuovamente in avanti, verso Break – e nello specifico proprio verso la mano che teneva l’oggetto rubato – con un verso grottesco che fece rabbrividire anche lo stesso docente, sebbene non si notasse dall’espressione o simili.

Xerxes evitò l’impatto diretto, lasciandosi però sfuggire di mano il campanello, che cadde con un leggero rumore metallico accompagnato dal tintinnio dovuto al contatto con il pavimento. Il docente fece schioccare le labbra con fare seccato, imprecando a mezza bocca.

Oz non seppe precisamente cosa lo portò a farlo, ma si ritrovò ad allungare una mano verso l’oggetto conteso; forse qualcosa gli suggeriva che prendendolo, o facendo almeno in modo che non tornasse in possesso di Cheshire, tutto quello che ancora necessitava una risposta sarebbe stato anche solo un pochino più chiaro.

Forse, sperava soltanto che potesse essere così.

Notandolo, Cheshire cambiò bruscamente direzione, scagliandosi non più contro Break, ma contro Oz: «Restituitelo!» gridò «Restituitelo a Cheshire!»

«Oz!» si sentì richiamare da Alice, cercandola con lo sguardo ed individuandola appena prima che le dita della ragazza si stringessero attorno al campanello, sottraendolo sia alla presa di Oz, che a quella di Cheshire.

Ci fu qualche istante di stallo totale, in cui nessuno disse nulla, né mosse un solo muscolo; poi, in un momento di immobilità totale… Alice cadde in ginocchio.

Oz le fu immediatamente accanto, l’espressione preoccupata in viso: «Alice!» la chiamò «Alice, che hai?!»

«Che… diamine è questo affare?!» sbottò lei, il tono sofferente e gli occhi chiusi, quasi nella speranza di alleviare il dolore alla testa che si stava facendo sempre più forte.

 

Non c’erano cambiamenti evidenti in ciò che li circondava – almeno per ora – se si escludeva l’assenza di Cheshire. Eppure Oz aveva addosso la pessima sensazione di essere in un posto diverso. Sembrava, per quanto assurdo potesse suonare, di respirare la stessa aria e percepire la stessa atmosfera che c’era stata in presenza di Glen.

L’inspiegabile consapevolezza di essere nel posto sbagliato, in un luogo che non ti apparteneva e che non avresti nemmeno dovuto vedere; stavolta, però, Oz non aveva né idea di dove si trovasse, né di come si fosse spostato.

«Siamo ancora nel corridoio…?» mormorò, più a se stesso che non agli altri due, venendo interrotto dalla voce di Break che era a pochi passi da lui, una mano posata contro il muro quasi a sorreggersi.

«Non è Latowidge.» disse «Non quella che conosci tu, almeno. È molto più simile a quella che io e Rufus abbiamo vissuto.» chiarì, affiancando il biondo.

Oz era però confuso da quella spiegazione: «Quella che avete frequentato da studenti? Come fa ad esserne così sicuro guardando solo un corridoio?» diede voce a quella domanda legittima.

Break portò lo sguardo su di lui, l’espressione divertita e il sorrisetto furbo sulle labbra, mentre un dito indicava un quadro. Oz, tuttavia, non avrebbe saputo affermare con certezza se ci fosse già o meno. L’altro però non sembrava aver bisogno della sua conferma.

«L’ho accidentalmente fatto sparire durante il mio terzo anno ♪» ammise tutto tranquillo; Oz non riuscì proprio a mascherare un’espressione che era un misto tra l’allucinato e il comprensibile dubbio su quali fossero i limiti comportamentali di Xerxes Break.

«…Seriamente, lei come ha fatto a diventare insegnante?» si lasciò sfuggire, con quella sfumatura di arroganza che si era sempre ed inevitabilmente ritrovato ad usare con lui, ricevendo in risposta quel sorrisetto tipico del docente – che mentalmente stava probabilmente prendendo in considerazione di tentare di strozzare il caro signor Bezarius e farlo apparire come un tragico incidente.

Oz non aggiunse nulla, Alice che sembrava essersi ripresa in quel breve lasso di tempo: «Va meglio?» le chiese il biondo, osservandola. La ragazza scosse appena la testa, confusa.

«Che è successo?» domandò, riscuotendosi poi in un secondo momento: «Oz!» lo richiamò agitata «quel coso, è sparito!» esclamò poi, portando vicino ad entrambi i loro volti la mano che aveva afferrato il campanello, che ora non c’era più.
«Abbiamo un altro problema, temo~ » quasi canticchiò Break, accucciandosi al loro fianco ed indicando giocosamente davanti a loro.

Entrambi spostarono lo sguardo nella stessa direzione, e Oz ebbe un senso di dejà-vu improvviso: quel luogo, ovunque fosse, cambiava lentamente davanti ai loro occhi.

Quel corridoio anonimo si faceva confuso e poi, tornando pian piano più nitido, acquisiva caratteristiche che ricordavano… un giardino.

Il biondo deglutì a vuoto: avrebbe potuto azzardare ad indovinare dove fossero, fino a poco prima di incontrare Glen… tuttavia ora non era più certo che una distorsione dello spazio di quel tipo indicasse per forza di essere in un ricordo piuttosto che nella realtà.

Dopotutto era vero che quello era stato il modo in cui lo scenario era cambiato quando Jack gli aveva mostrato alcune cose che riguardavano lui e Glen, ma era anche vero che allo stesso modo era cambiato quello che c’era davanti ai suoi occhi in altre occasioni.

Volte in cui, ne era certo, era stata la realtà tangibile di ogni giorno a diventare a quel modo per assumere poi nuova forma.

«Che cavolo ci trovi di divertente, idiota di un insegnante?!» sbottò Alice, che evidentemente non si sentiva affatto a suo agio in quella situazione – come forse era normale sentirsi, pensò Oz. Erano lui e Break a non essere “normali”, in un certo senso. Anche se il docente lo era forse ancor meno di lui: almeno Oz aveva dalla sua il fatto che non fosse una situazione nuova e che ci si fosse in qualche modo abituato.

«Ma dai, signorina Lewis…» la prese bonariamente in giro Break, prima di cambiare totalmente espressione, passando da una scanzonata ad una divertita tanto quanto lo era stata nel ritrovarsi nella condizione di schiacciare Cheshire poco prima: «se ci facciamo prendere del panico, non finirà bene, e sarà la volta buona che Rufus mi ammazza. Sempre nell’ottimistica previsione di sopravvivenza. Che, non avendo idea di dove siamo o di cosa stia accadendo, è una cosa che non so quanto considerare certa.» commentò, una certa serietà di fondo nella sua affermazione. Anche se più che tranquillizzare, da bravo insegnante, rischiava di agitare gli altri due ancora di più.

Oz abbozzò un sorrisetto leggero, tornando poi con lo sguardo di fronte a sé: il nuovo paesaggio era ormai definito, ma era un giardino come tutti gli altri, con nessun particolare che potesse far intuire ad Oz se fosse o meno un posto conosciuto o visto almeno una volta.

Questo almeno finché non fu proprio Break a riconoscerlo, assumendo un’espressione così allibita da risultare buffa, tanto che il biondo avrebbe ridacchiato se la situazione fosse stata diversa: «…Ma siamo solo nel giardino di Latowidge.» se ne uscì.

Oz stava prendendo in seria considerazione di prepararsi ad un’aggiunta sul genere di “lo so perché a quell’albero ho appiccato fuoco durante il secondo anno” – visti i precedenti – quando il fiato gli morì in gola.

Inquadrò poco distanti da loro tre figure che Break ed Alice, presi ad osservare in un’altra direzione, non avevano ancora notato; Oz si bloccò per qualche istante, senza riuscire a fare altro che osservarli, quasi dimenticandosi di respirare.

Poi, allungò appena una mano a tirare una manica del docente, attirandone l’attenzione: «Non è Latowidge… è solo un ricordo.» mormorò, guadagnandosi un’occhiata piuttosto perplessa da Break e a dir poco confusa da parte di Alice.

«Potresti ripetere, signor Bezarius?» lo incalzò Break, sebbene con il tono di chi ti stava seriamente prendendo per pazzo.

«Ha capito bene.» ribatté quasi brusco Oz, indicandogli a quel punto la direzione in cui aveva notato quel particolare che gli aveva reso tutto più chiaro e verso cui si voltarono anche gli altri due, proprio mentre Oz spiegava il perché di tanta sicurezza.

«Non potrebbe essere altrimenti. Se c’è mio fratello… non può essere altro che un ricordo.»

 

 

Note autrice (ancora viva, sebbene data per morta)

 

Vorrei potermi rallegrare del fatto che sono passati esattamente 4 mesi – e quindi della mia precisione in fatto di giorni – ma è un tempo immane. Non c’è niente di cui rallegrarsi ;__;”

Con questo ritardo immondo, passo alle comunicazioni di servizio.

 

Innanzitutto, la frase in apertura è dell’anime “Uraboku”.

Poooi. La fine di Rinnega si avvicina (ebbene sì, esiste la parola fine): con questo capitolo 19 concluso, ne mancano esattamente 3 più un epilogo.

Nota dolente, è che sicuramente ritarderanno un poco: devo cercare di non far crescere le ragnatele anche ad un altro progetto. In più, proprio come è stato per il primo anno di pubblicazione, vorrei festeggiare il secondo con uno special :3 (anche se non ci sarei arrivata a due anni se non avessi rallentato i ritmi 8D ma queste sono quisquilie).

Dunque in caso che questo secondo special ci sia, il prossimo capitolo arriverà un pochino più tardi. Ma non passeranno 4 mesi, confido nelle mie (brevi) vacanze dagli esami 8DDD

 

Nuit: sì, i nervi di Sirjan li stiamo perdendo per strada, ma come dargli torto ormai XD Ma con lui, almeno fino all’ultimo capitolo, si può star certi di una cosa: c’è sempre qualcosa dietro 8D
Per Alice, ormai ci siamo quasi, abbi fede. Anche se probabilmente è la persona meno probabile…? *bello che non lo sa nemmeno lei*

Per Lacie non si è ancora capito nulla da questo capitolo, mentre invece almeno si è spiegato il perché dell’odio di Lottie maturato negli anni Anche se all’effettivo, quella donna più che tramare… assiste a tutto senza muovere un dito, LOL

Anche se in mega ritardo, spero che anche questo capitolo sia stato di tuo gradimento – anche se è forse il più corto e con meno chiarimenti di tutti quelli scritti finora… *e dire che avvicinandosi alla fine dovrebbe essere il contrario*

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Capitolo 20
*** La verità, guardala con i miei occhi ***


La verità, guardala con i miei occhi

 

Se chiudo gli occhi, riesco ancora a sentirlo.
Quel pianto che strazia il cuore.


Né Alice né Break dissero nulla, a quelle parole: entrambi erano coscienti del fatto che Oz avesse ragione, ma era il modo di approcciarsi a questa consapevolezza, la differenza fra i due.
Alice aveva abbassato lo sguardo, quasi temesse un po’ l’idea che Jack Bezarius apparisse di fronte a loro. Sia perché non aveva ancora detto ad Oz di avere incontrato e parlato con lo spirito di suo fratello, né aveva accennato al senso di familiarità che in quell’occasione aveva provato – senza saperselo spiegare – nei confronti di Jack. Sia perché quella stessa sensazione la preoccupava, quasi la metteva in guardia.
Break, invece, aveva assottigliato il proprio di sguardo, quasi cercasse di vedere con l’unico occhio che glielo consentiva qualcosa che doveva essere in avvicinamento. Anche se, contrariamente a quanto si aspettasse, non sembrava esserci nessuno oltre Jack Bezarius.
Sembrava un pochino più giovane dell’ultimo periodo passato al letto, osservò Oz. I tratti del viso non erano infantili, e l’altezza era già quella che il più giovane ricordava, ma Jack sembrava ancora conservare un po’ di quella spensieratezza che – Oz lo aveva visto, ormai – lo aveva caratterizzato soprattutto ai tempi della scuola.
Per un attimo fu tentato di provare a chiamarlo, nel dubbio che potesse sentirlo come in quel sogno che aveva visto; ma non lo fece, quando lo vide voltarsi indietro con un ampio sorriso, pronunciando un: «Dai Glen, forza!» esortando l’amico che poco dopo sbucò fuori dagli stessi alberi dai quali era apparso Jack.
Oz rimase fermo esattamente dov’era, mentre Break sgranava appena gli occhi: certamente non si era aspettato anche Baskerville, lì.
Alice pareva quella più spaesata, e Oz minimizzò la cosa con la spiegazione più semplice, ossia che la ragazza non avesse presente di chi si trattasse.
Glen nel frattempo aveva raggiunto Jack che, entusiasta come un bambino il giorno di Natale, camminava all’indietro mantenendo lo sguardo sull’altro quasi ad assicurarsi che lo seguisse senza perdersi.
Oz mosse qualche passo verso di lui prima ancora di rendersene conto, e Break lo fermò afferrandolo senza troppi complimenti per un polso. Il giovane si voltò in sua direzione, confuso, ma il docente aveva le labbra incurvate in un sorrisetto sgradevole: non c’era allegria né il suo solito divertimento. Sembrava invece più che intenzionato a non immischiarsi più di quanto già non fosse con la sua sola presenza.
«Dobbiamo…» iniziò Oz, interrotto quasi subito da lui.
«No, signor Bezarius, tu potresti seguirlo. Io di certo non lo farò e, per quanto io finga di dimenticarlo più spesso possibile, voi siete sotto la mia responsabilità… ogni tanto.» aggiunse quasi ripensandoci: «Ed io non ho intenzione di correre dietro a te, che corri dietro qualcosa che ha l’aspetto di due defunti. No, decisamente preferisco la merenda che mi attende nel mio alloggio.» concluse, facendo per guidarlo dalla parte opposta.
Tuttavia aveva fatto un grosso errore di valutazione: credere che Alice Lewis avesse un minimo di buon senso in più rispetto ad Oz. Invece la castana, quasi ipnotizzata, si era mossa verso i due che continuavano a camminare verso una meta per lei ignota.
Break fece schioccare le labbra, seccato, l’espressione decisamente lontana dal suo standard di ‘sogghigno mentre ti sfotto e tu non lo sai’.
«E io che pensavo che il suo istinto animale funzionasse.» commentò in maniera piuttosto acida, abbandonando l’idea di poter evitare di immischiarsi e iniziando a seguirla, lasciando il polso del biondo che a quel punto fu libero di andargli dietro.
Non dovettero camminare molto e fu presto chiaro che non ci fosse bisogno di preoccuparsi di non farsi scoprire: Oz capì che quel Jack e quel Glen erano ricordi, e in quanto tali non avevano la minima percezione di loro tre che non appartenevano a quel luogo e quel tempo.
Jack e Glen avevano voltato a sinistra – effettivamente Break aveva ragione, quello non era affatto il giardino di Latowidge: il verde si faceva troppo folto in certi punti, per essere lo spazio aperto di una scuola – e loro li imitarono.
Quello che gli si parò davanti, li sorprese. Visto il posto che sembrava abbastanza incolto, non si erano aspettati di trovarvi una costruzione ad un certo punto. Sembrava poco utilizzata, anche se ancora in buone condizioni. La parte esterna soprattutto aveva l’aria un po’ abbandonata, con edera che si arrampicava sul mattonato; oltre quello, però, le tende – tirate – che si notavano anche dall’esterno non sembravano particolarmente polverose, segno che qualcuno doveva passarvi di tanto in tanto.
Per un attimo Oz pensò alla possibilità che si trattasse di una specie di rifugio o punto in cui riposarsi in quello spazio verde che ora non sapeva nemmeno se fosse un giardino di una qualche tenuta o chissà cos’altro. Non diede voce alle sue congetture, perché in quel momento Jack stava dicendo qualcosa e temeva di non riuscire a sentirla.
«Glen, che posto è?» domandò incuriosito voltandosi verso l’amico che, con espressione non particolarmente presa dalla cosa, scosse leggermente la testa: «Non ne ho idea. Non mi spingo in questa parte della tenuta, solitamente.» replicò pacato, lasciando intendere che si trattasse comunque della proprietà dei Baskerville.
Oz vide suo fratello assumere un’aria pensierosa: «Uhm…» mugugnò, voltandosi quindi verso il piccolo edificio e facendo la cosa più stupida, inutile e degna di lui. Un tentativo di arrampicarsi il tanto che bastava ad affacciarsi dalla finestra più bassa.
«…Jack, cosa stai facendo?» sentì chiedere a Glen, come se fosse ormai rassegnato all’idea che l’amico facesse cose assurde per natura. Il biondo si voltò, l’espressione divertita e le labbra incurvate in un sorrisetto furbo: «Come che faccio? Indago! Non sei curioso, Glen, di vedere cosa c’è dentro?» lo incalzò come se fosse impensabile, per lui, non esserne un minimo interessati.
«Non particolarmente, a dire il vero.» commentò Glen, ma Oz notò che anche lui si era lasciato sfuggire un sorriso impercettibile. Si vedeva che, più che l’idea di un posto misterioso, a divertirlo fosse il modo di fare dell’altro che lasciava libero di agire come preferiva, quasi curioso di vedere come sarebbe andata a finire.
Jack si limitò a portare lo sguardo verso il moro, in un’ostentata rassegnazione, decidendo di proseguire con la sua scalata improvvisata; dal punto in cui si trovavano lui, Break ed Alice, Oz vedeva senza difficoltà ogni passo di suo fratello… compreso il piede che, scivolando, minacciò ad un certo punto di farlo cadere a terra. Notò anche che Glen, per riflesso, aveva allungato una mano e mosso un piede in avanti, spostamento appena accennato e bloccato quasi subito quando aveva notato Jack afferrarsi saldamente ad una sporgenza del muro. In quel momento Oz si era chiesto, tornando con la mente tra le pagine del diario, se nel periodo di quel ricordo che stavano involontariamente spiando Jack si fosse già reso conto dei sentimenti per Glen. Al tempo stesso, cercava di capire se il moro ne fosse davvero all’oscuro, o se avesse lasciato credere a Jack di non essersene accorto per proteggere il legame che già avevano.
Ma Glen, lì tanto quanto come spirito, risultava per Oz insondabile.
«Jack, dovresti decisamente scendere, prima di rischiare il collo.» sentì il moro riprenderlo, con le labbra incurvate nello stesso sorriso impercettibile e divertito – che sperò vivamente non dipendesse dall’eventualità che suo fratello si spezzasse il suddetto osso del collo.
Il biondo si stava appunto pericolosamente voltando, quando un’altra voce li raggiunse: «C-Chi c’è?» pronunciò, attutita da qualcosa che si rivelò essere il vetro della piccola finestra che Jack stava cercando di raggiungere, e che era oramai a poco meno di un metro da lui. Aveva ancora le tende tirate e sembrava chiusa esattamente come prima; ma, ad un’occhiata più attenta, si rivelò essere solo socchiusa, con uno spiraglio di tenda aperto, in cui – con molta attenzione e un po’ di fortuna – si potevano distinguere una piccola porzione di viso e un occhio curioso e indagatore.
Probabilmente, nonostante la convinzione con la quale aveva iniziato ad arrampicarsi, nemmeno Jack aveva davvero creduto che ci fosse qualcuno, fino a quel momento; forse si era aspettato che ci fosse qualcosa, quello sì, ma non una persona.
Colto alla sprovvista, aveva iniziato a pronunciare qualcosa che Oz non riuscì a decifrare e che fu brutalmente interrotto da uno scivolone che fece finire Jack a contatto – un contatto molto intimo – con l’erba. Glen si era irrigidito per un istante, salvo tranquillizzarsi quando l’amico, con espressione buffa e dolorante insieme, aveva preso a massaggiarsi la parte lesa con qualche infantile lamento.
Oz, istintivamente avvicinatosi, fu certo di cogliere uno sbuffo divertito provenire dall’erede dei Baskerville. Sbuffo che, a giudicare dalle sue parole, doveva aver notato anche Jack: «Glen, non ridere alle mie spalle!» lo rimproverò offeso, forse in procinto di aggiungere altro ma fermato nuovamente dalla voce che lo aveva distratto pochi attimi prima.
«Chi c’è laggiù? S-Si è fatto male?» chiese, il tono un po’ più alto perché venisse udito anche da fuori; sembrava che pronunciare quelle poche parole fosse costato, al padrone di quella voce, un immenso slancio di coraggio.
Jack, che stava palesemente cercando di capire qualcosa di più sul proprietario di quella voce, parve coglierne innanzitutto la sfumatura preoccupata; per questo, forse, rise: per sciogliere una tensione non sua, esattamente come – così sospettava Oz – doveva aver dissolto quell’aura di inavvicinabilità che, a detta di Break, aveva sempre circondato Glen Baskerville anche ai tempi della scuola.
Funzionò. Le tende vennero scostate, rivelando un volto minuto ed un’espressione spaesata, oltre a quella che senza alcun dubbio era una Alice bambina.
Oz assunse un’aria sorpresa, ma mai quanto Alice che sembrava bloccata lì di fianco a lui. L’unico che non sembrava particolarmente toccato dalla scena era Break che, però, parve capire che qualcosa non andava dalla smorfia formatasi sul viso della studentessa. Tuttavia, quando tornò con lo sguardo sulla Alice più giovane, tutto sembrò più sfocato: «O la vecchiaia avanza inesorabile» osservò con ironia «o qualcosa decisamente non va.» concluse con eloquenza.
Oz poté capire perfettamente lo smarrimento dal momento che lo aveva provato lui stesso, e supponeva che si trattasse di qualcosa a cui sarebbe stato difficile abituarsi anche per uno come lui.
«Il ricordo sta cambiando, forse.» provò a spiegare, almeno in base alla sua esperienza, nemmeno così ampia poi. Break lo guardò, un sopracciglio alzato e l’aria decisamente perplessa: «Sai, signor Bezarius, non credo di voler veramente sapere perché ne sembri tanto certo e, soprattutto, perché lo dici come se fosse una cosa assolutamente normale.» sottolineò. Oz capiva di non poter dare più di tanto torto a quanto detto dall’uomo, perciò si limitò ad una leggera scrollata di spalle, tornando con l’attenzione sulla ragazza al suo fianco quando la sentì tirargli la manica.
«Alice…?» la chiamò, una sfumatura preoccupata nel tono. Sperò di sbagliare, ma gli sembrava che fosse impallidita; ne comprese il motivo solo quando lei, senza spostare lo sguardo dal punto in cui era stato Jack fino ad un attimo prima, disse: «Io non ricordo di aver mai conosciuto Jack…»
Fu palese a quel punto il perché di tanto stupore e, sebbene nessuno dei due lo disse ad alta voce, Oz e Break dovevano aver fatto la stessa considerazione: era strano che Alice non lo ricordasse, perché quella che avevano visto – la Alice di quel ricordo – non era così piccola al punto da dimenticare di aver conosciuto qualcuno. Poi, come una dimenticanza che torna prepotentemente a farsi spazio nella testa, Oz si rese conto che Alice – proprio come Gilbert – non aveva memoria del suo passato, o di parte di esso.
E forse tutto quello stupore si doveva anche al fatto che Oz le avesse parlato di Jack, una presenza così importante per lui e quasi “fittizia” per lei, che improvvisamente scopriva quanto preziosa fosse stata in realtà. Il biondo, con gentilezza, le prese la mano per tranquillizzarla: non era sola, lì.
«Complimenti, signor Bezarius» lo distrasse la voce del docente «a quanto sembra, la tua teoria era corretta.» osservò. Oz spostò immediatamente lo sguardo là dove poco prima suo fratello e Glen si trovavano: come aveva immaginato, il ricordo di prima aveva iniziato a sbiadire per far posto ad un altro. Senza che se ne accorgessero, erano ora in una stanza: il mobilio non era, almeno a prima vista, particolarmente antico; la polvere tipica dei luoghi poco utilizzati, però, gli dava un’aria consunta.
C’era l’essenziale per un piccolo salotto e uno studio messi insieme nella stessa stanza per mancanza di spazio: un piccolo tavolo, un divanetto, una libreria modesta ad occupare parte della parete. Due sole finestre avrebbero dovuto illuminare il posto, ma entrambe avevano le tende tirate e le uniche fonti di luce erano dunque artificiali; dal punto in cui si trovavano, Oz vedeva delle scale che collegavano senza dubbio ad un piano inferiore.
«Alice!» sentì chiamare, riconoscendo senza difficoltà la voce di Jack mentre sentiva la Alice di cui ancora teneva la mano sussultare di fianco a lui; l’attimo dopo suo fratello appariva proprio dalle scale, ed Oz quasi si era aspettato di veder comparire subito dietro di lui Glen. Motivo per cui fu invece così stupito di notare – mentre la Alice del ricordo oltrepassava Break e abbracciava di slancio il maggiore dei Bezarius – un titubante Gilbert a cui non dava più di tredici anni, e un altrettanto incerto Vincent, imbronciato.
«Cielo» sentì sbuffare sonoramente Break «cosa faceva tuo fratello, il badante?» osservò sarcastico, sarcasmo che Oz finse di non cogliere, mantenendo l’attenzione sulla scena.
La Alice che aveva abbracciato Jack si era nascosta in parte dietro di lui che, ridacchiando divertito, fece cenno a Gilbert e Vincent di avvicinarsi di più; mentre Oz li guardava fare come detto dal maggiore, notò Vincent che teneva un lembo della manica di Gilbert e si perse per qualche istante a pensare quanto diverso gli sembrasse quel bambino rispetto al ragazzo conosciuto lì a scuola. Se proprio avesse dovuto cercare un punto in comune, una qualche somiglianza, Oz avrebbe potuto evidenziare solo il fatto che Vincent sembrasse particolarmente legato al fratello maggiore già in tenera età – e che già da allora sembrasse un tipo da contatto fisico, fosse stato anche il semplice attaccarsi alla manica dell’altro, appunto.
Forse vederlo così titubante portò la Alice del ricordo a credere che dei due il più affine a lei, quello a cui avvicinarsi per primo, fosse Vincent. Fece un passo avanti, il tanto che bastò a far sì che non fosse più nascosta dietro Jack; guardava Vincent, appunto, che era ancora sulla difensiva. Gilbert sembrava stesse valutando pro e contro, per il momento, senza avanzare né indietreggiare.
Oz ebbe una strana sensazione nell’osservarlo: ricordava un Gilbert timido, che si spaventava facilmente ed era spesso in soggezione anche con i coetanei. Quello che ora osservava, invece, era più che altro guardingo; non sembrava spaventato. Sembrava che stesse solo decidendo se fidarsi o meno di quella bambina sconosciuta. Non sarebbe stato tanto strano, se quell’incertezza fosse stata mista al timore di un estraneo qualsiasi che in passato Oz aveva sempre intravisto negli occhi dell’amico.
Ma ora c’era solo la sfumatura di cautela di chi analizza una possibile minaccia; e quello, no, non era da Gilbert.
Che l’averlo conosciuto privo della memoria avesse fatto sì che il Gil amico che aveva conosciuto fosse stato così… intimamente diverso dal “vero” Gilbert?
Si voltò verso Alice, quella al suo fianco di cui teneva ancora la mano, cercando di capire dalla sua espressione se quel ricordo fosse qualcosa di nuovo come lo era Jack o meno. Mentre cercava di capirlo, gli balenò in mente una domanda così ovvia che si chiese perché non ci avesse pensato prima, o perché non l’avesse già posta ai diretti interessati: Alice e Gilbert avevano entrambi perso la memoria, entrambi da bambini a quanto sembrava.
Era possibile che l’avessero persa contemporaneamente? Se si conoscevano, in quanto cugini, magari era successo… in un incidente comune?
«Abbiamo un problema, suppongo.» l’affermazione di Break lo distrasse dalle proprie ipotesi, portandolo a spostare lo sguardo su di lui, l’aria confusa. Con la coda dell’occhio il docente lo notò e, abbozzando un sorrisetto enigmatico, accennò con il capo al punto in cui Oz aveva lasciato i protagonisti di quel ricordo che stavano osservando.
La scena stava cambiando di nuovo, sì, ma in maniera differente: non sembrava, come era stato le altre volte, uno scenario osservato attraverso un vetro bagnato, reso sfocato ma riconoscibile mentre lentamente svaniva. Pareva ora un vetro che veniva frantumato in mille pezzi, distorcendo l’immagine che si era osservata fino a quel  momento.
Per un attimo, Oz non seppe come reagire: era un caso, o qualcosa di cui preoccuparsi?
Era normale, o si trattava di un’anomalia?
Capiva, per la prima volta chiaramente, che quel fenomeno era qualcosa di cui stupirsi; non importava quanta capacità di adattamento Oz possedesse o avesse sviluppato negli anni, da qualunque parte si affrontasse la questione, non era normale assistere a dei ricordi come ad uno spettacolo teatrale, né mai lo sarebbe diventato.
«Suggerimenti, signor Bezarius?» lo incalzò Break, una mano posata sulla spalla del biondo e una su quella di Alice, tirandoli istintivamente indietro.
Oz alternò nuovamente lo sguardo fra lui e la scena ormai deformata e indistinguibile: «…Non lo so.» dovette ammettere infine «Non mi è mai capitato.»
Come se quell’ammissione fosse stata il compromesso necessario per farli tornare al luogo a cui appartenevano, il ricordo sparì completamente. Non fu come Oz ricordava, come svegliarsi da un sogno.
Fu brutale, come se lo stessero spezzando. Un dolore che non riusciva a capire dove si concentrasse o meno, come se fosse forte in egual misura in tutto il corpo.
Ebbe la sensazione, ad un certo punto, di aver persino gridato.

Aprì gli occhi quasi di scatto, riprendendo fiato come se fosse rimasto immerso sott’acqua fino a svuotare completamente d’aria i polmoni, ora avidi di ossigeno. La prima cosa che vide fu il volto di Aedan.
L’espressione atona che il moro aveva di solito cambiava solo per una sfumatura leggera ma percettibile di urgenza, quasi l’altro avesse avuto fretta di vederlo svegliarsi.
Oz si alzò a sedere, scombussolato: «Alice e…» iniziò, interrotto quasi subito dallo stesso Aedan, che indicò la sinistra del biondo. Voltandosi vide che la ragazza e il docente erano lì: lei sembrava ancora scossa, mentre lui era preso da qualcosa. Seguendo la direzione del suo sguardo, individuò Sirjan: era in piedi, dando loro le spalle. All’erta, attento ad ogni minimo movimento.
Quando ne individuò il motivo, Oz sussultò e capì il perché di tanta attenzione da parte del capo dormitorio, oltre che l’interesse di Xerxes e la confusione di Alice; di fronte a Sirjan, in ginocchio e apparentemente scossa dai singhiozzi, c’era un’altra Alice. Non era, però, quella bambina del ricordo da cui erano usciti bruscamente. Era una Alice identica a quella reale, quella che Oz conosceva.
Solo gli abiti erano diversi, simili a quelli che – così immaginò il biondo – Alice avrebbe potuto indossare a casa, o comunque lontana da Latowidge e dall’obbligo della divisa.
Oz cercò lo sguardo di Sirjan, sperando in una spiegazione, ma l’altro continuava ad osservare la ragazza a terra; non potendo fare altro, anche il più giovane spostò l’attenzione su di lei, china su qualcosa che non riusciva a vedere.
«Muoviti meno possibile.» lo raggiunse la voce di Aedan in un sussurro vicino: «Per tirarvi fuori abbiamo dovuto distruggere il campanello di Cheshire. Lui sembra sparito, ma è apparsa lei all’improvviso e ha fatto questo caos.» spiegò e solo allora Oz si rese conto dello stato in cui versava il corridoio. Sul pavimento c’erano vetri praticamente ovunque: alzando un poco lo sguardo, capì che provenivano dalle finestre. La maggior parte di esse erano infatti completamente distrutte.
Una sfilza di domande gli affollarono la mente in un istante: come aveva fatto una ragazza ora in lacrime a fare quel disastro? Chi era? Perché proprio il campanello di Cheshire, e perché questi era sparito anziché infuriarsi, specie considerando l’indole abbastanza aggressiva che aveva dimostrato di avere?
Perché, supponendo che i vetri nel frantumarsi avessero fatto un chiasso più che udibile, nessuno a parte loro era nel corridoio?
Non sapeva a cosa dare la priorità, e si chiedeva anche se Aedan avrebbe risposto o rimandato come altre volte aveva fatto. Decise di provare ugualmente.
«Aedan» lo chiamò in un soffio «cosa è successo esattamente?» decise di fare una domanda che potesse includere la maggior parte di quelle a cui non sapeva dare un ordine preciso; il moro, che osservava la schiena di Sirjan, non sembrava particolarmente intenzionato a rispondere. Oz si stava già arrendendo all’idea, quando inaspettatamente l’altro parlò: «Eravate bloccati in una specie di ricordo, vero?» chiese a sua volta, sbirciando Oz con la coda dell’occhio.
Il biondo annuì piano, in attesa: «Sirjan non mi ha spiegato bene, ma era qualcosa racchiuso nel campanello di Cheshire. Per tirarvi fuori abbiamo dovuto romperlo. Voi vi siete svegliati, e lui è scomparso.» spiegò, con quel modo di parlare tipico di lui, frasi brevi e lo stretto indispensabile.
Oz stava per domandare chi fosse quella ragazza, ma notò un movimento al proprio fianco; voltandosi in quella direzione notò che Alice si era alzata, avvicinandosi di qualche passo. Sirjan, nel vederla al proprio fianco le mise una mano sulla spalla, fermandola con decisione.
«Non è il caso.» la redarguì, criptico. Lei, quasi si fosse accorta solo in quel momento della presenza del maggiore, lo fissò quasi sfidandolo a fermarla davvero. Senza cambiare espressione, Oz giurò che l’altro avesse rafforzato ancora di più la presa.
«Sei stato tu, vero?» li colse di sorpresa la voce della ragazza che ancora si trovava inginocchiata in mezzo al corridoio, incurante dei frammenti di vetro su cui poggiava. Solo quando si tirò su, Oz notò che fra le mani reggeva il campanello di Cheshire, attraversato da una crepa ben visibile, come fosse stato proprio rotto manualmente a metà. Lei guardava Sirjan, e piangeva.
«Sono stato io.» replicò lui quasi placidamente, cosa che sembrò scatenare il sentimento opposto nella ragazza; l’espressione fu deformata dalla rabbia, ma non solo. Sembrava triste, ferita, come se Sirjan avesse appena ucciso qualcuno.
«Cheshire era… l’unico, l’unico amico di Alice!» esclamò, riferendosi a se stessa con lo stesso nome della castana trattenuta dal capo dormitorio. Oz, che iniziava veramente a non capirci più nulla, guardò prima l’una e poi l’altra. Alice Lewis sembrava aver rinunciato a capire di chi si trattasse, lasciandosi in balia della confusione più totale.
«Cheshire non ha rispettato il patto, e non era la prima volta.» parlò Sirjan cautamente, severo come se stesse rimproverando uno dei tanti studenti colto in flagrante per il corridoio oltre il coprifuoco: «Abbiamo un patto di non aggressione, e in più di un’occasione lo avevo pregato di rimanere al suo posto. Già molto tempo fa avrei dovuto aggredirlo, ma in nome dell’accordo che c’è fra la scuola e voi, ho chiuso un occhio. Ho fatto un errore.» continuò, e per un attimo ad Oz ricordò il Sirjan visto le prime volte. Freddo, implacabile, poco disposto a perdonare. Specialmente gli spiriti come Cheshire.
«Cheshire era buono!» esclamò, insistente, la Alice in ginocchio.
Oz non lo vedeva in viso, da dove si trovava, ma fu certo che l’espressione del più grande dovesse essere mutata radicalmente. Le parole che pronunciò glielo confermarono.
«Cheshire ha aggredito un docente, causandogli una ferita profonda.» tuonò. Non stava gridando nel vero senso della parola, ma il tono con cui le si stava rivolgendo avrebbe fatto gelare il sangue nelle vene a chiunque, con un effetto maggiore che se avesse urlato: «In quell’occasione fu scusato perché entrambi erano nel torto e il docente in questione si era spinto troppo in là nei vostri affari. Il signor Bezarius, poi, è stato ripetutamente aggredito, anche senza che avesse fatto alcun torto a voi. I patti erano altri, sono sempre stati altri dalla fondazione perciò dimmi, quanto ancora dovrò fingere di non vedere quanto poco vi interessa rispettarli? Non ho intenzione di aspettare che nuociate ancora a qualcuno in maniera irreversibile.» concluse, senza muoversi di un passo nonostante ad un certo punto – Oz suppose fosse causato dalla Alice a terra che non sembrava affatto gradire quel discorso – qualche altro frammento di vetro si fosse staccato dalle finestre, frantumandosi ulteriormente contro il pavimento.
«Tuttavia» riprese Sirjan «non considero te colpevole di quanto fatto da lui fino ad oggi. Sei libera di andare, e farò tornare gli studenti in quest’area senza coinvolgere nessun altro.» aggiunse.
Oz normalmente si sarebbe preso la briga di chiedere ad Aedan cosa intendesse Sirjan e come avesse fatto sì che gli studenti non si spostassero in quel corridoio; ebbe però la sensazione che non fosse il momento adatto, e che non avrebbe comunque ottenuto risposta.
«Cheshire non ha fatto nulla di male!» sentì insistere la Alice a terra e, proprio in quel momento, la vide portare la propria attenzione proprio sulla Alice a pochi passi da lui; la mano che non teneva il campanello ormai rotto, indicava proprio in direzione della ragazza così uguale a lei: «È colpa sua!» prese a gridare «Se tu non fossi andata via e non ci avessi lasciati soli… è stata colpa tua, tutta colpa tua! Cheshire è rimasto con me perché tu ci hai abbandonati!» continuò, furiosa, mentre i singhiozzi che di tanto in tanto le sfuggivano rendevano la scena a metà fra il surreale e il pietoso.
Quella ragazza, quella Alice, sembrava tanto fragile quanto inavvicinabile. Nonostante Oz avesse l’istinto di avvicinarla e cercare di calmarla, qualcosa nel profondo gli diceva che sarebbe stato non solo inutile, ma anche pericoloso a suo modo: una sensazione simile a quella provata con Glen, ma al contempo diversa; in cosa differissero, non avrebbe saputo spiegarlo a parole.
«Lewis?» sentì pronunciare, riconoscendo la voce di Xerxes Break – era indubbiamente lui, il docente al quale Sirjan si era riferito poco prima.
Girandosi in loro direzione, notò entrambi. Alice sembrava terrorizzata, in quel momento, e Oz si sentì stranamente inquieto: forse perché non aveva mai visto la castana davvero spaventata da qualcosa, forse perché poco più in là c’era quella che sembrava un’altra Alice in lacrime, ma la cosa lo preoccupò.
Vide il docente scuoterla leggermente con una delicatezza che, a dirla tutta, non gli avrebbe mai attribuito senza averla davanti ai propri occhi.
Alice non lo considerava quasi, l’attenzione totalmente sull’altra ragazza, le labbra appena socchiuse quasi stesse cercando di articolare qualcosa senza però riuscirci, come bloccata.
«Perché mi hai lasciata da sola con le cose dolorose?! Perché sei scappata via?! È tutta colpa tua! Ti odio, ti odio, ti odio!» prese a strillare l’altra, e prima ancora che potesse rendersene conto, un vetro – come si fosse alzato da terra Oz non lo sapeva ed era abbastanza sicuro di non voler indagare in quel momento – passandogli vicino al viso così velocemente da non essere praticamente visto, gli procurò un taglio superficiale ma fastidioso. Si portò per istinto una mano al viso, sfiorandolo.
Quasi il taglio fosse stato netto e profondo, Aedan sembrò allarmarsi e lo spintonò portandosi davanti a lui; Sirjan, allo stesso modo, si voltò verso di loro con una certa urgenza sia nello sguardo che nella voce: «Portali via, Aedan!» ordinò senza preoccuparsi di sembrare o meno sgarbato.
Oz, dopo una veloce occhiata alla ragazza davanti al capo dormitorio e ad Alice, fece per ribattere. Sirjan non gliene diede il tempo e, quasi stesse rispondendo ad un muto e perentorio ordine letto nello sguardo del più grande, Aedan si alzò in piedi tirando su il biondo quasi di peso.
«Ma…!» tentò di opporsi, cogliendo però con la coda dell’occhio che Break stava tirando indietro anche Alice per portarla via o almeno più lontano possibile: «Quella è pericolosa.» disse solo Aedan, probabilmente convinto che bastasse come spiegazione.
Prima che voltassero l’angolo, Oz vide soltanto due cose: la maggior parte dei vetri a terra galleggiavano sinistramente in aria quasi pronti, come pugnali, a colpire e Sirjan nel mezzo quasi si fosse volutamente posizionato nell’occhio del ciclone.

Aedan li aveva guidati lungo il corridoio in cui avevano svoltato lasciandosi il capo dormitorio alle spalle, e in silenzio li aveva condotti fino alla stanza in cui Oz era già stato una volta insieme a Sirjan e Alyster mesi prima e che gli era parso una sorta di ufficio dei due. Non aveva mai indagato allora, né ne aveva avuto motivo poi, su cosa ci facessero e se effettivamente non ci fossero niente più che gli archivi studenteschi.
Una volta nella stanza, con il fiato corto visto che li aveva costretti ad un passo piuttosto sostenuto, tutti e quattro avevano taciuto finché il respiro non si era regolarizzato; Break aveva fatto sedere un’Alice fin troppo docile perché la cosa non fosse da imputare allo stato di confusione mentale in cui certamente versava. Aedan era rimasto fra la porta e la scrivania cui – se non ricordava male – era solito sedere Sirjan; Oz era in piedi, invece, a ridosso della poltroncina su cui avevano fatto sedere Alice.
Nel silenzio della stanza, appariva ancora più ovvio l’innaturale quiete che aleggiava per i corridoi. Per la seconda volta Oz si era chiesto come fosse possibile che il chiasso che anche solo i vetri avrebbero dovuto provocare risultasse inudibile: non solo non erano così distanti da poter giustificare la cosa, ma non era nemmeno plausibile già da prima che il frantumarsi delle finestre fosse passato inosservato a tutta la scuola.
«Aedan» aveva richiamato l’attenzione del moro: «Sirjan cosa sta facendo ora, lì?» aveva domandato senza mezzi termini. Non voleva scuse, in quel momento, perché iniziava a diventare impossibile anche solo provare a giustificare in maniera normale quel che succedeva a Latowidge: «Ormai siamo di mezzo alla questione, qualunque essa sia. E a meno che Sirjan non sia immune al vetro, cosa di cui dubito, o lo hai lasciato lì da solo perché sei pazzo, o perché sai che starà bene.» aveva osservato, guardandolo in maniera eloquente.
Aedan non aveva detto nulla, né mutato espressione sul momento; tuttavia, ad un certo punto Oz era certo di aver visto un’accigliarsi leggero, quello che avrebbe definito “preoccupazione”. Si era chiesto più volte se Aedan lavorasse soltanto per Sirjan o se ne fosse amico e, quindi, si preoccupasse per lui. Quella, finalmente, sembrava essere la risposta.
«Io non ho il permesso di parlarne.» aveva detto infine, abbassando leggermente la testa. Oz avrebbe voluto provare a spronarlo un poco di più, certo che – dal momento che considerava Aedan tutto fuorché stupido – avrebbe capito che in quella situazione fosse più sensato rinunciare ad un segreto, piuttosto che rischiare che qualcuno si facesse male sul serio. Prima che potesse dire qualcosa però, la voce di Alice aveva risuonato per la stanza, una nota di isterismo dato sicuramente dal susseguirsi di troppi eventi che dovevano averla scossa; era forte, certo, ma nessuno sarebbe rimasto impassibile scoprendo parte di un passato che non ricordava e sentendosi poi accusare da qualcuno con il proprio stesso aspetto.
«Non me ne frega nulla, se non puoi parlarne! Quella… quella ragazza!» aveva detto senza sapere nemmeno lei come chiamarla «Mi incolpa di cose di cui non sono a conoscenza e non so nemmeno chi sia! Perché ha la mia stessa faccia?! Perché mi accusa? Cosa vuole da me?! Smettetela di nascondermelo, se tu e quello lì ne sapete qualcosa dovete dirmelo e basta!» era esplosa, facendo ad Oz una gran tenerezza.
Alice, che sembrava sopportare bene qualsiasi cosa rimanendo sempre se stessa – Echo che sembrava tenerla sotto controllo, Vincent che non le piaceva, tornare a casa che era per lei insopportabile – aveva raggiunto la soglia di qualcosa che non poteva tenere sotto controllo. Era spaventata, ed era comprensibile, e in quel momento Oz non aveva saputo cosa fare per farle capire che pian piano avrebbero districato tutto e ne sarebbero venuti a capo.
Che non necessariamente era qualcosa di pericoloso – lo pensava, probabilmente sbagliando e troppo influenzato dall’idea di dover considerare pericolose tutte quelle manifestazioni sovrannaturali, e dal dovervi includere anche suo fratello.
«Allora» lo aveva incalzato Alice, liberandosi della mano di Break che, forse solidale ad Aedan, cercava di trattenerla o almeno di calmarla: «vuoi dirmelo o no?!» esclamò.
Oz era certo di non aver mai visto Aedan abbassare lo sguardo ma, in quel momento, il moro lo fece: un solo istante, qualcosa di impercettibile, una frazione di secondo in cui gli occhi avevano cercato quasi spasmodicamente la porta.
«Non posso parlarne.» aveva ripetuto.
«Tu sei…!» aveva iniziato Alice ma, inaspettatamente, Aedan aveva portato lo sguardo nuovamente su di lei, duro stavolta: «Proprio come tu non tradiresti mai la fiducia di una persona vicina per me, io per te non tradirò la fiducia di Sirjan. È tutto quello che ho da dirti, Lewis.» aveva pronunciato senza lasciare possibilità di replica. Per la prima volta dopo l’episodio avvenuto alla morte di Alyster, Oz lo vedeva prendere posizione.
Ad interromperli era stata la porta che si apriva lasciando entrare Sirjan, che se l’era richiusa immediatamente alle spalle: non sembrava ferito, nonostante avesse la stoffa della divisa tagliata sul braccio sinistro. A giudicare però dal fatto che Aedan non cercò nulla per medicarlo, Oz dedusse che si fosse tagliato solo il tessuto e non la pelle sotto di esso fortunatamente.
Intuendo che ci fosse una discussione in corso, Sirjan si era messo di mezzo. Capito il problema, con un sospiro si era arreso a cercare un compromesso: aveva spiegato loro che quella questione era qualcosa che la sua famiglia era incaricata di tenere segreta per conto di terzi.
«Pertanto» aveva detto «dovrete darmi il tempo di richiedere il permesso al capofamiglia.» aveva concluso, aggiungendo però il consiglio di pensare attentamente all’eventualità di chiedere e di conoscere la verità.
«Ve lo consiglio non come appartenente ai Kolstoj.» era stata la precisazione: «Lo dico come persona. La verità che cercate non riguarda solamente voi o le persone che avete visto a causa dei ricordi conservati da Cheshire. Perciò credo che dovreste pensarci bene, prima di decidere.» aveva detto prima di congedarli.
Aedan era chiaramente rimasto con Sirjan, mentre Break si era preso l’incarico di scortare Alice al proprio dormitorio. Oz ne era rimasto un po’ sorpreso, perché Xerxes Break non si era mai dimostrato esattamente il tipo di docente coscienzioso verso i suoi studenti. Evidentemente, però, di fronte ad una cosa così grande persino lui si ritrovava ad avere un atteggiamento più serio. Anche se, e di questo Oz era sicuro, la prima cosa che avrebbe fatto dopo essersi assicurato che Alice fosse al sicuro nel dormitorio sarebbe stata andare a riferire il tutto a Rufus, confrontandosi con lui sull’accaduto.
Considerando che anche Glen Baskerville sembrava legato alla cosa, di certo i due non ne sarebbero rimasti fuori.
Oz si era diretto al dormitorio maschile. Tuttavia, anziché andare nella propria stanza, cambiò direzione ad un corridoio. Sapeva dove andare e sapeva che non poteva rimandare, non ora, specialmente se Sirjan fosse tornato con il permesso per raccontare loro tutta la verità. Capì che non poteva lasciare Gilbert fuori dalla questione, e probabilmente nemmeno suo fratello Vincent; ma, mentre nel caso del biondo sarebbe stato di certo più saggio lasciare che fosse Gilbert stesso a parlargliene se l’avesse ritenuto necessario, nel caso dell’amico – amico? Non era quello il momento di puntualizzare ­– era giusto che fosse lui a spiegargli quanto accaduto.
Voltò un altro angolo, immettendosi nel corridoio che ospitava la stanza dei due Nightray.
Come stiamo, oggi? Va un po’ meglio?
Si voltò, cercando alle proprie spalle due compagni che potessero essersi scambiati quelle parole. Quasi dovesse ormai aspettarselo ogni volta, non vide nessuno.
Inspirò, tornando a percorrere il corridoio nella direzione che stava seguendo.
Ha riposato tutta la mattina, credo che oggi si senta più in forze rispetto al solito.
Si impose di non voltarsi, si disse che non c’erano voci, non c’era nulla di strano. Soprattutto, non c’era nessuno alle sue spalle.
Credo che gli piacerebbe vederti. Non vuoi entrare, Gilbert?
«Oz?» sussultò sentendosi posare una mano sulla spalla; si voltò di scatto, ritrovandosi davanti proprio Gilbert. Sospirò piano, cercando di togliersi dalla mente quella voce, mentre contro la sua volontà si sforzava istintivamente di ricordare a chi appartenesse. Gli sembrava familiare, ma non riusciva a fare mente locale. Supponeva che venisse da un ricordo, da qualcosa successa in passato e che gli era tornata in mente ma non riusciva ad inquadrarla nel proprio passato.
Quando era stato male? Aveva avuto la febbre da bambino e Gilbert era andato a trovarlo?
Allora la voce doveva essere di Ada, visto che era femminile.
«Va tutto bene? Sei pallido.» sentì dire al moro, le dita che gli sfiorarono la guancia con il dorso, l’espressione apprensiva. Incurvò le labbra in un sorriso leggero, annuendo: «Mi hai solo sorpreso. Stavo venendo nella tua stanza.» replicò.
«Come mai? È successo qualcosa?» domandò il moro, facendosi attento. Normalmente Oz avrebbe sminuito con un “no, è tutto a posto”, ma non era quello il caso. Annuì di nuovo, impercettibilmente: «C’è una cosa di cui vorrei parlarti. Riguarda… il periodo precedente alla tua amnesia, credo.»

Gilbert si sentiva estremamente confuso.
Oz gli aveva pazientemente spiegato tutto l’accaduto, compreso il contenuto di ciò che con Alice e Break aveva osservato, non sorprendendosi del fatto che il moro non sembrasse ricordare quel primo incontro con la cugina; o meglio, sosteneva che quello che lui ricordava fosse in circostanze e luoghi diversi.
Soprattutto, gli aveva detto, non era presente Jack quella volta.
L’unica soluzione che gli era venuta in mente, era cercare di confrontare i propri ricordi con Vincent, l’unico altro presente in quell’occasione che potesse smentire o avvalorare quanto visto da Oz: «Lo cercherò e chiederò a lui. Ne riparliamo a cena, va bene?» si era quindi congedato dal biondo.
Vincent non era in stanza, e per quello Gilbert aveva preso a dirigersi verso la biblioteca una volta abbandonato l’edificio del dormitorio, sperando che suo fratello per una volta che gli serviva mantenesse il suo hobby di andare a leggere le cose più disparate – letture che probabilmente faceva solo lui in tutta Latowidge, e sulle quali Gilbert non aveva mai voluto indagare davvero – in modo da essere facilmente rintracciabile.
Voltò un angolo, e diede una spallata a qualcuno che non inquadrò del tutto dal momento che se lo era ritrovato davanti all’improvviso. Fece per scusarsi, notando che si trattava di Elliot e che sembrava venire proprio dalla biblioteca: «Elliot, giusto te.» lo incalzò, mentre il minore lo fissava tra l’imprecazione mentale di chi viene urtato e vorrebbe mangiarti vivo e lo scombussolato dallo scontro inaspettato.
«Vieni dalla biblioteca? Hai visto se c’è Vincent?» domandò senza perdere troppo tempo, visto che nessuno dei due si era certo fatto male.
«No, stavo venendo a cercarti.» ammise, recuperando un libro che gli era caduto di mano. Gilbert se ne stupì inevitabilmente: era ben raro che Elliot lo cercasse o avesse un bisogno impellente di parlargli o chiedergli qualcosa. Lo cercava di persona solo se avvertiva la necessità imminente di urlargli contro per qualche motivo spesso discutibile; in tutti gli altri casi, mandava Reo a fare da tramite.
Lo vide guardarsi intorno con circospezione, notando qualche studente che andava o veniva dalla biblioteca passargli accanto: «Vorrei evitare di parlartene qui. È abbastanza urgente, però. Possiamo spostarci?» lo incalzò con una certa impazienza, osservandolo.
Proprio perché era raro uno scambio simile tra di loro, Gilbert annuì; alla fin fine Vincent era sempre nei soliti posti quando non era in stanza, perciò non sarebbe stato difficile trovarlo in un secondo momento.
Annuì, quindi: «Spostiamoci.» si disse d’accordo, vedendo Elliot passargli accanto e voltandosi per seguirlo.

Si disse che avrebbe dovuto iniziare ad avere qualche dubbio quando anziché spostarsi – cosa assai più logica – nei dormitori o in una delle loro stanze, Elliot lo aveva guidato per i corridoi fino ad un’ala dell’edificio principale praticamente dimenticata anche da chi conosceva la scuola come le sue tasche.
Era, notò Gilbert in un secondo momento, nella zona che fin dal primo anno avevano vietato espressamente, sottolineando che lo stesso regolamento interno dell’Istituto sconsigliava l’accesso. In un secondo momento – intorno al suo secondo anno, se Gilbert non ricordava male – addirittura si era cominciato a punire chi non rispettava quella regola.
Ne conseguiva quindi che quell’ala dell’edificio fosse non solo isolata, ma avesse anche l’aria più abbandonata e consunta del resto della scuola.
Gli sarebbero dovuti sorgere dei dubbi nel momento in cui Elliot, ligio al dovere e osservante delle regole, aveva voltato l’ennesimo angolo immettendosi in quell’area. Invece, spazientito dall’allontanarsi così tanto – cosa a suo avviso inutile – e in ansia per quel qualcosa di urgente di cui Elliot sembrava aver bisogno di parlare, non aveva detto nulla limitandosi a seguirlo.
Ora, soli in quel corridoio dove nessuno sarebbe arrivato, si malediva mentalmente.
Ora, mentre Elliot con sguardo vuoto come se nemmeno lo vedesse davvero lo inchiodava al muro, si dava dello stupido.
Non voleva reagire picchiando suo fratello minore, che in quel momento nemmeno sembrava lui; capiva però che, se avesse continuato a stringere così tanto o avesse fatto movimenti strani, sarebbe stato inevitabile.
«Elliot, lasciami.» intimò per l’ennesima volta, la voce appena spezzata.
«Non essere sciocco.» lo apostrofò l’altro. Fu l’espressione a tradirlo, a far capire a Gilbert che nonostante lo sembrasse quello non era e non poteva essere Elliot; gli occhi azzurri, che erano quasi sempre arrabbiati o seccati nel posarsi su di lui, lo stavano guardando con altezzosità e disprezzo. E, seppure Elliot avesse sempre cercato di far sembrare tale l’arrabbiatura – spesso anche ingiustificata – verso di lui, Gilbert dopo anni sapeva anche senza guardarlo che suo fratello minore non guardava con disgusto le persone, salvo che avessero fatto qualcosa di veramente grave.
Poteva essere arrabbiato per il suo carattere tranquillo, l’indole remissiva, il fatto che fosse stato un servitore dei Bezarius prima di essere adottato, ma in quel modo non lo avrebbe guardato mai.
«Confido» lo sentì riprendere: «che tu abbia ben compreso che non sono il tuo sciocco e influenzabile fratello minore.» pronunciò. L’espressione di Gilbert mutò: irritato e forte dell’istinto di protezione che nei confronti dei suoi fratelli – Elliot compreso – aveva sempre avuto, lo fissò di rimando senza paura.
Non importava che la posizione al momento volgesse a suo favore, e che Gilbert fosse con le spalle al muro, quasi completamente impossibilitato nei movimenti.
«Chi sei? Cosa vuoi da mio fratello?» pronunciò, il tono risoluto.
Vide le labbra di Elliot incurvarsi in un sorriso di scherno estraneo al volto del minore, mai visto negli anni in cui era cresciuto con lui.
«Rispondi alla mia domanda, piuttosto.» lo ignorò totalmente: «Se gli eredi dell’uomo di cui desideri vendicarti fossero davanti ai tuoi occhi, giovane Nightray, cosa faresti?»
Gilbert boccheggiò per un attimo, senza sapere bene cosa dire. Si impose di calmarsi.
Doveva ragionare, doveva capire con chi stesse parlando; poi, solo poi, avrebbe potuto preoccuparsi di come e perché quella persona – quella presenza – ce l’avesse con il suo padre adottivo.
«Chi sei?» chiese nuovamente, testardo.
Il viso di Elliot si fece più vicino, fino a deviare lateralmente per poter parlare a voce bassa ed essere comunque udibile grazie alla scarsa distanza: «Glen Baskerville.» pronunciò piano, il tono quasi sadicamente divertito.
«E la risposta esatta era: li ucciderei.»

 

 

Un parto. Uno stramaledetto parto ;_;! *si prostra*
Credo che persino per chi è abituato ai miei aggiornamenti lentissimi stavolta sia passato davvero troppo tempo. Sono… 5 mesi? *non ci vuole pensare*
Ad ogni modo, a questo punto siamo a -3 (o -2 + 1, considerando l’epilogo XD)!
Inizia a vedersi la fine, non ci credo nemmeno io ;_;” Confidate che, anche se con aggiornamenti lentissimi, questa storia vedrà la dicitura “the end” (è già riassunta, per questo lo posso giurare XD).
Per questo capitolo risponderò ancora in queste note finali, ma dalle prossime eventuali recensioni risponderò tramite il sistema di EFP – sempre se mi ricordo 8D *rincoglionita*
Sì, odiatemi pure per la fine del capitolo

La frase in apertura è di Kuroshitsuji I.
Vi auguro delle buone feste <3

Fiamma Drakon: ti ringrazio come sempre per i complimenti e sì, voi che siete sopravvissuti 19 capitoli senza capirci un accidente state per essere – finalmente – ricompensati XD
Abbiamo ormai raggiunto il climax, da parte di questo capitolo e negli ultimi due tutti i nodi verranno al pettine, per la vostra gioia!
Sono contenta che Break risulti IC (su questo capito ho qualche leggera perplessità, ma attendo il giudizio di chi legge eventualmente XD); spero che anche questo capitolo sia stato di tuo gradimento (e non troppo confusionario)!

Nuit: non devi affatto scusarti del tuo ritardo, la recensione non è un obbligo ma un piacere (per chi la lascia e per chi la legge), non c’è una scadenza. Io piuttosto, con il ritardo che ho con i capitoli immagino abbiate l’istinto di lapidarmi, tipo 8D
Elliot e la sua uscita per la presenza di Gilbert sono uno dei punti da “retroscena” di una povera autrice e dei suoi schemini dei capitoli, che narrerò in separata sede alla conclusione di questa fanfic XD Cheshire e Break nel mio immaginario si odiano e basta, proprio come cane e gatto – paragone infelice visto che il gatto c’è davvero, ma passatemi il termine LOL
Spero che quanto accaduto nei ricordi di Jack abbia incontrato le aspettative! ^^

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