We get to carry each other

di Retsuko
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** One ***
Capitolo 2: *** Lego ***
Capitolo 3: *** September ***
Capitolo 4: *** Altrove ***
Capitolo 5: *** Mochi ***
Capitolo 6: *** Tra un anno passerà ***
Capitolo 7: *** Lana, solletico e crostacei ***
Capitolo 8: *** Re Luigi e la volpe polare ***



Capitolo 1
*** One ***


Disclaimer: I personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Takehiko Inoue e degli aventi diritto; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro. 

 

Guida alla lettura: questa fanfiction è ambientata fra il 1992/1993.

Il 1992 è l’anno in cui è uscito, in Giappone, il volume contenente la partita Shohoku VS Shoyo, nonché praticamente l’unico riferimento temporale presente nel manga. Quindi bye bye smartphone, ben tornate cabine telefoniche. A parte le canzoni presenti all’inizio del capitolo, che fungono più che altro da richiamo per il contenuto, cercherò di mantenere questa linea temporale.

Invece, solo nella testa della scrivente, lo Shohoku sta a Fujisawa e il Ryonan a Kamakura, entrambe città della prefettura di Kanagawa. 

Buona lettura 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Did I disappoint you?

Or leave a bad taste in your mouth?

You act like you never had love

And you want me to go without

Well it's too late, tonight

To drag the past out into the light

We're one, but we're not the same

We get to carry each other

Carry each other

One, U2

 

 

 

C’era un sole annacquato quella mattina di fine agosto e il mare sembrava voler sonnecchiare fino a tardi. Seduto sulla sabbia umida, Kaede Rukawa guardava le onde sbatacchiare pigre sul bagnasciuga, bevendo a piccoli sorsi una disgustosa bibita colorata che, a detta dei pubblicitari, avrebbe favorito il recupero dei sali minerali. 

Era stato preso da una sorta di fiacchezza che lo metteva di pessimo umore. Con un moto di stizza si scostò i capelli appiccicati alla fronte e lanciò lontano da sé la bottiglia di plastica, l’avrebbe recuperata a breve, ormai era quasi ora di rientrare al centro sportivo.

Non sarebbe nemmeno dovuto essere lì, eppure si era trascinato nuovamente alla spiaggia, come ogni mattina di quella settimana ed ogni mattina lo aveva ritrovato, con le sue dannate lettere in mano. Si erano scambiati sguardi taglienti, gesti di sfida, provocazioni o stupidi insulti, ma nessuno dei due aveva voluto rinunciare a quell’appuntamento mai fissato, almeno fino al momento presente, perché Sakuragi quel giorno non c’era e Rukawa non sarebbe rimasto ad aspettarlo ancora per molto. Anzi, non lo stava aspettando affatto, si era seduto semplicemente per riprendere fiato e presto se ne sarebbe andato via. A breve, brevissimo, lo avrebbe fatto, fregandosene di quei passi ovattati e dell’ombra familiare che si allungava sul terreno. 


Sakuragi si sedette al suo fianco, gambe piegate e gomiti sulle ginocchia.

Rukawa rimase immobile, appoggiato sulle proprie braccia tese all’indietro.

 

«Kitsune»

 

«Do’aho»

 

Da qualche parte, in fondo al loro IO confuso si andò a posare la consapevolezza dell’importanza di quel saluto distratto, ma quello non era il momento appropriato per pensarci, Hanamichi doveva vedersela con i suoi demoni personali mentre Kaede cercava disperatamente il modo migliore per riparare le crepe interiori che sentiva formarsi dentro di sé.

 

«Ieri mi hanno fatto una radiografia alla schiena e ho visto il medico» esordì Sakuragi in un tono piatto che poco gli si addiceva.


«Starò qui in clinica un altro mese, poi fisioterapia fino a fine anno e se va tutto bene a gennaio potrò ricominciare con il basket» concluse rivolto al mare. 

C’era impazienza e timore nella sua voce. 


«Cazzo» bofonchiò «Cinque fottuti mesi! Sono un’eternità! Io non so se … ehi dove stai andando?»


Rukawa si era alzato senza nemmeno degnarlo di un’occhiata, sospettava che se lo avesse guardato non sarebbe riuscito a nascondere il sollievo per la notizia: Sakuragi aveva buone possibilità di rientrare in squadra e tanto bastava. Il resto divenne irrilevante, persino le urla di Sakuragi stesso, che nel frattempo si era alzato anche lui, sbraitando qualcosa tipo: «Brutto stronzo, la devi smettere di allontanarti quando ti parlo!»


«Piantala coi piagnistei cretino» sbottò con durezza Rukawa, guardando finalmente il rossino. 


Si trovarono faccia a faccia, ancora, rabbia e animosità che fronteggiano arroganza e indifferenza, come sempre. E come sempre Rukawa giocò la sue carte in modo magistrale.

«Ci sono persone che sono state costrette a smettere per incidenti molto più banale del tuo. Considerati fortunato, il medico ti ha detto che hai possibilità di recuperare, perciò sta zitto e tira fuori i coglioni» disse lentamente ignorando l’espressione ebete dell’altro che lo stava ascoltando con la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite. 

«Dacci un taglio con le tue sparate da tensai e impegnati» chiarì ulteriormente.


Era così che funzionava il loro cammino.

Hanamichi inciampava nelle sue insicurezze, Kaede gli assestava un bel calcio in culo per farlo rialzare, Hanamichi riprendeva il passo per star dietro a Kaede che gli voltava le spalle e continuava a camminare. La ruota girava così fin dall’inizio. Quel giorno però qualcosa finì per incastrarsi nei raggi della ruota; Hanamichi accelerò, cambiando marcia inaspettatamente e Kaede sembrò intenzionato ad aspettarlo. La rabbia si tramutò in determinazione, l’animosità in passione pura, sinché il cambiamento parve scuotergli l’ intero corpo, trasformare ogni sfumatura del suo aspetto esteriore e Hanamici Sakuragi avanzò verso Kaede Rukawa con il portamento fiero di un guerriero che affronta la vera battaglia, lasciando da parte la ridicola scaramuccia con la Volpe cattiva.

 

«Ok, lo farò. Hai la mia parola che mi impegnerò al massimo.»

 

«Nh»

 

«Però in cambio voglio una promessa da parte tua» aggiunse Sakuragi. 

Non c’era traccia di spavalderia nelle sue parole, ma autorevolezza e potenza. 


«Sarebbe a dire?» chiese Rukawa

Nessun sopracciglio alzato o occhiataccia canzonatoria, solo curiosità.

 

«Mi devi promettere che partirai per l’America solo dopo aver vinto il campionato nazionale insieme a me.»

 

«D’accordo.»

 

«Ripetilo Kitsune.» 

«Do’aho, ti ho già detto che va bene»

«Non mi basta, ripeti»

 

Rukawa chiuse gli occhi e inspirò l’aria salmastra, di certo Hanamichi l’avrebbe interpretato come il solito atteggiamento di sufficienza, ma la verità era che Rukawa si stava cagando sotto. Aveva perso il controllo alle parole “insieme a me”, accettando quell’accordo assurdo senza riflettere, e ora doveva venire a patti con la spietata realtà: la paura di non essere in grado di mantenere la promessa, la paura di deluderlo. Avrebbe dovuto dire di no. E poi la parola insieme era un pò spaventosa, una parola importante che la gente usava di continuo senza considerarne il vero valore. Insieme suonava come prendersi cura l’uno dell’altro, sopportarsi e sostenersi a vicenda.

Ok Do’aho, se perderemmo, affronteremo insieme la delusione.   

 

Riaprì gli occhi solo per fissare le iridi marroni di Sakuragi

 

«Ti prometto che partirò per l’America solo dopo aver vinto il campionato nazionale insieme a te.»

 

Hanamichi sorrise, e in quel sorriso c’era tutta la luce del mondo. 

         
*****
Note dell'autrice: anzitutto un ciao a e grazie per la lettura di questo primo capitolo. Non scrivo da un'eternità, poi, traslocando mi è ricapitato fra le mani la colletion di Slam Dunk. L'ho riletto, ho pianto come una fontana e ora sta in bella mostra su uno scaffale nel salotto della mia nuova casa. Guardandolo mi è venuto in mente che avevo elaborato una bozza di ficiton mai messa su carta e ho deciso di riprenderla in mano, anche perchè è un periodo che sto cercando di rielaborare alcuni aspetti della mia adolescenza e mi piaceva l'idea di scaricarli bellamente sulle spalle di Hanamichi e Kaede. 
Colgo l'occasione anche per ringraziare tutte le autrici che hanno fatto rivivere la sezione delle storie di Slam Dunk in questo ultimo anno.

A presto 

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Capitolo 2
*** Lego ***


I'm gonna pick up the pieces

And build a Lego house

When things go wrong we can knock it down

Lego House , Ed Sheeran

 



Abituato alle linee nette che delimitavano il terreno di gioco Kaede Rukawa aveva imparato a ragionare in termini contrapposti 2 punti/3 punti, dentro/fuori, vincere/perdere, io/gli altri e così via.

Quando si trattava della Scimmia, però, ogni forma di analisi lineare andava a farsi friggere. 

Si era lambiccato il cervello per settimane prima di arrendersi: non riusciva a definire il momento esatto in cui i suoi sentimenti verso la testa rossa erano cambiati, ed era propio l’ impossibilità di tracciare un confine fra il prima e il dopo a turbarlo, non tanto l’idea di desiderare un maschio. Era consapevole di essere attratto dai ragazzi già alle scuole medie, questo non significava che si sentisse sereno, anzi era ben lontano dal sentirsi pienamente a proprio agio, ma perlomeno si risparmiava l’ inutile fatica di uscire con gli essere umani di sesso femminile. 

Provare attrazione per Sakuragi però era tutto un’altro paio di maniche, perché Sakuragi sapeva distruggere le sue strategie mentali con la stessa facilità di un bambino che abbatte una torre di mattoncini giocattolo e Rukawa poteva soltanto restare a guardare quei rettangoli di plastica sparsi sul pavimento, i resti della sua bellissima costruzione che aveva cercato di recuperare, scoprendo con disappunto che i pezzi non si incastravano più. Ogni frammento della quotidianità con Sakuragi era un pezzo fallato che non combaciava con nessun altro. La prima volta che si erano incontrati, la prima volta che si era sentito orgoglioso di lui, la prima volta che aveva provato fiducia nei suoi confronti, la prima volta che si era eccitato pensando a lui. Tutti pezzi inutilizzabili lasciati a terra in una confusione di colori. 

Poi, un giorno di settembre, Kaede guardò dentro di sé, vide i mattoncini ammonticchiati in un angolo e decise di lasciar perdere. Forse non erano i pezzi ad essere sbagliati, forse semplicemente doveva smettere di innalzare torri, muri e confini, prendersi una pausa, e immaginare nuove costruzioni. 

 

Chiaramente Kaede fu in grado di rielaborare questa riflessione soltanto diverso tempo dopo.

 

Al momento sapeva solo che da bambino i Lego erano il suo giocattolo preferito e che concentrarsi sul presente invece che sugli eventi passati o sulle ipotesi future, lo faceva sentire un po’ meglio.

Peccato che il presente si fosse trasformato in una noia mortale, il tempo era rallentato senza nessun preavviso e settembre si dilatò davanti a lui in un lento stillicidio di monotonia.

Rientrato a scuola dopo il ritiro della Nazionale Juniores scoprì, non solo che la Akagi era stata precettata da Ayako come nuova manager, ma che prima di ogni allenamento lei leggeva alla squadra l’ultima lettera arrivatale da Sakuragi. Ora - tralasciando il fatto che con questa mossa Ayako aveva rischiato di finire dritta dritta nella lista dei suoi nemici - Rukawa non aveva nessunissima intenzione di sorbirsi certe cazzate, cosa che aveva chiarito apertamente fin da subito, e soprattutto reputava la voce di “Harukina cara” disgustosamente mielosa, cosa che invece decise prudentemente di omettere.

Fortunatamente si trattava di una sorta di ritrovo informale e facoltativo, perciò Rukawa, dopo avervi preso parte il primo giorno, aspettava negli spogliatoi che quella pantomima finisse. Nemmeno Mitsui sembrava apprezzarla, anche se a dire la verità Mitsui in quel periodo non apprezzava praticamente niente. L’abbandono di Akagi e Kugure era stato un duro colpo per lui e il tiratore da tre punti reagì immusonendosi, raggiungendo dei picchi di antipatia che persino la scala di valutazione di Rukawa registrò come eccessivi. Preoccupato che il malessere di Mitsui dilagasse fra i compagni, Miyagi si stava dando da fare per mantenere alto il morale, sperimentando, allenamento dopo allenamento, il significato dell’essere capitano. Intimamente Kaede apprezzava gli sforzi del playmaker, si rendeva conto che ereditare il ruolo di capitano da uno come Akagi era un compito difficile, perciò, quando aveva beccato Miyagi sul tetto a leggere un libro intitolato “Le condizioni del vero leader”, aveva deciso di dimostragli tutto il suo sostegno evitando di prenderlo per il culo. 

 

Tanto per dare una misura del tedio che regnava nella vita di Rukawa si potrebbe dire che l’incontro con Miyagi sul tetto fosse l’unico evento di nota delle prime due settimane di quell’infinito settembre. Un sera, sdraiato al buio sul letto, si ritrovò a domandarsi se la sua quotidianità fosse sempre stata così ripetitiva e se esistesse un modo per uscire da quella sabbie mobili in cui si era impantanato. 

Continuò a domandarselo ripetutamente finche non percepì di aver perso il controllo dei suoi pensieri, stava per addormentarsi e allora vide Atreiu che attraversava la Palude della Tristezza con il suo destriero Artax … il Nulla avanzava e il cavallo perdeva la speranza… nonostante gli sforzi di Atreiu, Artax continuava a scivolare verso il basso…sprofondava…e Kaede piangeva, perché Kaede aveva sempre pianto guardando quella scena del film e Sakuragi non lo dovrà mai sapere … mai … ah-ha-ha-ha-ha never ending story, ah-ha-ha-ha-ha…

Il giorno dopo Kaede non riusciva a togliersi dalla mente la canzone del film “La storia infinita”, ma non ricordava il motivo e finì per innervosirsi ulteriormente. Con la testa rigorosamente appoggiata sul banco, sfruttò la doppia ora di storia per riflettere e quando suonò la campanella del pranzo aveva trovato la soluzione a quel vuoto: riempirlo con qualcosa che lo facesse sentire davvero vivo e Kaede conosceva un solo modo per sentirsi vivo. 


Decise che nel pomeriggio la scuola poteva fare a meno della sua presenza. 

Lui doveva prendere un treno.

 

«Scusami Rukawa, oggi niente one-on-one, devo studiare.»

«Potresti ripetere, per favore?»

«Devo studiare.»

«Guarda che avevo capito benissimo.»

«Allora perché mi hai chiesto di ripeterlo?»

«È un modo di dire, imbecille! Indica stupore!» disse esasperato Rukawa.

«Senti, io sono venuto fin qui da Enoshima, quindi ora tu devi giocare con me» spiegò sottolineando il concetto indicando con l’indice un attonito Akira Sendoh.

Il capitano del Ryonan rimase in silenzio a lungo, perplesso.

Per quanto potesse somigliargli incredibilmente quel ragazzino isterico non poteva davvero essere Kaede Rukawa. 

«Non posso giocare a basket con te» disse indicando a sua volta Rukawa «Io» e spostò il dito verso il proprio petto «Devo studiare» concluse lentamente sollevando la cartella per sventolarla in faccia al giocatore dello Shohoku.

Pochi istanti dopo Sendoh si pentì di averlo fatto, in parte perché quella conversazione assurda stava attirando l’attenzione di mezzo Ryonan, in parte perché Rukawa sembrava sul punto di esplodere e fracassarlo di botte. Con estrema cautela spinse leggermente Rukawa per incoraggiarlo a muoversi, si allontanarono dal piazzale della scuola alla ricerca di un luogo meno affollato. 

«Mi dispiace, ma è importante che recuperi un paio di materie altrimenti finisce che mi buttano fuori dal club di basket» ammise mestamente dopo essersi fermato a lato di una stradina poco battuta che conduceva agli alloggi degli studenti.

«Nessuno ti butterà fuori da niente, la tua squadra di merda non andrebbe da nessuna parte senza di te, lo sai. Allora?»

«Aspetta un attimo, sto cercando di capire se debba sentirmi lusingato oppure offeso» sbottò Sendoh. 

«Sentiti un pò come cazzo ti pare» lo liquidò l’altro con una scrollata di spalle «Basta che ti decidi ad accettare.»

Akira Sendoh sospirò e face una pausa per trovare le parole più adatte; era già abbastanza difficile doversi costringere a studiare senza la sua l’insistenza, voleva toglierselo di torno al più presto. Si strofinò il viso con una mano, sperando stupidamente che quel gesto bastasse a far sparire il suo avversario, ma lui era ancora lì, braccia incrociate al petto e sguardo torvo, implacabile nella sua  gelida bellezza. 

«Chiedi a Mitsui» buttò lì.

«No, è intrattabile in questo periodo.»

«Oh povero te. Mi dispiace tantissimo, non posso proprio immaginare cosa si provi a interagire con gli intrattabili» disse Sendoh fingendo un sarcastico stupore «prova con Kyota» azzardò poi.

«La scimmia urlatrice del Kainan? Neanche per sogno.»

«Dovresti aver sviluppato una certa dimestichezza con le scimmie urlatrici, insomma, Sakuragi…»

 

A quel punto accade qualcosa di estremamente bizzarro: Akira ebbe l’ impressione di essere stato catapultato all’interno di un’anime, la terrà tremava, il cielo si era annuvolato all’improvviso e Kaede, suo acerrimo nemico dagli occhi blu dardeggianti, avanzava verso di lui circondato da fulmini. 

 

«Lascia fuori il Do’aho da questa faccenda» sibilò  

 

Nel frattempo Sendoh riusciva solo a pensare a Goku che si trasforma per la prima volta in Super Sayan, provando una profonda empatia nei confronti di Freezer perché sicuramente doveva essersi sentito esattamente come si stava sentendo lui in quel momento, atterrito e impotente.

Lui però non era Freezer e aveva un modo completamente diverso di affrontare la minaccia del nemico.

 

Akira Sendoh sorrise.

 

«Ti manca il tuo Do’aho, vero?»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

  • credo sia risaputo, comunque Inoue ha realizzato sulle lavagne di un liceo giapponese il una serie di tavole che raffigurano brevi frammenti della vita dei personaggi, “Slam Dunk 10 giorni dopo”. Miyagi è rappresentato sul tetto a leggere un libro intitolato “Le condizioni del vero leader” 
  • il sogno di Rukawa sulle Paludi della tristezza è tipo un postumo da sbronza: ancora non mi è passato l’hangover da “Stranger Things 3” 
  • la lista dei nemici è un omaggio a Sheldon Cooper, ma forse ognuno di noi intimamente ne ha una. Credo che l’ombra di Sheldon tornerà nel corso della fiction
  • Pignoleria estrema: l’episodio dello scontro su Namecc fra Goku e Freezer era già andato in onda nel 1992 in Giappone. E Sendoh, Dragon Ball lo guarda, senza alcun dubbio. 

 

Grazie a Cathy Black e Ste_exLagu  per la recensione del 1°capitolo e a tutte le altre persone che lo hanno letto.

A presto  

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Capitolo 3
*** September ***


Do you remember the 21st night of September?

Love was changing the minds of pretenders

While chasing the clouds away

Earth, Wind & Fire

 

«Dannazione!» borbottò Kaede fra uno starnuto e l’altro. Era lievemente allergico alla polvere e dopo un’ora trascorsa in garage a frugare ovunque il suo sistema respiratorio cominciò a protestare. Rientrò in casa col naso colante, fiondandosi sulla scatola dei clinex in salotto dove trovò suo padre seduto in poltrona, intento a leggere una rivista.

«Trovato qualcosa?» chiese alzando la voce per sovrastare il rumore di trombone che stava producendo il figlio soffiandosi il naso. 

«No» ammise mestamente, senza nemmeno tentare di coprire le sue intenzioni.  

«Questa volta è stata veramente brava» aggiunse appallottolando il terzo fazzoletto sporco. 

 

Domenica pomeriggio, Kaede Rukawa non giocava a basket da quasi 48 ore e i sintomi di quell’astinenza forzata si facevano sentire. 

 

A quanto pare si era sbagliato di grosso pensando che il liceo Shohoku potesse fare a meno di lui, infatti, non vedendolo rientrare dopo la pausa pranzo, il vicepreside aveva chiamato la signora Azumi Rukawa chiedendo dove fosse finito il figlio.

La signora Azumi Rukawa, donna piuttosto intelligente, aveva mantenuto il sangue freddo, inventato una visita medica per giustificare l’assenza di Kaede, si era scusata e, una volta chiusa la telefonata, si era data da fare per mettere in atto la sua punizione. Aveva nascosto tutti i palloni, fatto sparire ogni oggetto sferico, sequestrato qualsiasi cesto o contenitore dalla camera del figlio, insomma aveva tolto di mezzo qualsiasi cosa che potesse essere utilizzata per simulare la pallacanestro ed infine si era seduta al tavolo di cucina, in attesa. 

Non dovette aspettare molto, Kaede rientrò a casa di lì a 10 minuti e lei andò dritta al sodo della questione, non era tipo da perdersi in convenevoli.

«Ha chiamato la scuola» disse lapidaria. 

 Kaede Rukawa, ragazzo altrettanto intelligente, comprese al volo. Chinò leggermente il capo, giusto quel poco che bastava a coprirsi gli occhi con la frangia, stiracchiò le labbra e con la mano sinistra cominciò a massaggiarsi la nuca. Se non fosse stata così preoccupata Azumi sarebbe scoppiata a ridere: quando veniva rimproverato suo figlio compiva quegli stessi identici movimenti involontari sin dalla scuola materna.

«Sei in punizione, niente basket fuori dagli allenamenti per due settimane. E non provare a restare in palestra fuori orario perché ho già telefonato al signor Anzai per chiedergli di rispedirti a casa una volta finite le attività, è chiaro?»

«Si, è chiaro»

«Ora, voglio sapere dove sei stato, e voglio la verità altrimenti le due settimane diventeranno un mese» aggiunge Azumi, tagliente come il bisturi di un chirurgo

«A Kamakura» replicò senza esitare, del resto la mela non cade tanto lontano dall’albero, nemmeno a lui piaceva tergiversare e poi, ad essere sinceri, la rabbia di sua madre lo metteva in agitazione. Altra cosa che Sakuragi non avrebbe mai dovuto sapere.

«Cosa sei andato a fare a Kamakura?» e questa volta la voce di Azumi tradiva la sorpresa.

Ai suoi impostò una storiella verosimile, raccontò di essere stato al Ryonan per chiedere la rivincita a un tizio con cui aveva un conto in sospeso dalle finali di prefettura, una giustificazione abbastanza vicino alla verità da permettergli di sembrare convincente. Gli sviluppi della confessione deviarono sul tragicomico alla fine del resoconto, quando il signor Rukawa, che in estate aveva assistito alla partita decisiva col Ryonan, se ne uscì chiedendo delucidazioni:

«Ti riferisci a quello coi capelli a punta?»

Kaede annuì piuttosto interdetto, suo padre non ci capiva niente di basket.

«Almeno hai vinto?»

«Tadashi, per l’amore del cielo! Ne i capelli di questo ragazzo, ne il risultato della loro partita ha non rilevanza ai fini della discussione» s’intromise Azumi alterata.

L’intervento di sua madre fu provvidenziale, Rukawa bruciava ancora di vergogna al ricordo del  due di picche ricevuto, e fu lieto di poter sorvolare su quell’aspetto della vicenda.

 

Ma che bella situazione del cazzo! 

Ora era bloccato in punizione, senza basket e senza nemmeno aver dato sfogo alla sua fame di rivalsa, perché Akira Sendoh, non solo si era negato peggio di una ragazzina che se la tira, ma aveva anche avuto la faccia tosta di trattarlo come un deficiente, con la stessa condiscendenza di un maestrino che spiega le tabelline ad uno studente un po’ lento. 

E poi quella frase su Sakuragi, cosa diamine stava a significare? 

Avrebbe dovuto picchiarlo fino a farlo svenire e trascinare il suo corpo esanime in palestra come monito agli avversari.

Allora perché invece di prenderlo a pugni aveva girato i tacchi e se n’era andato? 

Perché aveva ragione, ammettilo sussurrò una vocina mentale. Perché la noia e il senso di vuoto che sentiva dentro erano dovuti all’assenza del suo Do’aho - oh come suonava bene! - e sebbene Kaede cercasse di schiacciare quel pensiero in fondo ai meandri della sua coscienza, quello rispuntava fuori, ogni volta più inteso ed invadente.

 

Così il super rookie di Kanagawa arrivò a quella maledetta domenica, con alle spalle un viaggio a vuoto a Kamakura, un bel carico di frustrazione e l’immaginazione che vagava continuamente in zona Sakuragi. Giunto al punto di rottura si era arrischiato a disobbedire, e appena sua madre uscì di casa per un giro in centro con un’amica, era sgattaiolato in garage a controllare se qualche palla fosse sopravvissuta all’operazione di bonifica. Niente di niente.

 

Sconfitto, Kaede si stravaccò sul divano. Il suo sguardo si spostava distrattamente da un punto all’altro del salotto; la tv spenta, la foto del matrimonio dei genitori appesa al muro, la libreria zeppa di manuali medici e codici giurisprudenziali. Azumi era psichiatra e diversi anni prima svolgeva consulenze per il tribunale di Yokohama, dove aveva conosciuto Tadashi, avvocato penalista. La loro relazione era cominciata lì, fra un’udienza e l’altra, l’emblema del romanticismo insomma. Kaede continuava a fissare la libreria senza vederla realmente finché un libro in particolare attirò la sua attenzione; “Minori a rischio e strategie di prevenzione”, titolo su cui poteva costruire una via di fuga verso la libertà, doveva affrontare momentaneamente l’avversione verso le chiacchiere psicologiche, o le chiacchiere in generale, e imbastire qualcosa.

«Papà»

«Mh»

Kaede si alzò dal divano, aggirò il tavolino e si piazzò davanti al padre, che sembrava molto poco incline ad abbandonare la lettura

«E se tenermi lontano dal basket si rivelasse un rischio?»

«Spiegati meglio per favore» rispose il signor Rukawa continuando a tenere gli occhi sul giornale

«Voglio dire, lo sport dovrebbe essere un ...ehm... fattore di prevenzione a...cioè praticare uno sport mi tiene lontano dai guai»

«Vero, per questo ho fiducia che in tutti questi anni di disciplina sportiva tu abbia introiettato un numero di regole e valori sufficienti a permetterti di sviluppare un adeguata resilienza agli eventi»

«Eh?» fece Kaede con le sopracciglia aggrottate.

Tadashi Rukawa mise da parte la rivista e posò le mani in grembo, intrecciando le dita.

«Hai le capacità per resistere due settimane senza cacciarti nei pasticci» tradusse alzando lo sguardo verso il figlio.

«Ma se va a finire che non le ho le capacità?» biascicò «Diciamo che non riesco a gestire l’adrenalina e vado alla ricerca di un altro modo per sfogare le mie energie...tipo...non so... metti che comincio ad interessarmi alle droghe?»

Kaede nutriva nei confronti delle droghe più o meno la stessa curiosità che nutriva per Haruko Akagi e Tadashi parve averlo capito benissimo perché la sua espressione non mutò di una virgola. Rimase silenzioso per un lungo momento guardandosi le mani, poi spostò nuovamente l’attenzione sul ragazzo.

«Beh, non ti farebbe male variare un po’ i tuoi interessi» disse mentre Kaede sgranava gli occhi. 

«Bel tentativo figliolo» commentò alzandosi.

Gli diede una pacca sulla spalla e uscì dal salotto.

 

Dopo lenta e penosa agonia settembre si spense definitivamente. L’ora del decesso, nella mente di Kaede, corrispondeva all’istante in cui la mamma gli aveva restituito il suo pallone Spalding preferito. Ottobre era arrivato, eppure l’ estate continuava a lottare per sopravvivere, le giornate si mantenevano piacevolmente tiepide e lui poteva ancora permettersi di sonnecchiare sul tetto godendosi il sole. Quella mattina si sentiva particolarmente assonato, per colpa del prof di letteratura giapponese e del suo assurdo bisogno di valutare la classe sul periodo Muromachi non era riuscito a riposarsi come si deve. Uscì dall’aula in direzione delle scale che conducevano ai piani superiori, rimuginando sul compito appena svolto, quando sentì un ciarlare conosciuto provenire da metà corridoio e tutto d’un tratto il suo corpo s’irrigidì, ma Kaede -banchisa polare- Rukawa continuò imperterrito lungo la sua strada, incedere elegante e mani affondate nelle tasche.

Oltrepassò la porta della 1^K, indifferente ai sospiri delle ragazze, un po’ meno indifferente al proprio respiro, che si faceva sempre più affannato ad ogni passo, come se avesse cominciato a correre.

Arrivato davanti alla 1^J i battiti del suo cuore accelerarono paurosamente. Qualcosa di pesante gli si era incastrato in gola e lui non riusciva ne a deglutirlo, ne a sputarlo fuori. 


Sezione H, sezione I, ed eccolo lì, proprio davanti alla 1^G


Hanamichi Sakuragi, stava ridacchiando sguaiatamente distribuendo pacche sulle spalle degli amici che lo circondavano. 

Sempre al centro dell’attenzione, eh Do’aho? 

Poi Sakuragi si accorse di lui e alla vista della sua nemesi il sorriso gli si spense sulle labbra. Comparve nuovamente l’espressione dura e determinata che aveva sulla spiaggia in quella strana mattina di agosto. 

Kaede riusciva solo a pensare che fosse bellissimo.

 

«Do’aho»

 

«Kitsune»

 

E il tempo ricominciò a scorrere.

 

 

 

 

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Note varie: ci tengo a chiarire una cosa perché mi sta a cuore. Io non la penso esattamente come Rukawa riguardo alla psicologia, non trovo la trovo un inutile chiacchiera, ma una scienza importante per la vita umana. Detto ciò, gli ho messo in testa quel pensiero perché è un ragazzo con un caratterizzo niente male. Speriamo di ammorbidirlo un pò..và 

Un grazie a chi ha trovato tempo per leggere la storia. A prestissimo. 


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Capitolo 4
*** Altrove ***


Brave intro: questo capitolo mi è scappato, non l’avevo previsto, infatti non riguarda   direttamente sviluppi alla storia, serve ad approfondire la vita di altri personaggi importanti. Lo avevo immaginato come un’intermezzo, una sorta di pausa, ma alla fine è il più lungo che abbia scritto finora. L’idea di inserire questi cambi di prospettiva, questi “Altrove” come espedienti narrativi mi piace può darsi che me ne verranno in mente altri, sperando che non siano motivo di confusione.

 

Lo dedico a Ste_exLagu e Cathy Black che si stavano preoccupando per la salute di Sendoh. 

 

Buon fine ferragosto a tutti e tutte ;)

 


 

 

Lo stesso giorno in cui Hanamichi Sakuragi rientrò a scuola, altrove, Hiroaki Koshino, cominciava a preoccuparsi seriamente per il crollo di qualità nel gioco di Sendoh e conseguentemente della salute di Taoka. Gli sarebbe dispiaciuto vedere il mister stramazzare a terra a causa di un colpo apoplettico. Per il momento sembrava che il suo sistema cerebrovascolare reggesse e aveva resistito abbastanza per spedire il loro campione negli spogliatoi prima della fine dell’allenamento.

«Vattene a casa ragazzo» gli aveva detto.

Non aveva urlato né lanciato oggetti come al solito, ma nella sua voce c’era una nota di amarezza che Koshino sentiva per la prima volta.

Merda, se non si fosse ripreso al più presto, sarebbero stati spacciati, letteralmente fottuti. 

Se Sendoh crollava, crollavano tutti, innegabilmente era lui l’anima della squadra e una persona con una tale potenza carismatica purtroppo non poteva permettersi di vacillare e comportarsi a quel modo. 

 

Hiroaki Koshino era seriamente preoccupato per le sorti della squadra e dispiaciuto per un amico.

 

Lo trovarono seduto su una panca con i gomiti appoggiati alle ginocchia e la testa fra le mani, guardava per terra. Koshino avrebbe voluto prenderlo a pugni, non lo reggeva quando si atteggiava da drammatico insicuro addolorato, ma optò per la “strategia del dialogo”, un concetto spiegatogli dalla madre per cercare di arginare il suo carattere irruente. Hiroaki restava convinto che un bel cazzotto in faccia funzionasse meglio di mille bla-bla-bla, ma quella volta era deciso a dare una possibilità ai miti consigli materni. Attese che il resto della squadra andasse sotto le docce e si sedette accanto a lui, dandogli una pacca sulla spalla.

«Ehi»

«Ehi» rispose Sendoh rialzando la testa mentre Koshino cercava dentro di sé il modo più adatto per cominciare.

«Senti, te lo chiedo a bruciapelo perché non sono molto bravo in queste cose: che cavolo ti prende?»

«Niente» 

Lo aveva detto con lo stesso tono di una donna incazzata col fidanzato. Koshino sospirò, aveva già la pazienza sotto la suola delle scarpe.

«Akira, a costo di sembrarti indiscreto te lo devo chiedere perché mi sto seriamente preoccupando, è successo qualcosa a casa?»

L’altro negò scuotendo la testa.

«A casa tutto ok, tranquillo. Ti ringrazio per tua premura, però ora vorrei restare da solo»

Hiroaki si aspettava quella richiesta.

«No, adesso io e te parliamo. Usciremo di qui solo quando mi avrai detto cos’è che ti sta trasformando in una mezza pippa»

Si, suonava minaccioso, voleva esserlo. In un modo o nell’altro avrebbe scoperto cosa stesse accadendo al suo compagno che nel frattempo era scattato in piedi come una molla e si era messo a camminare per lo spogliatoio. Ripercorse i suoi passi diverse volte, muovendosi a destra e a sinistra su una stessa linea, poi si fermò bruscamente come se avesse esaurito ogni energia. Si era fermato proprio dinnanzi a Koshino, sovrastandolo.

«Non voglio più essere il capitano del Ryonan, contento?» disse serio fissando il compagno di squadra e allargando le braccia in segno di resa « E’ questo che mi turba, è per questo che gioco male e prendo brutti voti, sono sempre distratto, ci penso continuamente» sospirò.

«Hiro, tu conosci la verità, non è come dicono tutti, non sono tagliato per fare i leader. Ho un carattere di merda, e tu lo sai. Sono lunatico, volubile, inaffidabile, cambio idea continuamente e mia sorella di 8 anni è più matura di me. Io non possiedo la personalità di un capitano, non ho il senso di responsabilità di Uozumi, o la perseveranza a lungo termine di Akagi o la...la qualsiasi cosa abbia Maki. So’ essere un bravo giocatore e quello voglio rimanere, basta» si fece scivolare una mano sulla faccia prima di continuare. 

«Questo ruolo mi fa sentire così sotto pressione che mi viene da vomitare al solo pensiero dei campionati invernali» concluse guardando da qualche parte oltre Koshino, che non si era scomposto minimamente. 

«Finito l’ Akira Sendo Drama show? Passi l’interpretazione, la sceneggiatura però è pessima ci dovrai lavorare»

 

«Dai ragazzi! Dove avete messo il mio accappatoio?»

Lo scroscio ritmico dell’acqua andava diminuendo, il resto della squadra stava finendo di fare la doccia e qualcuno aveva nascosto l’asciugamano di Hikoichi.

«Non è divertente! Tiratelo fuori!»

«Fukuda che schifo, copriti!»

«Prenditela con Aida è lui che ha chiesto di tirarlo fuori»

 

«Non fa ridere»

Quell’imbecille ebbe perfino la faccia tosta di reagire stizzito e Koshino non ci vide più. 

Saltò in piedi anche lui.

«Infatti non voglio farti ridere, voglio che ti rimangi tutte le stronzate che hai detto. Akira, ma ti sei ascoltato? Hai una vaga idea del peso delle tue parole? Hai la più vaga idea di quanto si sia battuto Taoka per averti in questa scuola? Lo sai quanti soldi sta investendo il Ryonan nella tua istruzione? E i tuoi genitori che ti hanno lasciato venir qui da Tokyo a 15 anni perché tu potessi diventare un campione, a loro almeno ci pensi? Ti rendi conto che c’è chi venderebbe un rene per avere anche solo una briciola del tuo talento?» 

Hiroaki si zittì, anche se intimamente sapeva di non aver finito. Chiuse gli occhi e si massaggiò le tempie. Gli stava venendo mal di testa.

«Facciamo un passo indietro Sendoh. Te lo ricordi agosto? Quando ci hai costretto a richiamare Uozumi perché non ti degnavi di presentati agli allenamenti? Che bel periodo che è stato! A setacciare i moli per convincerti a venire in palestra» continuò sarcastico «Beh mentre tu giocavi a fare il pescatore solitario, noi qui ci stava sfasciando! Litigavamo ogni giorno senza di te. Abbiamo persino pensato che fosse un’ ingiustizia assegnarti il ruolo di capitano. Si, sei il campione, il cocco del mister che sorvola su ogni tuo ritardo o sregolatezza, però quelli che si facevano il culo tutti i pomeriggi, durante le vacanze, eravamo noi, non te!» Koshino si rese conto che stava urlando in faccia al suo compagno, ma era troppo tardi, ormai la diga si era rotta. 

«Ad un certo punto, però, abbiamo capito che il problema era proprio quello: la tua mancanza, la tua capacità di tenerci uniti e combattivi. Abbiamo capito che nessuno di noi sarebbe mai stato in grado di sostituirti. Per questo quando finalmente ti sei dato una regolata abbiamo deciso di starcene zitti e continuare a seguirti a testa bassa. E adesso mi vieni fuori con sta cazzata del non essere un leader?» domandò sempre più infuriato «Dio, nemmeno ti rendi conto che qui tutti ti sbaviamo dietro. Sai che c’è Akira, tu non hai un carattere di merda, tu sei solo un miserevole, ingrato egoista!»

Me la sono cercata considerò Koshino nell’istante in cui venne afferrato per la maglietta e praticamente lanciato contro il muro. Sapeva benissimo che Sendoh era un incapace in fatto di risse ma era pur sempre più alto di lui di quasi 20 centimetri e decisamente più massiccio. Lo spintonò facendogli sbattere la testa.

«Vuoi picchiarmi Sendoh?» lo provocò appena si fu ripreso dal colpo. Sendoh non mollava la presa e lo stava guardando, uno sguardo carico di astio, la mascella tirata e i muscoli tesi. Stava tremando.

«Picchiami se vuoi, ma tanto questo non mi dimostrerà che sei forte e coraggioso. Se vuoi farmi vedere di avere davvero le palle, voltati e di tutti quello che hai appena detto a me.»

Akira aprì i pugni e lo mollò, guardando alle sue spalle, verso la squadra che li fissava ammutolita, qualcuno con la bocca aperta per lo stupore, altri attenti e pronti ad intervenire in caso se le fossero date di santa ragione. Hikoichi era terrorizzato e piangeva in silenzio. Sendoh abbassò la testa e parlò a bassa voce quasi sussurrando, rivolgendosi di nuovo verso Koshino.

«Ho paura Hiro-Kun. Ho paura di fare una cazzata dopo l’altra, di sbagliare ogni cosa, di deludervi. Temo di non essere in grado di portarci al campionato nazionale nemmeno questa volta»

«Tutto qui? Hai paura? Ma che idiota che sei! È normale aver paura e si, può darsi che sbaglierai - sbaglieremo - ma può anche darsi che andrà tutto bene. Il punto è che se non ci provi nemmeno hai fallito in partenza» Koshino fece una pausa e guardò Sendoh dritto negli occhi.

«Senti cretino, noi non vogliamo che il nostro capitano sia perfetto, noi vogliamo che il nostro capitano sia Akira Sendoh» 

Il numero 7 non accennava a muoversi, sempre nella stessa posizione mortificata, il fiato corto e le spalle che presero a sussultare. Fantastico ora si era messo a frignare pure lui.

Hiroaki doveva mettere fine a quella situazione, superò il compagno di squadra, dritto verso un obiettivo ben preciso. Borbottò qualcosa che suonava tipo “guarda te cosa mi tocca fare” e si diresse al centro dello spogliatoio. 

 

Si era ricordato senza alcun motivo cosciente di una serata estiva. Era luglio e per consolarsi della sconfitta, approfittando dell’assenza dei genitori, Fukuda aveva invitato mezza squadra a casa sua e si era procurato dell’erba, impostando un programma ben preciso: “fumiamoci un paio di cannette e poi andiamo alla spiaggia di Yuigahama. Allo stabilimento fanno una festa con bagno di mezzanotte. Sarà pieno di ragazze in bikini”. 

Peccato che nessuno di loro avesse esperienza in fatto di droghe e, come prevedibile, erano collassati in salotto a discutere di ogni scemenza con l’enfasi di filosofi che si confrontano sulla metafisica dell’esistenza, trangugiando tutto ciò che di commestibile c’era in casa.

Ad un certo punto qualcuno propose un film e Fukuda tirò fuori dal mucchio il suo preferito del momento “L’ultimo boy-scout” con Bruce Willis. Bestemmiò in malo modo quando scoprì che suo fratello - giocatore di rugby all’università di Yokohama- ci aveva registrato sopra una partita del torneo 5 nazioni; Sudafrica contro Nuova Zelanda. 

“Aspetta, aspetta!” aveva urlato Sendoh fermando Fukuda in procinto di togliere la cassetta dal video registratore. Il loro campione se ne stava seduto sul tappeto davanti al divano e quelle erano le prime parole pronunciate dopo quasi mezz’ora di strafatto silenzio. 

“Cos’eeee?” chiese Sendoh con la voce estatica indicando la televisione.

“Si chiama Ka Mate, è uno stile di Haka, la danza tradizionale Maori" ripose Fukuda. 

“La voglio imparare, è bellissima!” biascicò battendo le mani come un bimbo “La facciamo anche noi?” 

“Sei strafatto amico” commentò Fukuda mentre Sendoh cercava di rialzarsi usando le ginocchia di Uekusa, seduto sul divano, come punto d’appoggio. 

“Oohh…guardate…quelli della TV hanno messo anche i sottotitoli! Così si può cantare!”

“Sendoh è una danza tradizione non un Karaoke” lo redarguì Ikegami, anche se la voce gli era uscita fievole e impastata. Sendoh guardò meravigliato il compagno. Le pupille dilatate e lo stupore lo facevano sembrare un cucciolo sgridato dal padrone.

“Ma io non li voglio offendere! Li rispetto e li trovo molto affascinati” cercò di spiegarsi malamente.

“Ehi, se hai certi gusti posso presentarti un amico di mio fratello che potrebbe essere interessato” ribatté Fukuda approfittando della frase equivoca “Oddio, però considera che è un pilone più grosso di Uozumi e beh…insomma lo hai visto anche tu il coso di Uozumi…”

Partirono una serie di sghignazzi e boccacce schifate, ma Sendoh non si lasciò ingannare.

“Ah ah ah” rispose incrociando le braccia la petto e poi oscillò pericolosamente. 

“Daiii proviamoci, solo stasera!” 

E alla fine si erano trovati alle 02.00 di notte a ballare la Haka, perché Sendoh, anche da sballato, era capace di trascinarli ed esaltarli, anche quando si trattava di imitare 15 energumeni che si danno delle sberle micidiali sulle cosce. 

 

Hiroaki da allora si era tenuto ben lontano dall’erba di Fukuda o di qualsiasi altra persona, ma i movimenti della Ka mate se li ricordava. Si mise in posizione, gamba divaricate, ginocchia piegate braccia di fronte al corpo, una sopra l’altra, parallele al terreno, e pregò gli Dei maori di non fulminarlo. Scandì ogni parola con cura alzando la voce, sforzandosi di pronunciare correttamente i lemma di quella lingua così diversa. Non si sentiva nemmeno troppo un coglione, bastava ignorare gli sguardi dei compagni. 

Sendoh smise di sussultare e si voltò lentamente verso di lui, gli occhi lucidi sgranati e la bocca aperta.

«Ti prego no!» riuscì a dire cominciando ad arrossire. In un paio di falcate gli fu vicino e cercò di fermarlo tirandolo per un gomito, ma Koshino lo spinse via e ricominciò d’accapo. 

Confidava che qualcuno dei presenti capisse e lo imitasse. Funzionò. Il primo ad affiancarlo fu Fukuda, poi Uekusa e poi, uno dopo l’altro gli altri ragazzi, si unirono persino coloro che non erano presenti quella sera allucinante, cercando di copiare i movimenti a modo loro.

 

Sendoh osservava i suoi compagni di squadra trasformarsi nella versione sbiadita e gracilina degli All Blacks. Le sue guance si erano tinte di un delicato colore capelli-di-Sakuragi e gli brillavano gli occhi. Brillavano di sorpresa, di felicità, ma sopratutto di gratitudine. Koshino aveva mentito ed era consapevole di averlo fatto, perché Sendoh era un amico leale e genuino, una delle persone più altruiste e generose che conoscesse. Lo stimava profondamente e ad ogni partita si sentiva onorato di scendere in campo con lui.

Il sorriso luminoso di Akira Sendoh era tornato.

Poi la danza finì, Fukuda scattò in avanti, accovacciato, afferrò Sendoh all’altezza delle ginocchia e lo trascinò a terra, riuscendo in un placcaggio perfetto. 

«Mischia!»

Sendoh ebbe appena il tempo di ululare un “Nooo” prima di trovarsi travolto dai corpi dell’intera squadra di basket del Ryonan, che magari non era la nazionale neozelandese, ma sapeva farsi valere. 

«Basta! Ragazzi basta! Ho capito!» pregò bloccato da un groviglio di gambe e braccia «Alzateviiii! No dai che ho un piede in faccia, che schifo! Vi prego…ahi! Mi state schiacciando le palle!» 

E poi sentirono bussare alla porta con veemenza Taoka la stava prendendo a pugni e sbraitava.

Ohi ohi

«Cos’è questo casino?!?» inveì «Adesso entro! Voglio vedere cosa diamine state combinando lì dentro»

Taoka entrò e osservò quell’ammucchiata senza dire una parola. 

«Mister aiuto!» urlò Sendoh che era riuscito a dimenarsi abbastanza da liberare un braccio. 

«Ben ti sta idiota. Che ti sia di lezione, dovresti solo ringraziare che Uozumi è fuori squadra» disse rivolto al suo campione «Voialtri, liberatolo. Se soffoca mi toccherà compilare una montagna di  noiose scartoffie e temo che dovrò farne accenno sul vostro curriculum scolastico»(*)

 

Tornando a casa quella sera Hiroaki Koshino pensava che sua madre avrebbe dovuto essere fiera di lui. Si era dimostrato un vero campione nella “comunicazione non violenta”. Beh più o meno.

 

 

 

 

 

 


 

(*) Questa frase, leggermente rielaborata, è una citazione tratta da “Harry Potter e l’Ordine della Fenice”. 

“Tiger, per favore, allenta quella presa. Se Paciock soffoca, ci toccherà riempire una montagna di noiose scartoffie e temo che dovrei farne cenno nelle tue referenze, se mai tu cercassi lavoro.”

Un grazie al professor Severus Snape per il prestito (riguardo lui mantengo il cognome originale perché “Piton" non l’ho mai potuto sentì). 

 

 

Sempre in “Slam Dunk 10 giorni dopo” il Ryonan è messo come Koshino lo descrive nel capitolo, Sendoh che non si va vedere, il nostro Re delle Scimmie che è costretto a rivestire i panni del capitano provvisorio e gli altri lievemente incazzati. Il dopo è farina del mio sacco. 

 

Riguardo il Rugby. Oggi il torneo è 6 nazioni perché nel 2000 è stata ammessa l’Italia.

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Capitolo 5
*** Mochi ***


Ma tu che vai, ma tu rimani 

Vedrai la neve se ne andrà domani 

Rifioriranno le gioie passate 

Col vento caldo di un'altra estate

Inverno, Fabrizio de Andrè

 

Se settembre si era assestato in modalità slow-motion ottobre e novembre trascorsero ad una velocità pazzesca. L’autunno passò davanti a loro senza nemmeno salutare e dicembre si presentò allo Shohoku portando con sé i campionati invernali.

In quei mesi Hanamichi Sakuragi, concentrato sulla terapia di riabilitazione, si era fatto vedere raramente in palestra e a Kaede stava bene così perché l’idea di vederlo bighellonare ai lati del campo sbavando dietro alla Akagi non gli piaceva per niente. Comunque, secondo voci di corridoio giunte alle orecchie di Kaede assolutamente per caso, Sakuragi sembrava essersi dato una regolata: andava dal fisioterapista tre volte a settimana, s’impegnava a svolgere gli esercizi prescrittigli e aveva quasi del tutto rinunciato ad uscire con la sua banda.

«Dall’inizio del trimestre non ha preso nemmeno un’insufficienza» rivelò Mito a Miyagi un pomeriggio di inizio dicembre.

Tutti temettero di vedere il capitano restarci secco, ma, passato lo stordimento, Miyagi riuscì a recuperare un minimo di compostezza e riprendere l’allenamento.

 

70 - 64

 

Avevano perso ai gironi. Erano stati buttati fuori dal desiderio di rivincita dello Shoyo e dall’esperta tecnica di Fujima, rimasto in squadra per i campionati invernali. Dopo la partita Anzai li aveva lodati per i loro sforzi, incoraggiandoli a non lasciarsi sopraffare perché: «la vera vittoria risiede nella capacità di perseverare». Mentre ascoltava le parole dell’allenatore Rukawa si rese conto, con una certa sorpresa, che la sconfitta bruciava meno del solito e aveva la netta impressione che anche gli altri provassero una sensazione simile. Si guardavano in silenzio, non c’era nessun bisogno di parlare perché ognuno leggeva nello sguardo dell’altro la stessa scomoda verità: Sakuragi era un’elemento fondamentale per la squadra e la sua assenza aveva pesato fortemente sull’andamento della gara. Nessuno era abbastanza preparato per dirlo ad alta voce e si limitarono ad avviarsi mestamente verso le docce, tutti tranne Mitsui, che si era rannicchiato in un angolo dello spogliatoio con la testa nascosta fra le braccia. 

Alcuni compagni esitarono, preoccupati, e addirittura Shiozaki cercò di avvicinarglisi, ma venne fermato da Miyagi e Rukawa, che contemporaneamente gli posarono la mano destra sulle spalle. 

«Lascialo stare» ordinò perentorio Rukawa 

«E’ meglio così, fidati» precisò Miyagi, un pò più morbido.

Vagamente sorpresi per quel gesto d’intesa, il playmaker e l’ala piccola si scrutarono a vicenda prima di mollare la presa su Shiozaki e prendere la via delle docce. Rukawa si concesse più tempo del solito sotto il getto, godendosi l’acqua calda che scorreva lungo il corpo e quando tornò nella stanza attigua trovò Akagi intento a rincuorare Miyagi. Mitsui era ancora nel suo angolo con il viso nascosto, non più fra le braccia, ma nell’incavo fra la spalla e il collo di Kogure, che gli si era seduto vicino, sussurrandogli parole che nessuno poteva sentire mentre gli accarezzava la schiena. Kaede diede subito le spalle ai due; c’era qualcosa di sfacciatamente intimo nella loro stretta, una profondità che lo faceva sentire a disagio. 

«Rukawa» lo chiamò Miyagi quando tutti si furono cambiati «noi andiamo a mangiare qualcosa insieme, ci saranno anche…»
«No» lo interruppe seccamente «ho una cosa da fare coi miei genitori»

«Ah ok, allora ci vediamo a scuola» rispose, ma Rukawa era già sparito. 

 

Kaede camminava verso l’uscita sul retro quando Hanamichi lo raggiunse.

 

«Kitsune!»

 

Sorrise interiormente, non aveva potuto far a meno di notare che quello era tutto fuorché un incontro casuale, lo aveva visto benissimo mollare gli amici e venirgli dietro. 

«Cosa vuoi Do’hao?» incalzò Rukawa siccome Sakuragi non dava accenno di voler parlare.

 

«E’ un peccato aver perso, mi dispiace» disse infine, fissandosi la punta delle scarpe, poi si riscosse, rialzò la testa mostrando un ghigno imbecille e Rukawa seppe in anticipo cosa stava per succedere

«Del resto era prevedibile!» cominciò a declamare il rosso «poveretti, senza di me sottocanestro potevate fare ben poco! Lo sai  questo, vero volpe?!?»

«Si lo so» rispose semplicemente la volpe, e senza aggiungere altro riprese la strada verso la porta, lasciando Sakuragi esterrefatto, congelato nella sua miglior posa da Tensai. 

 

 

 

*******

 

 

Si svegliò di soprassalto, scosso da un lieve senso di ansia e impiegò qualche secondo prima di riuscire a connettere, poi quando fu abbastanza cosciente da assemblare insieme tutti i pezzi del puzzle, quel timore leggero si tramutò in panico totale.

Feste. Capodanno. Compleanno. Parenti.

Kaede Rukawa tirò il piumone fin sopra la testa, purtroppo nel corso dei suoi sedici anni appena compiti aveva raggiunto un’altezza ragguardevole e il risultato che riuscì ad ottenere fu soltanto quello di scalzare le coperte dal letto, trovandosi alla fine coi piedi esposti al freddo. Si rannicchiò in posizione fetale alla ricerca del sonno, ma la prospettiva delle zie Rukawa pronte ad invadere la sua confort zone lo tormentava troppo. Vide galleggiare nella sua testa l’immancabile regalo di zia Mineko, un maglione di lana misto a carta vetrata, ogni anno della stessa tonalità di blu “color dei suoi occhi”.

Kaede sperò intensamente che avesse almeno abbandonato il vezzo della decorazione, non era certo di poter sopportare un’altro capo d’abbigliamento “abbellito” dal disegno a maglia di un pallone da basket che sembrava terribilmente un melone. Per di più quell’orribile ornamento era diventato motivo di discussione sullo sport praticato dal nipote perché era venuto fuori che zia Midori riteneva la pallacanestro un passatempo infantile e il giovanotto, ormai in vista del liceo, avrebbe dovuto cominciare a pensare al tipo di donna da sposare in futuro. E fu così, che al compleanno precedente, scoprì con orrore di essere cresciuto abbastanza per sentirsi chiedere: «Allora, ce l’hai la fidanzatina?». 

Di fronte all’ingombrante personalità di zia Midori le richieste di riserbo della sorella minore Sumiko erano valse poco o nulla.

Zia Sumiko era un concentrato di gentilezza e discrezione e Kaede la tollerava abbastanza bene, non tanto per le sue doti quanto perché aveva avuto il buon gusto di sposare Daisuke, un’unione che aveva permesso alla famiglia di acquisire una presenza gioiosa e a lui di conoscere il basket; senza la passione dello zio per quello sport americano probabilmente i suoi genitori non lo avrebbero mai iscritto al club delle scuole elementari e lui avrebbe dovuto continuare a starnazzare in piscina fino alla maggiore età. Odiava il nuoto, lui era un’elemento di terra che aspirava all’aria e in acqua non si sentiva pienamente padrone del suo corpo.

Purtroppo Daisuke e Sumiko avevano rovinato tutto circa 6 anni prima, quando l’insano desiderio di genitorialità li aveva colpiti all’improvviso, finendo per aggiungere un’ulteriore elemento di tedio a quegli incontri familiari già piuttosto strazianti.

Ad onor del vero inizialmente aveva preso bene la lieta novella, appena il marmocchio sarebbe stato in grado di correre avrebbe potuto insegnargli a giocare e la prospettiva stranamente lo stimolava. Presto però si rese conto che questa visione si basava su presupposti del tutto errati, anzitutto perché un bambino cominci a camminare decentemente bisognava aspettare un sacco di tempo, in secondo luogo bisognava fare i conti col temperamento del bambino stesso e terza cosa, la più importante, il bambino era una bambina: Keiko, un terremoto di cinque anni che disgraziatamente si era affezionata a lui in maniera spropositata. La bambina si ostinava a chiamarlo “Dede” nonostante ormai sapesse pronunciare benissimo il suo nome - purtroppo sapeva anche un sacco di altre parole che usava continuamente - e ad ogni incontro in famiglia inventava nuovi modi per torturarlo. Dal banale avvinghiarsi ad una gamba passando per le scalate al suo corpo con l’obbiettivo di sbaciucchiarlo “perché sei tanto bello”, fino all’ agghiacciante tentativo di pettinarlo con una spazzola rosa glitterata. Preoccupato dalla prospettiva di arrivare in palestra coi capelli pieni di brillantini, quella volta ‘Dede’ aveva reagito acchiappando la cuginetta e, tenendola per le caviglie, l’aveva fatta dondolare in aria a testa in giù a mo di pendolo. Keiko aveva riso a crepapelle e richiesto un secondo giro.

Dopo Mineko, Midori, suo padre Tadashi e Sumiko i nonni avevano opportunamente deciso di darci un taglio coi figli.

Nonna Akemi era l’anima delle feste, invecchiando aveva acquisito una serie di idiosincrasie climatiche, ad esempio si rifiutava categoricamente di uscire di casa nelle giornate troppo ventose per paura che gli alberi volassero via e la colpissero, ma in compenso aveva abbandonato certe timidezze e filtri comunicativi finendo con l’esprimere ad alta voce più o meno tutto ciò che le passava per la testa. Metà dei suoi interventi risultavano fuori contesto e l’altra metà mortalmente imbarazzanti. Sebbene Akemi avesse rinunciato ad alcune convenzioni sociali, non aveva fatto altrettanto con le tradizioni nipponiche, perciò a Capodanno si andava al tempio e si mangiavano i mochi (*). L’assaggio dei mochi era diventato un momento critico per la famiglia perché sua nonna si ostinava a volerli mangiare nonostante la consistenza viscosa di quei dolci la mettessero seriamente a rischio soffocamento. Stremato dalla testardaggine della madre Tadashi Rukawa si era rassegnato e aveva imparato a padroneggiare alla perfezione la manovra di Heimlich.

Ogni primo gennaio Kaede ringraziava per la decisone di due zie su tre di “rimanere signorine” perché gli dei solo sanno cosa sarebbe successo se si fossero unite altre persone alla famiglia.

 

«Dovresti tagliarti i capelli, a momenti ti scambiavo per tua madre»

Ecco una delle opinioni assolutamente non richieste della vecchia.

«Nonna, sono almeno 30 centimetri più alto di lei. E sono un maschio»

«Appunto hai i capelli troppo lunghi per essere un ragazzo»

Kaede evitò di replicare, rincuorato nel vedere finalmente il torii (**) svettare davanti a loro. La nonna aveva deciso che l’ultimo tratto della camminata fino al tempio quell’anno lo avrebbe compiuto soltanto col nipote, il quale si era rassegnato al destino avverso senza batter ciglio, ben consapevole che nemmeno l’Imperatore sarebbe stato capace di farle cambiare idea.

«Davvero è un peccato nascondere il tuo viso sotto quella frangia» continuò lei imperterrita.

Tieni duro, mancano solo una decina di metri, valutò silenziosamente. All’improvviso sua nonna si fermò e lo costrinse con uno strattone a voltarsi verso di lei, dimostrando una forza non comune per una signora della sua età.

«Avvicinati» ordinò secca. 

Obbedì, piegandosi in avanti verso l’anziana signora, guardò oltre le rughe, oltre le macchie sulla pelle e si rese conto che i loro occhi avevano la stessa identica forma.

«Non nasconderti Kaede, non farlo mai» disse piano prima di accarezzargli una guance con la mano nodosa. Lui non ebbe tempo di comprendere la reale portata di quelle parole perché nello stesso istante il mondo gli crollò addosso.

 

«Rukawa?!?»

 

Maledetto idiota. Sottospecie di babbuino. Razza di cretino patentato.

Che bisogno aveva di strillare così forte? Come gli era saltato in mente di usare il suo vero nome? 

Ovviamente sarebbe stato impossibile far finta di niente, ovviamente sua nonna avrebbe sentito e ovviamente si sarebbe sentita chiamata in causa. 

«Siamo noi, chi ci cerca?» chiese infatti, raddrizzandosi di scatto, quasi volesse mettersi sull’attenti. Kaede invece si voltò con innaturale lentezza, cercando di rimandare l’inevitabile momento in cui avrebbe visto Hanamichi Sakuragi immobile e imbambolato nel bel mezzo della via.

«Conosci quel ragazzo dai capelli rossi?»

Lui rispose con un piccolo cenno d’assenso che bastò a peggiorare ulteriormente la situazione. 

«Allora bisogna andare a salutarlo e augurargli buon anno! Muoviti!» disse in tono militare avviandosi verso Sakuragi e trascinandolo a braccetto. Fu come se un’enorme catapulta lo rispedisse indietro nel tempo, aveva sei anni e sua madre lo stava portando di peso al piano di sotto per accogliere i compagni di classe venuti appositamente per festeggiare il suo compleanno, mentre lui si aggrappava al passamano delle scale opponendo una strenua resistenza. 

Immerso in quella sensazione di deja-vu quasi si perse il momento in cui sua nonna si piazzò davanti al rosso e disse:

«Salve figliolo, mio nipote dice di conoscerti»

Hanamichi sembrava si stesse risvegliando da un lungo sonno, sbatté le palpebre diverse volte prima di concentrarsi sulla vecchina appesa al braccio del moro.

«Ehm, si, ecco, sono un suo compagno di scuola» replicò titubante

«Mi chiamo Hanamichi Sakuragi, è un piacere conoscerla Rukawa-san. Buon anno a voi» concluse con un inchino perfetto e un tono di voce cortese del tutto inaspettato. 

«Buon anno a te Hanamichi Sakuragi. E’ un piacere anche per me conoscerti, anzi sono convinta sia un piacere maggiore del tuo, da anni non incontravo un giovanotto così affascinante»

Toh guarda, lui e sua nonna oltre a condividere lo stesso taglio di occhi condividevano anche lo stesso gusto in fatto di uomini. Akemi Rukawa e i suoi commenti inadeguati eppure mai mendaci, Sakuragi con addosso quei pantaloni marroni in tinta col cappotto aperto su un maglione bianco attillato, era da far girar la testa. 

«Grazie Rukawa-san ma non credo di meritare questo complimento»
Perché sei un idiota, pensò Rukawa guardando il gradevole rossore che imporporava il viso di Hanamichi. Dolce scimmietta imbarazzata. 

«Sono vecchia Hanamichi Sakuragi, non rimbambita, so ancora riconoscere la bellezza quando la vedo»

Se Kaede Rukawa fosse stato un pò meno Kaede Rukawa si sarebbe girato verso sua nonna e le avrebbe dato un cinque.

«Sarei felice se tu facessi la strada con noi fino al tempio»

Era un ordine, non una richiesta, perciò quando Sakuragi lo guardò di soppiatto come a chiedere conferma, lui annuì impercettibilmente, ogni elemento dell’universo era tenuto a piegarsi al valore di Akemi Rukawa, i do’aho compresi. 

 

Ripartirono alla volta del tempio, fra il via vai di persone, e chissà se qualcuno fra la folla li aveva notati. Magari qualcuno li stava guardando e aveva capito che non erano i ragazzi ad accompagnare la vecchietta, ma esattamente l’opposto.

Era Akemi, con la sua prorompente determinazione, che li stava guidando verso il nuovo anno.

 

 

 

 

 

 

(*) I Mochi sono dei dolci tipici giapponesi a base di riso, molto gommosi e, secondo l’opinione della scrivente, disgustosamente zuccherini. Sono i dolci di Capodanno e pare alzino il tasso di rischio soffocamento della Nazione. Su questo non sono certa, ma vi assicuro che li ho mangiati  e ho rischiato di strozzarmici. 

 

(**) il Torii è la tradizionale porta d’accesso ai templi o un’area sacra.

 

I maglioni di zia Mineko sono un omaggio alla signora Weasley, mentre nonna Akemi è un pò prozia Muriel Weasley, ma soprattuto è ispirata a mia nonna che un giorno al mercato mi fece fare una figura di merda simile con un ragazzo che mi piaceva tantissimo. Avevo più o meno la stessa età di Kaede.

E niente, manco quest’anno è arrivata la lettera da Hogwarts, quindi mi sfogo cosi.

 

A presto  

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Capitolo 6
*** Tra un anno passerà ***


“E se quest'anno poi passasse in un istante 

Vedi amico mio come diventa importante 

Che in questo istante ci sia anch'io

L'anno che sta arrivando tra un anno passerà

Io mi sto preparando 

È questa la novità”

L’anno che verrà, Lucio Dalla

 

 

 

Kaede stava cercando di convincersi che non ci fosse nulla di strano o di speciale in quello che stava succedendo, in quello che lui e Sakuragi stavano facendo insieme. 

Erano soltanto due che accompagnavano una vecchietta al tempio il giorno di Capodanno

Si però, cos’erano loro due? Esisteva una parola che definisse un legame come il loro? 

Sakuragi si era presentato a sua nonna come “compagno di scuola”, ed era vero, ma Kaede non pensava mai a lui in quel modo, tutt’al più compagno di squadra, eppure anche quella definizione gli sembrava non calzasse fino in fondo. 

Una volta Ayako li aveva chiamati “rivali inseparabili” e forse quella era la miglior descrizione del loro assurdo rapporto. 

Rischiava di perdere il senno a forza di ragionare su certe sottigliezze e quello era il momento sbagliato per rimuginare, erano giunti a destinazione.

«Bene, ci vediamo là fra mezz’ora» esordì Akemi indicando una panchina al lato della strada 

«Veniamo con te, nonna.»

«No.»

Kaede si lasciò andare ad uno sospiro contrariato. Doveva convincerla questa volta, se si fosse perso la nonna, suo padre gli avrebbe tagliato le gambe e addio basket. 

«Non ti lascio da sola, c’è troppa gente» disse preoccupato abbassando la voce. 

Con la coda dell’occhio notò che Sakuragi si era allontanato da loro di qualche passo, teneva il mento all’insù, improvvisamente sembrava molto interessato ad un intarsio nel legno del portone.

«Sto per conto mio da quanto tuo nonno è morto, vent’anni fa. Sono in grado di cavarmela.» 

La sua voce era quita, ma risoluta.

«Ascolta Kaede-chan, è la soluzione migliore per entrambi. Io voglio restare da sola coi miei ricordi, tu vuoi restare da solo con lui» disse inclinando il capo in direzione di Sakuragi.

Il sangue gli si ghiacciò nelle vene, poi si scaldò fino al bollore, risalendo verso l’alto e Kaede capì di essere arrossito. Prima Sendoh, adesso sua nonna, cioè, sua nonna, quell’anziana signora che gli stava di fronte e lo guardava con l’aria di chi la sa lunga. Era così evidente?

Avrebbe voluto domandarlo ad alta voce, ma alla fine Kaede optò per un prudente silenzio, come era sua abitudine fare di fronte all’incertezza. Senza che lo volesse davvero gli scappò un sorriso, e a questo era molto meno abituato. 

«Va bene nonna, però stai attenta» 

«Lo farò» 

Rimase lì, fermo con le mani affondate nelle tasche della giacca, finché lei non sparì nella penombra del tempio. Si voltò verso la panchina eletta a punto di ritrovo e si accorse che anche Sakuragi era rimasto fuori, sempre col naso all’insù a fissare gli intarsi. Rukawa gli si affiancò, era la prima volta che interagiva con questa versione stand-by di Sakuragi, e non sapeva bene come comportarsi. 

 

«Tu non entri?» domandò tanto per fare un tentativo 

«Non ci riesco»

Era una risposta piuttosto strana per uno con la corporatura di Hanamichi, lui sarebbe potuto entrare anche se il tempio fosse stato chiuso, un paio di spallate ben assestate al portone e quello sarebbe venuto giù. Rukawa lo guardò di sottecchi, il volto di Hanamichi aveva perso qualsiasi espressione, era rimasta solo un’ombra, pareva che avessero cercato di cancellargli i tratti del viso con una gomma, lasciando un alone sporco. 

«Venivo sempre qui con mio padre. E’ morto da quasi due anni» disse, secco come un colpo di fucile.

«Mi dispiace» rispose Kaede, contraendo la mandibola. 

«Speravo che venire qui potesse aiutarmi a …boh…tipo rielaborare, però non ci riesco» aggiunse  con una smorfia che nascondeva una viva sofferenza. 

 

Kaede si frugò il cervello senza trovar niente di significativo da dire. Allora provò a immaginare come si sarebbe potuto sentire lui al posto di Sakuragi e finì col provare un dolore lancinante, una lama lo stava trafiggendo e nessuna parola poteva essere abbastanza forte per spezzarla quella lama. Forse, se fosse stato nei panni dell’altro, avrebbe preferito una metaforica spalla su cui piangere, qualcuno capace di esserci e basta, qualcuno in grado di stargli vicino senza dire o fare niente di particolare. Istintivamente posò una mano sulla spalla di Sakuragi, stupendosi della naturalezza con cui aveva fatto quel gesto, era stato semplice e automatico quanto un terzo tempo. 

Sakuragi non si ritrasse e Rukawa strinse leggermente la presa.

 

«Vuoi che entri insieme a te?» suggerì poi, cercando di usare il tono più neutro possibile. 

L’ultima cosa che voleva è che Hanamichi si sentisse compatito. 

«Grazie Kitsune, lo apprezzo, ma è meglio di no. Se ti va bene, preferirei aspettare con te, così posso salutare tua nonna» 

«Ok» 

Si guardarono e Kaede tolse la mano dalla spalla di Hanamichi. 

 

Il cielo era rimasto coperto tutto il giorno da un sottile strato di nuvole, sebbene non facesse ancora molto freddo l’unica testimonianza del sole era stata una sfumatura giallognola nel grigio. Ora il pomeriggio scivolava lentamente verso la sera, il grigio si faceva più scuro e le lanterne appese sembravano brillare con maggiore intensità. La gente in cammino chiacchierava ad alta voce e spezzoni di conversazioni arrivavano alle orecchie di Kaede. 

Hanamichi sorrideva teneramente, assorto nella contemplazione di due bambini in abiti tradizionali che giocavano sotto un albero e Kaede, sebbene riuscisse a mascherarlo magistralmente, era assorto nella contemplazione del profilo di Hanamichi. Stavano piantati li, seduti sulla panchina da venti minuti e in lui stavano montando tutte quelle sensazioni che ormai aveva imparato essere associate alla vicinanza del rosso. Un miscuglio di disagio, inquietudine ed eccitazione. Eccitazione anche fisica, e quando Hanamichi si spostò allungando e allargando leggermente le gambe, la sua coscia sinistra premette su quella destra di Kaede, che non poteva scivolare di lato altrimenti sarebbe finito col culo a terra, perché quella maledetta panchina era corta. 

Sono solo gambe e ginocchia, rilassati.

Cercò di razionalizzare, ma il suo cazzo non lo ascoltava minimamente, cominciò ad indurirsi ed ingrossarsi velocemente, lasciandolo con un’erezione da gestire e nascondere al più presto. Rukawa sospirò, cercando di calmarsi quel tanto che bastava a prendere in mano la situazione. 

 

«Do’hao spostati un pò! Stai occupando tutta la panchina!» riuscì a dire, assestandogli una mezza gomitata. 

Sakuragi, per una volta nella sua vita, obbedì e si rimise composto, poi si girò verso il moro, scrutandogli il viso ad occhi stretti.  

«Sei strano, non è che mi stai architettando qualcosa di volpesco?»

«Stavo solo pensando a mia nonna che ci prova con te» rispose, convinto che Hanamichi se la sarebbe bevuta.

«Fottiti» sbottò l’altro, di colpo imbarazzatissimo.

«Di che t’incazzi Do’hao? Dovresti essere contento, finalmente hai trovato il target di donne a cui puntare.»

«Fammi capire, dai aria a quella boccaccia solo per prendermi in fondelli?!»

«Sono serio, fossi in te mollerei il basket e mi darei al volontariato nelle case di riposo» rispose

«Ma allora vuoi proprio morire eh?!» sbraitò il rosso

Kaede fece una pausa, una piccola ruga d’espressione comparve fra le sopracciglia, pareva stesse realmente valutando l’ipotesi.

«Nh, no oggi no. Però ammetto che mi darebbe una certa soddisfazione morire il giorno del mio compleanno.»

«Baka Kitsune dovevi dirlo subito che oggi è il tuo compleanno!» esclamò Hanamichi, il volto illuminato dalle lanterne e dalla la sorpresa.

«Perché mai avrei dovuto?»

«Perché la gente normale apprezza fare gli auguri agli amici, quindi buon compleanno» 

 

Amici, amici, amici. 

 

Risuonava nella sue orecchie al ritmo del battito cardiaco. Quindi lui ce l’aveva un termine per definire il loro rapporto. Quindi, se erano amici, era perfettamente normale che Sakuragi gli appoggiasse una mano fra le scapole, non c’era niente di strano nel modo in cui la faceva scorrere verso l’alto, fino alla nuca. Le sue dita erano tiepide nonostante la temperatura invernale, e a Kaede sembrò di sentire il pollice muoversi in una lievissima carezza, alla base del collo, li dove i capelli incontravano la pelle. Quel gesto “d’amicizia” finì com’era cominciato, veloce, discreto e silenzioso.

«Grazie Do’hao. Buon anno.» 

 

Suo nonna sbucò dieci minuti dopo, puntuale come le tasse e prontissima al rientro verso casa. Nessuno parlò sulla via del ritorno, forse era un regalo da parte dell’universo, meditò Kaede. Arrivati ad un incrocio le loro strade si separarono e fu una sinfonia di “buon anno a lei” “Arrivederci” con qualche “Nh” in sottofondo.

«Permetti un’ultima domanda Sakuragi-kun?» chiese Akemi, e il nipote capì che il silenzio della mezz’ora appena trascorsa era stato solo un fortunoso colpo di scena. 

Nessun regalo, anche quell’anno l’universo si era scordato del suo compleanno.

«Vorrei la tua opinione su una questione riguardante i capelli di Kaede»

Kami no. 

«Nonna» disse a bassa voce, fregandosene di sembrare supplichevole.  

«Non trovi anche tu che siano troppo lunghi?»

«Credo gli stiano bene così, Rukawa-san. Non riuscirei ad immaginarlo diversamente»

Sakuragi aveva parlato senza nessuna esitazione e Rukawa sbalordì, rimanendo letteralmente a bocca aperta, così confuso da aver dimenticato cosa dire per ribattere. 

L’ idiota aveva battuta la volpe in astuzia. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note e citazioni:

Ho messo in bocca ad Ayako la definizione che usa Inoue per presentare sti due rimbambiti la prima volta che s’incontrano. 


La battuta di Rukawa sul compleanno è ispirata ad una conversazione fra Penny e Leonard  nell’ottava stagione di The Big Bang  Theory “L’accelerazione dell’intimità”. 

Penny: “Se dovessi morire oggi senza la possibilità di comunicare con nessuno cosa rimpiangeresti di non aver detto a qualcuno?”

Sheldon: “Se morissi oggi dici? Ah mi darebbe una certa soddisfazione morire il giorno del mio compleanno.”

 

Per la serie Hanamichi si da una svegliata e Kaede impara l’empatia. 

A presto e grazie della lettura 

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Capitolo 7
*** Lana, solletico e crostacei ***


Minuscolo capitolo per festeggiare l’acquisto della nuova colletion di Slam Dunk, che…no vabbè…niente spoiler.

 

Buona lettura a tutti e tutte  

 

Love is a burnin' thing

And it makes a fiery ring

Bound by wild desire

I fell into a ring of fire

I fell into a burnin' ring of fire

I went down, down, down

And the flames went higher

And it burns, burns, burns

The ring of fire, the ring of fire

The Ring of Fire, Johnny Cash and June Carter

 

Salì le scale praticamente di corsa, puntando al bagno del piano di sopra. Dopo un pomeriggio trascorso all’aperto, l’umidità invernale gli era penetrata nelle ossa. Sentiva l’urgenza di farsi una doccia e chissà, magari l’acqua lo avrebbe aiutato anche a sciacquare via la confusione mentale provocata dagli strani eventi di quel capodanno. I discorsi di sua nonna, Sakuragi che condivide ricordi privati ed estremamente delicati, che lo definiva amico e poi quei tocchi lievi, i loro primi contatti fisici volontari e non violenti al di fuori del campo da gioco. Si spogliò in fretta e s’infilò nel box di vetro senza curarsi troppo della temperatura, era temprato da anni di docce negli spogliatoi, dove non sapevi mai cosa aspettarti.

Sakuragi lo chiamava “effetto Finlandia” perché “o ti ritrovi in una sauna oppure scaraventato nudo sulla neve”. Sakuragi. Nudo. 

Kaede sospirò. Si portò una mano alla nuca, sfiorando quella piccola porzione di pelle accarezzata dalle dita di Hanamichi poche ore prima. Un brivido lungo la schiena e la mano volò verso il basso, ad afferrare la base del suo pene già semi eretto e il pugno che lo stringeva non era il suo, bensì quello di Hanamichi che aveva cominciato a muoverlo, lento, implacabile, fino a farlo diventare completamente duro. E Kaede si appoggiava all’indietro, non alle piastrelle che rivestivano il box doccia, ma al torace rovente del rosso, ed anche lui era eccitato, perché Kaede sentiva l’erezione altrui appoggiarsi fra le sue natiche. 

Hanamichi continuava a masturbarlo, con l’altra mano gli accarezzava il petto, il palmo grande e ruvido sfregava i capezzoli, la sua lingua gli blandiva l’orecchio e le sue labbra gli sussurravano parole indecenti.

«Adesso ti scopo Kaede» dicevano. 

Una mano fra i capelli - mmh ad Hanamichi piacevano i suoi capelli - lo spingeva a piegarsi in avanti e poi...poi l’organismo cancellò ogni cosa, le fantasie, la realtà, rimaneva solo il suo corpo spossato e il suo sperma schizzato sul vetro del box.

 

Aragosta. Ecco cosa sembrava un’aragosta lessata. Kaede arrossiva raramente, ma aveva la pelle troppo chiara e delicata per resistere indenne a mezz’ora di doccia, bollente, e alla fine era riemerso così colorato. Se Hanamichi gli avesse davvero morso una spalla di sicuro gli avrebbe lasciato i segni dei...e basta!

Recuperato un minimo di lucidità si ricordò dei regali sul tavolo della cucina, ancora da scartare. Scese dabbasso e oltre ai pacchetti trovò sua madre, intenta a riempire il bollitore per il tè.

«Ehi» gli disse sorridente quando lo vide sulla soglia, appoggiato allo stipite della porta «sopravvissuto anche quest’anno»

«Più o meno» rispose lui con un piccolo sbuffo.

«Magari l’anno prossimo convincerò le zie a restarsene a casa così potrai goderti il compleanno in santa pace.»

«Di la verità, neanche tu le sopporti più.»

Sua madre mise il bollitore sul fuoco e poi si girò verso di lui, l’espressione di una bambina beccata con le mani nella marmellata dipinta sul viso.

«Che esagerazione. Semplicemente per una volta vorrei trascorrere un capodanno senza dover mettere a tavola 10 persone.»

«Ma se cucina sempre papà!»

«Appunto, lui cucina, io preparo la tavola e faccio sedere gli ospiti.»

«Pff»

Kaede guardò sua madre, la piccola fossetta sulla guancia destra che appariva ad ogni sorriso, la fisicità flessuosa e il collo sottile che profumava sempre di lavanda. E Kaede sentì il bisogno di annusarla perché era estenuato dalle emozioni provate e il profumo di Azumi sapeva di casa e tranquillità. In quel momento era stanco di bruciare, ora desiderava solo cullarsi nel tepore di coccole familiari, non essere accarezzato da mani lascive che lo facevano tramare. Voleva essere tirato fuori da quel cerchio di fuoco in cui si era andato a cacciare e solo lei avrebbe potuto farlo, perché lei era un ruscello fresco. 

 

Aveva bisogno di mamma.

 

Coprì la distanza che li separavi con due veloci falcate e chinò la testa sulla sua spalla, strofinando il naso sul collo per farle il solletico, come faceva da bambino quando voleva sentire il suono della sua risata.

Funzionava ancora, effettivamente lei scoppiò a ridere.

«Ka-Chan!» esclamò cercando di stringerlo a sé e Kaede la lasciò fare volentieri.

«Erano anni che non facevamo questa cosa» disse Azumi e la sua voce tradiva la commozione «temo di non farcela più a prenderti in braccio»

«Ok mamma, sei esonerata» rispose lui con una risatina soffocata nell’abbraccio.  

Il bollitore prese a fischiare e Kaede si allontanò un poco dalla madre, che gli incorniciò il viso con le mani, si alzò in punta di piedi e gli diede un lieve bacio sulla fronte.

«Buon compleanno tesoro mio. Perché non ti siedi a scartare i regali? Nel frattempo ti preparo un tè verde, quello che ti piace tanto»

Lui annuì, godendosi in silenzio il potere rassicurante dell’affetto materno. 

«Dov’è il maglione di zia Mineko?» domandò. 

«Nella scatola a righe» 

Considerato che ogni anno gli regalava la stessa cosa avrebbe anche potuto smetterla di sprecare carta e consegnarglielo direttamente. Sarebbe stato un bene per la foresta Amazzonica. 

Kaede tolse il coperchio alla scatola, stava per spingerla da parte senza nemmeno controllare, ma lo fece e quasi cadde dalla sedia. 

«Mamma» disse allarmato. Azumi e Kaede si guardarono, entrambi col sopracciglio sinistro inarcato e le labbra arricciate, in una perfetta simmetria.

«Beh, è proprio vero che la vita riserva sempre delle sorprese» commentò lei appoggiando le tazze sul tavolo e sedendosi vicino al figlio «Tuo padre deve avergli detto di che colore è la divisa dello Shohoku. Oppure aveva finito la lana blu»

Oppure gli dei si divertivano a torturarlo, non c’era altra spiegazione che potesse giustificare il rosso brillante di quel maglione.

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Capitolo 8
*** Re Luigi e la volpe polare ***


Ciao a tutte e tutti, riprendendo in mano questa storia apportando delle modifiche alle caratteristiche perché in corso d’opera sto variando degli elementi chiave. In generale sta diventando una long più corposa di quanto previsto inizialmente. Comunque i capitoli già pubblicati non sono stati modificati. 

 

Buona lettura :)

 

Now don't try to kid me, mancub
I'll make a deal with you
What I desire is man's red fire
To make my dream come true

I wanna be like you (The monkey song) - Robert e Richard M. Sherman

 

Hanamichi Sakuragi mantenne la promessa e a gennaio, subito dopo le vacanze invernali, rientrò in squadra. 
Arrivò in palestra seguito dal codazzo dei suoi amici ululanti. Un branco di scimmie di cui lui era il capo indiscusso, l’orango Luigi de “Il libro della giungla”. La palestra si riempì dell’eco di voci diverse, tutte ansiose di esprime il loro bentornato al rosso. Gli “oh, oh, oh” di Anzai, si sovrapposero agli strilli di Haruko, agli insulti giocosi di Mitsui e alle raccomandazioni di Ayako. Sakuragi salutò ad uno ad uno, sfilando come la Regina d’Inghilterra e, quando si fermò davanti ad Akagi, passato appositamente per l’occasione, riuscì, chissà come, a farsi picchiare in testa. 

«Ciao Tappo! Il grande Tensai ti è mancato eh?»

«Ma proprio per niente cretino, senza di te potevamo allenarci in santa pace. Comunque d'ora in poi devi chiamarmi capitano» disse Miyagi guardandolo da sotto in su con l’aria torva. 

«Seee! Ti piacerebbe! Ne hai di strada da fare Ryota. Guardati allo specchio, non sembri nemmeno lontanamente un Gorilla, finché non diventerai un pochino più scimmiesco per me sarai solo il Tappo.»

Si guardarono in cagnesco per circa mezzo secondo, poi scoppiarono a ridere e si abbracciarono, allegri e fraterni. Fedele alla sua parte, Rukawa era rimasto in disparte ad osservare la scena, appoggiato con gli avambracci al manico dello spazzolone con cui stava lucidando il parquet prima che scoppiasse il putiferio. Vide Sakuragi voltarsi verso la sua direzione. 

Col cavolo, Do’hao. Segui il copione, sei tu che devi venire qui. 

Lui comprese e si avvicinò. 

«Kitsune»

«Do’hao» 

Sakuragi alzò un angolo della bocca in un mezzo sorriso di sfida.

«Spero tu sia pronta Kitsune, perché ti massacrerò» disse in un soffio provocatorio che aveva reso la sua voce più rauca del solito. Solo anni di ferreo autocontrollo permisero a Kaede di reagire senza mostrare i segni dello scompenso che quella frase aveva causato ai suoi ormoni.

«Tsk» rispose soltanto. Poi gli diede le spalle e ricominciò a pulire, con il cuore che sbatacchiava frenetico nella cassa toracica e una gran voglia di sorridere. 

In quel periodo la volpe era impegnata nella ricerca di una tana invernale. Il freddo aveva reso il tetto impraticabile e riposare in classe durante le pause era sempre stato impossibile a causa delle oche che gli starnazzavano intorno. Fiutando in giro aveva scoperto che all’interno della struttura scolastica esisteva una biblioteca con un angolo lettura dotato di divanetti che facevano proprio al caso suo. A quanto pare; però, gli animaletti selvatici non erano ammessi ed era stata scacciata via in malo modo. Da brava volpe qual era, aveva setacciato ogni angolo della scuola e, dopo aver scartato la palestra e un’altra paio di ambienti, trovò una minuscola auletta al terzo piano dove venivano stipati gli oggetti inutilizzati. Era piena di cianfrusaglie, vecchi monitor, una batteria mal concia con il pedale rotto, banchi accatastati e sedie traballanti. Rimaneva però abbastanza spazio per ricavare un cantuccio in cui dormire. La volpe si leccò i baffi, aveva trovato il luogo perfetto. Purtroppo venne stanata soltanto una settimana dopo. 

Era una di quelle giornate di metà gennaio soleggiate eppure fredde come l’acciaio e Rukawa era  nascosto nell’aula del terzo piano, disteso su un giaciglio improvvisato fatto del suo cappotto e della cartella riconvertita in cuscino. Dormiva profondamente, quindi non sentì la porta aprirsi, né i passi e neppure si rese conto che il nuovo venuto si era inginocchiato accanto a lui. 

«Rukawa» 

Kaede cominciò lentamente a prendere coscienza del mondo circostante. 

«Rukawa»

Qualcuno lo stava chiamando, ma non voleva rispondere, perché quel limbo fra il sonno e la veglia era molto piacevole e rilassante. Piacevole come i grattini sulla testa che stava ricevendo.

«Mmh» mugugnò stendendosi supino per assecondare quella sensazione carezzevole.

«Ru svegliati» 

Mhn no, il suono sussurrato e suadente di quella voce, le dita che si muovevano leggere fra i capelli, il calore di un corpo che percepiva essere vicino. Conciliavano il sonno piuttosto che convincerlo a svegliarsi.  All’improvviso tutto finì.

«Nh..no…ancora…» si lamentò in uno stato di semicoscienza, allungando il collo alla ricerca di quella mano che poco prima gli stava accarezzando la testa.

«Volpe svegliati!»

Kaede spalancò gli occhi, fotografò i tratti del viso di Sakuragi e scattò a sedere, centrandolo in pieno. Fu una zuccata epica. Kaede si portò d’istinto entrambe le mani alla fronte, stava lacrimando e gli si era annebbiata la vista per il dolore, capì che Sakuragi si era fatto altrettanto male perché stava imprecando in maniera particolare colorita. Si alzarono contemporaneamente, con la  grazia di due ubriachi.

«Sei stato tu?» chiese Rukawa, frastornato.

«A svegliarti? Certo che si cretino!» guaì il numero 10 continuando a massaggiarsi la fronte, laddove stava spuntando un bel bernoccolo.

«No, a grattarmi la testa»

Le braccia di Hanamichi caddero lungo il corpo, incurvò un poco la schiena e presa a boccheggiare peggio di una triglia trascinata fuor d’acqua.

«Quella testata deve averti rincoglionito del tutto. Non ti ho nemmeno sfiorato, te lo sarai sognato, volpe letargica!» 

«Le volpi non vanno in letargo» bofonchiò Rukawa, tanto per dire qualcosa che sviasse dall’argomento.

«Beh tu ci vai, avrai tipo un bisnonno orso polare o qualcosa del genere!» esclamò puntando il dito contro il moro «come se il Tensai avesse tempo da perdere a grattarti la testa»

«Allora che sei venuto a fare?» domandò l’altro, incrociando le braccia al petto. 

«Beh vedi io…ecco…volevo parlarti» cominciò Hanamichi che nel frattempo frugava la stanza con gli occhi, senza mai fermarsi, torcendosi le dita. Sembrava che stesse avendo a che fare con concetti astratti troppo complessi. Kaede poteva quasi sentire il ronzio metallico degli ingranaggi cerebrali del Do’hao mettersi in moto. 

«Tra un pò suona la campanella» 

«Baka è una cosa difficile da dire!» 

Hanamichi sospirò e poi si strofinò il viso con le mani, come se si stesse lavando la faccia.

«Ho bisogno di aiuto per recuperare il tempo perduto. Mi sembra di aver disimparato tutto, di dover ricominciare d’accapo. Dammi una mano, per favore, allenami» 

Aveva parlato tutto d’un fiato, sputando fuori le parole quasi fossero un boccone indigesto impossibile da deglutire.

«Tu andresti ammaestrato scimmia, non allenato» 

Il rosso cacciò fuori una risatina tesa. 

«Questa era carina Kit, te la concedo» ammise guardandosi le mani.

«E comunque no, non farò nessuna delle due cose» 

«Me lo aspettavo» disse Hanamichi scrollando la testa «vabbè ti lascio al tuo letargo» 

Il sorriso non si era ancora spento, ma c’era qualcosa di amareggiato e arrendevole sulle sue labbra piegate.

«Non lo farò perché non ti sei ancora ripreso del tutto» puntualizzò Rukawa, spietato. 

«Il medico a detto che…»

«Io me ne fotto dei medici. I tuoi movimenti sono lenti rispetto a prima, ti affatichi in fretta e quando scendi dal salto ti fa ancora male la schiena.»

«Tu come fai a saperlo?» domandò Sakuragi, stupito e lievemente arrossito.

Perché ti guardo Hanamichi, ti guardo continuamente. 

Rukawa non si diede la pena di replicare, limitandosi a studiare i movimenti di Hanamichi, che era avanzato verso di lui con un paio di passi decisi.

«Come faccio a recuperare se non mi alleno? Arriverò al torneo estivo impreparato e finirò col fare le solite figuracce da principiante! Io ero migliorato!» piagnucolò allargando le braccia. 

«Ma allora sei proprio deficiente fino in fondo. Se ti carichi di un allenamento extra adesso manderai tutto a puttane, il tuo corpo non è ancora pronto. Segui il programma che ti ha dato Anzai e finisci la fisioterapia, poi ne riparliamo» 

E con questo per Rukawa la discussione poteva dirsi chiusa, diede le spalle al compagno di squadra, doveva sfruttare gli ultimi venti minuti di pausa pranzo per recuperare il sonno perduto e sopratutto levarselo dai piedi, perché stargli così vicino era sempre più difficile. Sapeva gestire l’interazione con Sakuragi sul campo da gioco, al di fuori doveva fare i conti con l’imprevedibilità altrui in modo totalmente diverso, ed era un continuo turbinio di inaspettati. Come a Capodanno, al tempio, e così come stava accadendo in quel preciso istante. Il rosso lo aveva afferrato per un avambraccio, costringendolo a girarsi e guardarlo. 

«Mollami immediatamente» sibilò. In risposta Hanamichi strinse le dita più forte e Kaede avrebbe voluto volentieri staccargliele a morsi quelle dita. Oppure leccarle una ad una, succhiarle con voluttà fino a farlo sospirare di piacere. 

«Mi stai dicendo che quando tornerò in piena forma prenderai in considerazione l’idea? Che ci penserai su?» chiese Hanamichi tutto d’un fiato.

«Forse» rispose Kaede, strattonando il braccio per liberarsi. 

Il Do’hao avrebbe potuto continuare a guardarlo speranzoso per ore. Lui non avrebbe ceduto ulteriormente, era già legato a lui da quella folle patto fatto in estate sulla spiaggia, laddove era cominciato quello strano cambiamento nel loro rapporto.

Avrebbe dovuto farsi bastare quella promessa, perché la parola di Kaede Rukawa contava. 

La volpe ritornò nel suo cantuccio a riposare e l’ orango uscì dall’aula colpendo involontariamente il piatto della batteria semidistrutta, che cadde facendo un fracasso della malora.

«Fai piano scimmia!» 

«Così magari ti darai una svegliata, volpe polare!» 

*****

Agli inizi di febbraio la prefettura di Kanagawa fu investita da una serie di correnti gelide che imbiancarono le città. Contrariamente all’opinione di molti Rukawa non era esattamente un animale articolo, soffriva particolarmente l’inverno e per difendersi dal freddo si vide persino costretto a tirar fuori dall’armadio gli orrendi maglioni di zia Mineko. Vederlo così imbacuccato, nascosto fra sciarpe, guanti e cuffie di lana, era la gioia di Sakuragi, che lo sfotteva per quello che, secondo lui, era il paradosso più divertente della Terra: una volpe artica freddolosa.

«Vieni un pò qui Kitsune, guarda che ho fatto insieme alla banda» disse un giorno Hanamichi, chiamandolo dietro la palestra appena prima degli allenamenti. 

Kaede si trovò davanti a cinque pupazzi di neve incredibilmente brutti.

«Ta daaa!» disse Hanamichi indicando con fierezza quei cumuli indistinti.

«Che sarebbero?» chiese il moro, esprimendo nel tono di voce più disgusto di quanto in realtà provasse.

«Come che sarebbero?!? Siamo noi!» replicò l’altro, persino un pò offeso «quello con le orecchie sei tu, se gli giri intorno vedrai anche la coda» 

Effettivamente la sua versione di ghiaccio era dotata di un paio di triangolini in testa ed era l’unico pupazzo a non sorridere, insieme ad Akagi, la cui bocca era un buco al centro di quello che sarebbe dovuto essere il viso. Chiaramente il pupazzo che rappresentava Sakuragi era il più curato di tutti, anche se l’unica cosa che lo distingueva realmente dagli altri era il kanji “Tensai” al centro del petto e uno strano ammasso di neve orizzontale davanti a lui. Sicuramente doveva rappresentare qualcuno sdraiato ai suoi piedi. Kaede lo studiò piegando il capo di lato e notò che la testa del pupazzo era stata infilzata con decine e decine di stuzzicadenti pigiati stretti l’uno vicino all’altro. 

«Quello è Sendoh» constatò, riuscendo a restare imperturbabile nonostante la voglia di ridere.

«Meglio, sono io che batto Sendoh.»

«Devo essermelo perso, esattamente quand’è che sarebbe successo?» 

Poi Rukawa si avviò verso l’entrata della palestra, godendosi divertito gli improperi infuocati di Sakuragi.

La neve sembrava scendere anche all’interno della palestra, ovattando i rumori. Da un paio di settimane gli allenamenti si svolgevano in uno stato di tranquillità silenziosa e un pò inquietante, considerando gli standard dello Shohoku. Il contribuito più evidente a quel nuovo corso era la tregua nella faida Rukawa-Sakuragi. I bisbiglii, nemmeno troppo sommessi, riguardo a quella strana pace venivano puntualmente tacitati da un Miyagi oltremodo scaramantico. 
«Sicuro che stiano bene?» domandò un giorno Mitsui, guardando allibito Rukawa che prendeva la mano di Sakuragi, il quale aveva allungato il braccio per aiutarlo a rialzarsi dopo un contatto falloso. Costretto - da Kogure diceva qualcuno - a frequentare un corso preparatorio all’università, Mitsui aveva lasciato la squadra subito dopo il rientro di Sakuragi, ma quando poteva passava a fare qualche tiro e a giocare la partitella di fine allenamento.
«Sht zitto che porta sfiga» rispose il capitano schiaffandogli una mano davanti alla bocca.
«Sarà, ma fossi in te mi preoccuperei» borbottò poi, ricominciando a correre. C’era un’atmosfera carica di concentrazione, in particolare il numero 10 esprimeva una risolutezza inattesa e sorprendente, stava giocando con notevole maturità, senza forzare le azioni come suo solito, bensì impiegandosi a leggere ogni situazione e agire di conseguenza. Passò in attacco dopo una stoppata magistrale e forse può darsi che Mitsui fosse solo distratto dall’atteggiamento determinato di Sakuragi, comunque il rosso riuscì ad eludere la sua difesa e andare a canestro con una schiacciata potentissima. Era uno di quei suoi dunk portentosi, buttati dentro di atletismo ed energia pura. Quando toccò terra, dopo un salto strepitoso, incontrò lo sguardo di Mitsui.

«Hanamichi» lo chiamò piano, senza riuscire a nascondere una punta di ansia.

«Sto bene, Mitchi » rispose Sakuragi restituendogli lo sguardo stupefatto.

«E’ ok» ripeté poi, a beneficio di tutti i presenti, anche loro in attesa. L’apprensione generale scoppiò in una bolla di gioioso sollievo e il silenzio venne spazzato via da grida di giubilo esagerate. Rukawa osservò la scena in silenzio prima di andare a recuperare la palla finita in un angolo, esultanza o no la partita non era ancora finita e soprattutto la sua squadra si trovava in svantaggio. Quando prese in mano la palla fu colto da un’incontenibile desiderio di fare qualcosa, qualsiasi cosa che gli permettesse di buttar fuori la preoccupazione, perché si, anche lui aveva condiviso le paure di Sakuragi sulla sua guarigione. Assicuratosi velocemente che nessuno dei compagni lo stesse guardando, Kaede Rukawa sorrise pienamente, genuino come un bambino davanti ad un regalo desiderato da lungo tempo.

Dovendo seguire numerosi esercizi defaticante per la schiena, Hanamichi Sakuragi usciva dalla palestra quasi un’ora dopo i suoi compagni e di certo non si aspettava di trovare qualcuno nascosto fra le ombre buie del corridoio.

«Do’aho»

«Porca vacca!» eruppe trasalito, sentendo la voce del compagno di squadra «per la miseria Kitsune! Impara a fare rumore quando ti muovi, mi è quasi venuto un colpo» disse tenendosi una mano all’altezza del cuore.

«La capacità di muovermi in silenzio è una delle cose che mi rendono un giocatore migliore di te» replicò Rukawa, facendo un passo avanti ed esponendosi alla luce che veniva dallo spogliatoio.

«Si, si e se poi ti andasse male col basket potrai sempre svaligiare appartamenti» lo liquidò Sakuragi, ancora un pò scosso dallo spavento preso.

«Ci vediamo domenica alle 16:00 davanti alle scuole elementari di Ishikawa» disse Rukawa.

«Questa domenica? Perché?» 

Di fronte al turbamento scomposto di Sakuragi il numero 11 fece una piccola smorfia.

«Vuoi ancora allenarti oppure no?»

«Oooh certo» 

«Allora ci vediamo domenica alle 16:00. Non fare tardi» 

******

Le scuole elementari di Ishikawa erano formate da blocchi di cemento bianchi di varie dimensioni e forme. Situato nel chome numero 4, l’edificio scolastico aveva subito una serie di allargamenti nel corso degli anni, finendo col risultare una strana accozzaglia di stili diversi. Probabilmente ogni architetto incaricato dal municipio aveva voluto lasciare la sua personale visione, senza badare troppo all’impronta precedente.
Alle 16:00 esatte, un bel ragazzo alto e slanciato svoltò l’angolo del palazzo di fronte alla scuola, scavalcò un cumulo di neve annerita dallo smog e attraversò la strada, diretto verso l’ingresso dell’istituto elementare. Lì lo stava aspettando un giovane altrettanto alto, un tipo un pò strambo, impegnato a saltellare sul posto, forse per difendersi dal freddo. Non erano l’altezza fuori dal comune o la stazza da atleta ad attirare l’attenzione dei pochi passanti che lo videro, quanto piuttosto il colore dei suoi capelli, un rosso intenso impossibile da ignorare. I due s’incontrarono davanti al grande cancello d’entrata, il rosso alzò di poco un angolo della bocca e smozzicò un “ciao”, l’altro ragazzo, invece, salutò con un cenno del capo a malapena percettibile. Varcarono insieme l’ingresso della scuola, e scomparvero oltre l’edificio principale. 

Sakuragi era arrivato in anticipo e ora lo stava seguendo mansueto, in silenzio. Sembravano due ottimi presupposti per cominciare bene la seduta d’allentamento extra. Cercando di evitare le pozzanghere formatesi dallo scioglimento della neve, Rukawa fece strada fino alla palestra. Era un fabbricato col tetto leggermente spiovente, uguale in tutto e per tutto alle altre migliaia di palestre presenti nei complessi scolastici del paese. Arrivato alla porta che dava sul cortile Rukawa bussò con decisione, mentre Sakuragi alle sue spalle allungava il collo, impaziente di scoprire chi sarebbe venuto ad aprire. Preceduta dal suono ritmico di scarpe dalla suola di gomma, la porta venne fatta scorrere di lato e apparve una donna in tuta da ginnastica blu. Quando li vide, sorrise  e con lei sorrisero anche le sottili rughe d’espressione ai lati degli occhi, più scuri del giaietto. 

«Buon pomeriggio Watanabe sensei» disse Rukawa, inchinandosi. 

«Buon pomeriggio Rukawa-Kun. Entrate pure» rispose la donna, indicando ai ragazzi una stuoia al lato della porta. Rukawa vi posò sopra i piedi e si tolse le scarpe, subito imitato da Sakuragi che riuscì nell’operazione in maniera più incerta. La donna che aveva aperto la porta rimase lì a guardali, senza perdere il sorriso. Poteva avere circa quarant’anni e portava i capelli corti, un taglio che valorizzava i tratti del suo viso rotondo, così diverso rispetto al resto della corporatura, estremamente magra e scattante. Senza dubbio Watanabe aveva un fascino particolare. 

«Grazie di averci concesso l’uso della palestra» disse Rukawa togliendosi il cappotto.

«Nessun problema. Mi fa sempre piacere vederti, anche se mi fai sentire irrimediabilmente invecchiata. Lui è un tuo compagno di squadra, Rukawa-Kun?» chiese la donna, lievemente sorpresa, spostando lo sguardo sull’altro ragazzo. Il volpino annuì, dando una manata al compagno per svegliarlo dalla catalessi in cui era piombato. Sentendosi interpellato, Sakuragi si guardò intorno con l’aria di uno che si risveglia in un posto sconosciuto dopo uno svenimento e si presentò a Watanabe. Lo aveva già notato a Capodanno, il Do’aho sapeva essere gentilmente educato quando voleva.

«In che ruolo giochi Sakuragi?» chiese la donna, una volta conclusa la breve presentazione.

«Diciamo che sto cercando di diventare un buon centro. Ho cominciato a giocare solo l’anno scorso, poi ho subito un’infortunio e ho dovuto fermarmi per qualche mese»

Kaede rimase in disparte ad ascoltare il resto della loro conversazione. Era lampante che la coach aveva riscosso le simpatie di Sakuragi.

«Va bene ragazzi» disse lei ad un certo punto «finisco di sistemare qui e vi lascio liberi di allenarvi»

«Possiamo pensarci noi, sensei» disse il moro.

«Non è necessario»

«Lasci almeno che le diamo una mano!» proruppe Sakuragi, togliendosi la giacca e gettandola a terra «esattamente cos’è che dobbiamo fare?» domandò poi, perplesso ma entusiasta, suscitando l’ilarità di Watanabe, che ridacchiò divertita. 

Il proverbiale “Do’aho” di Rukawa morì sulle sue labbra, bloccato da un riflesso condizionato pavloviano: la coach Watanabe non accettava insulti o prese in giro ai compagni. 

«Vedi Sakuragi, trattandosi di una scuola elementare di solito qui si disputano più che altro partite fra bambini. Li hai notati i canestri più bassi?» chiese indicando con il pollice uno dei due «sono quelli del mini-basket e sono montati su supporti mobili, così li possiamo spostare. Per le categorie dei più piccoli le dimensioni del campo sono ridotte di un paio di metro» spiegò, facendogli presente che all’interno dello spazio regolamentare erano disegnate linee delimitatrici di un campo più piccolo.

«Ah e i marmocchi, cioè i bambini, come se la cavano?»

Mentre la testa rossa tempestava di domande Watanabe, Kaede si diresse ad uno dei canestri, alzò la levetta che frenava le rotelle alla base della struttura e lo spinse, sino ad addossarlo al muro. Finito di sistemare, la donna consegnò a Rukawa un mazzo di chiavi.

«Puoi lasciarle in guardiola come al solito» disse e il ragazzo la ringraziò nuovamente. 

Watanabe si congedò salutandoli affettuosamente. 

«Porta i miei saluti ai tuoi genitori Rukawa-kun» 

«Sarà fatto» 

«Quest’anno cercherò di venire a vedervi giocare, ragazzi» aggiunse. 

«Ne saremmo onorati coach Watanabe!» replicò Sakuragi tutto allegro. Fissò la donna sinché non sparì oltre la porta che conduceva al corridoio interno della scuola.

«Sembra una persona molto in gamba» commentò, ancora concentrato sulla porta. 

«Lo è» puntualizzò l’ala piccola.

Kaede era fermo sulla linea dei tre punti, di colpo indeciso sul da farsi e, distratto, scivolò in una sorta di sogno ad occhi aperti in cui lui e Sakuragi s’incontravano su quel campo invece che sul tetto dello Shohoku. Cercò d’ immaginare come sarebbe cambiata la sua vita se avesse conosciuto quel tornado dai capelli rossi a 6 anni.

La voce di Sakuragi che chiamò «Kitsune» lo fece tornare in sé.

«Mh» rispose uscendo dalle sue fantasticherie.

«Vieni qui spesso?» 

«D’inverno. Watanabe mi fa usare la palestra, ogni tanto» 

«Queste sono le scuole elementari che hai frequentato?»

«Si» 

«Watanabe era la tua coach?»

«Si»

«Quindi è qui che hai iniziato a giocare a basket?»

«Si»

Schiena dritta e braccia lungo il corpo, Sakuragi aveva fatto quelle domande rimanendo perfettamente immobile. Il suo sguardo, concentrato sul compagno di squadra, emanava calma e sicurezza. Poi espirò con forza e piegò le labbra in un vago sorriso. 

«Cominciamo?» disse Hanamichi. La voce era ferma, priva di ogni incertezza. Kaede deglutì, gli ci volle qualche secondo primi di riuscire a rispondere a quell’ultima, banalissima, richiesta. 

«Si» 


Alle 18:00 precise l’orologio elettronico al polso di Kaede emise un breve bip. 

«Facciamo una pausa Do’hao» 

Tirò fuori dal borsone due Pocari Sweet e ne lanciò una a Sakuragi. Seduti ai margini del campo, con le schiene appoggiate al muro, bevvero in silenzio, l’uno di fianco all’altro.

«Uh, quasi me ne dimenticavo» disse Sakuragi all’improvviso «ho qualcosa anch’io» 

Gattonò sino al suo borsone, vi trafficò un pò dentro e alla fine riemerse con una scatola rettangolare bordeaux. La spinse, modulando la forza in modo tale che arrivasse da Rukawa scivolando sul parquet. 

«Cioccolatini misti!» esclamò entusiasta dopo aver raggiunto il moro.

«Prova questo. Fondente ripieno, è da orgasmo» aggiunse, aprendo la scatola e indicando i dolcetti dalla tonalità più scura. 

«Meglio se passo, allora. Non ho con me un cambio» 

Hanamichi rise allegramente. Rukawa sentiva sempre una bolla di calore scoppiargli dentro quando lui sorrideva a quel modo. Lo sapeva distinguere dagli altri sghignazzi fasulli, perché Hanamichi arricciava un pò il naso e sembravano ridere anche gli occhi, in accompagnamento alle labbra. 

«Dai prova, se hai qualche incidente ti faccio un prestito, ho un paio di boxer puliti nel borsone» 

Rukawa emise un piccolo sbuffo divertito, prese un cioccolatino e se lo ficcò in bocca. Il nucleo morbido gli si sciolse in bocca, spandendo un sapore intenso e aromatico davvero piacevole. 

«E’ molto buono» convenne il moro, assaporando soddisfatto il retrogusto amaro.

«Ai piani bassi tutto bene?»

«Si, cioè, niente che non sappia gestire, credo» rispose Rukawa, scrollando le spalle. 

Con una sonora sghignazzata, Sakuragi suggerì: «vediamo come va con gli altri?» 

Li mangiarono tutti, seduti l’uno di fronte all’altro con le gambe incrociate, commentando il gusto di ognuno. Essendo poco abituato al sapore dell’alcol, quando Rukawa assaggiò quello al rum fece una smorfia disgustata, sbrodolandosi il mento e Sakuragi rise così forte da rischiare di soffocarsi col suo cioccolatino alla nocciola. Arrivati all’ultimo Rukawa domandò: «Ci giochiamo l’ultimo, Do’hao?»

«Sarò magnanimo Kitsune, puoi mangiarlo tu. D’altronde sono un regalo per te da parte di…» Sakuragi girò il coperchio della scatola e, piegando di lato la testa, controllò qualcosa «…Tomiko di 1^B, no aspetta forse è Somiko di 1^B, va beh, una ragazza che mi ha chiesto di consegnarteli» 

Detto ciò allungò il coperchio a Rukawa, che solo allora si accorse della dedica scritta in angolo, in una bella grafia minuta. Si sentì attraversare da un tremito freddo e il suo primo impulso fu quello di ficcare la scatola in gola ad Hanamichi e spingere giù, molto forte.

«Come cazzo ti permetti di accettare regali da parte mia?!?» domandò in un fil di voce, allontanando bruscamente la scatola di cioccolatini con un gesto stizzito. 

Sakuragi osservò i suoi movimenti in silenzio, poi scrollò il capo e si mise a braccia conserte, perfettamente tranquillo.

«Io non ho accettato un bel accidenti di niente da parte tua, ho solo promesso ad una ragazza di consegnarti un regalo. Lei ha insistito e alla fine ho ceduto, dicendole però che non avrebbe dovuto aspettarsi nessuna risposta da te, che i suoi cioccolatini sarebbero finiti dritti, dritti nella spazzatura e che probabilmente nemmeno ti eri accorto di San Valentino. Ah si, a proposito, oggi è San Valentino» specificò, notando l’ombra di confusione apparse sul viso di Rukawa «oggi è San Valentino e io ho trascorso gli ultimi giorni a rifiutare ragazze che cercavano di convincermi a fare da tramite. Ho detto no a tutte, poi venerdì pomeriggio prima degli allenamenti mi ha fermato Tomiko/Somiko. Abbiamo parlato un pò - è carina Kit e sembra anche molto in gamba - e, beh, non so cosa avesse lei più delle altre, forse ero solo stanco, ma alla fine mi sono detto: perché no?»

«Te lo dico io perché, idiota» lo interruppe Rukawa, vibrando di collera «perché non sono cazzi tuoi! Perché a me, delle ragazze che regalano cioccolato a San Valentino non frega un cazzo e non le voglio tra i piedi!» 

Scattò in piedi. Sentiva il sangue pulsare nelle tempie e un atroce bruciore in gola che somigliava tremendamente ad un pianto intrappolato. Anche Sakuragi si alzò.

«Hai idea di come mi sia sentito quando ho capito che le ragazze si avvicinavano a me solo perché conosco il ragazzo più figo della scuola?  Di quanto sia stato umiliante?»

Hanamichi s’interruppe. Trasse un profondo sospiro e chiuse brevemente gli occhi. Non sembrava triste o sconvolto, solo rassegnato e la sua voce suonò incredibilmente pacata quando ricominciò il discorso. 

«Sono stato di merda, almeno finché non ho cercato di mettermi nei loro panni e allora mi sono reso conto di una cosa: io al loro posto mi sarei comportato esattamente allo stesso modo. Parlarti è impossibile Rukawa, tu allontani sempre chiunque. Allora ho pensato che avrei voluto vederti fare un gesto gentile nei confronti degli altri, almeno una cazzo di volta nella vita. Ti ho fatto mangiare quei cioccolatini apposta, perché tu facessi qualcosa di carino, anche senza saperlo. Onestamente, sembra davvero che t’importi solo di te stesso. »  

Kaede sentì il cielo crollargli addosso. Letteralmente. Una reale sensazione fisica di avere un peso sul collo che lo costringeva a chinare la testa. L’odio furioso che aveva provato poco prima, mentre Sakuragi gli spiegava da dove venissero i cioccolatini, si era trasformata di botto in un dolore annichilente. Deglutì, riuscendo a mandar giù anche le lacrime, ancora con lo sguardo basso, fisso sulle punte delle sue Air Jordan. 

Rialzò la testa di scatto e chiese: «sai chi è il mio punto di riferimento nel basket?» 

Hanamichi sbalordì, ogni parte del suo corpo gridava stupore.

«Oh come sarebbe bello poter credere di essere preso per il culo, ma conoscendoti...» borbottò snervato, massaggiandosi le tempie con gli indici. Alzò le spalle e rispose: «Michael Jordan?»

«Harumi Watanabe. Mi piacerebbe farti vedere chi è, ti va?» 

«Ok, va bene» replicò il rosso, dopo alcuni secondi di perplesso silenzio. 

«Seguimi. Dovremmo fare piano però, non ho il permesso di uscire dalla palestra » disse, incamminandosi lentamente verso la porta affacciante sull’interno della scuola. Assicuratosi che Sakuragi lo seguisse Rukawa svoltò a destra lungo un corridoio buio. Tenendo una mano appoggiata al muro, continuò ad avanzare sinché non percepì sotto il palmo il legno della porta che stava cercando. Istintivamente si fermò, scordandosi di avvertire Sakuragi e questi gli venne addosso, cozzandogli contro la schiena coi suoi 80 chili di muscoli solidi.

«Scusami» mormorò a bassa voce, indietreggiando subito.

«Fa niente» esalò Rukawa. Il cuore gli era rimbalzato in gola, poi, una volta tornato tra le costole, aveva preso a martellare pesantemente. 

Lascia perdere, Kaede. Lascia perdere tutto e bacialo. Divoralo.  

Prima o poi quella vocina interiore l’avrebbe spuntata sul resto (forse anche sulla sua sanità mentale), ma non ora, ora la cosa importante era che Hanamichi capisse. Incuneò le dita nella maniglia a fessura, facendo scorrere la porta di lato. A tentoni trovò l’interruttore della luce e un paio di neon si accesero sfarfallando fastidiosamente. L’ufficio dell’allenatrice Watanabe era sempre lo stesso; piccolo, essenziale e disordinato.

«Entra e chiudi la porta, per favore» disse rivolto al compagno di squadra. Rukawa si diresse al muro dietro la scrivania, dove erano appese diverse foto incorniciate, e, in silenzio, guardò Sakuragi avanzare circospetto. In quello spazio così piccolo la sua presenza sembrava ancor più imponente del solito. 

«Lui è Harumi Watanabe» disse Rukawa indicando il ritratto centrale, quello più grande. 

«Ma è…» 

«In carrozzina, si. E’ stato investito da un pirata della strada quando aveva la nostra età, circa dieci anni fa, si è salvato per miracolo, ma ha subito l’amputazione di una gamba. Come vedi non si è mai arreso.» 

Non aggiunse altro, convinto che la foto di Harumi, con la maglia della nazionale ai mondiali paralimpici, potesse raccontare la determinazione e la vittoria diecimila volte meglio di lui. 

«Giocava nello Shoyo. Dopo l’indicente, quando si è ripreso del tutto, con l’aiuto della coach Watanabe ha cominciato a giocare in una squadra di pallacanestro in carrozzina. Harumi è il nipote di Watanabe, spesso veniva in palestra ad aiutarla con noi marmocchi» chiarì Rukawa, indicando un’altra foto più piccola che ritraeva la donna insieme ad Harumi prima dell’incidente.

«Guarda il bambino, Do’hao.» 

Sakuragi si piegò in avanti, stringendo gli occhi per mettere a fuoco il bambino moro seduto sulle spalle di Harumi, doveva avere sei o sette anni e mostrava all’obiettivo una risata entusiasta e bucherellata dalla caduta dei denti da latte.

«Oh.Mio.Dio! Sei tu!» esclamò. Spostò lo sguardo dal bimbo nella foto all’adolescente in carne ed ossa diverse volte, infine, con una tono estremamente dolce, disse: «eri un cucciolo di volpe proprio carino.»

«Non lasciarti ingannare dal sorriso, ero burbero e taciturno già allora. Praticamente sono nato anziano.»

Sakuragi si voltò e a Rukawa parve di scorgere nel suo sguardo un residuo della tenerezza riservata al cucciolo di volpe. Stando ben attento a non toccare niente, Rukawa si appoggiò al piano della scrivania e incrociò le braccia al petto.

«Delle parole non mi sono mai fidato granché. Contano le azioni per me, ciò che si decide di fare.»

«Lo capisco, infatti apprezzo che tu abbia deciso di portarmi qui. Grazie di avermi mostrato qualcosa di così importante per te.» 

Kaede nemmeno tentò di nascondere il rossore sulle guance, né s’illuse di poter controllare il lieve tremolio delle ginocchia. I sentimenti sanno sfuggire al controllo, trovano sempre una via per mostrarsi. Ormai tanto valeva spiattellare tutto. 

«Lo vedi Sakuragi, ci sono persone di cui m’importa. Magari sono poche, ma ci sono e la maggior parte di loro è in questa stanza.» 

Hanamichi assunse un’espressione pensierosa, sembrava stesse rimuginando sul da farsi.

«Ora ti abbraccio, Kitsune» annunciò solenne. 

Rukawa sciolse le braccia dal petto, lasciandole andare lungo il corpo. Sapeva che sarebbe bastato quel movimento a comunicare il suo assenso. 
Il corpo di Hanamichi era caldo e avvolgente proprio come se l’era sempre immaginato. Un calore che infondeva serenità. Stretto fra le sue braccia, con i palmi aperti sulle sue scapole, Kaede provò un senso di completezza che trascendeva il desiderio fisico e scavava nel profondo, provocandogli un lieve capogiro. Oscillò, allora Hanamichi gli posò una mano sulla nuca, spingendogli gentilmente la testa nel incavo tra il collo e la spalla, in uno spazio che sapeva di rifugio. 
Quando si allontanarono l’uno dall’altro il viso di Sakuragi era paonazzo, quello di Rukawa ricoperto da una sottile patina di sudore. 

«Ehm, ecco mi dispiace per la faccenda dei cioccolatini» disse immediatamente Hanamichi, forse per dissolvere il senso di disagio che andava a riempiere l’ambiente. 

«Hai fatto bene, erano buoni. A proposito, quelle ragazze che ti hanno dato i cioccolatini per me, lasciale perdere.»

Si morse il labbro inferiore e ricercò nella parete le parole adatte. Avrebbe voluto saper dire ad Hanamichi quanto la sua bellezza, ruvida e sincera, fosse intensa. Raccontagli come si sentiva  quando si scordava di distogliere lo sguardo dalle sue iridi color del legno che gli ricordavano la freschezza di un bosco in una mattina d’estate. Cedere alla smania di avventarsi sulle sue labbra, di affondare le dita fra i suoi capelli, di accarezzarlo ovunque e scoprire ogni curva, ogni angolo, ogni sfaccettatura del suo corpo. Rukawa esitava, mentre l’aria sembrava vibrare a causa di quei giganteschi non detti.

«Va tutto bene, Kit. Ci sono abituato» disse Hanamichi, piatto. 

Non ti ci devi abituare, babbeo pensò Rukawa guardandolo ficcarsi le mani nelle tasche dei pantolancini e distogliere in fretta lo sguardo. 

«E comunque tu sei qui con me, volpaccia. Nessuna di loro ha potuto competere col fascino del grande Tensai» aggiunse, cercando, malamente, di dissimulare l’amarezza con un’ ironia fasulla. Francamente Rukawa trovava l’autocommiserazione qualcosa di intollerabile, di norma avrebbe reagito assestando al Do’hao un paio di pugni, ma a quel punto la situazione si era fatta sufficientemente assurda da permettergli di cambiare strategia senza sembrare uscito di senno. O almeno così sperava. 

«Se ti conforta immaginarti questa competizione assurda, e soprattuto ti accontenti di un Mc’donalds, posso anche portarti fuori a cena, Do’hao. Sarebbe una vittoria schiacciante su tutte loro» disse allora, azzardando persino un piccolo sorrisetto d’intesa. Funzionò. Il rosso cacciò uno strillo acuto e prese a saltellare sul posto. Si schiacciò le guance con le mani, spalancando gli occhi, nella versione imbecille dell’urlo di Munch. 

«Kaede Rukawa mi ha chiesto di uscire a San Valentino! Cielo! Mi sto bagnando tutto!» 

«Piantala»

«Non ce la faccio, sono troppo emozionato!» 

«Guarda che ti mollo qui»

Kaede sbuffò e uscì dall’ufficio di Watanabe, seguito da Hanamichi, impallato a ripetere «Oddio. Oddio. Oddio»

«Cazzo, Do’hao, non ce l’hai un tasto OFF da qualche parte?» brontolò nel buio del corridoio.

«Certo che ce l’ho, ma dubito che tu voglia provare a premerlo, sta proprio sotto i testicoli, sai quel punto…»

«Ho capito, ho capito» lo interruppe Rukawa, improvvisamente accaldato e ansante. 

Sakuragi sghignazzò.

«Te l’avevo detto»

Oddio. Oddio. Oddio.

Si prospettava una serata lunghissima. 

 

 

 

 

 

Note 

Fiuuuu. Finalmente sono riuscita a dar forma a questo capitolo che stava in sospeso da mesi. Sanno essere impegnativi questi due. 

Spendo giusto due parole sulla pallacanestro in carrozzina. Di recente (somma recente, nel pre-quarantena) ho scoperto che nella zona in cui abito ci sono squadre di mini-basket, ma anche scuole, che sperimento insieme ai bambini e alle bambine anche il basket in carrozzina come parte attiva dei loro corsi. Sinceramente l’ho trovata un’iniziativa bellissima e una grandissima opportunità sia per i piccoli, ma sopratutto per i grandi. Nel capito ho deciso di farne accenno ispirandomi a questa iniziativa. Sulle prime avrei voluto richiamare Real, ma ne ho letto solo il primo numero, quindi ho preferito evitare. Rischiare il pastrocchio nel nome de: “ehi che figata facciamo il crossover fra le opere di Inoue!” mi sembrava scemo. L’intenzione era raccontare una parte della vita di Kaede.

Oh mamma che lungaggine!

 

Grazie per la lettura 

 

Sendoh: «Tanti auguri a me, tanti auguri a me!»

Rets: «Guarda che lo so che nella storia è il tuo compleanno. Pazienta un attimo, tesorino»

Sendoh: ^______^

 

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