Contagion

di FreddyOllow
(/viewuser.php?uid=845236)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ti fidi di me? ***
Capitolo 2: *** Apparenze ***
Capitolo 3: *** Per me è un sorta di Hobby ***
Capitolo 4: *** Riprendere il controllo ***
Capitolo 5: *** Dalla stessa parte ***
Capitolo 6: *** Chiamata senza risposta ***
Capitolo 7: *** Dalton ***
Capitolo 8: *** Verso Julien ***
Capitolo 9: *** E' un militare? ***
Capitolo 10: *** Confusione ***
Capitolo 11: *** E' un sogno? ***
Capitolo 12: *** Isolati ***
Capitolo 13: *** L'assedio ***
Capitolo 14: *** Fino alla fine ***
Capitolo 15: *** La quiete dell'anima ***
Capitolo 16: *** Galleria ***
Capitolo 17: *** Il mulino a vento ***
Capitolo 18: *** La strada di casa ***



Capitolo 1
*** Ti fidi di me? ***







"Okay... Ce la possiamo fare."
"Non lo so, Nathan. Hai visto quanti sono... Non credo..."
"Eva, ti fidi di me?"
"Sì."

I due si alzarono dal pavimento dissestato di una casa malridotta. Le bombe non avevano avuto pietà di nessuno. Per qualche miracolo le pareti si mantenevano ancora in piedi. 
Moltitudini di mani battevano, graffiavano, cercando ferocemente di penetrare nel muro per affondare i denti nelle loro carni.

"Saliamo le scale, Eva."
"Cosa vuoi fare?"
Nathan prese le mani tremanti di Eva, guardandola negli occhi.
"Ti chiederò di fare una cosa... Ma tu... tu promettimi che lo farai."
"C-cosa?" il viso di Eva era solcato da lacrime disperate e occhi stanchi da giorni.
"Devi scappare, Eva. Metterti in salvo. Torna da Julien" Nathan abbassò lo sguardo.
"No, no, no, non ti lascio da s-solo, Nathan... N-non me ne andrò s-senza di te!" Eva l'abbracciò singhiozzando e appoggiò la testa sul suo petto. Nathan l'allontanò di poco.
"Okay... Okay..." Nathan la prese per mano.

Salirono i gradini senza curarsi del fatto che il legno scricchiolava sotto i loro piedi e poteva cedere. Poi svoltarono a sinistra, entrando nella seconda stanza. Avevano passato gli ultimi due giorni rinchiusi in casa, assediati dagli sfregiati che, ore dopo ore si erano ammassati attorno all'edificio. Non avevano più una via di fuga, almeno non fino a quel momento. 
Nella stanza c'era una finestra che dava all'esterno. Sotto di esso un vecchio furgone arrugginito.

"Ascoltami, Eva. Ora farai quello che ti ho detto."
"Ma tu mi avevi detto..."
"Devi farlo! Non abbiamo altra scelta"
"N-non voglio farlo... Nathan, io ti amo! Non voglio lasciarti qui! P-per favore, non lasciarmi da sola!" Eva piangeva come una bambina al solo pensiero di abbandonarlo. Non riusciva a immaginare una vita senza di lui. Al solo pensiero gli mancava il fiato.
"Io tornerò, Eva. Tornerò per te! Ma tu devi metterti in salvo! Lo sai che è solo questione di tempo prima che quei cosi entrino. Ti prego, Eva. Fallo per me!"
"Ma... ma tu c-come farai..."
"Io ce la farò, Eva. Sono duro come una roccia!" Nathan sorrise a lei, asciugandogli le lacrime dal viso con le dita.

I gemiti degli sfregiati diventavano sempre più intesi. Un rumore infinito, assordante.
Nathan aprì la finestra e guardò giù. Era un salto di un metro. La carcassa del furgone arrugginito avrebbe retto senza problemi il peso di Eva, ma non il suo. Gli sfregiati non avrebbero avuto il tempo di afferrarla una volta atterrata. 

"Sei pronta?"
Eva lo guardò negli occhi e lo baciò. Fu un bacio inteso, silenzioso, impregnato di speranza e sofferenza. Le labbra ferme ad assaporare forse quell'ultimo mistico e indescrivibile sapore che solo lui aveva. Non era un semplice bacio. Era tutto. D'un tratto udirono un forte rumore dal piano di sotto, succeduto da un altro. Il pavimento tremò un istante. Gli sfregiati erano in casa!

"Vai, Eva. Vai" Nathan la sollevò dai piedi, facendola passare dalla finestra. Fuori dalla stanza il legno delle scale scricchiolava, poi un forte boato! Le scale erano crollate. Gli sfregiati però, non demordevano e si stavano ammassando uno sopra l'altro, nel tentativo di raggiungerli. 
Eva appoggiò i piedi sul tetto inclinato e malandato della casa, scendendo lentamente verso il furgone. Poi si volse verso Nathan "Vattene, Eva. Raggiungi Julien."
"N-non è un addio, v-vero?!" i suoi occhi rossi, disperati. Il colletto della maglietta bagnato dalle lacrime. Guardava Nathan mentre dentro moriva lentamente.
"Vattene, Eva!" Un forte rumore provenne alle spalle di Nathan. La porta era crollata! 
Eva si volse, saltando sul tetto del furgone. Non guardò indietro. Non ebbe il coraggio. Piangeva e singhiozzava disperata, cercando di darsi forza. Alcuni sfregiati la notarono e si scagliarono contro la carcassa del mezzo nel tentativo di afferrarla. Lei sussultò dallo spavento. Poi saltò giù, correndo verso la foresta che la inghiottì.


*************


"Brutti figli di puttana!" Nathan afferrò la sedia di fianco e la lanciò sull'orda di sfregiati che, ammassati sotto l'asse della porta, faticavano a entrare. Colpì in faccia uno di loro che cadde a terra, ma poi si rialzò lentamente, gemendo. 
"Merda!" Nathan si guardò attorno. Uno sfregiato riuscì ad entrare, seguito dagli altri. Aveva solo una possibilità, una scelta. Scavallò la finestra, perse l'equilibrio e quasi non cadde di sotto, ritrovandosi con il sedere sulle mattonelle e i piedi che penzolavano dal tetto. Le suole delle scarpe erano troppo lisce. Doveva fare attenzione. Uno sfregiato uscì con il busto fuori dalla finestra, allungando le mani putride e piene di bolle verso di lui. Altri si ammassarono dietro di quello.
Nathan non poteva saltare sul tettuccio del furgone. Sarebbe rimasto incastrato. Si guardò attorno, mentre lo sfregiato lentamente usciva fuori dalla finestra. Percorse a gattoni due metri, raggiungendo l'estremità del tetto. C'era una grondaia abbastanza robusta da reggere il suo peso, almeno per qualche secondo fin quando sarebbe sceso. 
Lo sfregiato uscì fuori dalla finestra, mettendosi in piedi. Non appena fece un passo, scivolò giù, CRACK! Il rumore fu talmente forte che Nathan rabbrividì. 
Scosse la grondaia con le mani, accertandosi che fosse ben ferma. Uno dopo l'altro gli sfregiati uscirono dalla finestra, scivolando al di sotto. Alcuni non morirono sul colpo e si rialzarono con le ossa delle gambe o delle braccia fuori dalla pelle grigiastra, marciando goffamente e lentamente verso l'uomo. Nathan doveva sbrigarsi. Si aggrappò alla grondaia e scese giù facendosi forza sui piedi e sulle mani per non scivolare. La grondaia cedette!  Cadde di spalle a terra e perse il fiato. Vista sgranata. Udito che andava e veniva. Non riusciva a respirare. Provava una forte fitta al cuore. Li sembrava che i polmoni stessero per implodere da un momento all'altro. Gli sfregiati erano sempre più vicini. CRACK! Uno di loro cadde a terra con l'osso della gamba spaccato in due, poco dopo cominciò a strisciare verso l'uomo, battendo la bocca. Nathan si levò la grondaia di dosso, cercando di ritrovare il respiro. Si alzò facendosi forza con le ginocchia. Lo sfregiato strisciante lo raggiunse, afferrandolo per i jeans di cotone. Nathan cercò di divincolarsi, colpendolo con un calcio sul braccio che si spezzo in due, ma la mano rimase stretta ai Jeans. Rabbrividì per lo schifo. Poi afferrò velocemente ciò che ne rimase dell'avambraccio e lo gettò in faccia a quello che, afferrandolo, affondò i denti masticando la sue stesse carni. 
Nathan sentì qualcosa trasalire dal suo stomaco. Stava per vomitare. 
Una quindicina di sfregiati l'aveva quasi raggiunto. Altri ne cadevano giù dal tetto. 
"Ma quanti cazzo sono?!" si rese conto solo in quell'instante che erano stati circondati per ore da una cinquantina di sfregiati. Forse il fatto che erano riusciti a entrare in casa era stata una manna dal cielo. Eva non sarebbe fuggita se quegli esseri fossero rimasti all'esterno. Nemmeno lui avrebbe avuto nessuna possibilità. L'orda l'avrebbe inghiottiti. Con il fiato corto, si trascinò con i piedi dentro la foresta, mentre l'orda lo inseguiva marciando come un tetro esercito.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Apparenze ***


Nathan corse a perdi fiato senza voltarsi mai indietro. Gli alberi si facevano più fitti e sempre più numerosi. Le foglie offuscavano la luce del sole che filtrava debolmente da alcuni rami. Era autunno, ma l'inverno era alle porte. Si fermò accanto a un tronco, poggiando una mano su di esso. Non ce la faceva più. Il cuore sembrava quasi implodere nel suo petto. I polmoni bruciavano come se stessero prendendo fuoco. "Eva... dove sei..." il suo unico pensiero era rivolto a lei. Immaginava ogni angolatura del suo viso per darsi forza. 
Si voltò indietro, ma tutto taceva. L'infinità di arbusti sparsi nella foresta gli impediva di avere una visione chiara del luogo. Dove si trovava? Quanto aveva corso? Ma l'unica domanda che lo assillava come un pensiero ossessivo era una sola: dov'era Eva?

Prese a camminare, scrutando ogni singolo albero, arbusto o massi di pietra. Forse Eva aveva raggiunto Julien. Forse c'è l'aveva fatta, ma una parte di lui suggeriva tutt'altro. Combatteva con se stesso, contro delle risposte incerte. Una cosa però la sapeva, si era perso. 
Arrivò vicino a uno spazio aperto, pochi alberi, niente arbusti e i raggi solari arrivavano dritti sul terreno. Una striscia di sangue finiva dietro un grosso masso. Una fitta lo colpì al petto. Lo stomaco sembrò contorcersi dentro, mentre camminava attorno ad esso. Il tempo rallentò improvvisamente, vide una scarpa nera, poi le gambe con una tuta sportiva grigiastra. Un uomo di schiena al muro, mentre uno sfregiato riverso in ginocchio su di lui affondava i denti nelle sue interiora con in mano quello che ne rimaneva dello stomaco, intorno a un lago di sangue. Era morto da poco. Vicino alla mano una pistola Colt.45 con alcuni bossoli intorno. D'un tratto l'essere si volse verso Nathan, aggrottando quel che ne rimaneva delle sopracciglia da cui crescevano piccole spore di funghi marroncini. Sopra la testa aveva un grosso fungo biancastro e diversi funghi piccolissimi dello stesso colore tutt'attorno. Ringhiando si alzò in piedi, gettando violentemente le budella per terra e si scaraventò ferocemente addosso a Nathan. Riuscì a scansarsi in tempo prima che lo afferrasse. Quello cadde per terra e si rialzò subito, voltandosi rabbioso verso l'uomo. Nathan si guardò attorno alla ricerca di qualcosa di solido per difendersi. Quest'essere era diverso dagli altri. Poteva correre ed era molto veloce. Prese velocemente un grosso ramo alla sua sinistra, mentre lo sfregiato si diresse a gran velocità verso di lui. Nathan  sferrò una mazzata dall'alto, colpendo la tempia dell'essere che cadde a terra come una statua. Dalla parte della testa sfracellata, uno strano liquido giallastro fuoriuscì dal cervello, riversandosi sul terreno.  

"Cazzo, amico" una voce rauca provenne dietro di lui. Nathan si volse. Un uomo barbuto abbastanza alto e piazzato, indossava un capello di lana nero sulla testa e una camicia a quadretti rossa. In mano una mazza da baseball insanguinata con alcuni chiodi conficcati. "Ci sai fare!" continuò.

Nathan si mise in posizione di difesa, impugnando il ramo con entrambe le mani e lo guardò dritto negli occhi in attesa di una sua mossa.

"Ehi, calma, amico" l'uomo sorrise "Non ho brutte intenzioni"

"Chi sei? Cosa vuoi?" Nathan si guardò attorno nervoso, cercando con gli occhi eventuali sagome nascoste nella vegetazione. Non era mai buon segno incontrare un estraneo.

"Mi chiamo Colbert Dawson. Tu invece?" 

"Nathan... Nathan Clive"

"Sei da solo?"

"Perché lo vuoi sapere?" Nathan era sempre più nervoso.

"Per parlare"

"Ti sembra il posto e il momento adatto per chiacchierare?!"

"Hai ragione, amico. Ma non vedo una persona da tre settimane. Non so nemmeno se tu sia vero o solo una fottuta di allucinazione" Colbert abbassò lo sguardo.

"Quindi sei solo?" Nathan corrugò le sopracciglia, guardandosi freneticamente attorno come se da un momento all'altro si aspettasse di essere assalito, ma non scorgeva nessuno.

"Da un mese o forse più..." Colbert ruotò il viso alla sua sinistra "Ero... ero con mia figlia.. poi..."

Nathan sentì un fitta al cuore e senza rendersene conto abbassò il ramo. Colbert rimase in silenzio, fissando l'erbacce mosse dal vento. 

                                                                              ****************

I due uomini camminavano nella foresta, voltandosi di tanto in tanto per accertarsi che nessun sfregiato sbucasse dal nulla. Ad ogni passo gli alberi diventavano sempre meno, la terra fanghiglia e l'erbacce meno numerose.

"Dove sei diretto?" Colbert si volse sorridendo. 

"Al mio accampamento. Tu invece?" Nathan tralasciò spontaneamente di dirgli che cercava Eva, ma voleva essere ottimista. Voleva credere che ora fosse con Julien, al sicuro.

"Dove mi porta il sole, amico" l'uomo alzò lo sguardo verso il cielo plumbeo.

"Il sole?!"

"Circa due settimane fa, gli sfregiati hanno distrutto il mio ultimo rifugio. Da allora seguo il sole, amico"

Nathan non capì, ma non volle approfondire. Di persone strane già ne conosceva abbastanza nell'accampamento. Il contagio aveva deviato le menti di molte persone "Hai detto che non vedi un uomo da tre settimane, giusto?"

"Si, proprio così, amico. Era un uomo di mezz'età di nome Robert. Ho passato una settimana in casa sua prima di scoprire che era contagiato. Si è trasformato mentre dormivo o almeno mentre ci provavo, visto che non dormo più bene da quando... da quando Lily è morta..." Colbert abbassò per un attimo gli occhi "Comunque, mentre si avvicinava ho sentito i suoi gemiti e l'ho ucciso con questa" L'uomo mostrò la mazza da baseball chiodata "Non ho passato molto tempo con lui, ma è stato l'unico a non avermi sparato o attaccato a vista, oltre te"

"Mi dispiace. Ma come sapevi che fosse infetto? Voglio dire, l'hai ucciso solo perché hai sentito dei gemiti?"

"No, amico. E' stato morso a una gamba mentre lavorava nel suo fienile. Poi gli è salita la febbre e ho dovuto prendermi cura di lui perché non poteva muoversi da letto. Quella notte dormivo sulla poltrona, a due metri circa dal suo capezzale" Colbert si rattristì "...Il resto lo sai... Ma dimmi, c'è molta gente nel tuo accampamento o sei da solo?"

"No, non sono da solo. Siamo in quaranta e ci prendiamo cura l'un l'altro. Conosci la Comunità di Julien?"

"Sì, ne ho sentito parlare, amico, ma non ci sono mai stato. So che avete molte armi, più della Dalton. E' vero che avete un arsenale segreto sotto il vecchio bunker Governativo?!" Colbert parve molto curioso.

"Be' non ti conosco abbastanza per dirti certe cose, e poi, se devo dir la verità mi sono perso. Non so neanche da che parte andare per ritrovare l'accampamento" Nathan si guardò attorno.

Colbert sorrise compiaciuto "Dovremmo essere vicino il lago Morik. Dev'essere oltre quegli alberi" l'uomo indicò la direzione con la mazza chiodata "La comunità di Julien è vicino a New Stone, giusto?"

Nathan si stranì "Come fai a saperlo se non ci sei mai stato?!"

Colbert sorrise. Qualcosa colpì dietro la testa Nathan, che cadde a terra come un sacco di patate. L'ultima cosa che vide fu lo scarpone fangoso di Colbert in faccia.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Per me è un sorta di Hobby ***


Aprì lentamente gli occhi, intravedendo due sagome sgranate davanti a lui che non riuscì a distinguere. Era legato a una sedia. A mala pena poteva muovere i piedi. La testa gli doleva. 

"Nathan, Nathan, Nathan" riconobbe subito al voce compiaciuta di Colbert davanti a sé "Non pensavo fossi così coglione da berti tutta d'un fiato la mia commedia" scoppiò in una grassa risata, mentre un altro uomo era nella penombra, visibile solo dal pantalone grigio. La vista tornò pian piano nitida e poté vedere benissimo la faccia Colbert e quel sorrisetto compiaciuto che Nathan avrebbe fatto a pezzi volentieri "Sono davvero così bravo come attore, Ector?"

L'uomo fece un passo avanti, uscendo dalla penombra. Un tizio con spalle larghe, giubbotto nero fino alle ginocchia ed occhi neri, freddi, inespressivi. "Non rompermi i coglioni, Colbert. Fai parlare 'sto bastardo piuttosto. Non abbiamo tempo da perdere" Ector guardò fisso negli occhi Colbert, che abbassò lo sguardo.

"Nathan, Nathan, Nathan" Intrecciò le dita, scricchiolandole una ad una "Ora mi dirai quante armi avete in quel fottuto Bunker o giuro che ti ammazzo all'istante!" L'uomo fu a qualche centimetro dalla faccia di Nathan.

"S-sei un fottuto b-bastardo..." non riusciva ad articolare bene le parole perché gli doleva la mascella.

Colbert estrasse la .9mm dalla sua cintura, puntandola sulla fronte di Nathan "Senti, non voglio farti male, ma se non parli..."

"Fottiti!" Nathan gli sputò in faccia "M-morirò ugua-almente" la mascella doleva ancor di più.

Colbert si tolse lentamente la saliva con la manica della camicia. Poi  con il calcio della pistola lo colpì sulla tempia, facendogli perdere per un momento i sensi. 

"Ma che cazzo fai!" Ector si avvicinò minaccioso verso Colbert. Nathan vide tutto sfocato e le voci suonarono distorte. "E' già messo male! Non serve a un cazzo da morto! Vedi di farlo parlare o sulla quella sedia ti ritroverai tu!" Ector si volse e sparì nella penombra. 

La stanza era illuminata solamente da una piccola lampadina attaccata al soffitto, ma gli angoli e le pareti erano inghiottite dall'oscurità. Quando Ector uscì, sbattendo la porta dietro di sé, Colbert sferrò un pugno a martello sul tavolo "Fottuto bastardo!" digrignò, smorzando l'insulto con i denti serrati. Poi si volse verso Nathan che lo guardava minaccioso.

"Mettiamo subito in chiaro una cosa; odio perdere tempo usando modi civili, per cui faresti meglio a parlare o sarò costretto a farti a pezzi poco alla volta finché non tirerai le cuoia! E fidati, non sai quanto amo farlo, amico!" sorridendo, si diresse dietro le spalle di Nathan. Ci fu un CLACK! seguito poco dopo da un altro, CLACK! Poi Colbert tornò davanti a Nathan con in mano un martello da carpentiere.

"Allora" picchiettò il martello sulla mano "Quanti armi avete nel Bunker?!"

Nathan lo fissò, aggrottando le sopracciglia.

Colbert, inspirando profondamente per la rabbia, gonfiò il petto, alzò in aria il martello e CRACK! colpì il ginocchio sinistro di Nathan che lanciò uno straziante grido di dolore.

"Ti piace, amico?! Vuoi che continuo? Per me è una sorta di Hobby. L'ho affinato su diversi ginocchi e devo dire ognuno reagisce diversamente" Contemplò il martello da tutte le angolature "Però ahimè... mi hai molto deluso, amico. Avrei scommesso che avresti sopportato il dolore, ma invece..." CRACK! un altro colpo sullo stesso punto. Dal ginocchio in poi, da cui fuoriusciva del sangue, Nathan non riusciva più a sentire la gamba. Urlava a squarciagola, mentre Colbert rideva compiaciuto. Poi voltandosi verso la sua sinistra, posò il martello insanguinato sul tavolo. Dopodiché si piegò sulle ginocchia, curvandosi di fronte a Nathan.

"Fa male vero?! Te lo detto che sono bravo, amico!" Guardò per un attimo l'osso del ginocchio che si intravedeva da sotto la carne, poi lo toccò con l'indice. Nathan lanciò un grido lancinante, mentre cercava di muoversi sulla sedia che aveva le gambe ben fissae sul cemento "WOW! Ho fatto davvero un bel lavoro" Colbert fissò il sangue che aveva sull'indice "Per tua fortuna so dove colpire. Il ginocchio è ancora sano, ma non per molto. Un altro colpo e BAM!" Spalancò gli occhi  "Sarai storpio a vita, amico! E tu sai cosa vuol dire essere storpi in questo mondo di merda, vero?! Vuol dire che quei putridi là fuori ti faranno a pezzi in men che non si dica. Sempre se rivedrai la luce del sole!" Colbert si alzò in piedi, scoppiando a ridere a crepapelle, non riusciva a smettere. Mentre Nathan era come paralizzato dal dolore, non riusciva a parlare e ne a pensare ad altro. Sentiva solo un orrendo e indescrivibile dolore al ginocchio.

Poco dopo Colbert smise di ridere, cercando invano di tornare serio, cosa che gli fu al quanto difficile, ma infine riprese in mano il martello "Nathan, Nathan, Nathan..." si mise a ridere di nuovo, smorzando la risata con la mano insanguinata davanti alla bocca "Scusa, non sono affatto professionale! Per questo non mi dici niente. Mi vedi come un pagliaccio ed hai ragione, amico. Sei seduto su questa sedia proprio perché desideri che io faccia un buon lavoro. Ti prometto che al prossimo colpo manderò in il tuo ginocchio in K.O, ok amico?!" Fece l'occhiolino, annuendo fra sé "Dall'altro canto, sono anche un uomo civile e non soltanto un barbaro. Certo, non sono come quei barbari che vivono a New Town. Sai di chi parlo, vero?! Ma non importa! Mi sto dilungando troppo, amico." Nathan lo ascoltava a tratti, poiché le sue grida comprimevano del tutto le frasi di Colbert, ma quello parlava come se davanti a sé avesse solo un uomo che se ne stava in silenzio per tutto il tempo. 

Colbert picchiettò il martello sulla sua mano per qualche secondo, fissando la penombra dietro le spalle di Nathan. Uno sguardo quasi perso nel vuoto. D'un tratto scosse la testa come se avesse provato un lungo brivido dietro la schiena. Nathan ormai non faceva più caso all'uomo, ma solo al suo ginocchio malconcio che voleva stringere nelle sue mani e che non riusciva a toccare. Desiderava solo quello. Come se stringerlo potesse magicamente fargli diminuire il dolore, ma invece le corde lo tenevano ben stretto sullo schienale della sedia di legno, impedendogli di muoversi.

Quando Nathan alzò lo sguardo, stringendo i denti con la mandibola dolorante, vide Colbert con il martello a mezz'aria, il volto dipinto da un sorriso terrificante e gli occhi dilatati come se volessero schizzare via dalle orbite.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Riprendere il controllo ***


"Che cazzo fai?!" urlò qualcuno alle spalle di Colbert che si volse subito. Era Ector. Forse era entrato di soppiatto ed aveva assistito a tutta la scena. 

"Come che faccio?" Colbert rimase intontito "Cercò di estrarre delle informazioni."

"Non serve più. Il tizio dell'altra stanza ha parlato. Occupati di lui..."

Colbert si volse con un sorriso compiaciuto, alzando in aria il martello e preparandosi per il colpo di grazia.

"Ma che cazzo fai?!" urlò ancora una volta Ector arrabbiato "Devi portarlo alla fossa dei cadaveri. Non voglio un altra stanza che puzza di viscere, idiota del cazzo!"

Colbert abbassò il martello, lanciando uno sguardo minaccioso verso Nathan che, dal dolore quasi aveva perso i sensi.

"Sbrigati a portarcelo. Abbiamo già messo quel che rimane del tizio dentro il furgone" Ector uscì, sbattendo la porta alle sue spalle. Colbert tagliò la corda che legava Nathan, lo prese da sotto un braccio e lo trascinò fuori. L'unica cosa che riusciva a intravedere dai suoi occhi tumefatti, era la striscia di sangue infinità sul pavimento grigio scuro. La seguì con gli occhi senza distaccarsene mai come un quadro bello ma di cui ti sfugge il senso. Poi una guardia apri la porta e fu accecato dalla luce del sole.

C'era un furgone grigio vicino al cancello di ferro arrugginito, circondato da recinzioni modulari malandate e divorate dalla rugine. Due edifici di un solo piano erano a distanza di qualche metro tra loro con due fuoristrada; uno di colore nero e l'altro marrone scuro. Lungo le pareti correvano molteplici crepe. Diverse guardie armate con fucili di caccia e pistole sorvegliavano l'accampamento. C'era un grosso albero ripieno di foglie verdi al centro di in un piazzale non curato.

"Vuoi darti una mossa, Colbert!" urlò Ector. Poi si volse verso l'uomo paffuto vicino al furgone e con la mano gli fece segnò di aiutarlo. Quello si precipitò goffamente verso Colbert, caricarono Nathan dietro al furgone e lo misero a sedere. Infine gli legarono i polsi con uno straccio resistente. Ai suoi piedi c'era una lunga sacca nera con diverse macchie di sangue. Colbert la colpì con due calci per far posto ai suoi piedi e sedersi di fronte a Nathan, mentre l'uomo paffuto chiuse le portiere. Poi si mise alla guida del mezzo con un altro uomo che sedeva al fianco. Infine partirono.

Colbert fissò Nathan, mentre il furgone traballava spostandoli un poco a causa del terreno accidentato. Dal finestrino posteriore la base diventava sempre più piccola, fin quando l'orizzonte fu inghiottito lentamente dai rami dagli alberi.

"Sei fortunato,  amico. Molto fortunato" Colbert indicò con il capo il cadavere nella sacca nera "Almeno non finirai a pezzi come questo povero idiota. Sai, penso che tu conosca questo tizio. Certo, non ha più la testa sulle spalle e diciamo che... che con la sua testa hanno fatto una bella partita a Bowling assieme alle sua gambe. Ma non credo che Steve abbia messo pure la testa nel sacco, mmh... Ah è vero. Gliel'hanno sfracellata. Comunque, credo sia qualcuno del tuo accampamento, magari un tuo carissimo amico, chi lo sa."

Nathan non comprese nulla, oltre a qualche parole confusa e distorta. A stento riusciva a tenere gli occhi aperti, fissando con rabbia Colbert che sorrideva. Udiva solo un rumore costante che fischiava senza sosta nei suoi timpani insanguinati. Poi senza accorgersene, venne risucchiato nei meandri della sua mente. Il volto di Eva che li sorrideva. Gli occhi lucenti e impregnati di luce mistica. La cercava nei suoi ricordi, nel suo passato, lontano dal presente.

Il furgone dondolava da una parte e l'altra, finché non svoltarono a destra, in una strada asfaltata che girava attorno a una montagna. Dalle pendici si intravedeva quel che rimaneva della città di Tolmen. Le bombe avevano distrutto l'80% degli edifici, anche se qualche struttura costruita pochi anni prima, aveva resistito all'onda d'urto dei missili. Perlopiù complessi residenziali e qualche prefabbricato. Un tempo ammirare la città da questa altezza sarebbe stato una gioia per gli occhi, ma la nube grigiastra che sovrastava l'intera città, rendeva il tutto molto spettrale.

"Questo pezzo di merda" Colbert indicò il sacco con il capo "Ci ha creato fin troppo problemi. Io stesso sono stato costretto a vagare in cerca di qualche stronzo da rapire, che poi saresti tu. Non amo le foreste. Non quelle di adesso perlomeno. Troppi pericoli. Troppi guai. Non è saggio addentrarsi lì dentro, nemmeno in pieno giorno. Ma che vuoi farci? Sono stato costretto da questo coglione!" Colbert colpì con il calcio il cadavere. Forse una gamba. Varie parti del corpo erano state messe la dentro a casaccio, di conseguenza non si capiva cosa avesse colpito. "Per mia fortuna non ho trovato niente. Nessuno sfregiato. Nessun corridore o come cazzo si chiamano: quei mostri che sembrano schizzare veloci, quell'ammasso ambulante che ti stava ammazzando quel giorno, ricordi? Comunque, devo dire che sono rimasto impressionato da come hai saputo usare quel tronco. Non è da tutti sapersi difendere da quei cosi. Devi stare attento e colpire al momento giusto, sennò. ZACK! via la gola! Mi capisci, amico? Comunque è un vero peccato che tu faccia parte di quel gruppo di cacasotto! Hai talento. Ma Julien è un coglione lo sanno tutti! Perfino le altre comunità non lo rispettano, ma... Ma avete le armi. Tante armi e la sapete usare bene. E voi figli di puttana non ci date quelle cazzo di armi. Vi abbiamo messo in tavola qualsiasi cosa per avere quelle armi. Ma voi fate i cazzoni! Fate i superiori. Beh, questa volta ve la metteremo nel culo senza vasellina. Non so se mi spiego, amico?" Colbert scoppiò a ridere, per poi tornare serio "Avete rifiutato la nostra alleanza. Il nostro appoggio. Pensate davvero che quei coglioni dei militari e le loro teste d'uovo sulla montagna vi aiuteranno? Vi siete dimenticati di come hanno ridotto Bolset? Una innocua cittadina di agricoltori spazzata via con il gas nervino e lanciafiamme? Ricordi le urla di quelle povere persone mentre si dimenavano nelle fiamme? Oh si, vi siete scordati e come! Julien spera di avere il loro appoggio, che mostrandosi neutrali nei confronti di altre comunità, quelle teste di merda vi notino. Col cazzo! Siete merde! Siete fottuti come tutti gli altri in questa contea di merda! Ma che cazzo ne vuoi sapere tu! E sai che ti dico? Quelle armi ci servivano per spazzare via i militari dalla contea. Quei coglioni ci usano come cavie da quando è scoppiato il Grande Contagio. Gran figli di puttana!" Colbert tirò diversi calci alla sacca, per poi colpire con pugno a martello la parete del furgone.

"Tutto bene la dietro?" l'uomo paffuto fece scorrere la finestrella oscurata che dava dietro il mezzo. Sicuramente non aveva udito niente.

"Pensa a guidare, ciccione!" Colbert gli lanciò uno sguardo inquietante. Se avesse avuto una pistola l'avrebbe sparato dritto in mezzo agli occhi per come la rabbia lo stava divorando da dentro. L'uomo paffuto abbassò lo sguardo e chiuse la finestrella.

Nathan ormai aveva perso i sensi, mentre Colbert inspirò ed espirò profondamente. Voleva calmarsi. Doveva riprendere il controllo di sé o sarebbe successo come quella volta al lago... 

Un piccolo gruppo di superstiti era accampato ai piedi del lago Juntro. Piccole tende di fortuna e al centro un fuocherello da campo con sopra una pentola che bolliva. Cinque bambini giocavano dentro l'acqua non curanti delle radiazioni e nemmeno gli adulti sapevano che l'acqua fosse in realtà veleno. 
L'esploratore raggiunse Colbert alla spalle "Solo tre uomini sono armati".
"Che armi?"
"Pistole" .
"Uccidetegli e fate prigionieri gli altri"
L'esploratore annuì e andò via.
In una frazione di secondi, lampi di luce provenirono dalla foresta crivellando i tre uomini che non fecero in tempo a rispondere al fuoco. I bambini li guardarono impauriti cadere al suolo, mentre gli altri si voltarono tutti terrorizzati. Dalla vegetazione uscirono otto uomini armati tra cui Colbert con le armi puntate avanti a sé.
Una donna provò a fuggire, ma venne raggiunto da un proiettile alla coscia. Cadde a terra dolorante, stringendosi la gamba con le mani. Colbert si avvicinò, mentre la donna lo guardava in lacrime con i suoi occhioni azzurri e la bocca tremante. Non aveva più di vent'anni. Gli sparò in testa! Gli uomini di Colbert circondarono il gruppo.
"Qualcun'altro vuole unirsi a lei?" la voce suonava pacata e tranquilla "Bene. Non c'è bisogno di ulteriore violenza" fece qualche passo davanti a sé, fermandosi vicino ai bambini scalzi nell'acqua. Quelli per la paura erano rimasti paralizzati, mentre con gli occhi cercavano i genitori.
"Uscite fuori dall'acqua e mettetevi in riga" Colbert mosse la sua Beretta, fabbricata in italia. Gliel'aveva data suo padre come regalo di natale dieci anni fa. I bambini sgattaiolarono velocemente fuori dal lago. Ad alcuni tremavano le mani ed altri li scendeva il muco dal naso.. 
"PEZZO DI MERDA" Disse un uomo dietro di Colbert. 
Uno sparo! L'uomo fu centrata da un proiettile alla tempia sinistra.
"Mi state facendo incazzare... Non ve lo dirò di nuovo... O giuro che!" Colbert mirò alla testa del primo bambino alla sua destra. La canna della pistola assaporò la fronte sudata del bambino.
"NO TI PREGO! Non fare male al mio Gary. Il mio bambino! Ti prego!" la donna con i capelli corti scoppiò a piangere, mentre suo marito la strinse a sé, trattenendo le lacrime.
"Ora che ci siamo capiti. Ditemi dove cazzo avete messo le armi che avete rubato?" tuonò Colbert come uno squalo che attende impaziente di gustare la sua preda.
Nessuno rispose.
Colbert guardò in aria, sospirando profondamente. Sparò!
Il bambino cadde al suolo. 
"NOOOO!" la madre urlò a squarcia gola, mentre il padre rimase pietrificato da quanto era successo. La donna corse in lacrime verso il corpicino del figlio, senza mai arrivarci. Colbert gli  sparò due volte al petto, centrando il cuore al secondo colpo. La donna cascò a terra con gli occhi spalancanti verso il figlioletto. Poi Colbert sparò in testa al padre. Tutti erano terrorizzati. I bambini cominciarono a piangere indicando con le braccia la direzione dei propri genitori che a loro volta, con il volto in lacrime, gli intimavano di restare fermi e fare i bravi. 
"Ho perso la pazienza con voi! Ditemi dove CAZZO AVETE MESSO LE ARMI o giuro che ammazzo uno ad uno tutti i ciuccia-latte. Mi avete capito?!"
"N-noi n-non ab-bbiamo armi..." un uomo magro e slanciato si fece avanti con le mani alzate e tremanti, mentre guardava suo figlio "S-solo loro ne a-avevano" poi indicò i corpi dei tre uomini.
Colbert chiuse gli occhi e rimase in silenzio. I pianti dei bambini risuonavano attorno come un coro straziato, mentre l'ansia e la paura divora i genitori.
Colbert aprì gli occhi!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Dalla stessa parte ***


Il furgone si fermò. Colbert aprì la portiera posteriore e saltò giù, scrocchiandosi le ossa della spalla, delle braccia e delle mani. Infine osservò il panorama. Alberi bruciati e neri come la pece, si stagliavano per diversi metri. Una terra arida, sterile e senza vita ricopriva come un manto di morte la zona. C'era una grande fossa di diversi metri nel mezzo. Ammassati uno sopra l'altro un centinaio o forse più di cadaveri in decomposizione. Ad alcuni erano rimaste solo ossa, mentre ad altri i vermi bacchettavano sulle loro carni putrescenti. Tra i corpi c'erano anche bambini. Colbert guardò giù e ci sputò sopra. "Vermi!" poi si volse verso il furgone. L'uomo paffuto, aiutato da un altro uomo, prese Nathan incosciente da sotto le braccia e si diressero verso la fossa.

Uno schiaffo! Nathan aprì gli occhi tumefatti. Il viso compiaciuto di Colbert fu la prima cosa che vide. "Ben svegliato!" si mise a ridere, allargando le braccia e girando su se stesso "Benvenuto in paradiso, Nathan!" rise a crepelle, mentre i due uomini prima si guardarono tra loro e poi risero falsamente "Dio ha un occhio particolare per questo posto. E' un posto speciale, amico! Molto speciale! Qui le povere anime tormentate fanno ritorno nelle braccia del padre. Questa terra è sacra! Guardati attorno, amico. Dio qui ti può vedere." 

Odore di morte e sofferenza impregnava l'aria. Poi Colbert strinse il mento di Nathan con le dita, scrutandogli il viso. "Ho fatto proprio un bel lavoro!" e sorridendo, gli tirò un pugno allo stomaco. "Ti confesso una cosa: questo è il mio posto preferito. Silenzio e odore di morte ovunque. Guarda il terreno." Colbert indicò con il dito la terra "La terra è morta. L'abbiamo violentata, stuprata e sfruttata finché un bel giorno, non abbiamo deciso di ucciderla. Lo so, lo so, dirai che volevamo uccidere altre persone, nazioni, razze e non la terra. Ma devi sapere che la guerra è guerra, amico. Ci vanno tutti di mezzo primo o poi, anche il nostro caro mondo!" scoppiò a ridere, guardando il cielo plumbeo, mentre gli altri due uomini si guardarono entrambi confusi. "Sono un uomo di lunghe vedute, amico. Dove c'è merda io vedo oro, dove c'è oro io vedo merda. Qui vedo solo oro. Tantissimo oro. Dappertutto! E' fantastico, non trovi? Immagina la terra ricoperta di merda. Un infinità di merda ovunque. Solo in quel momento vedremo l'oro, soltanto in quel cazzo di momento capiremo quanto siamo stati tutti dei coglioni! E infine, dalla merda nascerà un uomo che non temerà niente. Nessuno! Sarà un uomo nuovo. Più intelligente! Più consapevole!" urlò al cielo, sferrando un pugno in alto "Solo a pensarci mi eccito, cazzo! Sarà come la fenice che rinasce dalle sue ceneri. E' grandioso!" urlò un altra volta. D'un tratto tornò serio, come se ci fosse un altro al suo posto "Uccidetelo e mettetelo con gli scarti!" si diresse verso il furgone. Era passato dall'euforia, alla serietà più totale in un attimo.

L'uomo paffuto estrasse una Glock dalla fondina e la puntò sulla fronte di Nathan, mentre l'altro uomo lo mise in ginocchio a pochi centimetri dalla fossa. I piedi di Nathan già assaporavano il vuoto dietro di lui. L'uomo paffuto lo guardò negli occhi. Non si capiva bene se stesse sorridendo oppure era serio. Si udì un sibilo nell'aria. L'uomo paffuto cadde a terra con una freccia pianta nella gola. Stringeva le mani attorno al fiotto di sangue che sgorgava fuori, mentre moriva soffocato dal suo stesso sangue. Colbert si voltò di scatto e guardò per un attimo l'uomo paffuto. Poi entrò nel furgone, mentre una freccia colpì il parabrezza. Se non ci fosse stato, il colpo sarebbe andato a segno. L'altro uomo si girò in tutte le direzione e puntò la pistola impaurito. Poi tentò di scappare verso il furgone, ma fu trafitto al petto da una freccia. Cadde da prima sulle ginocchia, e poi stringendo la freccia con le mani, rovinò sul fianco. Colbert mise in moto il furgone, mentre altre frecce colpirono la portella del passeggero e il parabrezza. Una di esse riuscì a penetrare, ma rimase incastrata nel finestrino. Colbert fuggì via a tutto gas, innalzando dal terreno una polvere densa che si propagò tutto attorno, mentre il rombo del motore si fece sempre più distante.

Una silhouette comparve in lontananza tra la polvere, camminando verso di lui. Poi ne apparve una seconda, ma più bassa rispetto la prima. Camminavano decisi verso Nathan, come se sapessero dove fosse. L'uomo trafitto al petto era ancora vivo e ogni tanto gemeva dal dolore, mentre l'uomo paffuto era morto affogato nel suo stesso sangue con gli occhi fissi e spalancati al cielo. La polvere si diradò, rilevando pian piano un uomo con un berretto invernale nero e un piccola visiera sul davanti. Una barba incolta di diversi giorni e un giubbotto nero con la lettera M all'altezza del petto sinistro. Indossava un pantalone di stoffa marrone chiaro. La donna invece, aveva i capelli neri legati con una coda di cavallo intrecciata più volte e un giubbotto dello stesso tipo dell'uomo, solo che sui fianchi cascava largo. Indossava un jeans grigio strappato all'altezza della caviglia sinistra. I due raggiunsero Nathan.

"Ti prego... n-non..." la voce dell'uomo trafitto dalla freccia suonava flebile, quasi impossibile da udire. "Io non... n-non vi ho f-fatto niente..." era terrorizzato, mentre con un mano implorava pietà. La donna si curvo verso di lui, prese il coltello dalla cintura e lo pugnalò sotto il mento. Poi pulì il sangue sui vestiti dell'uomo, rimise il coltello nella cintura e si alzò. Nathan non sapeva che fare. Gli mancavano le forze persino per implorare pietà, anche se forse non sarebbe servito a niente. Li guardò negli occhi per un po'. Aspettava solo l'abbraccio della morte. Era pronto a morire. Non c'è la faceva più. Per quanto era esausto e sofferente non riusciva più a immaginare il viso di Eva. Le sue labbra morbide. I suoi occhi pieni di energia. Le curve del suo sorriso. La sua voce ipnotica. Aveva perso le speranze di ritrovare Eva. Quello che era successo a lui, era capitato quasi certamente anche a lei. Magari era morta per mano degli sfregiati o peggio... La sua mente non riusciva più a pensare. Si rifiutava. Rigettava fuori perfino un immagine. Qualunque immagine. Il cervello voleva solo spegnersi per sempre. La vista si offuscò e le immagini dell'uomo e della donna, diventarono sempre più sbiadite. Tutt'attorno l'oscurità prese lentamente forma, finché l'abisso lo inghiottì definitivamente.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Chiamata senza risposta ***


Suoni confusi serpeggiavano da una parte all'altra. Frasi incomprensibili. Rumori di scarponi su pavimenti cigolanti. Nathan aprì lentamente gli occhi sgranati. Le sue dita toccarono il tessuto morbido del lenzuolo. Fu come accarezzare qualcosa di sconosciuto, qualcosa che aveva quasi dimenticato. Era liscio, morbido e profumava di fiori. Fece un grosso sospiro, impregnando i polmoni come se quel odore potesse rigenerare ogni ferita e riportarlo al suo vecchio mondo, fatti di grattacieli, macchine di lusso, parchi rigogliosi e il sole che baciava la sua pelle come un dolce amante. Ma quando aprì gli occhi del tutto, quel miraggio svanì, disperdendosi tra le mure di un legno annerito, marcio in quel mondo che di reale aveva ben poco.
 

Rimase seduto sul letto, accarezzando con le dita un altra volta il lenzuolo, con la vana speranza di finire catapultato nel suo vecchio mondo, il suo mondo, ma non funzionò. La testa gli doleva come se all'interno fosse in atto un continuo bombardamento. Poi si toccò i capelli con le mani, spalancando gli occhi di colpo. Non aveva più i capelli. Iniziò freneticamente a toccarsi il capo. Il cuore palpitava più forte. D'un tratto qualcuno entrò da una porta malmessa, ma che era stava riparata più volte in varie parti.

"Ti sei svegliato" disse l'uomo con folti baffi e pizzetto nero. Un viso squadrato, serio. Indossava un giaccone marrone scuro con un cappello borsalino grigiastro. Una cinta raffigurante un aquila sui jeans grigi che finivano su degli stivali eleganti neri sporchi di terra. 
Nathan si girò verso l'uomo. I due si fissarono per qualche secondo.

"Scusa per i capelli, ma abbiamo dovuto rasarti. Non era bello quello che si era creato sulla superficie, oltre alle varie ferite.  Comunque, penso di averti già visto da qualche parte" l'uomo prese una sedia vicino a quel che rimaneva di una antica scrivania di legno e la posizionò di fronte a Nathan. Poi si sedette con lo schienale rivolto verso di sé, accarezzandosi il pizzetto e serrando gli occhi pensieroso. "Sì... tu devi essere quel tale che andava sempre con Julien... certo, conciato così non è facile riconoscerti. Che ti è successo?"

Nathan rimase per un momento in silenzio. "Tu chi sei..? Dove sono?"

 

"Patrick Norton. Sono il capo di Dalton." allargò le braccia indicando qualcosa fuori dalle mura della stanza fatiscente.

"No... lui non è come te."

"Mi sono fatto crescere i baffi, vedi? Ho un nuovo look. Ti piace? Molti me lo invidiano devo dire, ma hey, anche se la fuori si vive come tra i porci, io ci tengo al mio aspetto." Patrick fece un sorriso malizioso e fiero, lisciandosi i baffi.

"Mmmh... comunque io sono Nathan."

"Allora, rispondi alla mia domanda?"

"Che domanda?"

"Che ti è successo?" indicò la faccia di Nathan.

"E' una lunga storia."

"Mi piacciono le storie." Patrick sorrise, accarezzandosi i baffi.

Nathan raccontò la sua disavventura, di come aveva perso di vista Eva, di Colbert, Ector e del loro obiettivo per impossessarsi delle armi di Julien. Forse sbagliava a raccontare nel dettaglio tutto quello che gli era capitato, ma dentro sentiva un forte bisogno di sfogarsi, di liberarsi del peso tossico che aveva subito e sopportato, ma sapeva anche in cuor suo di aver dato troppo informazioni a Patrick, sopratutto sul fatto delle armi. 

"Wooo... gran brutto affare... A chi appartengono?" Il viso di Patrick si oscurò.

"Chi?" Nathan per un momento si pentì di aver parlato della armi.

"Ector e Colbert. A quale gruppo appartengono?" 

Nathan fece un sospiro di sollievo dentro di sé. "Non lo so... credo siano sciacalli..."

"Sciacalli..?" Patrick aggrottò le sopracciglia "No... non può essere... quelli se ne stanno comodi nel porcaio di New Town. Non hanno mai mostrato queste intenzioni." 

"Potrebbero..."

Patrick rimase in silenzio con gli occhi rivolti verso il pavimento di legno marcio, battendo freneticamente le dita sullo schienale della sedia. "No, no, non sono loro. Né sono sicuro. Non hanno motivi per farlo. Stanno bene dove stanno e tutti noi sappiamo che se la passano meglio di noi. E anche troppo."

"Sono in guerra con i Solitari, non credo se la passino bene, non credi? Le armi si rompono e le munizioni finiscono."

"Okay, su questo sono d'accordo, ma per il resto no. Forse sono i Blawr."

"Può essere..."

"...Devo tenere gli occhi aperti e le orecchie ben tese... Se vogliono Julien, dopo vorranno anche me. Le armi sono una scusa. Un motivo per attaccare, lo so." Patrick strinse con forza lo schienale della sedia. "Riguardo le armi." l'uomo lo fisso negli occhi severo "Suppongo sia vera la storia delle armi? Ne avevo sentito parlare."

"Non so molto a dir la verità."

"Non c'è motivo di mentirmi, Nathan."

"Non sto mentendo."

Patrick lo scrutò per qualche istante, poi si alzò di scatto dalla sedia. "Va bene, Nathan. Non insisto, ma devi sapere che quando un tuo vicino trova magicamente delle grosse armi, potrebbe avere strane idee in testa, mi capisci no? Devo salvaguardare la mia comunità."

"Pensi che Julien potrebbe avere cattive intenzioni?" Nathan si pentì di aver fatto quella domanda.

"In questa vita non si è mai certi di niente. Ti saresti mai aspettato di ritrovati in un mondo del genere? Che saremmo quasi arrivati all'estinzione? Che nuovi orrori sarebbero risorti dalle ceneri del vecchio mondo per ucciderci? Pensaci. Nella vita non si è mai certi di qualcosa... mai."

L'oscurità che aveva inghiottito il volto di Patrick era scomparso, lasciando un volto duro, triste e carico di rabbia. Nei suoi occhi ardeva un fuoco antico, un fuoco che una volta accesso, non si sarebbe spento facilmente, proprio come l'antico fuoco greco che domava le battaglie navali di un epoca ormai troppo lontana, quasi fantastica per alcuni versi. Nathan dall'altro canto lottava con i suoi demoni interiori. La paura di non vedere mai più Eva, di scoprire che fosse morta da qualche parte e il suo corpo divorato da qualche abominio, mentre lui era vivo e vegeto tra quattro mura putrescenti, anneriti da missili di cui le origini erano un mistero. Una guerra che strappò l'umanità dal grembo della propria madre terra, distruggendo ogni forma di civiltà che, pur piccola, sopravvisse dando luce a una catena di morte senza fine. Gli uomini non smetteranno mai di ammazzarsi, in un modo o nell'altro, troveranno una scusa per farlo. 

Nathan aveva un ricordo ben nitido della sua infanzia, della sua voglia di scoprire il mondo, esplorarlo, conoscerlo in ogni suo aspetto. Ricordava il sorriso di suo padre mentre lo stringeva a sé, delle sue parole di conforto, del suo esserci anche se gli impegni lo portavano spesso fuori città per lavoro, del suo profumo di dopobarba che gli impregnava la pelle, delle sue camice bianche, del suo aspetto un po' serio e un po' giocoso, di quelle telefonate interminabili la sera, del sapere ogni minimo dettaglio anche piccolo che sia, pur di far sentire la sua presenza, il suo partecipare, il suo esserci sempre, finché un giorno quel telefono non squillo più. L'agonia, l'attesa, un infinito vuoto che lo riempì lentamente, divorando ogni aspettativa, bellezza, ogni sentimento felice, fissando quel telefono con la speranza di sentire ancora una volta la sua voce, di essere rassicurato, di sentirsi al sicuro, amato, voluto, compreso, ma c'era solo silenzio. Quel telefono che poco prima era solo un oggetto, era diventato tutto il suo mondo, una reliquia di un valore inestimabile. I giorni passarono, sperando che da un momento all'altro squillasse e tutto sarebbe finito, ma ancora una volta c'era un insopportabile silenzio che lo avvolgeva trascinandolo nelle viscere degli abissi. Ogni tanto credeva che il cellulare suonasse e ci si fiondava a gran velocità scoprendo che era solo frutto della la sua immaginazione. Ogni sera se ne restava fermo nel suo letto fissando fino al mattino quel telefono di cui ora conosceva perfettamente ogni angolatura. Poi un giorno squillò. Era una fredda e ventosa giornata autunnale, là fuori le foglie cadevano danzando un valzer mortale, mentre all'orizzonte un cielo torvo come un esercito irrequieto in attesa di un segnale minacciava il suo spietato attacco. "Papa!" ricordava ancora quella magica parola impregnata di una sconfinata gioia che rinvigorì il suo cuore prima che si frantumasse definitivamente, assieme a quella antica reliquia che aveva custodito fino a quel momento. "Sono l'agente Gary Newman, la chiamo per avvertile che abbiamo trovato un corpo in un condotto abbandonato. Abbiamo chiamato l'ultimo numero che la vittima aveva digitato... Mi sente? riuscite a sentirmi? Pronto?"

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Dalton ***


"Come ve la passate qui?" domandò Nathan, scrollandosi dalla mente i brutti ricordi del passato.

"Non ci lamentiamo, ma sai meglio di me che è una questione di tempo prima che le cose vadano in malora"

"Che vuoi dire?"

"Blawr. Come ben sai due anni fa hanno distrutto quel che rimane del piccolo villaggio a sud di Julien. Certo, non posso provare che siano stati loro, ma chi altri sennò?" 

"Per questo mi hai detto che sono loro a volere le armi?" Nathan serrò gli occhi.

"Esatto. Nessuno si è mai mostrato così aggressivo, se non di rado gli sciacalli, ma quelli non ha interessi da queste parti." Colbert tornò a sedersi con le spalle allo schienale, divaricando leggermente le gambe.

"Ti sei scordata un particolare" disse Nathan, attirando l'attenzione di Patrick "I militari ingaggiano spesso i Blawr per lavori sporchi. Forse ci sono loro dietro la distruzione del villaggio, non credi?"

Patrick rimase in silenzio per un po', fissando il pavimento. "In effetti potrebbero essere collegati, ma a quale scopo? Perché i militari hanno distrutto il villaggio?"

"Beh, non lo so, ma sai meglio di me che ogni tanto si mettono a fare cose molto strane nella regione..."

"Bonifiche del territorio?" domandò Patrick confuso. Non riusciva a capire cosa volesse dire Nathan.

"Non sono bonifiche, ma altro..."

"Altro?" Patrick era molto perplesso.

"I Militari hanno piani molto precisi. Guarda come tengono sotto scacco Port Lock, città portuale e ultimo baluardo di una civiltà ormai distrutta"

"Port Lock è neutrale. Impossibile." Patrick scosse la testa.

"No. I militari non si fanno mai vedere da quelle parti, se non per prendere le loro provviste, e di certo non pagano il consigliere John Storm. Quello che voglio dire è che stanno ripulendo tutta la zona attorno alla città per fare qualcosa..."

"Il consigliere John e i militari hanno un accordo. Tutti lo sanno. In cambio delle provviste, i militari si impegnano a tener lontano gli sfregiati"

"Puttanate. Stanno pianificando qualcosa, qualcosa che secondo me, spazzerà via tutti gli avamposti... compresi i nostri"

"Stai parlando di..."

"Di sterminio!"

Patrick rimase in silenzio, si sentiva uno stupido a non averlo pensato prima. Il fatto che glielo avesse detto Nathan, un uomo che non faceva parte del suo gruppo, lo infastidì un poco. Sapeva che la sua testardaggine poteva creare problemi alla sua gente ma, dall'altra parte, aveva pieno potere decisionale. Non aveva bisogno di altri pareri, non chiedeva mai consigli o aiuti, se la sbrigava sempre da solo. Si definiva un dittatore buono, anche se non esistono dittatori buoni e lui lo sapeva. Dalton era diversa dalla comunità di Julien, diversa in ogni aspetto, anche se pur piccolo, faceva la differenza. Nato come un gruppo di persone malnutrite e armate fino ai denti, non avevano mai avuto intenzioni malevoli verso gli altri ma, gli scontri con gli sfregiati, avevano dimezzato la popolazione. La miniera abbandonata, poco lontano dall'attuale accampamento, aveva visto la più grande carneficina di sempre, almeno secondo loro. Intere famiglie furono massacrate mentre centinaia di sfregiati venivano giù dall'entrata principale come una cascata. Nessuno seppe mai come fecero a trovarli, poiché la miniera era isolata e nessuno, neanche gli sfregiati, vagavano in quella terra arida e rocciosa, con grandi valli e burroni. Patrick fu l'unico a trovare una via di fuga, seguito da una cinquantina di superstiti. E fu sempre lui a chiudere la botola, vedendo l'orda di sfregiati accanirsi sulle persone, strappando le carni dai corpi martoriati, urlando aiuto e gridando dal dolore. La montagna di gente in fuga, ammassata verso le strettoie, inghiottiva i bambini e i vecchi sotto il peso dei luridi scarponi come un travolgente tsunami. Patrick ricordava ancora quell'ultimo sguardo della donna terrorizzata che porse a lui il suo bambino di qualche mese, implorandolo di salvarlo, ma Patrick si volse e chiuse la botola, sentendo i gemiti gutturali degli sfregiati in arrivo. Lo straziante grido di dolore della donna echeggia ancora suoi sogni e il CRACK delle ossicine che si rompono lo tormentano, assieme ai gemiti degli sfregiati, carni strappate, ossa rotte, grida, lamenti e pianti di bambini che poco dopo vengono inghiotti dai gemiti. Ma era un prezzo che doveva pagare, un prezzo per salvare ciò che rimaneva delle novanta persone che vivevano nascosti nei cunicoli. Fu allora che venne nominato capo a vita, il loro salvatore, la persona da cui tutti dipendevano, ma solo lui sapeva cosa aveva fatto. Poi, la fortuna o caso, rinforzò la sua posizione, poiché sbucando da quella uscita, si ritrovarono dentro a una piccola centrale elettrica, protetta da una spessa recinzioni in ferro. Dentro il grande edificio cementato trovarono un corpo senza vita con in pugno una Glock e nell'altra una foto di famiglia: una donna e due bambini, una femmina e uno maschietto, all'altezza del petto una targhetta col nome Dalton. Patrick scelse quel nome per la comunità come se quel cadavere in putrefazione e semi-scheletrico, avesse guidato i suoi passi verso l'uscita, che trovò fortuitamente. Erano passati vent'anni, vent'anni da quel orrore che tutti ricordano come fosse accaduto ieri, e dove un tempo c'era la botola, oggi sorge un monumento spartano con i nomi dei morti scritti sulle pietre ammassate in ricordo del tragico evento.

"Patrick?!" disse Nathan stranito dal comportamento di Patrick che era rimasto in silenzio e con gli occhi fissi nel vuoto. 

"Ah.. sì... stavo pensando, scusami..." Patrick sbatté le palpebre. 

"A cosa?"

"Allora, visto come stanno le cose" Patrick cambiò discorso "Devi avvertire Julien"

"Sì... ma prima voglio saper una cosa: perché eravate alla fossa?" Nathan aggrottò le sopracciglia.

"I miei uomini erano, e sono in perlustrazione tutt'ora. Voglio essere sicuro di avere le spalle coperte, di essere pronto a un eventuale minaccia, ma sai già come la penso."

"Uhmm... Oltre me, avete per caso incontrato una donna?" Nathan sperò per un istante.

"No, perché?" Patrick era curioso.

"La cerco da quando ci siamo persi. Si chiama Eva. E' la mia ragazza"

"Mi dispiace, ma..." Patrick scosse la testa.

"Non dirlo." Nathan abbassò gli occhi.

Dopo qualche minuto uscirono dalla casetta in cui era stato curato. Dalton si presentava ben difesa con degli uomini armati sulle palizzate di legno che sorvegliano la zona, un mare d'erba nero con qualche sporadico albero morto sparso qua e là e diversi avvallamenti e zone accidentate. Dentro le mura, c'erano una decina di casette in legno con al centro un grande edificio cementato circondato da una recinzione in ferro arrugginito che in certe punti erano danneggiati, e sul terrazzo si trovava un antenna ricurva da un lato, totalmente annerita. C'era un bel po' di via vai di gente che parlava, camminava e faceva del baratto al mercatino attorno a un albero morto i cui rami grigi si stagliavano senza vita in cielo. Qualche persona guardava di sottecchi Nathan, essendo un viso nuovo. La gente di Dalton era molto diffidente verso gli stranieri e preferiva l'isolamento dal mondo. Svoltando l'angolo di una casetta, messa su con legno e cianfrusaglie varie, vide una coltivazione circondata da una staccionata di legno.

"Riuscite a coltivare?" Nathan era sorpreso. Nel posto da cui veniva nessuno era in grado coltivare qualcosa. Ci avevano provato, ma il terreno era troppo arido per far germogliare una pianta, un frutto, qualsiasi cosa che potesse dare cibo, oltre una piccola speranza di rivedere quel verde ormai vivo solo nei ricordi.

"Sì, ma serve molto acqua e tanta pazienza" 

"Cosa coltivate?" 

"Ortaggi, patate e pomodori, ma la maggior parte del raccolto muore. Senza il calore del sole le piante hanno difficoltà a crescere."

"Mi spiace, ma da dove prendete i semi?"

"Li troviamo in giro"

Nathan fu assai sorpreso di sapere che qui, in un qualche modo, riuscivano a coltivare qualcosa. Il terreno non era così arido come da Julien, anche se a prima vista, la terra era uguale o semplicemente non era contaminata, forse c'era qualcosa sotto terra, ma i forse non gli erano mai piaciuti.

Seguirono una stradina sterrata che portava al centro dell'accampamento con un piccolo vialetto in cemento e due panchine scassate. C'era un uomo ricurvo che caricava la legna in delle casse poco distanti da un furgone tappezzato da lastre di ferro arrugginito, sui di esso era disegnata il volto di un aquila reale che guardava a destra; Lo stemma di Dalton. 
Sorpassarono il vialetto e si diressero dentro una capanna di legno annerito. Al centro, c'era un tavolo con sopra una mappa, una lampada ad olio e  quattro sedie di legno attorno.

"Vieni. Avvicinati" Dalton mise le mani sul tavolo, guardando fissa la mappa "Lo vedi questo punto" indicò con il dito "E' qui che ho visto per l'ultima volta i militari"

"Né sei sicuro?" Nathan era perplesso "Non si spingono mai verso la foresta nera."

"Sono entrati dentro, ma non sappiamo cosa hanno fatto"

"C'è un bunker nella foresta nera. Forse sono andati là"

"Non so, ma sono tornati dopo tre ore"

"Allora erano nel bunker"

"Come lo sai?" Patrick sapeva dell'esistenza di un bunker governativo nella foresta nera, ma non ci aveva mai dato peso. Pensava fossero solo voci. 

"La foresta nera è un luogo pericoloso, radiazioni, mutanti... Girare a zonzo in quel luogo è un suicidio. Tre ore poi, sono troppi perfino per i militari. Hanno scoperto il Bunker e lo usano per qualche scopo" Improvvisamente Nathan ebbe un fitta alla testa e socchiuse gli occhi per il dolore.

"Tutto bene?"

"Sì..." Nathan massaggiò la fronte con i polpastrelli delle mani " Dicevo... I militari hanno scoperto il Bunker e lo usano per qualche scopo"

"Ma non sappiamo se sia vero"

"Però una cosa la sappiamo; i militari fanno qualcosa in quella foresta"

La foresta nera era un luogo spettrale. Le radici degli alberi morti crescevano intrecciandosi tra loro come un enorme muro impenetrabile e le foglie creavano una cupola che impediva a qualsiasi luce di penetrare. Era un luogo oscuro, tetro, un posto perfetto per i mutanti e gli sfregiati. Più ci si addentrava dentro, più l'ossigeno veniva a mancare. In certi punti le radiazioni erano talmente letali da uccidere in un nanosecondo. Verso sud-ovest, c'era una piccola porzione di terreno paludoso che bagnava un piccolo villaggio di pescatori, questi stagni contenevano le più elevate concentrazioni di radiazioni mai riscontrate prima d'ora. Si vociferava anche, che gli stagni erano pieni zeppi di cadaveri. Un aereo che trasportava dei nocivi agenti biologici era precipitato in quelle acque, creando una melma verdastra che ribolliva di radioattività. Ci sono molte storie sulla foresta nera, ma quasi tutte fanno capolinea ad un punto: la radioattività. In passato molti intrepidi avventurieri si erano addentrati in quella foresta: Militari, sciacalli, solitari, persino uno sparuto gruppetto di Port Lock aveva tentato l'impresa, senza far più ritorno. Letali creature si celavano nelle profondità della foresta, alcune persino mostruose: Ragni, vermi e insetti giganti abitavano e regnavano su quella terra desolata. Solo una volta tre uomini di Dalton videro uscire dai confini della foresta un enorme scarafaggio altro tre metri che inseguiva un lombrico delle stesse dimensioni, ma vedendo i tre uomini a qualche metro da loro, cambiarono direzione e si diressero con foga verso di loro. Rimasero impietriti davanti a uno spettacolo così orrendo, soprattutto quando i due insetti iniziarono a bruciare vivi senza motivo. La pelle improvvisamente prese fuoco come se qualcuno avesse versato una tanica di benzina e appiccato il fuoco. Bruciarono così vigorosamente che gli uomini pensarono a un atto divino, come se Dio li avesse uccisi per proteggerli. Più tardi però, quando tornarono all'accampamento e spiegarono quanto fosse successo, dedussero che era opera del sole. Ci fu un grande dibattito e alcuni credevano che ci fosse la mano di Dio, ma alla fine si capacitarono che i raggi del sole, anche se oscurati da nuvole plumbee, avevano infiammato la pelle di quei abomini, abbrustolendoli. Erano creature abituate all'oscurità della foresta e sensibili a ogni forma di luce, che sia una torcia elettrica o un banale fuoco. 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Verso Julien ***


"Credo sia ora di muoverci" disse Patrick, voltandosi verso Nathan.

"Muoverci?" rispose l'uomo confuso "per dove?".

"Al tuo accampamento. Dobbiamo parlare con Julien. Se le cose stanno come abbiamo detto, beh... sarà meglio muoverci".

"Vuoi mobilitare un esercito?"

"Non abbiamo un esercito e non possiamo affrontare i militari a viso aperto. Dobbiamo radunare le forze e pianificare... qualcosa, insomma".

"Beh non ti vedo molto convinto".

"Tu lo saresti al posto mio?".

Nathan rimase in silenzio.

****** 

Nathan passò il resto della giornata a scrutare visi diffidenti e il raccolto di verdure che stava lentamente crescendo. Per qualche secondo fu come risucchiato nella sua vecchia vita, il suo vecchio mondo. Non aveva mai notato quanta bellezza ci fosse in una pianta, in un colore. 
Aveva da tutta la vita ignorato le piccole cose, concentrandosi perlopiù su cose futili: la sua auto, i suoi vestiti firmati, profumi e tanto altro, cose del tutto inutili adesso. Il vedere la terra fertile, bagnata dall'acqua purificata dentro un bollitore da tè o qualche arnese simile, lo riempiva di gioia e speranza. Patrick, prima di congedarsi da Nathan e tornare alle questioni del suo accampamento, gli aveva dato una mela verde: liscia, profumata e invitante. La contemplò per qualche secondo o forse minuti, e fu restio a mangiarla, poiché voleva conservarla, come se la mela potesse essere eterna e mai marcire. Un frutto che irradia speranza, cambiamento e futuro. Un debole vento soffiava da ovest, quando arrivò vicino alla sua stanza. Una piccola baracca meno grande dalla stanza in cui era stato medicato. Un letto comodo con un leggero lenzuolo, un comodino e una sedia di legno. Il pavimento era pulito e il soffitto aveva conosciuto giorni migliori. La fioca luce che fuoriusciva dalla piccola lampada illuminava parzialmente la stanza, lasciando al buio un piccolo angolo in cui c'era un attaccapanni vuoto. Alla sua sinistra una piccola finestrella tappezzata alla meglio con delle assi di legno che impediva al calore di disperdersi, anche se quella finestra era stato parzialmente sigillata molto prima dell'arrivo dei Patrick e il suo gruppo. Nathan si stese sul letto fissando il soffitto oscurato. Un silenzio assordante penetrò fin dentro la testa, risucchiandolo con sé. Poi il viso di Eva fu scaraventato nei suoi pensieri, confusi tra facce di sfregiati e corpi dilaniati. Un intensa nube nera si stagliava all'orizzonte tra scheletri di tetri edifici spogli e dimenticati. Le finestre, perse nell'oscurità, sembravano occhi vigili pronti a risucchiare gli incauti viaggiatori. Le strade, percorse da profonde spaccature perse tra confini ignoti, inghiottivano il mondo nelle sue viscere. In lontananza cinque missili cadevano giù dal cielo, lasciando dietro di sé una scia che rapiva gli sguardi terrorizzati della gente. BOOM! La terra trema inerme sotto il peso della morte e l'accecante bagliore che si innalza in aria a mo' di fungo. L'onda invisibile spazza e polverizza tutto quello che incontra senza pietà. Il boato risuona orgoglioso per miglia nel cielo che osserva la fine, e l'inizio di una nuova era in cui l'uomo non è più il benvenuto, ma solo una razza che non ha saputo evolversi ma regredire nell'avidità, egoismo e indifferenza. Eva corre con le lacrime agli occhi verso di lui che non riesce a muoversi, mentre l'onda la polverizza lentamente, come se il tempo si fosse improvvisamente rallentato, allungandole l'agonia. L'esile mano cerca di raggiungere il viso di lui e le gambe si polverizzano nell'aria. I suoi occhi spenti e infossati cercano lo sguardo di Nathan, prima di perdersi tra cenere e vento. 

******

Nathan si svegliò spaventato da un forte rombo e si mise a sedere sul letto. La polvere danzava leggera unendosi con le flebili luci che penetravano dalle fessure della finestra. Prima di alzarsi, fece un respiro profondo e poi guardò fuori dalla finestra, attraverso le assi di legno. Patrick era accanto a un fuoristrada grigio graffiato e tamponato in vari punti. Due persone, una donna e un uomo, erano vicino a lui e discutevano. Nathan prese il suo zaino dai piedi del letto e lo mise in spalla, poi uscì. Le nuvole plumbee si stagliavano fisse in cielo, ma del sole non c'era alcuna traccia, se non qualche debolissimo e sporadico raggio qua e la. La gente aveva cominciato la sua giornata, affollando il viale di cemento da cui fuoriuscivano piccole erbacce dal pavimento. Nathan non guardò nessuno in faccia e camminò dritto davanti a sé, tra gli sguardi circospetti.

"Ehi Nathan" sorrise Patrick. Gli altri due lo guardarono impassibili, limitandosi a scrutarlo.

"Volevate partire senza di me?" domandò Nathan ironico.

"Non avrebbe senso" rispose Patrick, non capendo l'ironia "comunque, ti presento i miei due migliori uomini. Lui è Hellis" indicò l'uomo alto con spalle larghe e una barba folta che si allungava sotto il mento. Indossava un berretto di lana nero e un lungo e vecchio cappotto marrone scuro. Nei suoi occhi neri non traspariva nessuna emozione. "Lei invece è Cassandra" indicò la donna un poco minuta e i capelli neri intrecciati dietro la nuca. Indossava un maglione grigio scuro sbiadito e un jeans aderente strappato sotto le ginocchia. "Sono stati loro a salvarti".

Nathan rimase in silenzio per un secondo, mentre i due lo guardavano. "Grazie... " disse infine imbarazzato, abbassando lo sguardo.

Cassandra fece spallucce mentre Hellis rimase impassibile. 

"Hellis hai preso le armi?" domandò Patrick.

"Sono nel baule".

"Hai preso le scorte, Cassandra?" chiese Patrick, voltandosi verso la donna.

"Ci sono".

"A che ci servono le scorte?" domandò Nathan confuso.

"Una volta che avremo avvisato Julien, dovremmo agire" disse Patrick "dobbiamo prepararci ad allentare la presa dei militari sulla nostra zona. E questo ci costerà un bel po' di tempo".

"Forse dovremmo parlarne meglio con Julien" rispose Nathan "non credo che abbiamo le risorse necessarie per logorare i militari".

"Io farò cosi" sottolineò Patrick, guardando Cassandra e Hellis "e loro faranno altrettanto. Non ce ne staremo con le mani in mano mentre quei bastardi preparano chissà cosa alle nostre spalle".

Nathan, Patrick, Hellis e Cassandra salirono a bordo del fuoristrada. Nathan e Cassandra si sedettero dietro, mentre Hellis alla guida e Patrick al posto del passeggero. Il motore si accese ed emise un forte rombo. Poi lentamente il fuoristrada si diresse verso i cancelli, mentre le ruote scricchiolavano sul terriccio. Due guardie armate aprirono il portone rattoppato con ferro arrugginito e legna. Il cancello fece un rumore stridulo e il suono diventò pian piano più forte mentre si apriva. Hellis fece fermare il fuoristrada vicino a una delle guardie che si curvò verso Patrick.

"Sarò qui tra tre giorni" aggiunse Patrick "nel frattempo avvisa Jink che ho cambiamento idea. Il perimetro sarà di cinque chilometri, non due". 

La guardia armata annuì e indietreggiò un poco. Il fuoristrada ripartì, ondeggiando da una parte e l'altra per via delle piccole fosse nel terreno. Nathan buttò lo sguardo fuori dal finestrino. La stradina era stretta e angusta, con varie piante marroncine o quasi nere che sbucavano ai lati, con tronchi d'albero deformati e ingrossati. Foglie nere ricoprivano e oscuravano come un manto l'interno del bosco. Non c'era più vita nelle piante, ma solo... morte. A bordo c'era un totale silenzio che per un momento Nathan pensò che nessuno stesse respirando. Guardavano tutti davanti a sé, persino Cassandra che era seduta dietro sembrava fissare il sedile di fronte. Fu così per mezz'ora, poi Patrick si voltò indietro verso Nathan.

"Nathan" disse "Forse non sono affari miei, ma come ti hanno catturato i Brawlr?"

"Beh..." rispose Nathan, cercando di trovare le parole adatte, essendo un poco imbarazzato "Partirò dal principio..."

Nathan raccontò l'assedio degli sfregiati, la fuga dalla casa e la disperazione di aver perso Eva nella foresta: Poi il misterioso estraneo Colbert, il suo inganno, la tortura, le armi e infine il miracolo di essere scampato a morte certa.

"Mphf... direi che te la sei proprio spassata ultimamente" disse Patrick con sarcasmo "d'altra parte, qualcun'altro direbbe che sei duro a morire".

"Dipende da che prospettiva guardi le cose" commentò Cassandra, attirando l'attenzione di Nathan che non immaginava una sua risposta.

"Giusto" rispose Patrick "ma non ho capito perché eri in quella casa?".

"Io e Eva..." disse Nathan con un nodo in gola e abbassando lo sguardo "Eravamo in avanscoperta".

"Avanscoperta?" domandò Patrick confuso.

"Sì..." rispose Nathan, sospirando "Stavamo cercando il nostro amico Terry che era scomparso quattro giorni prima. L'ultima volta che abbiamo avuto suo notizie era nei pressi di quella casa abbandonata che, di volta in volta, usavamo come avamposto temporaneo" il fuoristrada ondeggiò diverse volte e Nathan si interruppe, per poi riprendere "Aveva scoperto un accampamento di una dozzina di persone che vivevano vicino al fiume..."

"Fiume Andry?" domandò Patrick.

"Sì... come lo sai..?" rispose Nathan stranito.

"Sono tutti morti" disse Hellis pacato, continuando a guidare.

"Cosa?" Come..." aggiunse Nathan sorpreso sia per la risposta sia perché Hellis aveva parlato.

"Lascia che ti spieghi" disse Patrick "Per prima cosa è davvero una fortuna che non vi hanno visti, ma non posso dire altrettanto di Terry... cioè, solo ora ho scoperto che era un vostro amico".

"Era?" domandò Nathan confuso "come sai che era lui? Cosa è successo? E' morto?".

"Beh..." rispose Patrick "Terry aveva cercato di contattare questo gruppo, e non sapeva che noi tenevamo d'occhio sia lui che l'altro gruppo, anche se il tuo amico non sembrava una minaccia.  Comunque, fu assalito la prima volta e riuscì a fuggire grazie al nostro aiuto".

"Al vostro aiuto?" Nathan era sempre più confuso "Terry non ci aveva detto niente? Anzi, da quel che ricordo li spiava soltanto". Il fuoristrada svoltò alla sua sinistra e proseguì in discesa per un minuto. Poi girò a destra, imboccando una strada che un tempo era asfaltata. Ad ovest, si intravedevano pianure di cenere con alcune fattorie del tutto distrutte o quasi. Nei campi,  giacevano sparse qua e là le carcasse di qualche animale, che forse un tempo era stato una mucca, un cavallo, un pecora o qualsiasi altro animale da allevamento, ora in totale putrefazione e irriconoscibile.

"Vi ha mentito" rispose Patrick "Senza il nostro aiuto sarebbe stato preso. Ne abbiamo fatti fuori due quando fuggì e lo catturammo noi. Non ci disse nulla, ma capimmo che faceva parte della vostra comunità. Lo trattammo con i guanti se vuoi saperlo".

"Confermo" disse Cassandra, senza degnarlo di uno sguardo e guardando fuori dal finestrino.

Nathan non stava capendo niente. Se avesse saputo prima l'intenzione suicida di Terry, non si sarebbe preso la briga di cercarlo insieme a Eva e lei sarebbe ancora con lui. Un po' sentiva crescere un odio strano dentro di sé, ma anche tristezza. Era come se il fuoco e il ghiaccio stessero combattendo dentro di lui. 

"Ad ogni modo" aggiunse Patrick "lo lasciammo andare insieme alle sue armi, anche se non ricordo qual'erano."

"Una Ingram MAC11. Una SIG-SAUER P220. 37 munizioni nella mitraglietta. 43 munizione nella pistola." sottolineò Hellis meccanicamente.

"Okay..." disse Patrick stranito "Comunque, andò dritto in quella casa e sparò qualche colpo. Forse contro gli Sfregiati? I Runner? non lo so. Il giorno dopo trovammo la sua testa impalata sulla riva del fiume e le sue ossa rosicchiate vicino ai resti di un fuoco da campo".

"Gli avevano messo anche i genitali in bocca" sottolineò Hellis freddamente.

"Cosa?!" esclamò Nathan sospirando. Il fuoristrada deviò leggermente a destra, verso una stradina di campagna. In lontananza un palo della luce arrugginito era caduto sul tetto di un Pickup verdognolo arrugginito e poco più avanti c'era un trattore capovolto sul fianco in uno dei due fossi ai lati della stradina sterrata.

"C'era proprio il bisogno di dirlo, Hellis?" Aggiunse Patrick, guardandolo seriamente. L'uomo non rispose.

"Ma... ma è disumano..." disse Nathan, chiudendo gli occhi e facendo un grosso respiro.

"Erano Cannibali" rispose Patrick "un gruppo di mine vaganti pronti a esplodere da un momento all'altro. Non li abbiamo più incrociati per due giorni, ma al terzo giorno li vedemmo quasi vicino alla nostra comunità. Forse l'avevano trovata e si preparavano ad assaltarci oppure no, fatto sta che le domande non servivano in quel momento. Chiamammo i rinforzi, li circondammo e li uccidemmo tutti".

"Quindi, quel grande fumo che si vedeva dalla vostra comunità erano i loro corpi?" domandò Nathan.

"Esatto" rispose Patrick "Non potevamo certamente lasciarli marcire. Avrebbero attirato l'attenzione di qualche sfregiato o mutante. Non ci piace averli nei paraggi". 

Il fuoristrada discese un lungo pendio che dava sul fianco di una piccola montagna rocciosa che piombava proprio al di sotto della foresta. Qui l'asfalto si era mantenuto misteriosamente in buone condizioni. Poco dopo raggiunsero il ponte che era stato costruito dalla comunità di Julien e quella di Dalton, anche se non fu propriamente costruito, ma riparato con vari pezzi di ferro trovati in giro. Tre guardie armate erano appostate in un piccolo casolare ben fortificato, con assi di legno alle finestre, una porta di acciaio e postazioni difensive fatte con varie tavoli, casse, sacchi di sabbia trovati chissà dove e persino alcuni divani ridotti a brandelli che circondavano l'intero edificio. Infine c'era una piccola e quasi invisibile torre di vedetta costruita sopra a un albero spoglio ricoperto col manto mimetico scolorito. Sorvegliavano la zona da eventuali minacce, perlopiù orde di sfregiati che potevano far collassare il ponte con il loro peso. Solo una volta alcuni sciacalli si erano spinti da New Town per razziare una carovana che trasportava cibo e acqua verso la comunità di Julien, ma furono accolti dai proiettili che fischiavano in ogni direzione. Tutto il gruppo morì e i loro corpi furono buttati giù dal ponte, reclamati dapprima dal fiume Andry e poi dal lago Junto che li avrebbe infine divorati e inghiottiti per sempre.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** E' un militare? ***


La brecciolina scricchiolò sotto le ruote del fuoristrada che rallentò fino a fermarsi. Una guardia armata con un cappello verde scuro si avvicinò a Patrick, mentre gli altri due uomini rimasero un poco più indietro, scrutando i paraggi.

"Patrick" disse l'uomo, curvandosi sul finestrino con un vago sorriso e appoggiando l'avambraccio  "come mai da questa parti?".

"Dobbiamo incontrare Julien" rispose Patrick "novità?".

"No, nessuna" disse l'uomo "aspetta... una cosa c'è..." l'espressione dell'uomo diventò grave "oltre il ponte, se imbocchi la strada ad est, c'è un covo di Runner. Hanno infestato un edificio abbandonato, credo una vecchia fabbrica o qualcosa del genere. Sono già morte tre persone, quindi è meglio se evitate quella strada".

"Un covo di Runner vicino Julien?" sussurrò fra sé Nathan perplesso, ma Patrick sentì le sue parole.

"Anch'io lo trovo strano" rispose questo, senza voltarsi "se non eliminiamo questa minaccia presto saranno alle vostre porte e poi, forse, toccherà a noi".

"Meglio se non fate niente" disse la guardia.

"Perché?" domandò Patrick confuso, anche Hellis, Cassandra e Nathan guardarono perplessi la guardia.

"Perché là vicino ho visto gironzolare mezzi militari" rispose la guardia "forse se ne occuperanno loro. Non c'è bisogno che vi sporchiate le mani e poi, non avete le armi adatte da quel che vedo. Vi ricordo che i Runner sono molto... beh... feroci".

"Magari per te" sottolineò Hellis pacato.

La guardia corrugò la fronte, ma non rispose, mentre Nathan, Cassandra e Hellis guardarono Patrick in attesa della sua risposta.

"Forse hai ragione" mentì Patrick "vorrà dire che ce ne staremo alla larga. Faremo il giro più lungo". 

"Okay" disse la guardia "allora fate buon viaggio. Salutatemi Julien" e indietreggiò di qualche passo.

Hellis mise in moto, ingranò la prima e partì lentamente verso il ponte, mentre dallo specchietto retrovisore la guardia col cappello verde scuro, impartiva ordini ai due uomini armati. Il fuoristrada arrivò sul ponte ostruito a zig zag da alcuni oggetti di fortuna, quali: carcasse di auto arrugginite e spogliate, compreso un camion anni 80 e altri tipi di cianfrusaglie simili alla postazione difensiva del casolare. Erano stati messi lì per rallentare un eventuale attacco, marcia o fuga di un qualsiasi nemico. Il pavimento del ponte era stato rinforzato, ma in alcuni punti, precisamente verso i bordi, c'erano piccole crepe e buchi grandi quanto un uomo. Per cui ai lati, era facile cadere dentro se si proseguiva a piedi. Una fittissima nebbia grigiastra si spalmava a vista d'occhio sotto il ponte, rendendo impossibile guardare al di sotto. Il fuoristrada serpeggiò diverse volte, prima a destra poi a sinistra, infine, superando i vari blocchi e il ponte, la vettura si fermò a un incrocio. A destra la strada si allungava per oltre venticinque chilometri fino alla fattoria di Bill Nortman, e dopo altri tre chilometri si arrivava a Julien. A sinistra invece, la strada sterrata portava direttamente verso Julien in meno di trenta minuti, ma prima, dovevano superare l'edificio infettato dai Runner e il fuoristrada non sarebbe passato inosservato, ne dai Runner, ne dai Militari, famosi per il sparate a vista durante il loro loschi esperimenti.

"Mi sembra chiaro la strada da prendere" disse Hellis, girando tutto il manubrio a sinistra.

Patrick sorrise. 

Il fuoristrada ripartì, sollevando nell'aria una nube di polvere. Gli alberi diminuivano man mano che avanzavano, perlopiù tronchi anneriti, marci, con pose assai spettrali ed eternamente tristi come un lamento perso tra gli l'ululati del vento nel completo silenzio. L'erbacce crescevano come morsi famelici pronti a strappare ogni lembo di terra senza pietà. Una nuova pianta per un nuovo mondo. Nera come la notte, ondeggiava tra i sussurri mortali di un epoca passata, lunga, sottile e intrecciata, ma immortale alle radiazioni. Declivi rocciosi a punta regnavano e sovrastavano apatici terreni collinari, come un mostro emerso da le viscere della terra per modellarla a suo piacimento. Il fuoristrada rallentò, scese una piccola discesa con un tronco marcio a sbieco, lo superò e continuarono a scendere per dieci metri, dopodiché svoltarono a sinistra. La vettura ondeggiò per qualche secondo sulla strada dissestata e sul pietrisco, poi l'asfalto divenne più liscio. Le foglie ricoprivano parzialmente il tragitto come una distesa di cenere che il vento di volta in volta trasportava inerme da un posto all'altro.

"Oltre quei tronchi distrutti c'è l'edificio infestato" disse Patrick, indicando gli alberi afflosciati "Prosegui per venti metri e poi spegni il motore, Hellis".

Poco dopo Hellis parcheggiò la vettura fuori dalla strada, vicino a dei tronchi bruciati che la coprivano un poco e infine, scesero dal fuoristrada. Le foglie nere si sbriciolarono sotto gli scarponi di Nathan. Un inteso odore di cenere e legno bruciato impregnava l'aria quasi del tutto irrespirabile. Si coprì la bocca con la mano, smontò lo zaino in spalla, cercò all'interno una bandana e la legò attorno alla bocca, in modo da poter respirare un poco. Patrick, Hellis e Cassandra fecero altrettanto. 

"Okay. Togliete la sicura alle vostre armi" ordinò Patrick "avanzeremo da lì" puntò il dito a destra, verso il terreno accidentato, protetto ai lati da alcune rocce annerite. "Non fate rumore. Non sparate se non ve lo ordino. Non fate un cazzo, capito?" si voltò verso Nathan, ignorando Cassandra e Hellis.

Nathan annuì in un primo momento, ma non riuscì a stare zitto "Ti sembro il tipo che fa cazzate?".

Patrick lo guardò per qualche istante, ma non disse niente.  

I quattro avanzarono nella boscaglia incenerita, tra gli arbusti che si sbriciolavano al solo tocco e tronchi d'albero a sbieco o intrecciati l'un l'altro. Vene di fulmini squarciavano il cielo plumbeo che dapprima rimanevano silenziosi per poi scoppiare in un minaccioso boato che risuonava forte nei loro timpani. 

"Pioverà?" domandò Cassandra a Hellis.

"Non sono un meteorologo" tagliò corto lui.

"Lo sei quando ti pare a te".

Hellis non rispose, ma accennò un lieve sorriso malizioso.

Avanzarono per trenta metri e si ritrovarono a ridosso di una collina. Una piccola scalinata quasi del tutto invisibile era ricoperta da rami e foglie nere. Non era molto visibile, ma gli occhi scrutatori di Hellis, la individuarono quasi subito. Patrick fece cenno a Cassandra di andare in avanscoperta. Voleva capire dove portavano quei gradini. Cassandra si mosse con la mitraglietta puntata davanti a sé e lentamente le foglie si sbriciolarono sotto i suoi scarponi. Il vento fischiava tra i rami secchi e spostava di qua e di là le foglie che si disintegravano nell'aria. Pose cautamente il piede sul primo scalino. Poi l'altro sul secondo. Dietro di sé, gli altri erano come spariti, ma erano a venti metri dietro un grande ammasso di tronchi e arbusti. Salì il terzo, il quarto, il quinto, poi si fermò di colpo. Si voltò a destra e vide qualcosa tra i cespugli; una sagoma nera. Puntò la mitraglietta in quella direzione e improvvisamente una raffica di proiettili piovve su di lei. Si gettò a terra, trascinandosi giù dalla gradinata. Gli altri uscirono da dietro il tronco, ma furono raggiunti anche loro da una scarica di proiettili e si ritirarono sparando alla cieca. Cassandra corse verso di loro e con un tuffo fu dietro l'albero. 

"Militari!" esclamò Hellis.

"Non ne siamo sicuri" disse Patrick "Tu cos'hai visto, Cassandra?".

"Solo una sagoma. Nient'altro" rispose Cassandra, scrollandosi di dosso la cenere.

"Sono loro" insistette Hellis "nessuno è pazzo da stare vicino a un edificio infestato".

"Il pazzo ha pure aperto il fuoco vicino a un covo di Runner" rispose Cassandra.

"Che vuoi dire?" domandò Nathan.

Un altra raffica di proiettili fece saltare la corteccia del tronco. I quattro si spostarono ancora più in basso, rimanendo più accucciati.

"Non possiamo neanche rispondere al fuoco" disse Patrick.

"Devono essere alla sinistra della scalinata" rispose Cassandra "Lì ne ho visto uno".

"Accomodati " aggiunse Hellis "se la tua testa salta, allora sapremo che hai ragione".

"Fottiti" imprecò Cassandra.

"Qualcuno vuole rispondermi?" disse Nathan infastidito.

Patrick si voltò accigliato "su cosa?".

"Il pazzo ha pure aperto il fuoco vicino a un covo di Runner. Cosa vuol dire?"  Nathan ripeté l'affermazione che aveva detto Cassandra.

"Che solo un idiota lo farebbe" rispose Cassandra scuotendo la testa.

"I militari sono un branco di idioti" sottolineò Hellis.

"Perché tu sei diverso da loro?" rispose Cassandra con un lieve sorriso malizioso.

"Poi dici che non gli devo ficcare una pallottola in testa" disse Hellis scuotendo la Glock e guardando Patrick.

Un altra scarica di proiettile scalfì di poco il tronco e spazzò quasi del tutto gli arbusti, sollevando in aria un piccola nube di cenere che si dissolse dopo qualche secondo.

"Ma non vi sentite?" esclamò Nathan irritato "sembrate un gruppo di bambini che litigano su chi ha ragione, mentre qualcuno, forse a meno di tre metri da noi, vuole farci fuori!".

Tutti si ammutolirono, ma Hellis sembrò infastidito.

"Okay, Nathan. Dicci il tuo piano?" disse Patrick.

"Quale piano?" 

"Lo vedi. Prima di parlare accertati di avere un piano" sottolineò Patrick "ora fate quello che vi dico..." non finì la frase che, a pochi metri da loro, uno straziante grido di dolore echeggiò nell'aria, ammutolendosi poco dopo.

"Cazzo!" esclamò Cassandra "fanculo, lo sapevo!".

"Fate silenzio" sussurrò Patrick.

D'un tratto si udirono delle ossa spezzarsi. CRACK! Poi un gemito gutturale e rauco, a tratti smorzato. Qualcosa rotolò giù dalla collinetta e urtò il tronco. I quattro si guardarono negli occhi e solo Hellis sembrò più calmo o forse non lo dava a vedere. Gli altri erano ansiosi e impauriti. Poi qualcos'altro venne giù dalla collinetta, strisciando tra le foglie sbriciolate. Un forte tuono echeggiò nel cielo plumbeo e i quattro sussultarono dallo spavento. 

"Al diavolo!" esclamò Hellis. Si alzò di scatto e puntò il fucile d'assalto davanti a sé, coperto dal tronco.

"Cazzo!" imprecò schifato.

C'era una testa mozzata accanto al tronco. La faccia dell'uomo era mezza dilaniata e il cranio aperto solo dal lato sinistro. Le cervella erano sparse tutt'attorno, mentre una scia di sangue con pezzi di cervello veniva giù dalla collinetta, formando una pozza di sangue alla base dei gradini. Poco dopo gli altri si alzarono.

"Non è un militare" sottolineò Patrick.

"Da dove l'hai capito?" domandò Hellis.

"Manca l'elmo".

"Può essere la sopra" puntò il dito Cassandra. 

"Non è un militare. Né sono sicuro" affermò Patrick.

"Io credo invece che lo sia" disse Hellis.

"Ma cosa importa se è un militare o meno" rispose Nathan "c'è qualcosa là fuori. Qualcosa che ha ucciso quest'uomo. Non mi sembra il caso di discutere su chi sia".

"Allora faccia strada" disse Patrick muovendo il braccio verso la scalinata.

Nathan imbracciò il suo fucile d'assalto e si diresse cautamente verso i gradini. La scia di sangue continuava a venir giù da dietro un ammasso di arbusti neri e da un tronco incenerito e incastrato su un altro. Puntò il fucile davanti a sé, salì lentamente i gradini e arrivò quasi alla fine della gradinata, poi il buio...

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Confusione ***


Spari, urla, gemiti. Nathan era terra, gli occhi fissi al cielo, lacrimanti, annebbiati. I proiettili fischiavano da ogni dove. Un tonfo, un'altro. Le grida di Patrick, i lamenti di Cassandra, le bestemmie di Hellis. Passi, tanti passi felpati. Nathan era debole, gli occhi tentavano di chiudersi ma lui resistette. Le foglie si sgretolavano al passaggio di strane sagome nere, i loro piedi, sembravano volassero per un centimetro o due o perlomeno così sembrò a Nathan. Un altro grido, forte, deciso. Non erano i suoi compagni. Altri proiettili si aggiunsero al caos generale. Poteva sentire, quasi perfettamente, delle parole. Parole non comprensibili. Frasi in codice, pensò. Qualcuno si curvò verso di lui. Una figura sfocata, contorta. Gli disse qualcosa e un attimo dopo cadde privo di vita sul suo petto. Nathan buttò fuori l'aria dai polmoni violentemente, la testa inclinata a sinistra. Un sagoma nera cascò a terra crivellata di colpi, a pochi metri da lui, gli occhi si chiusero.

Buio, freddo. Le orecchie ronzavano, il motore barbottava. Dalla nuca proveniva un caldo materno. A stento aprì gli occhi, solo nebbia. Sforzò la vista, cercò di parlare. Una mano accarezzò delicatamente la sua guancia. 

"Riposa" disse una voce femminile. Un timbro dolce, sereno. 

Nathan emise un gemito, ma non ebbe risposta. La mano continuò ad accarezzarlo, il respiro divenne più lento e sprofondò in esso. 

Gli uccelli cinguettavano e volavano sereni nel cielo azzurro. Una mano era appoggiata sulla sua spalla. Non riusciva a vedere chi fosse, il suo viso, i suo vestiti. Nulla. Sentì una grande gioia sprigionarsi interiormente. Case con tetto spiovente, grattacieli, alberi, erba, cespugli e molte, molte persone davanti. Seri, indaffarati e quasi apatici si muovevano in ogni direzione. Le panchine vuote, il vialetto cementato alle sue spalle piombava in un burrone la cui profondità era avvolta da fitta nebbia. Si guardò attorno, la terra alle sue spalle del tutto spaccata, inesistente, un orizzonte nebbioso. Il cuore batté forte, quasi impazzito. La mano strinse decisa la sua spalla. 

"Non preoccuparti" disse la stessa voce femminile "Non pensare. Osserva".

La gente continuava a camminare, ignara del fatto che la terra finiva a pochi metri dalle spalle di Nathan. Tutto sembrava stranamente normale. Nathan non capiva, forse era lui quello strano. D'un tratto un boato. Un sussulto, la mano lo tenne fermo. Non riusciva a girarsi, il suo corpo era pietrificato, immobile. Un forte bagliore si sprigionò alle sue spalle. Le persone si voltarono all'unisono, visi gelati, occhi stupefatti. Un forte calore indescrivibile avvolse le sue spalle, il bagliore divenne accecante, le persone sparirono nella luce. La mano tolse la presa dalla sua spalla, scomparve. Tutto scomparve.

Improvvisamente aprì gli occhi. Le immagini diventarono dapprima contorte, poi presero forma. Era sdraiato sul sedile posteriore di un auto. Sentiva chiacchierare. Alzò la testa. Cassandra era seduta di fronte a lui, guardava fuori dal finestrino. Il motore emise un rombo. L'auto ondeggiò brevemente. Volse lo sguardo al petto, avvolto da una fascia bianca macchiata di sangue. Cosa era successo? Provò a parlare, ma emise un leggerissimo gemito. L'auto ondeggiò, prese in pieno una buca. I polmoni bruciarono al colpo secco dato dal sedile alla spalla, faticava a respirare. Cassandra si voltò verso di lui, gli occhi si chiusero.

Si svegliò di nuovo, la macchina vuota, un bisbigliare continuo fuori dall'auto. Non riusciva a muoversi. 

"Siamo riusciti a fuggire per miracolo" disse una voce maschile.

"Non esistono i miracoli" rispose un altra voce maschile più rauca e grave.

"Non è il momento di discutere" aggiunse una voce femminile.

Nathan non capiva. Le voci gli sembravano familiari, ma non ricordava. Cercava dentro di sé almeno un frammento di un qualcosa, un qualcosa che non ricordava più. Cosa cercava in realtà? Ah sì, le voci. si disse. Capì in quell'istante che era confuso, spaesato. Non gli era mai capitato di perdere lucidità, non a quel livello. 

"Come sta?" ora riconobbe la voce di Patrick.

"Sta messo male" rispose Cassandra.

Nathan riprese lentamente lucidità. Mosse le dita, le guardò ipnotizzato. Aprì e strinse molte volte mani sporche di terra. Era presente, ma assente nello stesso tempo. 

"Quel bastardo è fortunato ad essere ancora in vita" sogghignò Hellis.

"Quello che tu chiami bastardo ci ha salvato la vita" disse secca Cassandra, il tono quasi serio.

Nathan si guardò attorno. Lo schienale del sedile era forato in diverse parti. Forse proiettili?  pensò. Provo ad alzarsi, ma un fitta lancinante allo stomaco lo fece cascare di nuovo. Strinse i denti dal dolore. Poi d'un tratto, proprio di fronte a lui, vide un viso sgranato tra la polvere accumulatasi dietro il finestrino. Sembrava una donna, sembrava... Eva. Gli occhi si spalancarono, il cuore impazzito, un caldo formicolio penetrò in tutto il suo cervello, il respiro venne meno. Eva sorrise. Un sorriso di gioia ma serio, gli occhi fissi, vuoti, i capelli sporchi di terra, le punte insanguinate. Improvvisamente il sorriso scomparve. Nathan si contorse dentro di sé, non respirava. Le gambe immobilizzate, le braccia bombardate da strani impulsi interni, i polmoni risucchiati da qualcosa, pronti a implodere. Eva si dissolse lentamente, gli occhi si chiusero.

Buio. Tutto era buio, oscuro, silenzioso. D'un tratto, il legno del pavimento scricchiolò. Passi cauti, lenti camminavano avanti e indietro. Sentì una voce femminile, quasi familiare, sussurrargli qualcosa all'orecchio, ma non capì. Provò ad aprire gli occhi e quasi tutto risultò sfocato, tranne una particolare, una sagoma femminile seduta accanto a lui. Sforzò la vista, strinse tra le dita qualcosa di morbido simile a delle lenzuola, gli occhi lacrimarono. Vide un sorriso, vide Eva.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** E' un sogno? ***


Forse era un bellissimo sogno. Un sogno da cui non voleva mai più svegliarsi. Era proprio lì, davanti a lui. Il viso solcato dalla stanchezza, dalla fragilità dei lineamenti. Gli occhi vivi, ma spenti a tratti. I capelli ondulati a toccare le esile spalle, con cui, forse, aveva sopportato l'idea che Nathan fosse morto, oppure, come lei soleva dire; disperso. Sorrise per la felicità, ma gli angoli della bocca toccavano corde a dir poco tetre. Forse vedeva un fantasma? Forse non si capacitava di essere di fronte a Nathan?

Nathan la guardò a lungo, incredulo. Non voleva parlare. Non voleva che questo sogno svanisse. Non voleva svegliarsi. Voleva restare in silenzio per l'eternità, guardando Eva. Ma in realtà voleva che tutto tornasse come prima, che fosse solo un incubo, che tutto fosse nella sua testa. Poi Eva si curvò verso di lui, mise la mano sulla sua e la strinse più forte che poté. Nessuno dei due credeva nell'esistenza dell'altro. Entrambi pensavano di sognare, forse di essere morti, catapultati in quel paradiso che sapeva tanto d'inferno. Nathan tentò di alzarsi col busto, ma i dolori all'addome furono talmente lancinanti che cascò sul letto. Eva si avvicinò ancor più al suo viso, Nathan le rubò un baciò. Un fuoco invisibile divampò dentro di loro, il cervello fu travolto da caldi formicoli. Le labbra secche non impedirono alla passione di sbocciare in quella fredda stanza. 

"Eva" .

"Nathan".

Il bacio durò un eternità. Lento, passionale, poi veloce, energico. Assaporavano ogni secondo perso nell'incertezza che fossero solo un lontano ricordo, ma ora, erano lì, l'uno di fronte all'altro, increduli, ma estremamente felici. 

Quando finirono, Nathan la guardò senza distogliere lo sguardo per un momento. Eva sorrise, le guance arrossate. 

"T-ti credevo..." disse Nathan.

"No. Non potevo" rispose Eva.

Si strinsero le mani. 

"Non p-potevi... morire..?"

"Tu eri là fuori, Nathan. Sapevo che eri vivo. Lo sentivo".

"Anch'io n-non ho smesso... di s-sperare".

"Ma cosa ti è successo?" Eva fece segno all'addome lacerato da un profonda ferita. 

"Non lo so... m-mi sono ritrovato a terra... ero... confuso..."

"Per fortuna ti hanno portato in salvo i tuoi amici. Patrick è tornato a Dalton due giorni fa".

"Due giorni fa...?" tossì forte più volte "q-quanto ho dormito, Eva?".

"Cinque giorni. Pensavo fossi in coma, che non saresti più tornato da me anche se eri qui. E' stato orribile saperti qui ma non parlarti". 

"Siamo... s-siamo a Julien?". la voce di Nathan era quasi restia a formulare la frase per paura di una risposta negativa.

"Sì. Ora sei con me. Non lasciarmi più, ti prego. Non voglio convivere di nuovo con la paura di non rivederti mai più". Eva scoppiò a piangere, voltandosi dall'altra parte per non farsi vedere.

"Non... non posso p-prometterti niente..." la voce di Nathan era molto flebile, abbassò gli occhi sapendo di averla delusa.

Eva si voltò di scatto, pietrificata, lo guardò fisso mentre le lacrime solcavano il suo viso. Non riuscì a parlare. Fu come ricevere una pugnalata allo stomaco. Faceva male, molto male.

"Eva... devi c-capire..."

"NO!" Eva tolse la mano dalla morsa di Nathan, alzandosi dalla sedia "No!"

"Ti p-prego... ascoltami".

Singhiozzando, Eva lasciò la stanza.

Nathan chiuse gli occhi, fece un grosso respiro e colpì dal nervoso il materasso con un pugno a martello.

***

Fuori si sentiva la gente chiacchierare quando entrò qualcuno nella stanza. Nathan si voltò verso la sagoma oscurata nella penombra. Indossava un gilet marrone con cappuccio, jeans grigi scoloriti e un maglietta con le maniche raccolte. I capelli castano scuro raccolti in una coda, il viso piccolo, ovale, ma severo con occhi grandi e azzurri. Era abbastanza alta e spalle un poco larghe.

"Nathan" disse. Era una voce da donna molto rauca, poi prese una sedia e si sedette di fronte a lui "Non mi riconosci?".

Nathan la scrutò per bene. Julien! Aveva giurato per un attimo che fosse un uomo, ma era lei. La donna a capo della comunità. Portamento maschile e nulla di femminile. Il suo nome poi, in origine Julia, se l'era cambiato con Julien, perché li piaceva di più. Era una donna a tutti gli effetti, e come tale, amava un uomo. Un uomo ormai morto da anni di cui nessuno della comunità conosceva. Julien non ne aveva mai parlato e gli dava fastidio quando qualcuno osava rivolgergli domande sul suo passato. Erano una donna forte, tenace sempre pronta ad aiutare e mai a farsi aiutare. "Non ho bisogno del vostro aiuto" diceva "Niente e nessuno può farmi paura. Non più". Non era difficile capire che in quelle poche parole, ripetute spesso quando era infuriata, c'era qualcosa di inabissato nel fondo della sua anima. Forse un fardello? Un senso di colpa? Nessuno lo sapeva, nemmeno Nathan. Julien ha radunato tutte la povera gente che cercava di sopravvivere e gli ha dato una casa, un posto in cui vivere. Gli ha dato protezione da mutanti, banditi e perfino dai militari che rapivano la gente per farci chissà cosa. All'inizio Julien era molto sola, aveva perso l'uomo che amava e vagabondava in giro senza meta. Armata di un 9mm e un coltello da macellaio, si era fatta largo in questo posto uccidendo i suo ex occupanti; quattro banditi che avevano catturato nove bambini e mangiato i loro genitori e gli adulti. Non fu una dura lotta, ma breve, molto breve. Julien sapeva come sgattaiolare silenziosa nel buio e ucciderli nel sonno. I bambini rimasero con lei e col tempo altri sopravvissuti si unirono, formando la comunità di Julien. Grazie alla posizione elevata in cui si trovava la comunità, risultava quasi impenetrabile entrarci ed è protetta da molti declivi e colline tutt'attorno. La comunità vantava anche uomini ben armati e addestrati. Tutto questo grazie a Julien e al suo fidato Capitano Jones Brown, ex marine. 

"Ti hanno tagliato la lingua?!" disse Julien, accennando un sorriso.

"Sono davvero... davvero contento di vederti, Julien" Nathan sorrise.

"Vieni qui" Julien si alzò e abbracciò forte Nathan.

Nathan sussultò un poco da dolore.

"Oh scusami" disse Julien, ritornando a sedere "Mi ero dimenticata che... insomma... che ti hanno quasi ucciso".

"Già... non so nemmeno chi è stato ridurmi così".

"I Runner. Sono stati loro. Patrick mi ha detto come sono andate le cose e lasciatelo dire, Nathan. Sei vivo per miracolo".

"L'ultima cosa che... che ricordo è che ho salito i gradini... e ho sentito un sparo... poi tutto nero".

"Sì... ora che mi ci fai pensare Patrick ha detto che hanno tentato di sparati, ma non ti hanno preso perché un Runner è sbucato da dietro un albero e ti ha attaccato sul fianco. Ecco perché non hai visto niente. In ogni caso, i Runner hanno fatto piazza pulita dei militari e infine vi hanno attaccati, ma Patrick e il suo gruppo li hanno respinti prima che ti sbranassero. Certo che siete stati stupidi a passare da quel edificio infestato".

"La fortuna... mi ha proprio voltato le spalle".

"Credo invece che ti abbia preso a cuore da come sono andate le cose".

"Ti hanno detto cosa ho passato..? Quello stronzo di... di Colbert!". Nathan serrò gli occhi.

"Colbert è sempre stato sulla mia lista nera, lo sai. Non fare sangue amaro, arriverà il momento in cui tu ti divertirai con lui... magari allo stesso modo che ha fatto con te".

"Puoi giurarci". 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Isolati ***


Passarono due settimane da quando Nathan litigò con Eva. Nessuno dei due cercò l'altro. Gli sguardi erano lontani, freddi, quasi inesistenti. Eva non voleva perderlo di nuovo, ma Nathan doveva farlo. L'esercito era stato visto da alcune pattuglie lungo le colline Jamson, trasportando su dei camion militari molte casse. Il contenuto era del tutto sconosciuto, così come la destinazione. Infine, sparirono nella foresta nera, lasciando dubbi e domande, senza risposta. Julien aveva radunato quanti più uomini possibili, credendo che l'esercito avesse intenzioni di attaccarli. Non era mai successo prima d'ora, ma per come si stavano sviluppando le cose, niente era impossibile adesso. 

Quarantasette uomini furono addestrati con archi e lance, solo alcuni sapevano usare le armi da fuoco. Le cartucce erano diventati un lusso, quindi si usavano quelle rozze, prodotte in casa. Non erano alla pari delle vere pallottole, ma a distanza ravvicinata facevano la loro sporca figura. Le donne furono anch'esse addestrate con l'arco, ma per scopi puramente difensivi. Julien mandò diversi uomini alla ricerca di rifornimenti: armi, medicine e oggetti metallici con cui produrre le pallottole "bastarde" - Nome ideata da lei stessa -. L'esito delle ricerche non furono delle migliori. Tre uomini non fecero più ritorno e il quarto tornò con un morso al braccio. Dovettero rinchiuderlo in una cella improvvisata. Le pareti erano state costruite con del legno marcio, la puzza di carbone era insopportabile, ma l'uomo non sentiva più odori. Dopo un po' perse la vista e infine, dopo un ora, l'udito. La pelle cominciò a riempirsi di vesciche, le vene diventarono nere e gonfie, quasi a voler scoppiare. L'uomo chiedeva aiuto mentre il suo corpo si trasformava, ma Julien sapeva bene cosa fare. Un colpo in testa; l'uomo non si mosse più. Era un padre di famiglia, due bambine di cinque e sei anni, Katty e Livia. Due anime innocenti catapultate in un mondo distrutto dalla vecchia generazione. Un mondo che aveva vomitato i vizi degli uomini, che aveva posto fine alla loro arroganza. Julien era fiera della sua gente, ma non di se stessa. A malincuore aveva ucciso quell'uomo, ma come lui, ne aveva uccisi tanti, troppi. Non ricordava più i nomi, poiché bastava il primo nome a distruggerla emotivamente. Si era promessa di non affezionarsi più a nessuno. "Le persone muoiono. I ricordi restano." si ripeteva spesso quando a fine giornata, in completo silenzio, si ritrovava da sola nel letto, mentre con un mano cercava qualcuno nello spazio vuoto affianco a lei. Un tempo occupato da risate, sorrisi, gioia, felicità spensieratezza e amore... ma che ora non c'era più. Le sentiva nelle stanze adiacenti, mentre lei rimaneva in compagnia di un vuoto che la divorava da dentro, lasciando spazio ad una donna forte, forgiata con il dolore, il pianto, stretta ad un cuscino come fosse una persona. Quel cuscino che gli faceva credere che lui fosse ancora lì a proteggerla, a consolarla, a darle forza ma sopratutto a darle speranza...

Il corpo dell'uomo infetto fu posto su una pila di legno e fu proprio lei a dargli fuoco, mentre la gente attorno piangeva. Le bambine si stringevano forti, impaurite, quasi morbosamente all'unico parente che gli era rimasto, uno giovane zio. Nathan osservò le bambine, ma nei loro sguardi vide la forza che molta gente nella comunità non aveva, compreso lui. Piangevano, ma non era il solito pianto disperato. Stavano accettando quanto successo. Accettavano che il mondo era così, che non c'era posto per le rassicurazioni, che dovevano restare uniti per farcela. Nathan all'età loro non era così forte, era solo un bambino affezionato troppo ai suoi, un affetto deleterio. Non era in grado di allontanarsi per diversi giorni dalla sua famiglia, poiché tanto era il dolore che sentiva crescere dentro. Se al posto di quelle bambine ci fosse lui, non si sarebbe più ripreso e forse, vigliaccamente o stupidamente, si sarebbe tolto la vita, per poi pentirsene nell'instante in cui il vuoto l'avrebbe inghiottito. Aveva elaborato questo ragionamento durante l'adolescenza, quando immaginava come sarebbe stato l'ultima instante in cui si sarebbe tolto la vita e ricongiunto con i suoi in paradiso. Era una scelta egoistica, sbagliata, i suoi non l'avrebbe accolto con un sorriso, forse non l'avrebbe neeanche accolto. Iniziò a pensare che il paradiso fosse una pura invenzione del cervello una volta morto, perché lesse, non ricordava nemmeno dove, che il cervello rimane attivo anche per più di un ora dopo la morte. Quindi, non si sarebbe mai ricongiunto con i suoi, ma avrebbe costruito, come in un sogno, il suo paradiso, aiutato dai ricordi. I genitori, il panorama e le sensazioni non sarebbero che proiezioni del suo cervello, ma poi, ad ogni risposta, giungeva un altra domanda, come se qualcuno o qualcosa dentro di lui gliela ponesse. "Cosa succederà quando il cervello si sarà spento?"La risposta fu quasi automatica: "Il vuoto... oppure, c'è un energia che ci tiene vivi; un interruttore invisibile che si attiva nel grembo di nostra madre e si spegne quando avremo raggiunto una determinata scadenza, per questo, il nostro corpo continua a vivere senza di noi per un ora o più, grazie ad una piccolissima energia residua, che svanisce una volta che sarà catapultata da tutt'altra parte. Credo che la cremazione aiuti l'energia a uscire dal corpo e a non rimanere intrappolata". Non era un ragionamento di un ragazzino, ma di uomo in cerca di risposte, di un senso. Perché non è facile accettare il silenzio, il vuoto, l'oscurità dopo la morte. E' più facile credere che siamo importanti; inventandoci mondi immaginari e luoghi in cui riunirci. Nello sguardo di Katty e Livia, non c'era questa scintilla. Loro accettavano il mondo così com'è; marcio, sofferente, doloroso, con sprazzi di felicità, inghiottiti avidamente da radiazioni e nubi acide. Vivere il presente, ricordando il passato, ma costruendo un futuro migliore.

Le fiamme divorarono il corpo infetto, mentre il fumo si levò in aria in forma più densa. Nessun bandito o predone l'avrebbe visto da lontano. Nessuno avrebbe cercato di raggiungerlo e attaccare la comunità. Gli unici a poterlo vedere di notte erano i Runner, ma questi, da una settimana circa, erano come spariti. Nessuna traccia per più di dieci chilometri, persino i loro cadaveri erano spariti. Nathan ne aveva parlato con Julien, e insieme avevano pensato di indagare, finché non passarono i militari. Allora decisero di addestrare tutti e mettere su un piccolo esercito. L'ultima accampamento che fu isolato, fu spazzato via dai militari e poi ripulito dai Runner. Julien lo ricordava fin troppo bene, come anche Nathan. 

Era quasi sera. Nathan, Eva, Julien e Scott, erano seduti vicino l'entrata della comunità di Rockstod. Avevano da poco commerciato con Simon, il commerciante con la sindrome di Tourette. Tutta la gente rideva quando se ne usciva facendo gesti strani, imprecando e insultando gli altri senza motivo, ma era la patologia, non era lui a farlo. Non riusciva a fermarsi. La gente rideva, ma nello stesso tempo provava grande pena per quest'uomo, che aveva avuto grandi difficoltà sociali e in qualche occasione, la sua patologia l'aveva fatto quasi uccidere da gente del tutto estranea a questa sindrome. Poi fu salvato da Scott, che rise molto ai suoi modi buffi e instaurando da subito una solida amicizia con quest'uomo, sapendo, anche con qualche difficoltà iniziali, che aveva la sindrome di Tourette. L'aveva portato a Rockstod e lì Simon incontrò sua sorella, che morì una settimana dopo per una forte febbre. Simon venne accettato pian piano dagli altri che non capivano perché insultasse senza motivo gli altri, ma perlopiù si limitava a dire cose strane o a fare gesti strani. Fu Scott a spiegare alle persone la patologia di Simon e da lì in poi la gente lo vide con altri occhi. Passarono tre settimane da quando Scott trovò Simon, che diventò un commerciante della comunità nonostante i suoi gravi problemi. Ci fu un boato forte in cielo, preceduto da un flebile fischio che divenne man mano più forte, acuto, quasi insopportabile. Poi l'entrata della comunità saltò in aria. Morirono due guardie e Scott rimase ferito alla caviglia. Venne soccorso da Julien, Nathan ed Eva che lo portarono nell'infermeria, un edificio perlopiù malridotto e con il tetto parzialmente crollato. La gente prese le armi e si diresse al cancello, mai pensando che fosse solo un diversivo. Simon era l'unico a trovarsi nella parte posteriore dell'accampamento, mentre faceva gesti strani e diceva cose insensate. Salì le scalinate di legno che portavano sulle mure e vide un militare accovacciato di sotto che installava una bomba sulla parete. Simon imprecò, attirando l'attenzione del militare, mentre scese velocemente le scalinate. Corse verso gli altri e quando arrivò da loro iniziò a insultarli e dire cose senza senso. Insisteva e non riusciva a finirla. Non gli era mai capitato una cosa simile. Gli altri non lo presero in considerazione e gli dissero di smetterla. La tensione era alle stelle e qualcuno minacciò persino di picchiarlo, ma Simon voleva solo avvertirli che c'era un militare con una bomba pronta a esplodere. Un secondo dopo il muro saltò in aria, un detrito colpì lo stomaco di Simon che si accasciò a terra dolorante. Gli altri non fecero in tempo nemmeno a girarsi, che vennero in gran parte falciati dai fucili automatici dei militari. Quelli che si trovavano vicino all'ingresso principale, cercarono di fuggire ma vennero falciati anch'essi da una mitragliatrice che era stata posta all'esterno, a qualche metro dall'ingresso. Simon strisciò dolorante verso l'infermeria e venne afferrato da Nathan che lo portò dentro. Fu subito soccorso da Eva e Julien.I militari continuarono a sparare ai superstiti che cercavano una via di fuga, uccidendo persino chi fosse ferito a terra e implorava pietà. Il loro modo di fare era molto apatico, quasi robotico gli sembrò a Nathan. Dalla finestra coperta dalle assi di legno, vide alcuni militari marchiare di un verde forte, le magliette dei morti. Non marchiavano tutti, ma solo alcuni. Prima osservavano il cadavere e in alcuni casi lo marchiavano. I bambini invece non furono uccisi, ma deportati su due furgoni neri. Alcuni bambini tentarono la fuga, ma i militari equipaggiarono delle piccole pistole sedative per acchiapparli. Una di queste uccise un bambino di cinque anni, e il soldato che l'aveva sparato, venne subito freddato da un altro militare con un colpo in testa. Rimase a terra, ignorato dagli altri. Simon era ferito allo stomaco, ma non era grave. Julien estrasse la pietra, versò del liquore sulla fasciatura e fasciò il ventre di Simon, mentre questo la insultava. Scott si alzò in piedi, anche se non riusciva ad appoggiare la gamba ferita. In quello stesso instante, qualcuno tentò di aprire la porta dell'infermeria. Lungo i loro volti scese una forte tensione e ansia. Nathan mise la mano sulla bocca di Simon, mentre questo non finiva di imprecare. Ci fu una lunga attesa snervante, oltre che a un gran silenzio che Simon cercava involontariamente di interrompere, finché non ci riuscì. La porta venne colpita da un calcio, poi alcune pallottole la squarciarono, fischiando accanto l'orecchio di Nathan. Il gruppo cercò di fuggire dalla finestra del bagno, per poi salire la scalinata che dava sul muro e saltare fuori dall'accampamento. Eva, Julien, Nathan e Scott saltarono fuori dall'infermeria, ma Simon faticava parecchio perché sentiva un forte dolore all'addome quando cercò di saltare la finestra. I soldati distrussero la porte, entrando dentro la stanza e guardandosi attorno. Simon bestemmiò, in preda ai Tic infiniti. Scott saltò dentro il bagno, cercando di far salire Simon. I Militari sentirono la voce di Simon e si diressero velocemente nel bagno. Scott incrociò lo sguardo di Julien, e le sorrise. Il tempo rallentò per un instante, mentre Julien sentì uno forte nodo allo stomaco. Una raffica di proiettili trafisse senza sosta il corpo di Scott, mentre questi sorrideva a Julien, cadendo poco dopo a terra con lo stesso identico sorriso. Simon non riuscì a saltare la finestra e venne afferrato da dietro la maglietta da un militare, che lo freddò con un colpo in testa mentre bestemmiava. I tre riuscirono a fuggire, mentre in lontananza sentirono due spari provenire dall'accampamento. I due militari erano stato uccisi per aver fatto fuggire dei sopravvissuti? Perlomeno questo pensò Nathan.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** L'assedio ***


Nathan si sedette vicino a Julien, mentre la gente attorno camminava e chiacchierava. C'erano cinque bambini poco distanti da loro che giocavano ad acchiapparella. Spensierati, felici e ignari di come fosse il mondo fuori dalle mura.

"Tutto bene?" disse Nathan.

"Sto bene" rispose Julien, mentre i suoi occhi dicevano tutt'altro. 

"Perché hai addestrato gli uomini con armi primitive?"

"Che vuoi dire?"

"So che hai trovato delle armi. Grosse armi".

"Non so di cosa parli" Julien si girò confusa verso Nathan. 

"Colbert mi ha quasi ucciso per questo. Voleva sapere a tutti costi delle armi, ma tu ora mi dici che non sai niente?".

"Infatti. Non so di cosa stai parlando". Julien lo guardò dritto negli occhi. In lei vigeva una forte confusione.

"Se le armi non c'è l'hai tu, allora chi c'è l'ha?" Nathan si stranì. Perché Colbert l'aveva quasi ucciso per una bugia? Forse aveva sbagliato persona? Comunità? O semplicemente era pazzo?

"Ascoltami" disse Julien "se avessi quelle armi, avrei addestrato gli uomini con quelle. Sai bene che non possiamo permetterci di sprecare pallottole. Le poche armi che abbiamo sono in gran parte usurate e la manutenzione non serve a un granché. Dovremmo farci bastare quello che abbiamo". 

Nathan annuì, senza dar peso alla risposta. Ormai era perso nei suoi ricordi, nella vaga speranza di ricordare qualche traccia, qualche frammento che lo potesse aiutare. Poi Julien si alzò, e senza salutare, andò via. Nathan rimase lì per mezz'ora, con la testa un po' inclinata all'indietro, braccia allargate sullo schienale della panchina e fissando il cielo plumbeo. In lontananza osservava fulmini che cadevano all'orizzonte. Nessun tuono, niente di niente. Solo un infinità di fulmini muti. 

Stava diventando sempre più buio, quando una guardia, appostata sopra al muro, diede l'allarme generale. Gli uomini si riversarono immediatamente vicino al portone di legno, senza alcuna arma. Donne, bambini e anziani si rinchiusero nella mensa - L'edificio più grande della comunità - Fuori dalla mura cominciarono a sentirsi strani gemiti che diventavano man man più forti. Nathan corse sulle mure assieme a Julien e altre tre guardie armate di fucili da caccia usurati. Non videro nessuno tra gli alberi morti e i secchi arbusti alla loro destra, mentre sulla sinistra, c'erano molti alberi con delle folte chiome di foglie nere che coprivano il terreno. 

"Mirate in quella direzione!" ordinò Julien. "Verranno da lì!"

Gli uomini puntarono le armi all'unisono, mentre gli uomini rimasero appiccicati al cancello. Il silenzio regnò sovrano, sovrastando la tensioni e mettendo a dura prova i nervi. Nathan seguì Julien verso una specie di cabina posta al di sopra del cancello. Il cielo si oscurò definitivamente, lasciando sprazzi di luce ai fulmini che in lontananza illuminavano in intermittenza la comunità. Le torce furono accese lungo le mura e sulle stradine, assieme a qualche lampada ad olio. Julien diede una arco e una faretra con 40 frecce a Nathan. Anche lei ne preso uno. I gemiti si diffusero verso il bosco, scomparendo dapprima da una parte e poi da un altra, per poi riapparire sempre più forte. Infine non si udì più niente. Gli uomini cominciarono a guardarsi tra loro, ansiosi, impauriti e indecisi sul da farsi. Trenta secondi dopo riapparvero ancor più forti.

"Mantenete la calma!" gridò Julien "Non fatevi prendere dal panico! Siamo al sicuro qua dentro!" ma la verità era un altra. Julien si sentiva molto esposta e insicura. Questa logorante attesa gli ricordò Rockstod; distruzione, morte e sofferenza. Non voleva e non poteva far riaccadere tutto questo. Non un altra volta. Un forte grido di dolore fece rabbrividire gli uomini, che si guardarono tra loro impauriti. Ad alcuni tremavano le mani, ad altri veniva istintivamente di fuggire, ma non potevano e cercavano di farsi forza. Julien lì conosceva bene e sapeva che non erano soldati addestrati, ma semplici persone; agricoltori, operai, pescatori e alcuni minatori. Improvvisamente un fulmine silenzioso si schiantò a terra, fuori dalle mura, poco distante dal portone d'ingresso, illuminando per un tratto la parte buia. Visi apparentemente umani, solcati da grosse vene nere sul viso. Pupille verde accesso con l'iride insanguinato. Indumenti logori, marci, strappati e alcuni quasi in perfetto stato. Erano quasi ammassati; un centinaio. Guardavano in direzione opposta alla comunità, verso la cittadina abbandonata, ma il fulmine aveva attirato la loro attenzione. Gli infetti si accorsero solo in quell'istante degli uomini appostati lungo le mura. Questi, che avevano sospettato che ci fosse qualcuno la fuori, avevano sperato con tutto il cuore che si fossero allontanati, ma invece, gli infetti erano a soli trenta metri da loro. Ci fu qualche secondo di silenzio, mentre gli infetti li osservavano, come quando si osserva qualcosa di nuovo e mai visto. La tensione crebbe velocemente, i nervi stavano quasi per cedere quando Julien intervenne.

"Calma!" gridò "Non fate niente di avventato! Aspettate il mio ordine"

Gli infetti si avvicinarono in massa, i loro sguardi erano incuriositi, quasi ciechi, sembrava non vedessero aldilà di tre metri, così come l'udito. Alcuni, lungo il corpo, erano percorsi da insistenti tremolii, altri invece, da una specie di tic; la testa si muoveva freneticamente da una parte all'altra. Nel camminare, sbattevano tra di loro, gemendo, come se fossero infastiditi dall'urtarsi. Non era raro vedere due infetti prendersi a pugni o a graffi. Poi si fermarono a cinque metri dal cancello. Nathan guardò Julien, ma questa non gli prestò attenzione. Aveva intuito che i gemiti non erano prodotti per via della comunità, ma perché nel marciare come un piccolo esercito, si urtavano tra di loro. Gli uomini a ridosso del portone erano ignari a quello che stava accadendo fuori. Mai avrebbero pensato che fossero a pochi passi dagli infetti e che solo il portone li divideva. 

"Stringetevi nello stretto corridoio dell'ingresso!" ordinò Julien, stando bene attenta a non gridare troppo per non infastidire gli infetti e voltandosi indietro, verso gli uomini al di sotto della cabina. Questi si ammassarono, quasi appiccicati, contro il portone, sapendo forse, che era arrivata l'ora di combattere. 

"Rimani qua, Nathan" Julien si allontanò verso la sua sinistra, mentre Nathan rimase stranito. 

Julien si stava accertando che nessuno, in preda al panico, sparasse il primo colpo, controllando e dando forza agli uomini che sembravano sul punto di cedere. Ma fallì. Un uomo aprì il fuoco. Il proiettile colpì una donna infetta al seno destro, disintegrandolo. Incredulo di quel che aveva fatto, guardò gli altri chiedendo scusa e con le mani che gli tremavano così forte, fece cadere a terra il fucile da caccia. L'infetta lanciò un forte grido, che squarciò definitivamente il silenzio. 

"Sparate! Sparate!" urlò Julien, nascondendo il panico e tornando di corsa alla cabina.

I fucili aprirono il fuoco, falciando gran parte degli infetti, che in massa, si schiantarono contro il portone. Gli uomini al di dietro, cercarono di mantenere la posizione e non far crollare l'ingresso. Si formò un ammasso di infetti che grattavano il portone con le unghie, sferrando menate e pugni per distruggerlo. I gemiti inghiottirono i rumori delle armi. Le pallottole, sparsero cervella, sangue e parti di carne ovunque sul terreno arido. Gran parte del portone fu raschiato via. Si intravidero dapprima i denti che batterono compulsivamente nel vuoto e dopo un po', l'intera faccia dell'infetto che gemeva muovendo freneticamente la testa o sbattendola sul portone. Gli uomini si spaventarono, ma erano decisi a resistere per i proprio cari.  

"Mantene la posizione!" gridò Julien, scoccando le frecce contro gli infetti "Non fateli passare! Resistete!"

Nathan la guardò quasi rassegnato; sapeva che un assalto del genere sarebbe stato letale per l'intera comunità, ma come tutti gli altri, sperava. Scoccò diverse frecce che si conficcarono nel dorso, gambe, petto e alcune volte nel cervello degli infetti. Gli archi non erano molto resistenti e alcuni di essi si ruppero. Nemmeno le frecce erano tanto solide, la maggior parte si ruppe colpendo gli infetti o risultarono innocui già a mezz'aria. Solo le armi da fuoco fecero la loro parte. Di un centinaio di infetti, solo venti furono uccisi. Gran parte di loro si riversò sul portone, altri cercarono persino di saltare sulle mure, o di arrampicarsi su altri infetti per raggiungerle, ma queste erano troppo alte. Un uomo che teneva le mani sul portone, venne morso da un infetto. I denti marci strapparono via la carne dell'uomo che si tirò istintivamente indietro e sbatté contro gli altri. Nel vedere la mano insanguinata, l'uomo gridò a squarcia gola dal dolore. Si girò diverse volte in preda al panico, tentando invano di passare, ma gli altri lo impedirono. Alcune persone nella retrovia fuggirono, mentre chi si trovava a ridosso dell'ingresso rimase coraggiosamente in posizione. Poi l'uomo venne afferrato da dietro da diverse mani, mentre un infetto affondò i denti sul deltoide, strappandogli la carne. Il sangue zampillò ovunque, macchiando i visi delle persone dietro di lui. Il portone era quasi compromesso. Gli infetti continuarono a staccare il legno con le unghie, i denti e sferrando pugni.

"Dannazione! Stringetevi! Non fateli entrare!" urlò Julien, scendendo la scalinata e raggiungendo gli uomini. 

Nathan non la seguì, preferendo restare nella cabina e scoccando qualche frecce nella speranza delle teste. Gli uomini resistettero quanto poterono, ma gli infetti con il loro peso fecero indietreggiare di un metro gli uomini. Quasi tutti gli infetti erano bloccati nello stretto corridoio dell'entrata.

"Mi servono della armi! Presto!" gridò Julien. 

Cinque uomini scesero metà scalinata, abbastanza per avere sotto tiro qualche infetto bloccato nello stretto corridoio dell'ingresso. Aprirono il fuoco. Le pallottole bucarono le teste, alcune esplosero, dipingendo di rosso le mura e macchiando i visi e gli indumenti di alcune persone. Gli altri uomini, vedendo che erano rimasti solo cadaveri fuori dalle mura esterne, scesero anche loro per dare potenza di fuoco. 

"Dove sono le lance?" urlò Julien. "Dove?!"

"Ci penso io!" rispose nathan, scendendo velocemente la scalinata. 

Julien annuì, mentre la corda dell'arco gli si ruppe in mano. "Dannazione!"

Nathan gli diede il suo arco e la faretra quasi vuota. Poi correndo, raggiunse l'armeria. Sul muro c'erano trenta lance. Ne prese dieci e stringendole forte al petto, corse verso Julien.

"Lasciate gli archi e prendente le lance!" ordinò Julien agli uomini, mentre Nathan, aiutato da un ragazzo, andarono a prendere le ultime lance. Quando furono di ritorno, gli infetti erano quasi entrati. Alcuni riuscirono a passare, ma vennero raggiunti dalle pallottole dei fucili. Un infetto riuscì a eludere i proiettili e a gran velocità si scagliò contro Nathan. Ma il ragazzo che era con lui, riusci a scagliare con violenza la lancia contro l'infetto, colpendolo alla base del collo. Il sangue schizzò ovunque. Nathan estrasse la lancia e la conficcò nel cranio, per poi riprenderla.

"Mi hai salvato la vita... Grazie!" disse Nathan, sospirando.

Il ragazzo annuì, sorridendo.

Consegnarono le ultime lance, mentre gli uomini iniziarono a prendere posizione, proprio come negli addestramenti delle ultime settimane.

"Dietro alla prima fila!" urlò Julien. "Ho detto dietro!"

La prima fila tentò di respingere l'ondata di infetti, usando i resti del portone quasi distrutto come scudo e facendogli indietreggiare, mentre la seconda fila - in cui c'era Nathan e il ragazzo - infilzò con la punta delle lance le testa degli infetti e spingeva la prima fila. Le guardie armate finirono i proiettili e presero delle lance, ma non bastavano per tutti. Così raccolsero archi e frecce. 

"Salite sulle mura!" Gridò Julien "Tirate da là!"

Gli uomini seguirono il suo ordine e scoccarono le ultime frecce. Gli infetti stavano cadendo al suolo uno ad uno. Gli uomini della prima fila avevano riportato molteplici graffi e alcuni erano morti. 

"Spingete! Spingete" Urlò Julien. "Dobbiamo avanzare! Dobbiamo ucciderli fuori dalle mura!"

Gli uomini riuscirono a portare gli infetti fuori dallo stretto corridoio dell'entrata, calpestando i corpi dei compagni morti o infetti. Gli arcieri scoccarono le ultime frecce, poi scesero giù, spingendo la seconda fila. I lancieri presero il posto della prima fila, ormai stanca e fortemente ferita. Alcuni uomini inciamparono sui cadaveri dei proprio amici o degli infetti, mentre questi, non riuscivano ad avanzare senza cadere a terra. Nathan trafisse con la punta della lancia l'occhio di un infetto, uccidendolo all'istante. Poi trafisse un altro al petto, rompendo così la lancia. L'infetto si scagliò contro Nathan, ma venne salvato da Julien, che infilzò la punta della lancia nell'orecchio dell'infetto. Molte lance si ruppero, lasciando gli uomini inermi davanti a questi. Molta gente venne divorata viva, ma i pochi lancieri rimasti uccisero gli ultimi infetti. 

"Ritiratevi! Gridò Julien "Dobbiamo ostruire l'entrata!"

I superstiti si ritirarono velocemente dentro la comunità, bloccando il passaggio all'estremità dell corridoio, con carretti e casse. I cadaveri sia degli infetti che dei caduti, vennero lasciati lì. Era notte inoltrata e non potevano permettersi di raccogliere da terra i loro amici. Quando finirono, i feriti vennero portati nell'infermeria, quelli rimasti in vita si riabbracciarono con i proprio cari e le famiglie dei caduti piansero la loro morte. Julien e Nathan si sedettero esausti, sporchi di sangue e silenziosi sulla scalinata che portava sulle mura. Mentre tutt'attorno c'era un via vai continuo di gente. Lamenti, pianti, chiacchiere, abbracci, baci. Tutta la comunità era stata stravolta in una notte. Eva notò Nathan da lontano. Voleva riabbracciarlo, baciarlo e stringerlo a sé, ma scelse di non farlo. Si limitò a guardarlo, mentre ringraziava Dio. Sempre se ci fosse un Dio in un tale disastro, pensò poco dopo. 

"Stai bene?" disse Nathan a Julien.

"Sto bene. Tu?" domandò Julien, mentre guardava il via vai di gente.

"Bene..." Nathan abbassò gli occhi "Grazie per prima... Se non fosse stato per te..."

"Quelle lance..." sussurrò quasi fra sé Julien, non dando importanza a ciò che aveva detto Nathan "Quelle lance dovevano essere rinforzate..."

"Beh, non puoi aspettarti molto da del legno marcio".

Julien non rispose, rimanendo in silenzio. Forse non l'aveva neanche sentito. Nathan la guardò per un instante, ma preferì non dire più niente. Rimasero vicini per un po', finché una donna anziana si avvicinò a Julien.

"Scusami, Julien. Abbiamo messo i feriti nell'infermeria, ma la situazione è critica per alcuni di loro. Non abbiamo abbastanza medicine per tutti".

Julien la guardò per un po' "Quante persone?"

"Sei persone".

"Ok..." disse Julien con voce quasi smorzata "Isolateli".

"Dove? nella vecchia infermeria?"

"Sì, portateli là" si intromise Nathan, capendo che Julien era troppo scossa o stanca per far qualcosa. "Me ne occupo io. Seguitemi, signora"

Julien vide allontanarsi i due verso l'infermeria. Poi si volse verso l'ingresso della comunità, intravedendo i volti di alcuni suoi amici dietro a casse e carretti. Le lacrime solcarono dopo tanto tempo il suo viso esausto, ma si trattenne. Non poteva farsi vedere così. Non in questa situazione. Ma la sua frustrazione mista a una grande tristezza prese il sopravvento, facendogli versare fiumi di lacrime. Si alzò e sparì singhiozzando lungo un edificio.

Nathan arrivò nell'infermeria. La situazione era più critica di quello che aveva detto l'anziana. Alcuni uomini avevano ferite molto aperte, oltre che morsi abbastanza ampi. Non erano sei persone ad essere in pericolo di vita, ma ben ventuno persone. Nella stanza non c'era abbastanza spazio per tutti, perfino le infermiere avevano difficoltà a spostarsi da un letto all'altro. Nathan prese penna e foglio da una scrivania, aggirandosi tra i vari letti e segnando quelli meno gravi. Dopo dieci minuti, sulla lista si contavano trentaquattro persone, su quaranta feriti gravi.

"Scusate!" gridò Nathan, posizionandosi all'entrata e attirando l'attenzione di tutti "Quelli su questa lista dovranno essere trasportati nella vecchia infermeria".

"Ma non è igenico" rispose un infermiera, guardando le altre donne che annuirono.

"Non abbiamo abbastanza spazio per tutti. I feriti gravi resteranno qui. Gli altri dovranno andare là".

"Dov'è Julien? E' lei che si occupa di queste cose" disse un altra infermiera.

"Non abbiamo molto tempo! Fate come vi ho detto o questi uomini moriranno tutti!"

Le infermiera si guardarono tra loro contrariate "Non facciamo niente senza l'autorizzazione di Julien".

Prima che Nathan potesse rispondere, Julien comparve da dietro. "Fate come vi è stato detto. Ora!"

Le infermiere si mossero subito, fasciando i feriti e occupandosi del trasporto. Nell'infermeria giunsero gli uomini con delle barelle o tavoli simili che trasportarono quelli sulla lista. Molte delle infermiere rimasero a prendersi cura dei feriti gravi, mentre quattro di queste raggiunsero la vecchia infermeria. 

"Non abbiamo più armi..." esordi Julien, sedendosi vicino alla scrivania.

"Ne costruiremo delle altre" rispose Nathan.

"Il legname scarseggia... Abbiamo costruito archi, frecce e lance con quello buono e sono troppo fragili. Non mi aspettavo tutto questo. Non sono durate quanto previsto. E'... è stata una carneficina là fuori... ed è solo colpa mia..." Julien abbassò lo sguardo rattristita.

"Ehi..." Nathan si chinò verso di lei, appoggiando un mano sulla spalla "Non è colpa tua. Non potevamo fare altro con quelle risorse. Quelle armi ci sono servite per ucciderli. Grazie a te molta gente è viva".

"Ho deluso tutti... Ho sempre detto che li avrei protetti tutti quanti..." Julien cercò di trattenere le lacrime.

"Ascoltami, Julien". Nathan cercò il suo sguardo "Tu hai fatto molto e continuerai a fare molto per questa gente. La tua gente. Loro lo sanno e te ne sono grati. Non devi addossarti nessuna colpa. Hai difeso con tutta te stessa la comunità. Le persone lo sanno. Non dimenticarlo". Nathan le sorrise.

Julien guardò Nathan per un secondo. Infine l'abbracciò senza accorgersene, piangendogli addosso. Qualche secondo dopo, Julien indietreggiò la testa e lo baciò quasi passionalmente, mentre le lacrime di lei toccarono entrambe le labbra per un secondo. Nathan inclinò subito la testa, quasi istintivamente.

"Julien..." disse lui "Non posso... é..."

"Scusami... " rispose lei "E' colpa mia... Non dovevo farlo..." dopodiché si alzò di scatto per l'imbarazzo, si asciugò le lacrime e lasciò l'infermeria.

Nathan rimase perplesso. Non si aspettava di essere baciato da Julien. Non l'avrebbe mai pensato prima d'ora. Il suo pensiero andò ad Eva. Era lei il suo amore. Era lei la ragione di tutto, anche se ultimamente, credeva che fosse solo un ricordo agli occhi di Eva. Un brutto ricordo che lei avrebbe cercato di distruggere o cancellare per non soffrire.

L'indomani, alle prime luci del sole, coperto egoisticamente da nuvole plumbee. La comunità si ritrovava senza difese e con un forte odore di putrefazione che infestava l'aria, rendendola irrespirabile oltre che malata. Le vedette poste lunghe i muri, si assicurarono che non ci fosse nessuno nei paraggi per poter spostare e bruciare i corpi. Un ora e mezza dopo, ammucchiarono tutti i corpi infetti a più di cento metri dalla comunità e li bruciarono. I corpi dei caduti invece, furono sposati verso il cimitero. Ci fu un piccolo dibattito se assistere o meno ai funerali. Molta gente era favorevole, ma alcuni erano ancora scossi dall'attacco precedente e temevano un altro attacco. A preoccuparli era il fatto che non avevano più armi per difendersi, ma Julien fece cambiare loro idea. Dopo aver piazzato quattro vedette agli angoli delle mura, e lasciato due infermiere a prendersi cura dei feriti gravi e una nella vecchia infermeria. L'intera comunità raggiunse il cimitero. I corpi furono posti su diverse pile di legno, mentre i famigliari piangevano e si stringevano sofferenti l'uno abbracciato l'altro. Eva era di fronte a Nathan. Lo stava fissando fin da quando era giunto per ultimo al cimitero. Quando però fu lui a guardarla, lei distolse subito lo sguardo. Lo fece molte volte senza farsi mai scoprire da Nathan. Dall'altra parte, c'era Julien che non aveva più parlato con Nathan dopo il bacio. Non riusciva più a guardarlo per via del forte imbarazzo, ma perlopiù perché si era mostrato fin troppo fragile con lui. Non gli era mai capitato prima, se non con Scott. La donna forte che aveva sempre mostrato a tutti, era crollata per un momento tra le braccia di Nathan. Lo guardò con la coda dell'occhio, ma lui non era Scott. Non lo sarebbe mai stato. Aveva sbagliato, fatto un errore. Non dovevo più succedere. I parenti delle vittime accesero delle torce, mettendosi poi in fila indiana. Uno ad uno diedero fuoco alle rispettive pile dei loro cari. Il fumo oscurò il cielo, la sofferenza divorò il silenzio e le fiamme inghiottirono per sempre ciò che un tempo era stato un padre, un fratello, uno zio, un nonno, ed ora solo un ricordo. 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Fino alla fine ***


Nathan si svegliò nel letto. Gli occhi faticavano ad aprirsi e rimase lì per qualche secondo. Poi si alzò lentamente col busto, rimanendo seduto. Si stropicciò gli occhi. Per quanto aveva dormito? Infine prese gli scarponi di fianco al letto e le mise ai piedi. Poi si alzò e scrutò dalla finestra. Nello spiazzo la gente camminava, parlava e correva verso i parenti feriti. Il cielo era plumbeo con qualche lampo muto all'orizzonte. Uscendo dalla stanza, vide Patrick, a pochi metri da lui, seduto su una roccia. 

Nathan si avvicinò "Patrick!" L'uomo si girò verso di lui. "Che ci fai qui?"
"Stai bene?" Patrick lo squadrò per accertarsi che non fosse ferito.
"Molto meglio di altri..." Nathan sbadigliò e coprì la bocca con una mano "Perché sei qui? Non che mi dispiaccia averti intorno".
"Ieri notte abbiamo sentito degli spari. Così ci siamo organizzati per venirvi in soccorso, ma nessuno voleva partire in piena notte. Abbiamo aspettato il mattino per farlo... Potevamo aiutarvi... se solo avessi convinto un gruppo armato a partire, non avreste perso tanta gente". Patrick abbassò lo sguardo. 
"Incamminarsi di notte è un suicidio" Nathan cercò di tenere gli occhi aperti, ma faceva una fatica assurda.
"Sicuro di stare bene?" Patrick lo guardò negli occhi "Ehi! Stai bene?" Mise le mani sulla spalla di Nathan "Non hai una bella cera".
"Sto bene" Nathan indietreggiò per levarsi di dosso le mani di Patrick "Sei venuto da solo?" L'uomo fece finta di niente.
"Sono venuto con un gruppo armato. Te lo detto prima" Patrick continuò a fissarlo.
"Giusto..." Nathan spalancò gli occhi. Le immagini apparivano annebbiate. Sbatté più volte le palpebre. Poi indietreggiò come se stesse correndo e cadde a terra. 

Patrick si precipitò ad aiutarlo. Nathan vide il suo volto sgranato, la sua bocca gridare, ma non riusciva a sentire niente. Tutto era muto. Tutto divenne grigio, senza colori. Poi l'oscurità. Quando riprese i sensi, non riusciva a muoversi. Era come intrappolato nel suo stesso corpo. Non riusciva nemmeno ad aprire gli occhi. Non sentì nulla per un breve istante. Poi lentamente ritornò l'udito. Sentiva la voce di Patrick e Julien. Suoni distorti, ma con tonalità chiare.  

********

"Al diavolo!" La voce di Patrick era più profonda, quasi penetrante "Non voglio che un altra comunità segua il destino di Rockstod. Siete degli idioti! Completi idioti! Come farete a resistere? Con cosa vi difenderete? Con sassi e bastoni? Non hai scelta, Julien. Dovete venire con noi. Sarete accolti dalla mia comunità. Perché vuoi lasciare la tua gente indifesa? Se stanotte vi attaccheranno di nuovo, non sopravviverete. Lo sai tu, come lo so io". L'udito stava lentamente tornando. Ora sentiva perfettamente i suoni attorno a sé.
"Non lascerò indietro i feriti, Patrick" rispose Julien "Molti di loro vogliono rimanere qui. Hanno figli, padri, nipoti nell'infermeria. Non voglio lasciarli in balia di quei cosi la fuori. Sai perfettamente cosa succederebbe. Lo sai bene, Patrick..." Julien aggrottò gli occhi.
"Vuoi sacrificare l'intera comunità per dei feriti?" disse Patrick "Non hanno scampo, Julien. Sono spacciati! Hai visto le loro ferite? Sono stati morsi e graffiati. Amputare un braccio, una gamba non servirà a niente. Non avete nemmeno le medicine adatte, ne gli attrezzi. Moriranno in preda a convulsione e forse si trasformeranno in Runner. Uccideranno tutti, sempre se stanotte un altra orda non vi attacchi prima". Patrick si accorse che stava urlando e abbassò lievemente il tono di voce.  "Allora come difenderete i feriti?" domandò infine.
"Proprio non vuoi capire" rispose irritata Julien "Molta gente vuole rimanere. Se questo significa morire stringendo le mani a un proprio cario, ben venga. Non posso costringerli a venire con te".
"Non vuoi o non puoi?" disse serrando gli occhi Patrick "Non ti sono mai piaciuto, Julien. Non è una novità. Ma qui parliamo di vite umane. Non sopporto l'idea di vedere brava gente morire per qualcuno già diretto alla morte" Patrick si interruppe e guardò per un momento Nathan "Lo vedi, vero?" indicò Nathan steso sul letto. Lui poteva sentirli bene, ma non riusciva a muoversi. Avrebbe detto qualsiasi cosa per farli tacere, se solo riuscisse ad aprire gli occhi "Non è stato ferito eppure, in qualche modo, il fetore marcio dei Runner è penetrato fin dentro ai suoi polmoni. Forse tra qualche minuto potresti perdere i sensi anche tu, o qualcun'altro. Questo posto è compromesso. Non potete più viverci".

Julien fissò il viso pallido e sudaticcio di Nathan. Sembrava morto in un primo momento. Il suo lento respiro era impercettibile e il suo battito sembrava immaginario, come se da un momento all'altro dovesse cessare del tutto. Lei buttava spesso gli occhi sul suo petto, per vederlo gonfiare e sgonfiare quel poco che bastava per farla rimanere tranquilla. Era diventato quasi ossessivo controllare il suo respiro. Ma ancora più ossessiva era Eva, che era rimasta con lui tutto il pomeriggio ed ora anche di sera. Se ne stava a disparte proprio affianco a Nathan; silenziosa, immobile, come una delle belle statue greche prebelliche. Ogni tanto accarezzava con la mano il volto di Nathan, ma lui non ne sentiva il tocco. Non sapeva nemmeno che era lì, poiché non aveva mai parlato. Julien e Patrick invece, erano seduti su degli sgabelli vicino alla finestra. Ogni tanto guardavano fuori, ma erano più impegnati a discutere che andare fuori e fare qualcos'altro; aiutare, riparare il cancello o pulire il sangue nero vicino ad esso, che poteva infettare tutti se fosse rimasto lì a lungo; come i corpi che rilasciavano piccole dosi di radiazione che potevano diventare letali, ma quelli erano già stati bruciati a un km di distanza. Se ne erano occupati personalmente Hellis e Cassandra. 

"Allora?" disse Patrick.
"Allora cosa?" rispose Julien.
"Partirete?".
"No".
"Volete morire? Morite allora" Patrick si alzò e uscì dalla stanza.

********

Julien rimase seduta, guardando Eva. Ella si volse, ma non disse nulla. Poi ritornò a guardare il viso di Nathan. Patrick furente, camminava e barbottava fra sé. La gente lo vide, ma con quello che c'era da fare non gli diedero poi tanta importanza. Poi si fermò e voltandosi, andò verso lo spiazzo della comunità. Salì un rialzo in pietra, un piedistallo, dove Julien teneva in suoi discorsi alle persone. E gridò "Ascoltatemi!". Una manciata di persone si voltarono verso di lui "Vi offro una possibilità. Una possibilità per far sopravvivere i vostri cari! Volete davvero che muoiano? Ci tenete tanto a vederli dilaniati dai Runner?" Molta gente si riversò vicino a lui, bisbigliando e guardandosi in faccia confusi. Alcuni scossero la testa, altri serrarono gli occhi. "Vi offro la possibilità di vivere! Di vederli felici e tranquilli nella mia comunità. Noi vi accoglieremo tutti quanti, ma..." Patrick si interruppe per un momento. Julien assisteva alla scena dalla finestra, totalmente indifferente. Infine aggiunse "I feriti non verranno. Non possiamo rischiare". La gente iniziò a parlare tra loro contrariata. "Dovete ascoltarmi. Potete sopravvivere. Potete vivere con noi. Vedere i vostri figli al sicuro. Vederli crescere. Non volete questo?" Molta gente andarò via. Rimasero solo quattro persone, ma non del tutto convinti, infine pure loro andarono via. "Dove andate? Volete davvero morire?!" Tutte le persone tornarono alle loro faccende. Patrick scese dal piedistallo e uscì fuori dalla comunità. Si sedete su una roccia, aspettando l'arrivo di Hellis e Cassandra. In lontananza i lampi squarciavano muti il cielo plumbeo.

*******

"Respira ancora?" disse Julien, alzandosi dalla sedia e avvicinandosi a Eva. Non riusciva a nascondere la sua ossessività. Non aveva lasciato la stanza nemmeno per un secondo perché il suo impulso di controllare che Nathan respirasse, era più forte di tutto quanto. Eva l'aveva capito, ma non aveva detto niente. Iniziò a pensare che Julien fosse innamorata di Nathan per quanto attenzioni gli stava dando. Non era da lei. La conosceva bene. Non si affezionava a nessuno. Non dopo la morte di Scott. Non sapeva che Julien aveva strappato un bacio a Nathan. Se l'avesse saputo, avrebbe reagito d'impulso e forse avrebbe preso a pugni Julien. Ma Eva, non era forte quanto lei. Julien l'avrebbe stesa senza problemi. Era una donna forte, robusta e dalle forme sensuali. Eva aveva solo le forme, non la forza e la robustezza per affrontarla. Era ignara dell'accaduto e forse non l'avrebbe mai saputo. 
"Sì" rispose lei, senza guardarla negli occhi. 
Nathan sentì la sua voce. Fu pervaso da un senso di serenità che si espanse in tutto il corpo. Era felice di udirla. Lei era sempre rimasta lì, ma lui non lo sapeva. Cercò di aprire gli occhi, ma non ci riuscì. La mano di lei scivolò delicatamente sullo zigomo di Nathan. Una dolce carezza che lui non sentì. Julien assistette alla scena e un formicolio inteso si propagò in testa. Provava una forte rabbia, frustrazione, amalgamata con il rimorso. Non dovevo baciarlo? Perché l'ho fatto? Che stupida che sono? pensò. Trattenne le lacrime e si volse dall'altra parte. Eva era troppo impegnata ad accarezzare Nathan, per notare che la donna forte che aveva sempre visto in Julien, era crollata per la seconda volta. Julien si sedette e guardò dalla finestra. Il cuore batteva impazzito e il nodo alla pancia gli aveva fatto venire un forte senso di nausea. Avrebbe vomitato in quella stanza se non ci fosse stato nessuno. Ma cosa avrebbe vomitato? Ansia? Dolore? Rabbia? Cercò di distogliere il pensiero di Nathan, ma era troppo forte, insistente.

********

Hellis e Cassandra arrivarono a bordo di un Jeep Cherokee nera. Le gomme erano sporche di fango, così come tutta la parte bassa dell'auto. La Jeep si fermò a pochi passi da Patrick. Hellis, che guidava l'auto, abbassò il finestrino impregnato di terra. Ebbe qualche difficoltà nel farlo, ma poi ci riuscì.

"Ehi, tutto bene?" disse Cassandra. Hellis rimase in silenzio, osservando la faccia di Patrick.
"Ti sembra che stia bene?" Patrick era irritato dalla domanda "Mi prendi per il culo?!"
Cassandra sospirò, scese dalla Jeep e andò da lui. Hellis spense il motore. 
"Che succede?" domandò Cassandra "Hanno rifiutato o accettato?".
"Rifiutato" rispose secco Patrick "Sono degli idioti. Vogliono morire insieme ai loro feriti".
"Hanno fatto la loro scelta" Hellis fece spallucce.
"Non capiscono a cosa vanno incontro" disse Patrick "Sembrano accettare volentieri la morte. Non li capisco. Perché vogliono morire tutti?"
"E' inutile pensarci" rispose Cassandra "Noi abbiamo fatto la nostra parte. Hanno scelto di restare. Ora dobbiamo tornare a casa prima che diventi buio".
"Cassandra cuore di pietra" disse sarcastico Hellis; sorrise lievemente.
Cassandra lo fulminò con gli occhi, ma non disse nulla.
"Okay. Sarà meglio andare" rispose Patrick "Vai a chiamare gli altri. Ci vediamo qui tra cinque minuti".
Hellis girò la chiave nel cruscotto e il motore si accese. "Faccio retromarcia" chiuse il finestrino per non far entrare la polvere.
 

********

Patrick e Cassandra entrarono nella stanza in cui si trovava Nathan. Eva e Julien erano ancora là. Quest'ultima sorrise a Cassandra, ma non si alzò per salutarla. Cassandra ricambiò e andò verso il letto in cui era steso Nathan. Eva si alzò dalla sedia e l'abbracciò. 

"Sono felice di vederti" disse Eva "Grazie per aver bruciato i corpi dei Runner" gli sorrise.
"Volevamo dare una mano" rispose Cassandra "Come sta Nathan?"
"Non lo so" Eva si sedette "Respira... Oltre questo non so niente. Non sono un medico" rimase per un momento in silenzio "Patrick ha detto che è il tanfo dei cadaveri l'ha fatto ammalare. Lo pensi anche tu?"
Patrick abbassò gli occhi e sospirò. Nathan stava ascoltando tutto.
"Può darsi..." rispose Cassandra "Ha la febbre, giusto?" con due dita toccò la fronte sudata di Nathan "Se si è ammalato di febbre nera, lui può sentirti, ma non può muoversi".
Eva spalancò gli occhi. Il suo viso assunse un nuovo colorito, più roseo; sulle sue labbra si dipinse uno splendido sorriso. "Davvero?" guardò dapprima Cassandra, poi Patrick e Julien. 

Julien non aveva mai avuto casi di Febbre nera. Nessuno si era mai ammalato, ne aveva visto i sintomi. Patrick aveva ignorato del tutto i sintomi durante il battibecco con Julien, ed aveva dimenticato che Nathan poteva ascoltare. Quando Nathan cadde a terra privo di sensi, Patrick fu il primo a soccorrerlo, ma dopo aver cercato di persuadere Julien e gli altri a partire, si era dimenticato di dire a Julien ed Eva di cosa si trattasse.

Eva baciò le labbra di Nathan. "Mi ascolti, Nathan? Sono qui. Non andrò da nessuna parte. Ti starò affianco finché ti riprenderai".

Julien si voltò dall'altra parte. Un nodo in gola le bloccò un attimo il respiro. Non riusciva a guardarli. Nei suoi pensieri si materializzò il viso sorridente di Scott. Non aveva avuto il tempo di salutarlo, ne di salvarlo. Provò una forte invidia verso Eva. Lei poteva toccare Nathan, aspettare che si riprendesse, dirgli addio qualora fosse morto. "Devo andare" disse Julien, uscendo senza salutare, ne aspettando risposte.

"Ma che gli è successo?" domandò Patrick a Eva, non appena Julien ebbe chiuso la porta.
"Niente. Perché?" rispose lei senza voltarsi.
"La vedo diversa. Le sue parole sono diverse, anche il modo di pensare è diverso".
"Forse è solo stanca. Ieri abbiamo avuto una brutta nottata. Molta gente è morta".
"Pensi che si senta colpevole?" 
"Non lo so" Eva fece spallucce.
Patrick aveva in parte ragione. Julien si sentiva in colpa, ma lottava contro sentimenti contrastanti per Nathan. Eva non sapeva. Patrick nemmeno. Cassandra poteva intuirlo, poiché era brava a capire le persone.
"Credo sia giunta l'ora di andare, Cassandra" disse Patrick.
"Sì" rispose la donna. Eva si alzò e abbracciò Cassandra. "Sei sicura di voler restare?" 
"Il mio posto è affianco a Nathan" disse Eva "Non posso lasciarlo da solo. Fate buon viaggio" poi girò il viso e sorrise a Patrick. Lui annuì. 

Poco dopo Eva rimase da solo con Nathan; gli strinse dolcemente le mani. "Se Cassandra ha ragione, credo tu abbia sentito tutto. Ti prego, Nathan. Svegliati. Tutti noi abbiamo bisogno di te. Julien forse non ci sta più con la testa. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci guidi. La gente si fida di te. Patrick ha tentato di convincere le persone a lasciare la comunità, ma si sono rifiutati" rimase in silenzio qualche secondo "Patrick sostiene che questo posto è compromesso. Io gli credo. Lui ci tieni a salvarci, ma non può salvare chi non vuole essere salvato. Tu puoi fargli cambiare idea. Magari ti verrà in mente qualche idea geniale. Io credo in te. Allora ti prego, svegliati". 
Nathan ascoltò ogni parola e lottò con tutte le sue forza contro il suo stesso corpo. Ma questo, sembrò avere vita propria. Non servì a niente. Perfino il battito del cuore rimase regolare, dopo che ebbe provato una forte emozione di rivalsa in tutto il corpo. Come poteva aiutare se non era neanche in grado di muovere un dito?

********

Julien passeggiò per la comunità. La gente al suo passaggio accennò un sorriso, ma lei non contraccambiò. Era immersa nei suoi folli pensieri; prigioniera del suo passato. Odiava e amava Nathan. Non sapeva come, ma sentiva qualcosa di pesante nel petto; un macigno. Era amore? Gelosia? Invidia? Odio? Forse voleva solamente che Scott ritornasse, che non fosse morto per salvare lei, Nathan ed Eva, che spuntasse dietro un angolo facendola spaventare come soleva fare lui. Ma questo non si avvererà mai e lo sapeva. Faceva di tutto per respingere dai suoi pensieri il viso sorridente di Scott. Non voleva dimenticarlo, ma ricordarlo gli faceva troppo male. Il dolore era insopportabile, penetrante e spezzava ogni sua forma di resistenza mentale. Entrò nella sua stanza arredata in modo spartano, confronto alle altre; una sedia, un letto e un comodino rotto le cui mensole erano a terra da diversi mesi. La stanza era spoglia, vuota, come il suo cuore. Odiava andare a dormire, odiava stendersi in quel letto e ricordare il sapore delle labbra di Scott, il suo corpo su di lei, il suo respiro intenso, la sua voce, i suoi occhi marroni seguire le curve del suo corpo e poi guardarlo negli occhi fino a perdersi in esso. Non aveva mai provato più nulla dopo allora. La sua compassione, era freddezza; la convinzione nel fare del bene come avrebbe fatto Scott. Lei non avrebbe salvato nessuno, nemmeno lei stessa dai pericoli del nuovo mondo, ma si sentiva in dovere di farlo. Per Scott. Lui avrebbe messo gli altri al primo posto ed era morto proprio per questo. Ma cosa avrebbe detto Scott? ripeteva spesso. Non avrebbe accettato il mio suicidio. La mia arresa. Non avrebbe permesso che molassi. Non avrebbe permesso che portassi con me la gente a morire. Ma ora? Cosa dovrei fare Scott? Ora che la gente ha deciso di morire insieme ai loro parenti feriti? Come potrei allontanarli da loro? Non sono nemmeno riuscita ad allontanarti da me? Ogni giorno sento penetrare il ghiaccio nel mio cuore. Le mie braccia si allungano per toccarti e trovano il vuoto. Come posso dimenticarti, Scott? Come?

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** La quiete dell'anima ***


Hellis, Cassandra e Patrick lasciarono la comunità di Julien a bordo della Jeep Cheroke, seguiti da un fuoristrada arrugginito dello stesso tipo. La strada divenne fanghiglia per ottocento metri. Immensi campi neri sovrastavano il paesaggio. Poi dura e sterile per altri due chilometri. Intere foreste tagliate a metà le cui ceneri danzavano leggera sui resti inermi delle cortecce. La pioggia cominciò a cadere, picchiettando la carrozzeria, e dieci minuti dopo, divenne forte e intesa. Hellis faticò a guardare la strada. Una densa nebbia inghiottì le due auto e la stradina sterrata che portava sulla via principale, quasi vicino all'autostrada distrutta. 

"Tempo di merda!" disse Patrick, guardando fuori dal finestrino.
"Come tutta questa giornata" rispose Hellis.
Cassandra guardò la pioggia battere sul terreno "Non è acida?" fece notare ai due.
"Impossibile" disse Patrick "La carrozzeria dell'auto regge bene l'acidità. Non farti ingannare".
"Guarda la terra, Patrick" rispose la donna "Non c'è fumo sul terreno".
Hellis rallentò l'andatura della Jeep, mentre Patrick osservò il terreno e disse "La terra è sterile, Cassandra. E' pioggia acida".
Cassandra abbassò lo sguardo. Aveva sperato per un istante che fosse diversa.
Patrick restò per un po' in silenzio e poi aggiunse "L'unica pioggia normale che io abbia mai visto si trova a nord-ovest, a Rothkal. Ancora mi domando perché sia così bello laggiù".
"Perché ci vivono gli scienziati" rispose Hellis, guardando a fatica la strada davanti a sé, per colpa della nebbia e la pioggia fitta.
"Non ci vivono scienziati" disse Patrick "Prima delle bombe, si trovava un laboratorio di non so cosa, ma quando un missile colpì in pieno quel edificio, qualcosa di orrendo ne uscì fuori. Quell'area è bellissima, oltre che mortale. Sai quante spore vivono in aria? Milioni forse, o di più. Quel posto è inospitale per le elevate radiazioni. Hai mai visto un uomo trasformarsi? Venir divorato da milioni di spore invisibili? Vedere il suo volto stravolto e la bocca piena di denti aguzzi? Non è una bella esperienza".
Hellis fece spallucce, ma non disse nulla. Svoltarono a sinistra, proseguirono per quattrocento metri e infine svoltarono nuovamente a sinistra. La pioggia divenne meno intensa, ma la nube non mollava la presa. Poi Hellis guardò lo specchietto retrovisore e non vide i fanalini della seconda Jeep. Trasalì un attimo. Rallentò la velocità per qualche secondo, vide apparire le luci e ne fu rincuorato.
"Che succede?" disse Patrick, non capendo perché aveva rallentato.
"Niente" rispose Hellis con un lieve sorriso.
Patrick lo squadrò per un istante, ma non disse nulla. 

Le due Jeep continuarono il percorso, uscendo dal sentiero sterrato e imboccando la strada asfaltata che portava alla loro comunità. Durante il tragitto, videro il posto di blocco che avevano incontrato precedentemente, ma degli uomini di Julien non c'era nessuna traccia. Il piccolo edificio, che usavano come protezione dalla pioggia acida, aveva la porta distrutta e le finestre rotte. Il sangue macchiava le pareti, il pavimento e i sacchi di sabbia. L'orda di Runner che aveva colpito la comunità di Julien, era passata prima da qui.

"Quindi non è stata colpa di quel edificio infestato" disse Cassandra tra sé, ma Hellis e Patrick ascoltarono la frase.
"Erano troppo pochi" rispose Patrick "Abbiamo ucciso metà runner prima di portare Nathan in salvo. Te ne sei dimenticata?".
"No" rispose Cassandra "Non ho neanche dimenticato i tizi che ci hanno teso l'agguato".
"Erano predoni" disse Hellis "Chissà perché erano là".
"E' opera dell'esercito" rispose Patrick " Utilizzano spesso gli altri gruppi per non sporcarsi le mani. Forse stavano sorvegliano il palazzo".
"Oppure noi" disse Cassandra "Non sarebbe la prima volta. Ti ricordi quando abbiamo scoperto l'avamposto dei Predoni ai piedi della montagna? Otto uomini. Li ricordi? Ricordi il biglietto che trovammo sul tavolo?".
"Okay, ho capito" annuì Patrick "I predoni lavorano per l'esercito. Questo lo sanno tutti, Cassandra. Ma non spiega perché ci hanno attaccato. Ci volevano morti? E chi allora?".
"L'esercito" rispose secca Cassandra "Sanno tutto di noi. Hanno tecnologie nascoste. In cielo volano ancora elicotteri militari e sono pieni di risorse. Sanno sempre dove siamo. Può essere che questa Jeep abbia ancora un GPS in funzione".
"Nessun GPS" Hellis scosse la testa "Conosco questa macchina come le mie tasche. A meno che non utilizzano tecnologie a me sconosciute".
"Satelliti?" domandò Patrick "Anche quelli sono ostruite dalle nuvole e campi magnetici. Secondo me, siamo troppo paranoici".  
"Se posso dire la mia" disse Hellis "Quei predoni non lavoravano per nessuno. Hanno aperto il fuoco solo perché Nathan era troppo vicino a uno di loro. Certo, non capisco perché erano nascosti proprio accanto a quel palazzo, ma sono fuori di testa, lo sappiamo tutti. Sparano a chiunque vedano, o cercano di ferirti e poi mangiarti. La setta di Sandoran, li ingaggia per trovare carne fresca. Noi eravamo quella carne fresca". annuì.
"Ti sei dimenticato una cosa, Hellis" sottolineò Cassandra "Una persona sana di mente non si avvicinerebbe mai a un edificio infestato dai Runner. Non lavoravano per la setta di Sandoran".
"Allora sono dei fottuti rincoglioniti" rise Hellis, ma Cassandra e Patrick rimasero in silenzio.

La Jeep scese una rapida discesa, svoltò a sinistra, proseguì dritta per cinquanta metri e girò a destra. La pioggia era diminuita e poco dopo smesse del tutto. Cassandra era immersa nei suoi pensieri, con gli occhi persi nel tetro e scuro paesaggio. Aveva visto fin troppa morte. Quanti ne aveva uccisi? Quanti visti morire? Aveva perso ogni cosa, ma il suo carattere non era mai cambiato. Era rimasta sempre la stessa, forse un po' indurita. Spesso pensava al passato, ai ricordi. Non si faceva coinvolgere dalle emozioni, anche perché la logica prendeva spesso il sopravvento. Analizzava, osservava e cercava di capire. Un giorno un uomo si dichiarò a lei, e Cassandra guardandolo incuriosita gli disse: "Non ho tempo per queste cose". Voleva amare, ma non in questo mondo lacerato dalla violenza. La verità è che era totalmente disinteressata all'amore. Prima della caduta delle bombe, lavorava come cameriera in una tavola calda. Il venerdì e il sabato sera, molti ragazzi affollavano i tavoli; scherzavano, flirtavano e si rendevano perfetti idioti solo per attirare la sua attenzione. Ne avevi respinti tanti e uccisi altrettanti dopo la caduta delle bombe. Spesso pensava di essere troppo apatica. Non si coinvolgeva mai in nulla, ma aiutare le persone la faceva stare bene. Ma quando la facevano arrabbiare, avrebbe sterminato volentieri tutto il genere umano. Ed era lì che la sua parte oscura strisciava fuori. La rabbia era l'unica emozione che sentiva forte come un rumore incessante. Diventava un altra, lo sapeva bene. Temeva la sua stessa emozione e aveva persino ucciso senza rendersene conto. Ma lentamente aveva capito che farsi inghiottire dalla rabbia non era mai una buona idea. Aveva cercato di rimanere calma, mentre dentro di sé scoppiava l'inferno. E c'era riuscita. Ora la rabbia non la rendeva più impulsiva, e la logica la frenava ogni qual volta lei volesse fare qualcosa di cui poi si sarebbe pentita. Conosceva bene il mostro che dormiva dentro di sé. Non gli avrebbe permesso di emergere, di farsi condizionare, di perdersi nella sua follia. Molta gente era perita per il suo stesso problema, ma lei era forte; non l'avrebbe permesso.

Le Jeep proseguì su una ripida stradina sterrata; l'asfalto era pieno di buche e in parte danneggiato. L'onda d'urto delle bombe era arrivata fin qui come un animale affamato e aveva divorato e rivoltato quasi ogni centimetro di strada e terriccio. I fuoristrada faticavano a proseguire e Hellis imprecò diverso volte. Tutta attorno a loro gli alberi erano dilaniati e gli scheletrici di alcuni grattacieli si stagliavano all'orizzonte, insieme a una sottile nebbia violacea che gli avvolgeva i piedi. L'erba nera cresceva silente, immobile in quella che un tempo era una collina piena di vita, di verde e di speranza. Ora cresceva la morte. La bruma che avvolgeva la città era come un enorme cartello con su scritto "Vietato l'accesso ai vivi". Persino i Militari si tenevano alla larga da quella mostruosa e tetra città. Nessun uomo aveva messo i piedi in quella che un tempo era la capitale della contea. Si sentivano strani ululati e grida di dolore se si prestava attenzione. Molta gente pensava che quella fosse la porta degli Inferi, e che da lì si riversassero sulla terra migliaia di Runner o putridi. Folk Town era il suo nome; ora conosciuta come Porta degli Inferi e allungava l'ombra della morte per chilometri. Era facile imbattersi in resti umani; ossa spolpate, crani spaccati, facce del tutto intatte, occhi fissi e spalancati al cielo come se prima di esalare l'ultimo respiro avevano veduto demoni inghiottirgli negli abissi per l'eternità. Bastava un simile panorama per far desistere persino il più coraggioso degli uomini. "Il perimetro dei morti" soleva dire Hellis. "L'ultima passeggiata" diceva Patrick. "La quiete dell'anima" sottolineava Cassandra; l'unica a non credere ai folli racconti della Città degli Inferi. Però, dentro di sé, sapeva che qualcosa non tornava. Come poteva un uomo sopravvivere in quel campo di morte? Una volta dentro si vagava eternamente come spettri senza metà tra migliaia di corpi carbonizzati o perfettamente intatti, cercando ossessivamente di ricordare quello che un attimo prima si pensava o si credeva di pensare, ma quel qualcosa non esisteva. L'ombra della morte era calata sull'uomo ignaro, facendone un perfetto succube della sua follia, della sua anima dispersa chissà dove e dell'ombra messaggero di morte.

La prima Jeep si fermò a un incrocio a T. "Faremo meglio a evitare la strada che fiancheggia il perimetro dei morti" Disse Hellis, indicando la strada alla sua destra.
"Non abbiamo molto tempo" rispose Patrick "Prendi la strada principale. Dobbiamo arrivare prima di sera alla comunità".
Hellis lo guardò stranito per un attimo "Non prenderò quella direzione, Patrick". Scosse ripetutamente la testa. "Non voglio finire ammazzato" Corrugò la fronte.
"Non succederà nulla" Patrick indicò con il dito la strada da seguire.

In quel momento, sbucarono da sotto un rialzo di terra due uomini con giubbotti antiproiettile e le maschere antigas levate sopra la testa. Visi scavati, occhi infossati e fissi nel vuoto, mentre camminavano lenti sussurrando o ripetendo le stesse frasi "Dove? Dove? Cosa? Dove?" sussurravano o bisbigliavano all'ignoto o forse a un ombra invisibile davanti a sé? Gli scarponi calpestavano tronchi e ossa, alle volte passavano sopra i cadaveri o si ergevano sopra di essi, restando immobili sopra i loro petti, le ossa scricchiolavano sotto il loro peso, sussurrando e bisbigliando all'ignoto. Poi rimanevano silenziosi, ascoltando qualcosa che solo loro potevano udire e cominciavano a sussurrare e bisbigliare e muoversi meccanicamente all'infinito. Passi lenti, indecisi, goffi e cambiavano direzione casualmente, alle volte subito alle volte dopo un poco. 

"Cazzo!" Imprecò Hellis, ingranando la prima e facendo fischiare le ruote della Jeep.
"Che cazzo fai, Hellis?" Disse Patrick "Dovevi andare a destra!" mise una mano sul volante cercando di farlo fermare. Quello spostò subito la mano di Patrick e lo guardò minaccioso, come un belva messo all'angolo e pronto ad attaccare. Patrick non aveva mai visto Hellis in quello stato e non voleva di certo peggiorare la situazione.
"Hellis!" urlò Cassandra, ma fu inutile. Hellis era partito a tutto gas e non intendeva fermarsi per nessuna ragione al mondo.

La seconda Jeep era rimasta ferma, immobile. Dai finestrini oscurati sembrava che il veicolo fosse stato abbandonato e che gli occupanti fossero svaniti nel nulla. Il motore era accesso, i fanalini illuminavano i due uomini con la maschera antigas, proiettando diverse ombre sul terreno, come demoni che attendevano di divorarli muovendosi freneticamente attorno. Gli occupanti scesero dal veicolo, tranne l'autista. Lenti, si diressero verso i due uomini con la maschera antigas. "Dove? Dove? Cosa? Dove?" cominciarono anche loro il lento e meccanico sussurro, perso tra alcuni bisbigli. L'autista ingranò la prima, lo sguardo nel vuoto, "Dove? Dove? Cosa? Dove?" partì, travolgendo gli uomini. La Jeep si capovolse e schiacciò la testa e il busto di uno degli uomini della maschera antigas. L'autista, vetri conficcati nel volto, lentamente strisciò a carponi fuori dalla vettura. Una volta in piedi, bisbigliò: "Dove? Dove? Cosa? Dove?" e si diresse lento, goffo in direzione della Porta degli Inferi. Gli occupanti della Jeep, che stranamento non erano morti all'impatto, continuarono a sussurrare e bisbigliare, tenendo gli occhi fissi al cielo, al vuoto. L'ultimo uomo con la maschera antigas si alzò a fatica da terra, e si mise a vagare, schiacciando la testa di uno di loro sotto i suoi scarponi. La cartilagine del naso scricchiolò, la testa si affossò nel terreno e il naso e la bocca erano l'unico dettaglio del suo viso sepolto. Nessuno di loro era. Nessuno di loro sapeva. Nessuno di loro poteva.

"Hellis, rallenta un po'!" Disse Patrick "Vai troppo veloce."
Hellis prosegui alla massima velocità, non curante che dietro l'angolo o sotto un terreno apparentemente stabile, si poteva celare il pericolo; era solo per pura fortuna che la vettura non si fosse capovolta per una buca o fosse inghiottita da un precipizio. La strada non era molto danneggiata, in confronto all'incrocio.
Cassandra si voltò. "Dov'è la Jeep? Fermati, Hellis!".
Quello non l'ascolto proprio e continuò a tutta velocità.
"Hellis!" Urlò Patrick, che ne aveva abbastanza di tutto questo; estrasse la pistola e la puntò alla tempia dell'uomo. "Ferma questa cazzo di macchina o giurò che spalmo le tue fottute cervella sul finestrino!" Click! tolse la sicura dall'arma; la canna della pistola assaggiò la fronte imperlata di sudore freddo.
Hellis tornò lentamente in sé, e l'andatura del veicolo cominciò a rallentare. 
"Cosa cazzo ti è preso?" Patrick abbassò la pistola, ma l'appoggiò sulla gamba, in modo che Hellis potesse vederla.
"Io..." balbettò Hellis "Io non so... Non volevo andare da quella parte... Ho visto quei due uomini... Ho sentito una voce... La mia stessa voce... Ricordo solo che sono partito a tutta velocità, poi... vuoto".
"Dannazione!" sospirò Patrick e si voltò indietro "Tu hai sentito qualcosa, Cassandra?"
"Niente. Tu?" Cassandra fece spallucce.
"Nessuna voce" Patrick guardò Hellis "Cosa hai sentito?"
Hellis corrugò la fronte, fermò la Jeep, e si mise a pensare. "Dove? Dove? Cosa? Dove?"
"Sono le stesse parole dette da quei due uomini" rispose Cassandra.
"Si ripetevano all'infinito nella mia testa" le mani strinsero il manubrio come in una morsa "Poi sentivo delle riposte..." Si fermò a pensare a lungo. Patrick e Cassandra si guardarono confusi, finché Hellis parlò di nuovo. "Dove si insidiano le ombre. Dove il cielo si confonde con la terra. Cosa resta dell'anima? Dove...". abbassò lo sguardo.
"Dove cosa?" insistette Patrick.
"Io... Non lo so..." Hellis appoggiò la fronte sul manubrio. Patrick e Cassandra lo guardarono straniti. D'un tratto Hellis tirò la testa indietro, colpendo il sedile e trasalì, come destato da un lungo sogno. Si guardò attorno accigliato "Cosa succede? Dove siamo?"
Patrick lo fissò per un attimo: "Cosa? Non ricordi cosa hai detto poco fa?"
"Eravamo all'incrocio o sbaglio?" rispose Hellis, il tono di voce e la sua espressione mutarono del tutto, sembrava un altra persona; era tornato ad essere l'uomo di sempre.
Cassandra fu colpita da questo cambiamento, che per la prima volta ebbe una strana paura; un lungo e profondo brivido percorse tutto il suo corpo. Non seppe spiegarsi il motivo; il cambiamento di Hellis, che credeva di conoscere fin troppo bene, gli fece gelare il sangue quasi del tutto.
"Non importa" disse Patrick, mettendo la pistola nella fondina. 
Hellis non aveva capito perché il suo amico aveva una pistola in mano. "Dove siamo? Non ricordo di aver guidato? Perché non ricordo?" Hellis serrò gli occhi.
"Le risposte arriveranno" rispose Patrick "Ora è meglio raggiungere la comunità". Indicò con la mano la strada davanti a sé. Hellis ingranò la prima e la Jeep partì.

Seguirono la strada in silenzio per diversi minuti, fiancheggiati da rocce, detriti, pali della corrente abbattuti e veicoli abbandonati, oltre che rami, cortecce e un velivolo militare schiantatosi tempo fa contro un pullman.
"Dov'è la seconda Jeep?" esclamò Cassandra, quasi fra sé.
Patrick si girò verso di lei, mentre Hellis rallentò lentamente.
"Maledizione!" imprecò Patrick "Non possiamo tornare indietro. Forse sono caduti in trance come Hellis, non hanno scampo oramai."
"Io però, mi sono ripreso" rispose Hellis.
"Non voglio correre questo rischio". Patrick aggrottò la fronte, pensando se fosse stata l'arma a far ragionare o spaventare l'uomo, facendolo tornare in sé.
"Li lasciamo là a morire?" Cassandra era irritata.
"Non abbiamo altra scelta" rispose Patrick, voltandosi nuovamente verso di lei "Quel posto ha fatto quasi impazzire Hellis. Non voglio che lo faccia anche con noi." si voltò.
"Se avessimo girato nella direzione che volevi..."
"Sì, saremmo morti o peggio." Patrick interruppe Cassandra. "Non voglio tornare più sul discorso!"

Hellis li aveva salvati tutti. La sua momentanea pazzia, la paura, la rabbia, il non voler a tutti costi svoltare a destra, aveva salvato sia lui, che Patrick e Cassandra nel vagare eternamente senza meta. Eppure, non ricordava nulla, se non una leggera e continua paura; come un ombra che aspetta di saltargli alle spalle, assaggiando la sua paura e godendo nel vederlo in stato di all'erta. Hellis non ricordava o non voleva ricordare? Cercava in tutti modi di pensare all'ultimo instante prima che l'oscurità inghiottisse la luce. Non ricordava o non ne era capace. Perché? Perché questo strano e tetro silenzio nella sua testa? Nel mare tempestoso che era la sua mente, nessun pensiero importante o sciocco ci navigava. Cosa era successo? Perché non riusciva a pensare a qualcosa, a un immagine, a un colore, a qualcosa insomma. Come faceva a sapere la strada per raggiungere la comunità, se non sapeva nemmeno com'era fatto il luogo? Nel profondo sapeva di conoscerlo, ma ora non più. Perché?

"Accelera, Hellis" disse Patrick, guardandolo di sfuggita, mentre l'uomo fissava la strada davanti a sé. 
"Stai bene?" Domandò Cassandra, ancora scossa dello strano cambiamento di Hellis.
"Sì. Tutto bene" mentì l'uomo. "Sono solo un po'... stanco."
"Tutti siamo stanchi, Hellis!" esclamò Patrick.
Cassandra non ci credette, ma non disse niente.

Proseguirono lungo la strada per cinque minuti, prima d svoltare a destra e prendere una stradina rocciosa che avevano creato precedentemente grazie al via vai continuò delle loro Jeep per arrivare alla comunità. La strada principale, che era la più vicina, era distrutta; un grosso aereo di linea era precipitato sull'asfalto più di anno fa, lasciando un piccolo cratere che si allungava per duecento metri verso le campagne. La carcassa nera del velivolo aveva disseminato ovunque pezzi di sé, bruciando per tre giorni di seguito. Il fumo che si innalzava al cielo era visibile fino a cinque chilometri di distanza. I cadaveri dei passeggeri erano in mostra sui sedili divorati dalle fiamme; che non aveva avvolto l'intero aereo, ma solo una parte.  E tutto questo, aveva dato pochi minuti di vita o secondi alla gente sopravvissuta prima di morire per le forti radiazioni. Il pilota aveva cercato di fare un atterraggio di fortuna e in parte c'era riuscito, ma non sapeva che le radiazioni avevano invaso quel luogo. I fortunati sopravvissuti in realtà, erano morti sui proprio posti, dopo atroci lamenti e agonie. I visi parlavano il linguaggio della sofferenza, della morte. "Molti sono ancora intatti" disse Patrick, quando si recò lì per la prima volta "Com'è possibile? Sembrano... Soffrire anche se sono morti." E in effetti le loro espressioni erano immortalate per l'eternità, come un quadro o una statua che racconta qualcosa pur restando immobile e percependo nel tetro silenzio di uno sguardo, emozioni che colpiscono senza pietà come un fulmine. A distanza di mesi erano ancora lì; visi sofferenti, occhi spalancanti al cielo e la pelle bianca, sottile, tenera e stranamente calda. Non sembravano morti, pur essendo così.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Galleria ***


Urla, gemiti, grugniti. La comunità era stata travolta. I Runner avevano sputato le ossa e si preparavano a fare terra bruciata tutt'attorno, com'era successo già a molte comunità. Nathan era rimasto lì ad ascoltare tutto, muoveva solo le braccia, la testa, ma le gambe non funzionavano, non ancora. Cadde dal letto, strisciò carponi verso la finestra, ci si arrampicò e spiò fuori. I corpi senza vita giacevano uno sopra l'altro vicino al cancello. I Runner correvano senza sosta, uccidendo e massacrando di pugni e graffi la vittima. La sua stanza non era stata travolta da quell'onda di Runner che aveva letteralmente spazzato via la piccola resistenza al cancello. Poi come un lampo ecco la risposta: "Puzzò di morte!"    I Runner avevano un olfatto molto elevato e occhi molto deboli. La febbre nera che aveva quasi ucciso Nathan, in qualche modo gli aveva salvato la vita. Più guardava quel massacro, più non capiva perché la maggior parte dei cadaveri si trovava a ridosso dei cancelli. "Come hanno fatto ad entrare se il cancello è intatto? Da dove arrivano?"Nathan era confuso.          Il cancello era stato riparato in fretta e furia e dietro di esso erano state messe moltissime cianfrusaglie. Molte guardie erano state messe sui camminamenti lungo la palizzata. Avevano prodotto lance rudimentali con quello che avevano trovato. Qualcuno spalancò la porta e la chiuse dietro di sé, ansimando. Era Eva, sguardo terrorizzato, gli avambracci sporchi di sangue e un accetta in ferro nella mano sinistra. Nathan la guardò per un istante. Lei, spaesata e accigliata, fissava il letto vuoto dove un momento prima c'era Nathan. Poi lo vide, in penombra, accanto alla finestra. Corse da lui, i suoi occhi meravigliati dal fatto che si fosse mosso da solo. 

"Non riesco a muovere le gambe" Patrick batté una mano sulla gambe destra. "Cosa è successo?"
"Dobbiamo andarcene, Nathan!" Eva si avvicinò a lui e lo prese da sotto un braccio, ma era troppo pesante per lei. 
"Lasciami" Patrick spinse le mani della donna, che abbassò gli occhi. "Dimmi cosa è successo?"
"I feriti" Eva indicò l'infermeria con la testa "Una donna aveva preso la febbre nera, ma..."
"Maledizione!" Patrick strisciò verso il letto e si mise seduto come meglio poteva "Cosa hai fatto alle mani?" indicò con il capo gli avambracci di lei.
Eva li osservò per un attimo "E' sangue umano. Non sono infetta."
"Qui siamo al sicuro, credo." Patrick batté forti le mani sulle gambe, la destra si mosse di poco. "Devo aspettare che le mie gambe..."
"Sì. Dobbiamo aspettare." Eva si sedette accanto a lui "Julien mi ha detto che i Runner sono confusi dall'odore di morte. Cosa voleva dire?"
"Secondo te perché non hanno attaccato questa stanza?" Patrick si palpò le cosce con le dita, come per massaggiarle.
"Non lo so" Eva era confusa.
"Puzzo di morte, Eva." Patrick la guardò negli occhi "Riesci a sentire il mio odore? Il mio tanfo? Senti il marciume che ho addosso." L'uomo inclinò la testa per fargli annusare il collo.
"Non serve, Nathan" Eva abbassò gli occhi "Lo sento da quando sono entrata. Fuori c'è lo stesso odore."
"Ora sai perché non mi hanno ucciso." Patrick distolse lo sguardo da lei e rimase in silenzio per un po'. "Quindi... sono stati i feriti?"
Eva annuì lentamente "Julien lo sapeva. Da quando Cassandra gli ha detto che eri ammalato di febbre nera, si è accertata che i feriti non avessero preso questo tipo di... malattia. Ha ordinato ai familiari e amici di lasciare l'infermeria e di metterla in quarantena, ma non l'hanno ascoltata." guardò il pavimento "Quando è scoppiato il caos, le guardie all'interno non distinguevano i malati dai sani, e alla fine... Beh, è successo quel che è successo..."
"Come sai che è andata così?" Nathan fece la domanda più per curiosità, che per altro.
"Ero là." Eva sospirò "Stavo convincendo la gente a lasciare la stanza. Come io aveva fatto con te, anche se a malincuore." Eva cercò la mano di Nathan, ma lui la ritirò al tocco. "Non mi hanno ascoltata, ma solo presa a insulti. Quando ho visto la donna mordere il braccio del marito, è scoppiato il caos. Sono corsa via, o almeno ho provato a farlo. Appena ho cercato di aprire la porta, ho capito che ci avevano chiuso dentro. Un uomo mi ha raggiunto e si è messo a colpire la porta con l'accetta. Non appena sono uscita fuori, l'uomo è stato afferrato alle spalle..." sospirò e chiuse gli occhi per un istante "Ha lasciato cadere l'accetta e l'ho raccolta velocemente. Altri uomini mi hanno raggiunta, cercando di fermare i feriti impazziti. Io... Io sono corsa da te." Si voltò verso Nathan, sorridendo, ma lui non ricambiò. La donna ritirò il sorriso e abbassò gli occhi.
"Come sai che Julien è nello scantinato?" Nathan serrò gli occhi.
"L'ho vista poco prima che venissi da te." Eva pose l'accetta sul comodino malridotto "Era insieme a un uomo e due donne. Mi ha guardata per poco, poi ha chiuso le porte. C'era altra gente che correva verso quella cantina, cercando di aprirla e chiamare Julien, finché i feriti... è stato un massacro."
"Non è da Julien abbandonare gli altri? Né sei sicura?" Nathan notò che la sua gamba destra era tornata come prima, solo la sinistra non dava ceni di vita. Mosse la destra, aprendo e chiudendo la gamba. 
Eva sorrise "Riesci a muoverla. E l'altra?"
Nathan ignorò la domanda "Sicura che era Julien?"
"Sì" Eva lo guardò triste negli occhi "Ti ho fatto qualcosa, Nathan? Mi sembri... strano?"
Nathan si schiaffeggiò la gamba sinistra. Non sentiva dolore. Non sentiva nulla. "Passami l'accetta!" il suo tono di voce era rabbioso.
"Che vuoi fare?" Eva spalancò gli occhi, il fiato corto.
Nathan sbuffò nervoso e allungo la mano verso l'accetta sul comodino, ma Eva l'afferrò velocemente.
"Dammi l'accetta, Eva!" Patrick la guardò infuriato.
"No!" Eva si alzò dal letto e indietreggiò un poco "Stai impazzendo? Non voglio..." gli occhi lacrimarono "Non ti darò l'accetta..." strinse forte le mani intorno all'impugnatura "Se fai un altro passo... Io..." scoppiò a piangere, mentre indietreggiava.
Nathan si alzò sulla gamba destra, la sinistra sembrava penzolargli. "Dammi l'accetta." La sua voce era calma e serena. Zoppicando, si diresse verso Eva, il palmo della mano aperta. Lei sbatté le spalle contro la porta e sussultò per lo spavento. Lui si fermò a pochi passi da lei "Non ti farò del male, nemmeno se lo volessi". Eva lo guardò negli occhi e abbassò l'accetta. Lui sorridendo, le tese la mano. "Non sono pazzo, ma ho paura che tu lo sia." 
"Non ti credo!" Eva, spalle alla porta, cercò con la mano la maniglia "Tienila!" buttò l'accetta ai piedi di Nathan, aprì velocemente la porta e la chiuse altrettanto veloce dietro di sé. Corse per il piazzale disseminato di morti e raggiunse la pila di cadaveri davanti alle porte della cantina, dove era scesa Julien. Nessun ferito era in giro. "Nessun folle" si ripeteva a sé stessa. "Devo solo bussare. Devo solo chiamare Julien. Lei mi aprirà." bussò forte, guardandosi in giro terrorizzata. I suoi occhi si posarono su ogni angolo; edifici e casse, rocce e strade. Bussò ancora, ancora e ancora. Dall'altra parte sembrava non esserci nessuno. 

Nathan raccolse l'ascia, zoppicò fino al letto e si sedette. Controllò la lama da cima a fondo. Non c'erano tracce di sangue nero o sangue normale. Poi con una delle due punte dell'acciaio, si strappò una piccola parte del pantalone. Ora la pelle era visibile. Il colorito era normale, nessuna venatura nera, nessuna macchia violacea. Mise la punta della lama contro la pelle della coscia, all'altezza del ginocchio e premette debolmente. Un poco di sangue sgorgò fuori, denso, rosso, normale... Non era infetto. La gamba si sarebbe ripresa, ma non sapeva quando. Sospirò e buttò fuori tutte le sue precauzioni. Il suo pensiero volse a Eva "Non dovevo trattarla male. Non stavo per morire. Sono un idiota!" Si alzò dal letto e raggiunse zoppicando la porta. La ferita non sanguinava più di tanto, ma sarebbe bastato ad attirare i Runner, persino con il tanfo della morte impregnato addosso. Si pulì la ferita con la stoffa del suo stesso pantalone e aprì la porta. Proseguì un poco. "Odore di morte" pensò fra sé. Poi sentì qualcosa. Un picchiare rabbioso e continuo. Strinse l'ascia nella mano e si diresse verso l'origine del rumore. Era sorpreso nel vedere che intorno non c'era nessuno. Solo gli occhi vitrei dei cadaveri squartati lo seguivano silenti nel suo cammino. Quando svoltò l'angolo dietro l'edificio, che un tempo era la mensa della comunità, vide Eva. Lei si fermò di colpo, pietrificata, gli occhi di lei impauriti e attenti sull'accetta di Nathan. Eva cercò con lo sguardo una via di fuga. Dentro di sé la paura cresceva e lentamente la divorava. In ogni direzione, in ogni angolo poteva cadere impasto ai Runner o peggio ancora, alla follia omicida di Nathan. "Devo rimanere tranquilla. Devo rimanere tranquilla. Devo rimanere tranquilla" ripeteva a sé stessa all'infinito.

Nathan buttò l'accetta davanti a sé "Non mi serve più. Grazie." 
Eva si accigliò confusa "Non... non sei pazzo... Non lo sei... No, non sei pazzo..." lo guardò da capo a piede, scrutando ogni movimento facciale o del corpo. Cercava un singolo pretesto per dar voce ai suoi pensieri che gli dicevano "E' pazzo... Ti farà del male... Vattene via... Non gli credere..." 
Nathan zoppicò verso di lei, ma Eva indietreggiò "Non ti avvicinare, Nathan. Stammi lontano. Io non ti credo!" gli occhi rossi dal pianto, cominciarono a riempirsi di nuovo di lacrime. 
"Ho sbagliato a trattarti male, prima" Nathan si fermò "Pensavo... beh, pensavo fossi infetto. Non volevo che ti avvicinassi a me. Non volevo infettarti, Eva". Prese l'accetta.
"Che vuoi fare?" Eva era pronta a scattare via in qualsiasi direzione.
Nathan lanciò l'accetta ai piedi di lei "Prendila! Se credi che voglia farti del male, allora uccidimi." allargò le braccia in un gesto di arresa. 
"Non..." Eva raccolse l'accetta senza distogliere lo sguardo "Non voglio ucciderti, Nathan. Ho paura a starti vicina. Mi hai trattato come..." indicò con la testa i morti che giacevano a terra, lo sguardo fisso sull'uomo "...La gente mi ha trattata così, prima di scaraventarsi addosso a me o agli altri." Abbassò lo sguardo esausta. 
Nathan si avvicinò lentamente a lei, le braccia tese in aria. "Perché pensi questo di me? Sono sempre io. Non sono impazzito. Guardami. Ti sembro impazzito? Ti sembro come loro? Ho mai cercato di... ucciderti?" ora era a un passo da lei.
"No..." Eva lo guardò negli occhi lacrimati e sorrise, in quella curvatura c'era solo tristezza e sofferenza. "Non volevo ucciderti se tu..."
"Non preoccuparti" Nathan l'abbraccio stretta a sé, la testa di Eva sul suo petto, le mani dell'uomo accarezzavano dolcemente i suoi capelli "Sono qui, Eva. Non preoccuparti."
Lei pianse, finalmente. Buttò fuori tutto quello che aveva dentro. Ogni dubbio era defluito insieme a quel pianto salato. Da quell'abbraccio non voleva più separarsene. Voleva sprofondarci, per sempre. 

Poi sentirono un rumore. Qualcosa stava accadendo dietro le porte dello scantinato. Nathan impugnò con due mani l'accetta, e protesse Eva dietro le sue spalle. Erano passi quelli che sentivano, susseguiti da un colpo secco. Poi lentamente si aprì la porta dello scantinato. Nathan si preparò a sferrare un attacco, quando vide Julien che saliva le scale con gli indumenti e il viso inzuppati di sangue. I suoi occhi si posarono su Nathan e poi su Eva. In mano aveva un coltello da caccia insanguinato fino all'elsa. 

"Julien!" Nathan abbassò l'arma "Sei viva."
"Già" Julien gli diede le spalle e guardò giù nello scantinato "Ho fatto il possibile..."
"Mi hai abbandonata, Julien" Eva avanzò verso di lei "Mi hai guardata. Hai visto che ero in difficoltà e hai preferito chiuderti dentro una cantina!"
"Eva, non è il momento di litigare" Nathan gli pose una mano sulla spalla, ma lei si levò dalla presa.
Eva arrivò affianco a Julien, i suoi occhi si posarono immediatamente verso la scalinata. Ai piedi del primo gradino c'erano otto corpi riversi in una pozza di sangue e le pareti erano state dipinte con lo stesso colore. Nessuno dei visi sembrava umano. Eva si irrigidì, impaurita. 
"Ho fatto il possibile..." ripeté nuovamente Julien "E' bastato solo uno..."
Nathan si affiancò a loro, guardando il tetro panorama "Erano infetti?"
"Non lo so..." Julien distolse lo sguardo dai corpi "E' successo tutto così in fretta..."
"Forse qualcuno si è nascosto qui prima di te" suggerì Nathan "Sapevano cosa sarebbe successo. Non tutti avrebbero affrontato il problema nello stesso modo."
"Ho dovuto farlo..." Julien era molto scossa.
"Dobbiamo andarcene." Disse Nathan "In questo posto c'è solo morte. Non vedo però dove siano finiti tutti gli infetti." si guardò attorno.
"E' sangue infetto quello che hai addosso, Julien?" Eva la guardò confusa.
"Non lo so" rispose Julien, guardandosi le mani insanguinate. 
"Se fosse sangue infetto, non staremo qui a parlare" disse Nathan "Ora è meglio andare"
"Dove?" Domandò Eva.
"Lontano da qui."
"Nella cantina c'è una galleria" rispose Julien.
"Una galleria?" disse sorpreso Nathan, poiché non conosceva l'esistenza di questa galleria"Come mai non ne hai mai parlato?"
"Perché l'ho scoperto solo oggi" rispose Julien.

Scesero le scale, passando accanto ai cadaveri e inzuppandosi le scarpe di sangue. Svoltarono a destra, in una piccola stanza piena di casse e scaffali per lo più vuoti. S'incamminarono lungo un corridoio illuminato da quattro torce, accese precedentemente da Julien, e quando arrivarono davanti alla porta di legno, che conduceva alla galleria, Julien si fermò e prese la torcia. "La galleria è buia. Fate attenzione dove mettete i piedi. Non vorrei ci fossero pozzi o cose simili."
"Lo hai già percorsa questa galleria, giusto?" domandò Eva.
"Sì, ma di fretta e non tutta" rispose Julien "E da sola"
"Sola?" disse Nathan "Quindi sei tornata indietro per uccidere la gente infetta?"
"Diciamo di sì" sospirò Julien. "Era la mia gente."
"Perché mi hai abbandonata, Julien?" Eva lo voleva sapere a tutti costi.
"Non c'era tempo, Eva" Julien abbassò gli occhi "Se ti avessi aspettata, gli infetti sarebbero entrati nella cantina... Dovevo farlo."
"Non mi inseguiva nessuno" rispose Eva "Stai mentendo!" i suoi occhi si accesero.
"Credi a quello che vuoi" tagliò corto Julien.
"OK, ora basta!" Nathan alzò la voce "Muoviamoci, prima che gli infetti scendano giù e ci fanno a pezzi!"

Proseguirono lungo l'oscura galleria rocciosa. Julien, torcia in mano, s'incamminò accertandosi che il terreno fosse solido, seguita da Eva e Nathan che copriva loro le spalle. Ogni tanto Nathan si voltava credendo di udire un rumore, ma non c'era nessuno. L'istinto gli diceva di non dare le spalle all'oscurità e perciò si voltava in continuazione. Il terreno era roccioso, così come le pareti. La luce della torcia faticava a raggiungere il soffitto e in alcuni casi persino i muri. Il percorso serpeggiava diverse volte, ma seguiva sempre una sola strada. Non c'erano biforcazione, ne salite, ne discese. La galleria era stato costruito da persone, pensò Nathan. C'erano alcune travi di legno a sostegno di alcuni punti nella galleria, alcuni di essi erano marciti, altri spezzati. Dopo duecento metri, sbucarono in una grande stanza. Cinque carrelli minerari, con dentro diversi picconi, erano ammassati vicino a una colonna rocciosa. 
"Una miniera" disse Eva.
"Guarda i carrelli" Nathan gli indicò con il dito "La ruggine gli ha completamente divorati"
"E con ciò?" 
"E' una miniera che ha un centinaio di anni... forse anche più."
"Ma non puoi esserne certo" 
Julien non fece caso alla loro discussione e proseguì oltre. I Carrelli, illuminati dalla torce, vennero inghiottiti nuovamente dall'oscurità. Nathan e Eva proseguirono accanto. La sala in cui camminavano, era ampia, e il soffitto alto trecento metri. 
"Sapevi l'esistenza di questo posto, Julien?" domandò Nathan. 
"No."
"Eppure era sotto i nostri piedi. C'era una caverna così alla comunità di Patrick..." Nathan rimase in silenzio per un poco, pensando se quella fosse una caverna mineraria o meno. "Nell'aria c'è odore di carbone, lo sentite?"
"Lo sento da quando sono entrata nella galleria" rispose Eva.
"Deve esserci del carbone qua sotto, forse." disse Nathan "Forse estraevano Carbone? Oro? Diamanti?" sorrise a Eva.
"Quanto vorrei un diamante" Eva sospirò "Una collana puntellata di diamanti, o un bracciale, o un anello."
Julien sbuffò irritata, ma non disse niente.
"Se lo trovo sarà tuo" disse Nathan "Un prezioso diamante, per una preziosa e bellissima donna" sorrise e accarezzò con un dito delicato le guance di Eva, che arrossì.
Julien, volto arrossato dalla rabbia, si fermò e guardò i due. "Basta!" Nathan e Eva si guardarono confusi. "La volete smettere di parlare? Può esserci di tutto dentro questa oscurità!" i suoi occhi lanciarono fiamme "Fate silenzio!" 
Julien mentiva. L'affetto e l'amore che Nathan nutriva verso Eva, la riempiva di odio. Dentro di sé provava qualcosa per lui, ma non sapeva cosa. Il ricordo di Scott era ancora vivido, e lei si domandava spesso se questo suo sentimento verso Nathan non fosse in realtà falso. Era gelosa? O invidiosa? Non sapeva rispondere a questa domanda. Aveva strappato un bacio a Nathan, si era pentita di averlo fatto, ma non sopportava quando lui mostrava amore verso Eva. Julien avvolte si sentiva nel torto, la terza incomodo, ma come poteva far tacere le sue emozioni? 
"Devi calmarti, Julien" disse Nathan, mettendogli una mano sulla spalla "Dietro di noi c'è solo morte. Sono sicuro che qui dentro non ci sia nulla. E poi già ci sei passata, giusto? Quindi perché preoccuparci."
"Perché non sono arrivata alla fine di questa galleria" rispose secca Eva "Se continuate a parlare, qualsiasi cosa ci sia oltre questa oscurità può sentirci e saltarci addosso."
"Non c'è odore di putrefazione. Siamo al sicuro" sorrise Nathan "Dobbiamo solo trovare l'uscita."
Il viso di Julien rimase inespressivo.
"Patrick aveva ragione nel dire che saremmo tutti morti" rispose Eva, lanciando occhiate intorno "Lui sapeva... Dovevamo ascoltarlo..."
"Ascoltarlo dici?" Julien scosse la testa "Sei stata la prima a voler rimanere, perché non volevi abbandonare Nathan. E ora dici che dovevi ascoltarlo? Ma ti ascolti quando parli?" serrò gli occhi.
"Tu ce l'hai con me, Julien! Mi hai abbandonata perché mi volevi morta!" Eva gli puntò il dito "Non credere che io non sappia perché l'hai fatto. Volevi stare con Nathan, non è vero? Pensi che io sia tanto stupida da non vedere come lo guardi, eh?"
Nathan spalancò gli occhi. Che Eva era a conoscenza del bacio che Julien gli aveva dato?
Il volto di Julien s'infiammò, ma non disse una singola parola. D'altronde, come poteva? Quello che Eva stava dicendo era tutto vero, o quasi; tranne la parte in cui la voleva morta.
"Forse è meglio continuare" disse Nathan imbarazzato.
"Forse è meglio!" rispose Eva, a un passo dall'esplodere di rabbia, ma cercò di rimanere calma.
Julien si voltò e s'incamminò, cercando anche lei di reprimere la sua rabbia.  

Per un lungo periodo nessuno parlò. Il rumore dei passi, echeggiava da una parte all'altra quasi all'infinito. Piccole pietre crepitavano sotto le loro scarpe, producendo un inquietante rumore. La luce della torcia brillava nell'oscurità, divorando man mano la strada davanti a sé, per poi venire a sua volta divorata dalle ombre dietro di essa. Le pareti rocciose si restringevano fino a poterle toccare allungando un braccio, e passo dopo passo il soffitto si abbassava quasi a sfiorare le loro teste. 
"Delle rotaie" Julien le indicò. Tutti si fermarono.
"Perché solo qui?" domandò Nathan.
"Che vuoi dire?" 
"Prima d'ora non abbiamo incontrato delle rotaie. C'erano carrelli, picconi, ma niente rotaie."
"Quindi?" Julien aggrottò al fronte.
"Non so, mi sembra strano" Nathan serrò gli occhi pensieroso "Perché portare dei carrelli senza usare le rotaie?"
"Le avranno tolte, immagino." Julien fece spallucce.
"E chi, allora?"
"Hai detto che questo posto forse ha cento anni. Sarà stato chi lavorava qui."
"Sì... Potrebbe essere così."
"Continuiamo a muoverci." disse Julien, incamminandosi per prima, senza aspettarli.

Il fuoco della torcia si stava lentamente affievolendo, quando Julien incalzò il passo; ora era difficile vedere a più di venti piedi. La strada girava prima destra, centocinquanta metri dopo a sinistra, e sessanta metri a destra. Attorno loro le pareti di roccia si chiudevano, e sembrava di marciare in un cunicolo. L'ultima rotaia rimase dietro di loro. 
"Questo posto non mi piace per niente" disse Eva, accostandosi quasi addosso a Nathan "Ci sarà un uscita almeno?"
Julien non rispose.
"Ci sarà, tranquilla" Nathan gli sorrise e l'avvolse con un braccio affettuoso. Eva ricambiò il sorriso e si sentì rassicurata.
Julien fece finta di non vedere "Abbiamo forse dieci minuti di luce, prima che la torcia si spenga. Dobbiamo aumentare il passo."
"Pure voi faticate a respirare?" rispose Eva, il suo respiro diventò più intenso.
"Sì. Non è un buon segno" disse Nathan.
"Non possiamo tornare indietro" Julien fece ceno con la testa di camminare "Né sprecare altro tempo. Dobbiamo arrivare alla fine di questa galleria o qualunque cosa esso sia, prima che si spenga la torcia, o sarà impossibile trovare l'uscita."

Camminarono e camminarono. Tutto sembrava uguale a prima, eccetto per le rotaie. Eva era affaticata, la fronte grondava sudore, e si lamentava di continuo con Nathan. Julien proseguiva senza voltarsi, ma anche lei sentiva l'aria diminuire. Nathan invece, aveva notato che l'odore di carbone non c'era più, e non sapeva dirsi quando era sparito. D'un tratto arrivarono nei pressi di un arco. Su di esso, sulla parte superiore, Julien vide qualcosa e avvicinò la torcia. C'erano delle parole marchiate con del spray nero su un cartello di legno con i bordi marciti. "Le gallerie sono crollate. Tornare indietro." Julien si fermò a pensare.
Eva gli si avvicinò con gli occhi spalancati dalla paura. "Lo sapevo, lo sapevo. Non c'è un uscita. Non più!" si girò verso Nathan "Moriremo tutti qua sotto! Non voglio morire!" Eva scoppiò in un pianto isterico e Nathan l'abbracciò, tentando di tenerla ferma. Lei riempì il suo petto di pugni e schiaffi.
Julien non si voltò nemmeno. Rimase immobile come una statua, seguendo continuamente dall'inizio alla fine le parole del cartello.
"Calmati, Eva. Calmati" disse invano Nathan "Devi calmarti! Guardami! Guardami! Così, brava. Ti ho mai mentito? Ecco, brava. Non l'ho mai fatto e non lo farò ora. Adesso ascoltami, ok?" Nathan li asciugò le lacrime con la manica. "Presto usciremo da qui e tutto questo sarà solo un brutto ricordo, ok? Ora calmati. Stai serena." 
Eva si rannicchiò contro il muro, le mani attorno alle ginocchia, la testa che dondolava avanti e indietro.
Nathan si accostò a Julien, i suoi occhi erano freddi, inespressivi. "Non sappiamo se il cartello dice il vero." Nathan cercò il suo sguardo, ma lei continuò a fissare le parole, la torcia che crepitava "Hai detto che dobbiamo continuare, quindi andiamo" voltandosi, andò da Eva e cercò di farla alzare lentamente. 
"Non voglio morire, Nathan." disse Eva quasi in un sussurro.
"Troveremo l'uscita, vedrai." rispose Nathan, sorridendogli. Poi insieme a Eva, si avvicinò a Julien. "Andiamo!"

Julien s'incammino per prima, anche se non aveva detto una sola parola. La luce della torcia illuminava le pareti rocciose che in alcuni punti erano bagnate, in altre scavate o crollate. Ad ogni passo il terreno sotto i loro piedi diventava fanghiglia.
"Forse ci stiamo avvicinando all'uscita. C'è terra qui" disse Nathan con un lieve senso di rassicurazione.
"O forse è un lago o fiume sotterraneo" rispose secca Julien, che non aveva per niente intenzione di sperare nella buona sorte. Ogni volta che lo faceva, qualcosa di brutto accadeva e lei non voleva che succedesse proprio ora.
"Beh, porterà da qualche parte, credo." Nathan fece spallucce.
Julien non disse nulla.
Eva, occhi arrossati dal pianto, affiancava Nathan e si guardava attorno circospetta. Ascoltava, ma non parlava. Aveva paura delle sue parole e la sua mente poteva tradirla, facendogli emergere pensieri cupi e negativi. Cercava di rimanere calma e di non dar voce ai pensieri che l'assillavano di continuo. "Morirai qui... Lui ti mente... Non troverai mai l'uscita..." gli bastava guardare Nathan per trovare quel poco di sollievo che le permettesse di non impazzire. 
L'aria diventava più putrida, ma si poteva respirare meglio rispetto a prima. Si coprirono i nasi con una mano. La puzza diventava sempre più forte, quasi insopportabile. Il fuoco della torcia crepitava, quando svoltarono a destra e si ritrovarono davanti a una recinzioni di ferro arrugginita alta tre metri. Sulla parte superiore correva del filo spinato corroso dal tempo. Julien vide un cancello chiuso con una catena e un lucchetto.
"Forse posso romperlo" Nathan alzò l'ascia e sferrò un colpo forte e deciso sulla catena. Il rumore del ferro contro ferro echeggiò attorno a loro, come se il colpo provenisse dai profondi meandri della galleria. Provo e riprovò ancora, ma senza successo. Eva si guardò continuamente alle spalle; la paura che qualcosa di nascondesse dentro l'oscurità, la stava divorando dall'interno.
Julien se ne stava ferma, osservando ogni minima parte del cancello o della recinzione che avesse una sola fessura per poterla rompere e passarci attraverso. Tutto era intatto, a parte la ruggine. D'un tratto la catena si ruppe a metà e cadde a terra. "Finalmente! Il lucchetto sarà facile da rompere, forse" disse Nathan con il fiato corto. Poi udirono qualcosa alle spalle. Un suono lontano, molto lontano. Nathan si voltò indietro. Julien fece lo stesso, allungando più che poté il suo braccio verso il buio in modo da illuminare meglio lo stretto cunicolo da cui erano venuti. Eva tremava dalla paura e si appiccicò a Nathan. 
"Runner?" Nathan serrò gli occhi.
"Forse" Julien corrugò la fronte.
Eva scoppiò a piangere.
"Merda!" imprecò Nathan, tornando vicino al lucchetto e lasciando Eva sul posto. "Devo sbrigarmi!"
Julien si ritirò vicino al cancello, lo stesso fece Eva coprendosi il viso lacrimato con le mani.
Un colpo, due, tre. Nathan mise tutto sé stesso per distruggerlo. Le grida e le urla si amplificarono e l'eco divenne insopportabile. Eva si coprì le orecchie. 
"Veloce, Nathan! Veloce!" urlò Julien.
"Questo fottuto lucchetto non vuole rompersi!" Nathan continuò a colpirlo senza sosta. Sentiva bruciare i polmoni dallo sforzo e la fronte grondava sudore, come il resto del corpo.
Il lucchetto cadde a terra. Dall'oscurità emerse il primo Runner, che si stava scagliando contro Eva. Julien lo colpì al braccio con la torcia e la sua lurida camicia prese fuoco. Si dimenò cercando di togliersi le fiamme di dosso, quando sopraggiunsero come un fiume in piena altri Runner. Julien lanciò la torcia contro una donna dal viso pieno di vesciche, colpendola in faccia e infiammandogli le poche ciocche di capelli che aveva. Nathan spinse il cancello, un suono stridulo, metallico, e fece passare Eva. Julien fece in tempo a insinuarsi, quando Nathan spinse il cancello e lo sbarro con l'accetta di ferro. I Runner si scagliarono contro il cancello come una travolgente onda, urlando e gridando, battendo e affondando i denti nella recinzione. Dietro di loro alcuni infetti presero fuoco e in breve tempo le lingue di fiamme s'innalzarono fino al tetto roccioso, diffondendosi su altri Runner. Non ci furono grida di dolore, solo il crepitio del fuoco che divorava la carne putrefatta. Passarono pochi istanti prima che gli infetti si trasformassero tutti in torce umane, sbattendo gli uni contro gli altri, sulla recinzione e sulle pareti rocciose. Poi caddero al suolo divorate dalle fiamme, illuminando l'ampia sala che non era per niente vuota. Davanti a loro, c'erano casse ovunque, carrelli e soppalchi di legno che portavano tramite gradini in diverse zona o altezze. Alcuni di essi erano crollati, altri in fase di costruzione e altri ancora marciti. Diversi picconi giacevano vicino a dei barili e tre escavatori corrosi dalla ruggine erano a ridosso di un grande fosso. Lungo tutta la sala, sul soffitto e sul muro, correvano a distanza di tre metri l'uno dall'altra delle lampade impolverate, ormai spente da tanto tempo. Eva, Nathan e Julien s'incamminarono senza esplorare l'area e si diressero direttamente verso l'unico passaggio a duecento metri davanti a loro. La luce delle fiamme che crepitavano sui corpi dei Runner diminuiva ad ogni passo, e qualunque percorso ci fosse dietro quella porta di legno, non potevano percorrerlo al buio. 
"Vado a prendere qualcosa per farci luce" disse Julien, senza aspettare una risposta.
"Qui non ci sono torce" rispose Nathan.
"C'è del legno, non vedi?" Julien indicò pezzi di legno distrutti o marciti attorno loro.
"Ma non sono torce" disse Nathan scuotendo la testa "Il fuoco li brucerà completamente."
"Giusto..." rispose Julien "Allora passeremo da quella porta. Non abbiamo altra scelta"
Eva ascoltò tutto, ma non disse niente. Qualunque cosa avesse detto, avrebbe complicato solo le cose, e lei lo sapeva.

Arrivarono di fronte alla porta, e si accorsero che le assi che reggevano la porta erano marciti. Nathan girò la maniglia e questa gli rimase in mano. La porta venne giù con un gran tonfo, sollevando attorno loro nubi di polvere. I tre tossirono per un attimo. A Julien la polvere gli entrò negli occhi "Dannazione!" e li sfrigolò per un poco. 
"Guardate!" Nathan indicò qualcosa davanti lui, poco oltre la salita e dietro una svolta a sinistra del passaggio. "C'è della luce?" la nube di polvere andava dissipandosi "Siamo arrivati all'uscita, forse."
I tre corsero entusiasti verso la luce, inciampando quasi sulla porta e svoltando l'angolo. D'un tratto, per una manciata di secondi, un potente bagliore accecò i loro occhi e si protessero con le mani. Non riuscivano a vedere niente. Tutto era diventato bianco, le pupille bruciavano. Poi lentamente la vista tornò e videro l'immenso grigio e tetro paesaggio che si stendeva fino all'orizzonte. Lo scheletro di un fiume ormai secco, serpeggiava tra alberi morti e terra nera, declivi rocciosi e resti di edifici distrutti e carbonizzati. In lontananza, quasi invisibile tra la foschia e torreggiata da minacciosi nuvoloni plumbei, una città o quel che ne rimaneva di alcuni grattacieli. Piccoli fasci di nebbia puntellavano diverse zone, strisciando sul terreno come un essere vivente. Realizzarono solo in quel momento di essere sbucati su un piccolo terrazzo roccioso, dal tetto a forma di cupola e dalle pareti sorrette da travi di legno. Erano sul fianco di una piccola montagna. Alla loro destra, c'era uno stretto e ripido sentiero che scendeva fino a terra, fiancheggiata da una staccionata di legno marcio distrutta in vari punti.
"Non sono mai stata così tanto felice di rivedere la luce del giorno" disse Eva con un grosso sorriso.
"A quanto pare la galleria non era crollata" aggiunse Julien, ignorando ciò che aveva detto Eva.
"Magari è accaduto molto tempo fa" rispose Nathan "e si sono scordati di levare il cartello dopo che hanno ripulito tutto e proseguito i lavori."
Julien non rispose.
"Ora dove andiamo?" domandò Eva, guardando cautamente giù dalla terrazza rocciosa.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Il mulino a vento ***


Nathan si avvicinò a Eva, guardando giù dallo strapiombo. Alla base della montagna, accalcati l'uno sopra l'altro, c'erano grosse cortecce di alberi morti. Nero come la pace, il terreno si estendeva a goccia d'olio in tutta la regione; l'unico colore distinguibile dal grigiore dei nuvoloni che incombevano sulle loro testa. 
Julien si diresse verso i gradini scolpiti nella roccia. "Scendiamo."
Eva e Nathan si voltarono e la seguirono. 
Discesero i ripidi scalini, facendo attenzione ad ogni minimo movimento. Tastavano ogni passo e poi procedevano. Di tanto in tanto qualche piccola pietra si staccava da sotto la scalinata, schiantandosi contro il suolo. Eva era tra Julien, che scendeva per prima, quasi incurante di chi aveva alle spalle, e Nathan, che procedeva per ultimo e si preoccupava più per loro che per sé stesso. Eva era con il busto attaccato alla parete rocciosa, i seni un tutt'uno con la roccia e le mani aggrappati con forza ad esse, temendo di cadere giù per via delle vertigini. Lenta nel proseguire, Nathan la incalzò a procedere più in fretta, ma lei gli lanciò un sguardo torvo, acido. Nel frattempo Julien arrivò su un piccolo spiazzo. La staccionata che fiancheggiava il percorso era distrutta e in alcuni punti non ce ne era più traccia. Sbuffò e aspettò che Eva e Nathan la raggiunsero.
"Mancano ancora un centinaio di metri" disse Julien ai due, anche se si riferiva a Eva "Dobbiamo affrettarci."
"Possiamo scendere con calma" Rispose Nathan.
"Vuoi forse morire?" Julien lo guardò negli occhi "Là dentro siamo quasi morti, e non sappiamo se ci sono altri infetti in arrivo. Se quelli ci trovano e noi siamo ancora qua sopra, cosa pensi che succederà?" aggrottò le sopracciglia.
"Non c'è nessuno dietro di noi" Disse Nathan con tono pacato. "Sei troppo tesa, Julien." Poi si voltò verso il luogo da cui erano usciti "Lo vedi?" indicò con il dito lo strapiombo distante qualche metro, un po' sopra al livello delle loro teste "Se gli infetti arrivano correndo dall'uscita della miniera, cadranno tutti di sotto."
Julien non rispose. 
"Nathan ha ragione" aggiunse Eva con la spalla attaccata al muro. La discesa gli aveva ridotto il cervello a un colabrodo per via delle vertigini, ma ogni tanto riusciva a pensare lucidamente.
"Andiamo" Julien la ignorò.

Passo dopo passo, si avvicinavano sempre più alla fine della scalinata. Le pareti rocciose diventavano via via più deforme e privi di presa, quasi a non voler dare una mano ai tre. Poi Julien si fermò di colpo. Dove un tempo c'erano cinque gradini, ora c'era il vuoto.
"Perché ti sei fermata?" Domandò Nathan, scrutando dietro le spalle esili di Eva, che per un instante aveva tolto le spalle dal muro. 
"In questo punto i gradini sono crollati" Rispose Julien, senza voltarsi "Dobbiamo saltare."
"Aspetta!" Disse Nathan "Non sappiamo se gli altri gradini resisteranno al nostro peso una volta atterrati dall'altra parte."
"No, no, non voglio saltare!" Esclamò Eva terrorizzata. Al solo pensiero, li venne un mancamento. Nathan fu rapido a prenderla e non farla cadere a terra, o di sotto.
"Fantastico!" Sbuffò Julien "Ci si mette pure lei."
"Ma vuoi calmarti, Julien?" Disse Nathan sostenendo Eva da sotto un braccio. "Non fai altro che lamentarti da quando siamo entrati là sotto."
Julien lo fulminò con gli occhi, che ardevano come fiamme negli inferi. Il suo volto mutò in una maschera piena di rabbia e risentimento, ma non disse una sola parola. Poi si voltò, guardò giù nel vuoto lasciato da una voragine e saltò dall'altra parte. Gli occhi di Nathan la seguirono. Atterrò con entrambi i piedi e perse l'equilibrio. Finì contro la parete rocciosa, razzolando quattro scalini. Nathan sentì un colpo invisibile allo stomaco. Nel cadere, Julien aveva proteso le mani in avanti e questo l'aveva salvato da un trauma cranico o da morte certa. 
"Se fossi caduta dall'altra parte..." Esclamò Nathan, alzando lievemente la voce per farsi udire.
"Non è successo." Lo interruppe Julien, alzandosi da terra e pulendosi gli abiti dalla polvere. "E' sicuro da questa parte" batté più volte la pianta del piede a terra.
Eva si strinse a Nathan. "Non voglio saltare." gli occhi gonfi e rossi dalle lacrime.
"Non possiamo rimanere qui. Devi farlo. E' l'unica soluzione."
"Non c'è la farò... Cadrò..."
"Tu non cadrai" s'impose Nathan "Devi saltare Eva. Non credo tu voglia rimanere qui per sempre".
Eva scosse la testa. Nel suo viso c'era più l'espressione di una bambina impaurita, che di una donna.
"Forza" Nathan le sorrise "Io sarò dietro di te." 

Eva si fece forza. Nathan la incoraggiava a saltare, cercava di farla sentire al sicuro. Poi senza accorgersene, Eva presa la rincorsa e saltò. Quel salto sembrò durare un eternità. I suoi occhi cercarono istintivamente il terreno sotto i suoi piedi, ma trovarono solo il vuoto. Sentì lo stomaco attorcigliarsi, il cuore che palpitava impazzito. Poi, così com'era saltata, si ritrovò addosso a Julien, che l'afferrò per un braccio prima che cadesse di sotto. Aveva saltato bene, ma aveva sbagliato leggermente la direzione dell'atterraggio. Nathan fece un sospiro di sollievo.
Julien guardò Eva, e annuì imbronciata. Poi si rivolse a Nathan "Forza. Muoviti!"
Nathan fece un volo perfetto, atterrando a pochi passi da loro.

Discesero la scalinata in totale silenzio, mentre Nathan non distolse lo sguardo da Eva. Dopo pochi minuti, toccarono terra. Davanti a loro si estendeva un irregolare terreno nero pece, puntellato in alcune punti da macchie grigiastre. Qua e là alberi scheletrici, carbonizzati i cui rami si contorcevano al cielo. Nuvoloni di un grigio scuro si ammassavano, s'ingrossavano, mentre fulmini violacei spaccavano il cielo, scomparendo dietro l'orizzonte. In lontananza, sopra a un piccola collina, s'intravedeva un mulino a vento. Due delle quattro pale non c'erano più, e le restanti eliche s'innalzavano al cielo come due piccole dita meccanizzate. La puzza di cenere impregnava l'aria, rendendola quasi irrespirabile, ma i tre non avevano problemi a respirarla. Era ormai da molto tempo che i polmoni si erano misteriosamente abituati a quell'odore.
"La fattoria dei Godman" disse Julien, indicando il mulino a vento che compariva appena sopra a una duna di cenere "Forse lì possiamo trovare riparo, prima che cada la pioggia acida."
"Allora speriamo che quel mulino non ci cada addosso durante il temporale" rispose Nathan con un lieve accenno di sarcasmo, ma nessuno rise.
"Ha resistito perfino alle bombe. Un temporale non è nulla."
"Sono le raffiche di vento a preoccuparmi. Quel mulino si trova in mezzo al nulla. Ha sopportato qualsiasi calamità. Resisterà ancora, mi chiedo?"
Julien non rispose.
"Che ne dite di andare?" disse Eva, guardandosi attorno come se da un momento all'altro spuntassero dal nulla un orda di infetti.

Proseguirono verso il fiume secco, poiché portava alla comunità di Patrick. Non parlarono di ricongiungersi con lui, ma era ovvio che i tre, non avendo più un posto dove andare, avevano deciso istintivamente di andare lì. Eva si teneva stretta a Nathan, mentre Julien si teneva a disparte ed era ancora scossa da ciò che aveva fatto in quella cantina. "Erano infetti. Andava fatto. Ho avuto pietà di loro. Non potevo fare diversamente" parole che martellavano i suoi pensieri, alla ricerca di una giustificazione. Ma il vero motivo, era troppo crudo e orrendo da poter guardarlo in faccia. Il caos, la gente infetta, gli stessi infetti, l'avevano incatenata nella paranoia assoluta, messa sul chi va là? E quella stessa catena che la teneva prigioniera nella sua gabbia mentale, aveva deciso per lei. Era successo così in fretta. Solo immagine vaghe, frammentate che si frapponevano l'un l'altra. Sangue ovunque. Le grida disperate di una moglie, di una madre, di un padre, di un figlio. Il suo coltello da caccia sgozzava, lacerava, infilzava e metteva fine a quella paranoia che si era impossessata di lei. Solo così trovò quella pace che dopo la morte di Scott era diventato un mero un miraggio. Un illusione che costringeva a rivedere quella speranza che la gente nutriva per una vita migliore, per un posto sicuro. Julien aveva messo fine a tutto. Non importava se fossero infetti o meno, non aveva scelta; doveva ucciderli. Quando però si ritrovò a percorrere una buia e strana galleria con una torcia in mano, non capì come ci fosse arrivata. Non ricordava niente, finché gli occhi non caddero sulla mano insanguinata. Allora come un lampo i ricordi presero ad affiorare e i pensieri a martellare. Tornò indietro e nel scivolare su un pozza di sangue, quei pensieri diventarono reali.

"Finalmente" disse Nathan, guardando giù nel nero fondale del fiume secco "Ci porterà dritti al mulino a vento e poi da Patrick."
Julien, nell'ascoltarlo, fu buttata fuori dai suoi ricordi, come se non la volessero tra i piedi. 
"Quanto tempo ci vorrà?" domandò Eva, che nel frattempo si era un po' ripresa dallo stato semi-confusionale in cui era.
"Per dove?" Nathan corrugò la fronte. 
"Per la comunità di Patrick."
"Un giorno, credo. Prima dobbiamo aspettare che piova, e dopo ci muoveremo."

Così costeggiarono il fiume secco. Nel procedere, molte rocce puntellavano la terra, gli alberi diventavano meno numerosi e così come il numero di tronchi ancora in piedi. Il terreno irregolare metteva a dura prova i loro nervi, ed era raro camminare per qualche metro senza dover scendere e salire continuamente. Poi piccole colline e dune di cenere, presero il sopravvento. In certi punti il terreno cedeva, e quando ci mettevano i piedi, razzolavano giù facilmente. Invece, il fondale del fiume si presentava uniforme e stranamente liscio. Non c'era neanche un sasso, un detrito o qualsiasi altra cosa a interrompere quell'uniformità. 
"Perché non scendiamo." Eva indicò il fondale con il dito "Cammineremo sicuri e senza inciampare di continuo."
"No!" rispose secco Nathan "E' meglio non disturbare la cosa che vive lì sotto."
"E chi ci vive? Io non vedo nulla."
"Vuoi proprio vedere?" Nathan prese un piccolo sasso nero e lo lanciò contro il fondale.
Si udì la pietra schiantarsi contro il terreno, ma niente di più. I tre rimasero in silenzio con le orecchie ben tese, ma non successe nulla. Lentamente però, un suono un suono giungeva alle loro orecchie, ma solo Nathan e Julien lo captarono.
"Allora?" disse Eva "Non vedo proprio niente."
Julien, espressione imbronciata, calciò un sasso che si andò a sfasciare contro il fondale. 
Sentirono qualcosa di impercettibile muoversi sotto il fiume secco. Eva si voltò preoccupata verso Nathan. Poi il rumore diventò più intenso, finché qualcosa di simile a un larva gialla, lunga sette metri e grossa otto, la cui enorme testa era di un nero quasi impenetrabile, sbucò fuori dal terreno come se volesse toccare il cielo. Ricadde un secondo dopo, con le fauci seghettate a inghiottire i due sassi, per poi tornare nelle viscere della terra. La parte posteriore e anteriore del corpo avevano delle specie di gambe a mo' di pala, che aveva usato per ricoprire il buco, anche se era tipo un tunnel, da cui era entrato e uscito, lasciando la terra perfettamente liscia, piatta come un foglio di carta.
Eva era rimasta scioccata da quanto aveva veduto, mentre Julien sbuffò.
"Ecco perché non dobbiamo scendere lì." disse Nathan. "Ora muoviamoci."

Passo dopo passo, si avvicinavano sempre più al mulino. I nuvoloni grigiastri, divenuti quasi neri, incombevano sempre più minacciosi sulle loro teste. I fulmini squarciavano il cielo, ma era così da molti anni. Per molte persone quelle folgori erano la normalità come il cielo azzurro lo era per gli abitanti di un tempo. Anzi, era preoccupante non vederli. Voleva dire che un disastro era imminente e che minacciava di spazzarli via una volta per tutte. Per questo Nathan si preoccupava troppo delle raffiche di vento. Nelle zone priva di edifici, vegetazione o qualsiasi altra cosa che si reggesse in piedi, una fortissima e violenta tempesta di venti si era abbattuta in un tempo non troppo lontano, lasciando distruzione e vuoto assoluto. Questa era una delle molte zone colpite, ma c'era quel mulino a vento che sembrava non cedere o forse, non era mai stato raggiunto da quei venti. La comunità di Julien era nata in un ottima posizione, protetta da una grossa montagna che la circondava quasi del tutto ed era raro che le tempeste facessero morti o grossi danni. Ma quel mulino giaceva solitario in mezzo al nulla, e la probabilità che reggesse una tempesta simile erano pari a zero. A meno che, quella struttura fosse ben altro di un semplice edificio adibito alla macinazione di cereali.

S'inerpicarono su di una piccola collina, ostruita da rocce di ogni forma e dimensione. C'era una quercia carbonizzata riversa sul fianco del colle, i cui rami si protendevano verso il cielo come dita scheletriche. Il paesaggio non cambiava mai. Era tutto uguale. Se non era per quel mulino a vento che si faceva sempre più vicino, avrebbero girato a zonzo, ma in quel caso, avrebbero avuto i grattacieli a Ovest come riferimento, e una nube verdastra che era impossibile da non vedere. Certamente, non potevano avvicinarsi o trovare un rifugio in luogo dove la morte regnava sovrana. Quei fantomatici edifici elevati, che un tempo erano stati i gioielli della Hurtman Corporations, erano divenuti sinonimo di morte dopo le bombe. La città da cui si ergevano fieri, Kurt City, era una grande metropoli controllata da varie corporazione che dissanguavano la contea partendo dalla fitta vegetazione di alberi, al lago artificiale, dalle miniere, ai laboratori segreti dove giorno e notte erano pieni di attivisti determinati a mettere fine agli esperimenti sugli animali e sui prigionieri col carcere a vita, e tanto altre micro esperimenti e sfruttamenti del territorio. "Prima o poi, Dio ci punirà per quello che succede in questa città." Il padre di Nathan glielo ripeteva spesso, mentre guardava il telegiornale. Ma di certo, non si aspettava una punizione dalle proporzione catastrofiche. Kurt City, non fu mai colpita dai missili, ma da qualcos'altro. La Hurtman Corporations aveva deciso di portare nella sua sede, da uno dei laboratori impiantati dentro una delle tanti montagne della regione, delle armi batteriologiche da far visionare ai membri di spicco dell'esercito, intenzionati a usarli sul campo di battaglia. Quel giorno, un missile colpì in pieno il bacino artificiale, forse per errore o forse no, inondando tutta la regione e travolgendo ogni cosa. Il furgone che trasportava le armi batteriologiche venne prese in pieno, disperdendo il liquido nell'acqua e nell'aria. In poco tempo la gente morì, altri s'infettarono, e gli animali cominciarono a mutare o a morire. A far più danni ci misero i missili nucleari che esplosero in tutta la regione. I laboratori vennero abbandonati, gli animali rilasciati o uccisi, e in alcuni casi gli stessi animali uccisero gli scienziati. Riguardo ai prigionieri con il carcere a vita, cercarono di eliminarli, ma qualcosa andò storto poiché fuggirono con le armi delle guardie che avevano l'ordine di ucciderli. Nathan sperava che quel mulino a vento non fosse in realtà una copertura o qualcosa di simile. Aveva già incontrato posti simili, e ogni volta andava a finire che fuggiva da qualcosa o qualcuno che lo voleva ammazzarlo.

Quando arrivarono abbastanza vicini non seppero cosa fare. Il mulino si presentava scalfito in più parti, le due pale mancanti giacevano qualche metro più in la. Le pareti nere alla base, e grigie nella parte superiore. La porta sbarrata dall'esterno da assi di legno, stranamente ancora fissate e per nulla marcite. Non poco lontano dalla struttura, c'era una piccola casa o quel che rimaneva di tre stanze rimaste ancora in piedi. Dall'esterno, si vedevano due scheletri che giacevano su un letto matrimoniale, conservatosi misteriosamente bene. Uno di loro imbracciava un fucile Enfield con la canna incastrata nei denti scheletrici, mentre l'altro non aveva più il viso. C'erano vaghe tracce di sangue sul muro dietro di loro. Montagne di detriti circondavano il perimetro e sbarravano l'accesso alla camera da letto. La seconda stanza invece, era un piccolo bagno. Solo il water era riconoscibile in mezzo alla distruzione. Dentro di esso, c'era una bambola di pezza con un sorriso inquietante, l'occhio destro fuori dall'orbita e una penna conficcata sopra la testa. Fu Eva poco dopo a trovare le ossa di un bambino o bambina sotto un elica, poco distante dal mulino. La parte inferiore dello scheletro non c'era più, assieme alle braccia. Solo testa e busto erano rimasti. Qualcuno o qualcosa aveva mangiato i suoi resti, poiché ritrovarono piccole ossa frantumate sotto la seconda elica.
"Era vivo quando..." disse Eva con le lacrime agli occhi.
"Non credo." rispose Nathan, abbassando lo sguardo.
"Era vivo!" esclamò Julien. "Guardate il teschio. Vedete la bocca?"
"Sei un mostro, Julien!" gridò Eva infuriata.
"C'era bisogno di dirgli la verità?" Nathan la guardò inasprito.
"Non fa che lamentarsi e piangere." A Julien le parole le uscirono da sole. Ormai era arrivata al limite. Non la sopportava più.
"Sei una stronza!" imprecò Eva, scappando al di là del mulino.
Nathan lanciò uno sguardo torvo verso Julien, che rimase indifferente, prima di correre dietro a Eva.

Il mulino era alto trenta metri, e largo venticinque. La pietra con cui era stato eretto, si manteneva bene. Non c'erano tracce di danni permanenti. Julien lo ispezionò girandoci attorno. Sembrava intatto, ma allora perché la casa era caduta in pezzi? Andò verso l'entrata, cercando di spiare all'interno attraverso le fessure delle assi di legno. Era tutto buio. Non si vedeva niente. Doveva abbatterle per poter entrare. In un primo momento si convinse di farlo, ma poi non lo fece. Rimase in silenzio, in ascolto. Poteva esserci di tutto in quel mulino, ma non udì nulla; solo un bisbigliare continuo tra Nathan e Eva, che gli puntava il dito contro più volte. Allora attese, forse qualche secondo o qualche minuto. Poi Eva e Nathan la raggiunsero.
"Non credo ci sia altro modo per entrare" disse Nathan "Tra poco pioverà."
"Allora sbrighiamoci!" Julien si avvicinò alle assi, per poi voltarsi verso Nathan "Hai tu l'accetta."
Nathan allentò la tensione muscolare di spalle e braccia, poi sferrò un violento colpo verticale. Non cedettero. Tentò di nuovo, ma niente. Il legno sembrava d'acciaio. Uno, due, tre colpi, al quarto la testa in ferro dell'accetta si spezzò e cadde a terra. Nathan rimase con il manico dell'ascia in mano, incredulo di quanto fosse accaduto. 
Julien sbuffò "Fantastico. Ora si che siamo messi bene."
"Perché non ci sbatti la tua testa contro!" esclamò Eva a Julien, gli occhi pieni di risentimento.
Poi cadde la pioggia. Pioggia acida. I tre corsero verso la casa distrutta, arrampicandosi carponi sopra le macerie. Si misero al sicuro sotto a quello che rimaneva del tetto della camera da letto. Poco dopo, venne giù un vero e proprio violento acquazzone. Esili fumi s'innalzavano dalla terra, impregnando l'aria di cenere e Petricore. Rigagnoli d'acqua cadevano giù come una piccola cascata dal tetto puntellato, costringendo Nathan a trovare riparo nel bagno. Nella mano destra aveva ancora il manico dell'accetta, come se lo potesse aiutare a sentirsi più al sicuro. Eva e Julien erano quasi l'una stretta all'altra. Gli sguardi fuggiaschi, altrove, ognuna con le sue motivazioni. Eva voleva che quel temporale finisse, mentre Julien era ingabbiata nei suoi ossessivi pensieri. Si era trasformata da leader ad assassina, da assassina a mostro. Avrebbe ucciso persino Eva e Nathan, ma qualcosa glielo impediva. L'istinto di conservazione, e il non voler rimanere sola in un vasto mondo che rifiutava la presenza umana. Un modo che l'avrebbe divorata con avidità e piacere, aspettando il prossimo sciocco che lo sfidasse. Questo non era più il mondo degli uomini. Non erano più i benvenuti. Tutto apparteneva ai mostri, alle figure che di umano avevano solo sguardi fugaci e illusori. La morte governava silente, donando vita e potere a chi un tempo, era primo a soccombere.

Sembrava esserci una tregua tra Eva e Julien, un cessate il fuoco che sarebbe finito non appena il piovasco sarebbe cessato. Nathan lo sapeva. Vedeva le due figure indistinte attraverso un grosso foro nel muro. Un estraneo avrebbe certamente pensato che si sarebbero protette a vicenda per quanto erano così vicine fisicamente, ma non Nathan. "In tempi oscuri, le persone o si ammazzano o si aiutano, o entrambe le cose" disse tempo fa un uomo sulla quarantina a Nathan, cui ricordava vagamente il volto. "Chissà che fine ha fatto quell'uomo?"  pensò Nathan. Poi sentì una flebile ventata accarezzargli la pelle, e trasalì. Ma prima che potesse dire una singola parola, una raffica di vento spazzò via la cucina e alcuni detriti. Ora la casa era ridotta a soggiorno, camera da letto e bagno. Tutt'attorno la casa i detriti volavano sulle loro teste, mentre il vento cambiava direzione come impazzito. Le due pale del mulino a vento, cominciarono a girare violentemente e in breve, una di esse si spezzò e volò via, conficcandosi nel terreno come una pugnalata. Eva e Julien, entrambi con le ginocchia a terra, si strinsero in un abbraccio. Nessuno dei due voleva morire, e la tregua aveva lasciato spazio ad una pace per la sopravvivenza. Nathan si accasciò affianco al gabinetto, il viso inquietante della bambola che sorrideva con la penna piantata sopra la testa. Le raffiche di vento si abbattevano senza pietà, spazzando via tutto ciò che incontravano. Ma per una strana causa, la camera da letto, il bagno e lo stesso mulino, fatta eccezione per le eliche, sembravano invulnerabili. Il vento infuriava violento, ma dalla casa, non era in grado di portarsi a presso niente, dal più piccolo oggetto al più pesante. Tutto rimaneva immobile, tranne loro tre. Il vento tentava di afferrarli, di prenderli, di portarli via, ma loro resistevano. Qualunque strano potere ci fosse in quel posto, loro non né erano soggetti. Anzi, gli aveva rifiutati quando Nathan aveva tentato di entrare nel mulino. Forse li voleva morti, o forse non gli importava niente.

Lentamente, i venti si fecero meno intensi, la pioggia cessò e tutto tornò alla normalità. Da quanto tempo erano rimasti lì? Nathan mise fuori la testa, guardando in su verso il tetto forato; cadevano ancora gocce d'acqua da lì. Il cielo si era schiarito, ma rimaneva sempre di quell'identico colore grigiastro. In lontananza, verso una piccola duna di cenere, si addensavano nuvoloni neri, carichi di chissà cosa. Poco dopo, entrò nella stanza accanto, mentre Eva e Julien si guardavano intorno. Nathan tastò il terreno con la punta della scarpa destra. Era duro. L'acqua non era filtrata nel terreno. 
"Pioggia acida e chissà cosa" disse Nathan, ma nessuno lo ascoltò, almeno in un primo momento.
"Qua fuori il terreno è pieno di pozzanghere." rispose Eva, indicandoli con il dito.
"Se fossi in voi, non metterei piede fuori" Julien guardò entrambi. 
Nathan si ricordò di avere il manico dell'accetta in mano. La fissò per un istante e poi la lanciò fuori. L'asta colpì in pieno una pozzanghera, che la disintegrò all'istante. Un esile fumo si levò in cielo.
"Beh, dobbiamo aspettare. Non abbiamo altra scelta." disse Nathan.

Passarono venti minuti. Il terreno fuori dalla casa aveva assorbito l'acqua. Mentre nella camera da letto, nel bagno e nella cucina, tutto rimase così com'era, almeno così sembrò loro. Uscirono fuori dall'edificio, scalando carponi un piccola collina di detriti; la stessa di prima. Mancò poco che Eva cadesse in una pozza d'acqua formatosi sulle mattonelle della camera da letto, ma Julien l'afferrò in tempo dall'avambraccio. I loro sguardi si incrociarono per un momento. Una volta che Eva ritornò in equilibrio, Julien lasciò la presa. Nathan fu il primo a toccare la fanghiglia che si era creata dopo che il terreno aveva assorbito l'acidità, e poi l'acqua, proceduta da Julien ed Eva. Il mulino se ne stava solitario più in alto. Nathan andò all'entrata e toccò le assi con le mani. "Più che legno, sembra acciaio" pensò. Cercò di smuoverle, ma senza successo. Allora con le punte delle dita toccò i chiodi arrugginiti, ma niente. Qualunque cosa ci fosse dentro il mulino, doveva rimanere lì per sempre. 
"Stai perdendo tempo." Disse Julien "Questo posto sembra stregato."
"Dentro potrebbero esserci delle provviste?" rispose Nathan.
"Provviste? Stai scherzando spero?" Julien scosse la testa.
"Non è mai entrato nessuno in questo posto. Può esserci di tutto." Nathan cercò con le mani un punto debole dove poter far pressione e staccare le assi. Le dita andarono giù e su, destra e sinistra. Era tutto inutile.
"Non puoi entrare." Disse Julien "Credo che siamo ospiti indesiderati. Faremo meglio a muoverci."
Nathan alzò lo sguardo verso l'unica pala del mulino. "Guardate là! C'è una crepa. La vedete?" Indicò una voragine con il dito, accanto all'unica ala rimasta. "Forse possiamo entrare da lì."
"E dopo come usciremo?" Domandò Julien "Sempre se c'è un modo per scendere."
"Ci inventeremo qualcosa." 
"Se non ci riusciamo?" 
"Allora lasceremo perdere."
"Tu non lasci mai perdere nulla." 

Nathan scrutò le mura del mulino cercando degli appoggi per la scalata. Mise le mani verso una pietra sporgente e cominciò a salire. Un mano dopo l'altra, un piede dopo l'altro. Eva e Julien lo guardarono dare la scalata alla parete. Più saliva, più i mattoni erano sporgenti. Un minuto dopo arrivò davanti alla crepa. Si voltò verso Eva e Julien per un istante. Poi mantenendosi con entrambe le mani sui lati del muro danneggiato, sporse la testa dentro il mulino. L'interno era buio, almeno in un primo momento. Ma poco dopo si accorse che le pareti erano colorate di nero, come se fosse scoppiato un incendio invisibile, e non scure per l'assenza di luce. Cercò un appiglio con il piede, ma non trovo nulla. Allora si guardò ai lati. Giù, a destra, vide una piccola scala circolare attaccato al muro che saliva verso di lui. Continuava qualche metro più in alto, ma la piattaforma d'appoggio era crollata chissà quando, così come gli altri gradini che conducevano in cima. Mantenendosi con entrambe le mani sul lato destro del muro, scese fino a toccare con il piede sinistro l'ultimo gradino dalla scalinata. Fece forza sul piede, tenendosi ben aggrappato al muro. Il gradino resse il suo pese. Appoggiò l'altro piede, e spalle al muro, scese lentamente. Fasci di luce penetravano dalle fessure delle assi che bloccavano l'entrata principale. C'erano qualche cassa e sacchi di cereali. Nel mezzo si trovava un grossa macina e il rotore. A sinistra le macerie della piattaforma e di alcune scale. Man mano che scendeva, l'aria diventava sempre più irrespirabile. L'odore nauseabondo gli era del tutto sconosciuto. Raggiunse il piano terra. Ebbe la sensazione di essere osservato. I suoi occhi ansiosi scrutarono ogni angolo del mulino, ma era solo là dentro. Andò all'entrata. Eva e Julien lo aspettavano fuori.
"Sono qui!" disse Nathan.
"Stai bene?" Rispose Eva.
"Certo che sta bene. Non lo vedi?" Aggiunse Julien.
Eva gli lanciò uno sguardo torvo.
"Cosa hai trovato?" disse Julien a Nathan.
"Sacchi di cereali e delle casse. Non so cosa ci sia lì dentro. Magari gli do..." Qualcosa si mosse alle spalle di Nathan, facendolo rabbrividire. Percepì il respiro di qualcuno proprio dietro l'orecchio. Poteva sentire l'aria sulla pelle, sulla nuca. Aria gelida, marcia.
"Ci sei ancora?" domandò Julien.
"Rispondi, Nathan" disse Eva preoccupata "Non fare i tuoi soliti scherzi. Non è il momento adatto."
Il respiro di quell'essere divenne pesante. Nathan era paralizzato dalla paura, gli occhi spalancati dal terrore. Deglutì lentamente la saliva cercando di non far rumore.
"Questo posto non t'appartiene" una voce rauca, profonda echeggiò tutt'attorno, rimbalzando sulle pareti.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** La strada di casa ***


"E tu, mortale? Chi seiii?" La voce dell'essere fece eco, schiantandosi sulle pareti.
"Io..." Balbettò Nathan. Le sue gambe stavano quasi per cedere.
"Sei entrato nella mia casaaa..."
"Io non..."
"Volevi?!" Tuonò la voce dell'essere. Le pareti tremarono e dal soffitto cadde della polvere.

"Nathan!" Gridò Eva, spaventata. "Sei stato tu?"
"Certo che è stato lui." Rispose Julien "C'è solo lui là dentro."

"Tu non puoiii..." Sibilò la voce.
"Per favore, io... Non sapevo che..."
"Non sei il primooo..." Il suono della voce ruotò attorno a Nathan. "Ma chi sei... tuuu?"
"Sono Nathan." Deglutì, terrorizzato. "E' tu?"
"Io ero qualcuno un tempooo..." Una sagoma nera si staccò dalla penombra delle pareti, proprio dietro le spalle di Nathan. Il suo corpo tremava come un interferenza radio. Si avvicinò all'uomo, fermandosi una volta vicino. "Ero un uomooo... Un contadinooo... Un maritooo... Un padreee..."
Nathan percepì qualcosa alle spalle, e lentamente si voltò. Quando lo vide, rimase pietrificato. La faccia della sagoma, era un dito dalla suo viso. L'oscurità del suo volto, un buco nero che risucchiava ogni granello di luce. Nathan sentiva le gambe cedere, ma resistette. Voleva fuggire, allontanarsi da quel posto, ma rimase lì. Aveva paura che l'essere l'avrebbe ucciso ancor prima di aver mosso un piede.
"La mia porta è chiusaaa..." Sussurrò l'essere. "Doveee... Seiii... Entratooo..?" Sibilò.
"D-Dal tetto." Nathan istintivamente indicò il tetto con il dito. Poi lo ritrasse subito, per paura che glielo staccasse.
"La mia porta è chiusaaa..." Ripeté di nuovo l'essere. "Sono passati anniii... Moltissimi anniii... Ho perso tuttooo... Il mio unico figlio divorato dalle radiazioniii... Ho visto le sue carni divorate dai corviii..." La sua voce diventò quasi un tuono. "Voiii... Voiii e le vostre armiii... Avete distrutto tuttooo..."
"M-ma io non ho fatto nulla." Disse Nathan intimidito.
"Siamo tutti partecepiii..." Sibilò la voce, penetrando il cervello di Nathan. "Non ho potuto aiutare mio figliooo... Erooo... Mortooo... Intrappolato qui dentrooo... Per sempreee..." L'ultima frase rimbalzò sui muri del granaio. "Ho soffertooo... Veduto la morte di mio figlio e mia moglieee... Lei era sopravvissutaaa... Ha resistito alle radiazioniii... Ma i vermi la inghiottironooo..." La voce tuonò nel granaio, pezzi di intonaco del tetto caddero sul pavimento. " Poi la sagoma s'ingigantì. Le pareti diventarono nere. Nathan si vide come inghiottito da un'oscurità impenetrabile. Il cuore gli batté impazzito, le mani tremavano. Pensò che fosse morto, che il vuoto l'avesse reclamato. Poi sentì qualcosa. Una voce femminile. Prima debole, poi forte. Era Eva che lo chiamava. L'oscurità arretrò, mentre il mondo lentamente riappariva. Lottavano silenziosamente luce e oscurità, lottavano per averlo. Poi, i tentacoli oscuri svanirono, lasciando visibile la sagoma nera di nuovo di fronte a lui. Nathan sentiva il suo sguardo addosso, anche se non aveva occhi. Poi l'essere arretrò lentamente, finché svani nell'ombra dei muri. Nathan tirò un sospiro di sollievo. Si voltò verso la porta d'entrata sbarrata delle assi. Poi sentì qualcosa alle spalle. Una flebile ventata gelida sulla nuca. Fu scaraventato contro le assi, che si ruppero, e volò fuori dal granaio. Eva e Julien lo seguirono con gli occhi. Finì per terra. Le assi si sbriciolarono come carbone al vento, mentre il granaio crollò su sé stesso. Eva e Julien corsero giù dall'avvallamento, spaventate. La polvere delle macerie si espanse tutt'attorno, levandosi poco dopo in cielo. 

Eva si precipitò da Nathan, alzandogli la testa: "Tutto bene? Stai bene? Rispondimi!"

Nathan aprì lentamente gli occhi. Il mondo sgranato, circondato da una nube di polvere. Vide il viso di Eva, prima sdoppiata e poi normale. Non riusciva a mettere a fuoco. Sbatté più volte le palpebre. Poi vide Julien guardarsi attorno, avvolta dalla nube di polvere. Tossì. Tutti tossirono per la polvere che filtrava nei polmoni. Eva cercò di far alzare Nathan, ma cascò su di lui. La nube lentamente si dissolse. Il cielo plumbeo comparve sulle loro teste, e del granaio rimase solo un cumulo di pietre. Nahan si mise seduto e tossì, mentre Eva gli sorrise. Julien lo scrutò con gli occhi ridotti a due fessure. Poi Nathan voltò la testa. Vide qualcosa, o pensò di averla vista. Un bambino con una maglietta bianca e un orso come logo, in piedi sui detriti del granaio. Lo fissava con quei penetranti occhi bianchi. Poi lentamente scomparve, reclamato dal vento.

"Cosa stai guardando?" Chiese Julien, guardando la direzione in cui guardava Nathan.
"Ho visto un bambino." Rispose Nathan, incredulo.
"Un bambino?" Aggiunse Eva. "Io non ho visto niente."
Julien rimase per un momento in silenzio, poi disse: "Cosa è successo nel granaio?"
"Un essere... Ho parlato con lui... Era completamente nero..." Nathan era molto confuso.
Julien aggrottò la fronte, ma non disse nulla.
"Poi sono s-stato come inghiottito d-dall'oscurità... Pensavo d-di... Pensavo di essere m-morto..." Nathan faticava ad articolare le parole. Ogni parte del suo corpo tremava "La sagoma è... scomparsa n-nell'ombra delle pareti. M-mi son voltate ed ho..." Nathan si fermò di colpo.
"Ed ho?" Chiese Julien, non capendo cosa Nathan stesse farfugliando.
"...Ho sentito un vento gelido dietro il collo e... Sono stato sradicato contro le assi..."
Julien si voltò di scatto verso il cumulo di macerie. Non vide nessuno. 

Eva vide qualcosa dalle rovine della casa. Ombre emersero dal pavimento, ammassandosi a centinaia. Volti assenti, e uniformi con la loro sagoma nera. Solo l'altezza li differenziava. Immobili e silenti, li fissavano. Eva li indico a Nathan e Julien con il dito. Tutti rimasero impietriti. Le ombre si mossero in avanti, come un fiume in piena. I piedi sospesi a dieci centimetri dal suolo. Sembravano volare immobili come figure statiche. Nathan si alzò togliendosi di dosso la polvere dai pantaloni e dalla felpa. Terrorizzate, Eva e Julien guardarono l'esercito di ombre venirli incontro. I Tre corsero giù dalla piccola collina, mentre le ombre si fermarono silenti sulla sua sommità. Li osservavano allontanarsi, pur non avendo occhi per vedere. Il silenzio fu interrotto dal terriccio che veniva calpestato durante la loro fuga. Quando il gruppo si fu allontanato abbastanza, si voltarono indietro a guardare. Una folata di vento cancellò le ombre dalle colline. Confusi, i tre si guardarono tra loro.

"Cos'erano?" Julien era senza fiato, il sudore che gli colava dalla fronte.
"Erano..." Nathan fece un grosso respiro. "Erano come l'essere che ho visto nel granaio!"
"Perché ci stavano inseguendo?" Chiese Eva, sedendosi a terra.
"Non ci stavano inseguendo." Rispose Nathan. "Ci stavano cacciando via."
"Lo penso anch'io." Concordò Julien.
"Ma... Ma siamo rimasti in quella casa durante la tempesta di pioggia acida." Disse perplessa Eva. "Dovevano uscire allora, non dopo."
"Non so proprio cosa pensare." Rispose Nathan.
"Allontaniamoci da questo posto." Disse Julien. "Potrebbero ritornare."

I tre s'incamminarono lungo il fiume asciutto, gettando un occhiata alle spalle di tanto in tanto. Il paesaggio seppur tetro e desolante, lentamente tornava a migliorare. Qua e la spuntavano alberi, arbusti e erba alta dai colori scuri, tendenti al nero. La terra diventava più morbida, e sporadiche rocce puntellavano il territorio. Non mancava molto alla Comunità di Patrick. 

Salirono una ripida collinetta, proseguendo per altri duecento metri, poi scesero giù. In lontananza, quasi nascosta dalle nere fronde degli alberi, la comunità di Patrick si ergeva su una pianura, affiancata da una montagna che proseguiva verso Est. Si fermarono. Eva drizzò gli occhi quando la vide, e sorrise. Nathan se ne accorse, ma non disse nulla. Julien, dallo sguardo impassibile, continuò a scendere. La seguirono, e poco dopo raggiunsero insieme la strada asfaltata percorsa da innumerevoli crepe e buche. Durante il tragitto, Nathan e Eva si scambiarono fugaci occhiate, mentre Julien camminava poco più avanti. L'aria diventava meno opprimente. La puzza di carbone lasciò spazio a un odore misto di terra e fiori. L'unico fiore che cresceva in questa zona era la belladonna, ma lievemente mutata nei suoi petali neri e violacei. Man mano che camminavano, l'erba alta invadeva la strada asfaltata e gli alberi, un tempo grosse querce, lanciavano i loro artigli al cielo. Rami in grado di recidere la pelle come un rasoio. 

La comunità di Patrick li usava come armi. Modificavano la parte inferiore come impugnatura dell'arma, sostituendole con parti metalliche o semplicemente bruciando quella parte. I rami di questi spettrali querce erano molto resistenti come vere lame d'acciaio. Ci costruivano persino dei micidiali giavellotti, lance e punte di frecce. Solo il fabbro della comunità di Patrick sapeva come costruire queste armi, e nessun'altro era in grado di farlo. Ma questo armamento veniva usato solo come ultima spiaggia in caso le armi convenzionali s'inceppassero. La comunità di Patrick spiccava per il vario armamento di cui disponevano; Mitra, mitragliette, pistole, fucili d'assalto, granate e lanciamissili. Ma nessuno sapeva dell'esistenza di questo arsenale di guerra. Patrick era molto bravo a nascondere le cose.

Da lontano s'intravedeva la cinta muraria di pietra che formava un cerchio attorno alla comunità. Sui camminamenti, c'erano due guardie armate per ogni sezione di muro. La porta maestra, alta più delle mura e rinforzata con ferro e varie parti metalliche, era quasi impossibile da abbattere se non con armi molto potenti. I tre seguirono la strada che svoltava a sinistra. Un posto di blocco della comunità di Patrick, impediva loro di proseguire.

Una guardia uscì da una specie di gabbiotto di cemento mezzo crollato, puntando il fucile d'assalto verso di loro. "STOP! Non fate un altro passo." La guardia, barba incolta e lungi capelli neri, si avvicinò a loro. Indossava una tuta militare vecchia chissà quanto e sporca di terra, sotto a degli stivali neri non in perfette condizioni. Da sotto un avvallamento ai lati della strada, strisciarono fuori altre quattro guardie armate di Fucili d'assalto e Mitragliette. Si avvicinarono e attesero i comandi della guardia del gabbiotto.

Eva e Nathan alzarono le mani, mentre Julien, sguardo serio, disse. "Sono Julien. Ho bisogno di vedere Patrick."

La guardia incerto, la scrutò da capo a piede. Poi abbassò l'arma. "Sì, ora mi ricordo di te. Julien." Annuì "E' tu devi essere Nathan." Lo indicò con la punta dell'arma. Le quattro guardie abbassarono le armi.
"Sì, sono io." Disse Nathan, abbassando le mani, seguita da Eva.
"Da quando accogliete la gente con le armi spianate?" Chiese Julien insospettita.
"Da quando Patrick è sparito." Rispose la guardia. "Non abbiamo sue notizie da quando si è recato da voi con Hellis e Cassandra, ed altri uomini che..."
"Se non sono qui, dove sono?" Interruppe Eva preoccupata.
"Quindi non sono morti?" Rispose la guardia aggrottando le sopracciglia.
"Erano diretti qui." Disse Julien. "Se non sono arrivati, allora è successo qualcosa." 
Confusa, la guardia scambiò rapide occhiate con i quattro uomini armati. "Pensavamo fossero morti. Lasciare la comunità di notte è molto pericoloso. Noi l'avevamo avvisati, anzi, Elvira li aveva avvisati."
"Elvira?" Sottolineò Julien. "Chi sarebbe?"
"Il nostro nuovo comandante." Rispose la guardia. 
"Scusate se vi interrompo." Aggiunse Nathan con un sorriso. "Non è meglio parlare dentro le mura. Si sta facendo notte, e non..."
"Si hai ragione." Lo interruppe la guardia. "Potete passare. Noi resteremo qui fino a nuovi ordini. Parlate con Elvira, ma credo che sappia già della vostra presenza." Voltando le spalle, tornò nel gabbiotto. Le altre quattro guardie ritornarono giù nell'avvallamento.

Quando si avvicinarono alla Porta Maestra, alta dieci metri e larga sette, la testa di una guardia che indossava un cappello marrone con una mazza da baseball con logo sbucò fuori da sopra il parapetto del cancello. Li guardò per qualche istante, poi voltò lo sguardo verso la guardia del gabbiotto, che alzò il braccio. La guardia sul parapetto si tirò indietro. Dopo qualche secondo il portone si aprì, emettendo uno suono stridulo per via dei meccanismi mal oliati. Due guardie andarono verso di loro, pistola in mano. Nathan notò che tutte le guardie indossavano la stessa uniforme militare, anche se non erano militari.

"Seguiteci." Disse uno di loro. Un uomo sulla cinquantina, capelli corti neri, spalle massicce e mento accentuato. 

*****

Una Jeep Cheroke nera si trovava sul ciglio della strada in piena notte. Le portelle aperte, il sangue che imbrattava i sedili e i vetri rotti. I fanali dell'auto illuminavano un uomo senza vita, le viscere fuori dal corpo. Nelle mani, una moltitudine di vetri conficcati. Un foro di proiettile in testa, cinque sul busto. Una Glock era a qualche metro. In lontananza, tre figure nella penombra uscirono fuori da dietro un ammasso roccioso. 

"Fanculo! Io ve l'avevo detto. Quello stronzo era un Runner." Disse la prima voce da uomo.
"Un Runner con un ottima mira." Rispose la seconda voce da uomo.
"E con amici bravi quanto lui." Rispose una terza voce da donna.
I tre camminarono verso i fanali dell'auto, fermandosi davanti al cadavere crivellato di pallottole. Avevano la faccia e gli abiti luridi di sangue, ma non era il loro.
"Può essere uno sfregiato." Disse Hellis.
"Potrebbe." Rispose Patrick.
"Vediamo un po'." Aggiunse Cassandra, chinandosi verso il corpo e scrutando il viso pieno di verruche del cadavere. Pupille rossastre e occhi nero pece, vene nere sul viso e sulla gola. "Sì, è proprio uno Sfregiato. Bravo!"
Hellis si compiacque. "Ne ho uccisi a centinaia di stronzi come questo, e..."
"Non ce ne frega un cazzo, Hellis!" Lo interruppe Patrick. "Ora pensiamo al da farsi. Prendiamo la valigia dal cofano e spariamo da qui. Gli spari avranno attratto altri Sfregiati o Runner, o peggio ancora."

Hellis andò dietro la Jeep Cheroke e aprì il bagagliaio. Pezzi di vetro caddero sull'asfalto e sulla valigia. Hellis la pulì, poi afferrò la valigia contenente tre MAC-11 e una Desert Eagle. Nel frattempo Cassandra aveva controllato l'auto, mentre Patrick si guardava attorno.
"Ok. Andiamo." Disse Hellis, mostrando la valigia.
"Sparate solo se è necessario." Ordinò Patrick.
"Non vedo a più di un palmo della mia mano." Rispose Hellis. "Se quelle cose saltano fuori dobbiamo farlo. Loro riescono a vederci di notte, noi no."
"Fai come ti dico."
Hellis sbuffò.

Camminarono sul fianco della strada che dava verso una distesa pianeggiante, senza alberi e rocce. Solo ciuffi di erba nera che macchiavano il terreno. Dall'altra parte della strada, a sinistra, la terra saliva per qualche metro. Alberi contorti e squarciati, rocce ed erba alta impedivano loro di vedere chi arrivava da quella parte. I tre lanciarono occhiate cariche di tensione in quella direzione, aspettandosi da un momento all'altro di venire attaccati. Ma proseguirono senza problemi per seicento metri, finché uno strano ululato, simile a un urlò, interruppe la quiete della notte. Hellis puntò la Glock nell'altro lato della strada, gli altri due fecero lo stesso. L'ululato diventava più forte, man mano che loro avanzavano.
"Allontaniamoci dalla strada." Disse Patrick. "Proseguiremo dalla pianura, e costeggeremo la strada di là.
"Ma non si vede nulla." Rispose Hellis.
"Forza, muoviti!" Cassandra lo strattonò dalla maglia. Hellis brontolò, ma non rispose.

Lungo la pianura, l'oscurità era impenetrabile. Non riuscivano a vedere a più di un metro da loro. L'ululato continuava senza sosta, finché un minuto dopo cessò del tutto. Hellis si voltò istintivamente. Percepì qualcosa che stava arrivando, qualcosa di molto pericoloso. Patrick e Cassandra si fermarono solo per dirgli di camminare. Non si erano chiesti del perché l'ululato fosse terminato.
Hellis si girò verso di loro. "Fuggite!" Urlo, correndo e sorpassandoli.
Non capendo cosa stava succedendo, i due si affrettarono dietro di lui. Corsero a perdi fiato per la pianura, perdendo di vista la strada di riferimento. Dietro di loro qualcuno urlò a squarcia gola, e poco dopo si aggiunsero altre grida. 
"Merda!" Imprecò Patrick. "Cosa cazzo sono queste grida?"
"Sfregiati!" Rispose Hellis. "Quei bastardi sono sulle nostre tracce!"
"Per questo ti sei messo a correre?"
"No, per passione." Rispose sarcasticamente Hellis. "Secondo te perché?"
"Ah, certo. Tu e i tuoi amici sfregiati. Una cosa sola." Disse Patrick con un lieve tono di sarcasmo.
"Ridi pure. Se non era per me..."
"State zitti!" Gridò Cassandra.

Corsero per trecentocinquanta metri, quando Cassandra inciampò su una piccola pietra e cadde per terra. Patrick si fermò di colpo, mentre Hellis era indeciso se correre o fermarsi. Alla fine rimase lì, la Glock puntata verso l'oscurità. Le urla si avvicinavano. 
Patrick si precipitò verso Cassandra.
"Sto bene." Disse la donna.
"Su forza! Alzati!" Patrick sollevò Cassandra, mentre Hellis li copriva.
"Ce la faccio da sola!" Cassandra si tolse dalla presa di Patrick.
Una figura apparve dall'oscurità, correndo goffamente verso loro, il busto inclinato leggermente in avanti. Hellis lo vide con la coda dell'occhio e gli sparò. Due colpi in petto e uno alla gamba destra. Lo sfregiato cadde di avanti. Lo sparo fece eco nella pianura. Le grida si fecero più intense e aggressive. 
"Fanculo!" Imprecò Patrick. "Sono proprio vicino a noi!"
"Correte, cazzo!" Urlò Hellis, sparando alla cieca nell'oscurità. Centrò uno o due sfregiati, poiché le urla si fecero assordanti.

Raggiunsero la fine della pianura, mentre il terreno diventava irregolare. Correndo, Patrick mise un piede nel vuoto di una buca e cadde di faccia a terra. "Cazzo!" Imprecò.
Cassandra, che si trovava alle sue spalle, inciampò sopra di lui. Hellis si fermò, coprendoli mentre si alzavano. Le grida erano molto vicine. Tre figure emersero dall'oscurità, lanciandosi addosso a Cassandra. Hellis aprì il fuoco, ma ne centrò solo due prima di finire il caricatore. Il terzo si buttò addosso a Cassandra, cercando di morderla. Gli occhi neri, verruche sulle guance e sulla fronte, denti aguzzi come quelli di uno squalo bianco. Lo sfregiato si dimenava su di lei, colpendola con pugni e schiaffi. Patrick lo colpì al fianco con un calcio ben piazzato. Lo sfregiato cadde di lato. Hellis inserì il nuovo caricatore nella Glock e sparò in testa allo sfregiato. Patrick aiutò per la seconda volta Cassandra ad alzarsi. 
"E tu che dicevi di non usare le armi!" Disse Hellis a Patrick, che non rispose.

Corsero nuovamente, mentre il terreno diventava ripido e in salita e l'erba sempre più folta. Le rocce impedivano ai tre di correre dritto, facendoli rallentare di volta in volta per non finirci contro. Gli sfregiati erano a qualche metro da loro, le bocche sporche di sangue coagulato. Patrick, più avanti rispetto ai due, finì contro una parete di legno. L'urto lo face cadere a terra di culo.
Cassandra capì subito che si trattava di una casa. "Entrate!"
"Cosa? Sei impazzita?" Rispose Hellis, sparando agli Sfregiati che uscivano dal buio. "Se ci barrichiamo, saremo morti entro cinque minuti."
Patrick si alzò da terra, sparando agli Sfregiati che giunsero da destra. "Non ha senso correre all'infinito. Primo o poi non ci resterà più fiato, e questi stronzi ci salteranno alla gola."
Hellis finì le pallottole e tolse il caricatore vuoto dalla Glock. "Maledizione! Andiamo!"

Chiusero la porta alle loro spalle, catapultandosi in fretta al secondo piano. Gli Sfregiati si lanciarono contro le finestre, atterrando dentro la casa, piccoli vetri si conficcarono nella loro carne. 
"Blocchiamo la scala!" Disse Cassandra.
"E come?" Chiese Hellis, mentre mise il nuovo caricatore nella Glock.
"Dammi la valigetta, Hellis!" Ordinò Patrick, strappandogliela dalla mano.
"Ehi!"
"Il divano!" Indicò Cassandra con la canna della Beretta. "Possiamo bloccare la scala con quello!"

Hellis e Cassandra andarono a spostare il divano, mentre Patrick prese due Mac-11, sparando gli Sfregiati che tentavano di salire la scala. Per non sprecare proiettili, Patrick sparava solo a colpo sicuro, centrandoli spesso in testa. Ma quelli che morivano, venivano subito rimpiazzati da altri che scavalcavano la pila di cadaveri ai piedi della scala. Gli Sfregiati al piano terra, come un onda implacabile, si riversavano in casa saltando e lanciandosi attraverso le finestre. In breve, finirono per ammucchiarsi così tanto da non riuscire più a muoversi. Altri ne giungevano da fuori, e in breve la struttura venne circondata. Erano a centinaia.

Patrick continuò a mitragliare gli Sfregiati che tentavano di salire, finché gli stessi corpi bloccarono del tutto l'entrata. Hellis e Cassandra arrivarono in quel momento, imperlati di sudore per aver spostato il divano.
"Non credo che serva più." Disse Patrick con un lieve sorriso, un esile fumo usciva dalle canne dei MAC-11.
I due guardarono giù dalle scale. Increduli, si voltarono verso Patrick.
"Ah, non guardate me." Disse Patrick con un lieve sorriso. "La Dea bendata ci ha favorito questa volte, eh?" Non appena smise di dire la frase, i corpi che ostruivano il passaggio per le scale, scivolarono al piano terra.
"Magnifico!" Sottolineò Cassandra. "Dea bendata un corno!"
Patrick sorrise imbarazzato, e si affrettò a dare una mano a Cassandra e Hellis. Il Divano scivolò giù per le scale e travolse gli Sfregiati che cercavano di salire bloccandosi tra i due muri.
"Cerchiamo una via di fuga." Disse Cassandra, prendendo la Beretta dalla valigia che era sul pavimento.

Si misero a perlustrare le stanze del secondo piano. Patrick nella camera da letto, Cassandra nel bagno e Hellis sul balcone che si affacciava verso il limitare di un bosco dagli alberi contorti e foglie nere. Vide gli Sfregiati stretti l'uni contro gli altri, gemere e battere i denti. Non lo videro, ma Hellis rientrò sulle punte degli stivali senza fare rumore. Cassandra aprì la piccola porticina dello specchio posto sopra il lavabo, non trovando niente di utile se non qualche medicina usata da chi viveva qui. Patrick non trovò molto nella camera da letto, oltre a fotografie incorniciate di una coppia anziana sopra un cassettone. Ne prese una e la osservò per un momento.

Cassandra andò da Hellis, che guardava fuori da una finestra gli Sfregiati. "Non ho trovato niente. Tu?"
"Nemmeno io." Rispose Hellis senza voltarsi. "Però possiamo fuggire da lì." Indicò la balconata con un dito. "Dobbiamo arrampicarci per quel tubo, poi scendere per di là." Si spostò verso sinistra, indicando una fune appesa tra il tetto spiovente e un grosso albero morto ricoperto di cenere. Sui rami contorti, al centro, si ergeva un casotto di legno completamente nero, come se il fuoco l'avesse divorato.
Cassandra guardò il punto indicato, poi gli Sfregiati al di sotto, quindi si voltò verso Hellis. "Anche se riusciamo a passare, gli Sfregiati ci vedrebbero. Dobbiamo fare in modo che non ci vedono."
In quell'instante entrò nella stanza Patrick. "Avete trovato una via di fuga?"
Hellis annuì. "Ne stavo giusto parlando con Cassandra."
"E non hai pensato di avvertirmi?" Disse Patrick irritato.
"L'avresti saputo ugualmente." Rispose Hellis, per poi aggiornarlo con quello che aveva detto a Cassandra.

"Vi è sfuggita una cosa." Disse Patrick, quando Hellis ebbe finito di parlare. "Il casotto laggiù non è sicuro. Chi vi dice che non cadrà giù una volta posato un piede? E' ridotto malissimo, e si mantiene in piedi solo per puro caso."
"Forse è solo ricoperto di cenere." Disse Hellis.
"Può essere, ma non mi va di rischiare con gli Sfregiati la sotto."
"Vuoi rimanere chiuso qui dentro?"
"Finché gli Sfregiati andranno via."
"Se andranno via." Sottolineò Hellis.
"Mentre voi discutete, io vado." Disse Cassandra, aprendo la porta vetrata e uscendo nella balconata. 
I due la guardarono, senza risponderle.
Chinandosi, Cassandra si avvicinò di soppiatto alla tubatura e gettò una fugace occhiata agli Sfregiati che non si erano accorti di niente. Lentamente, mise le mani sul condotto e iniziò a rampicarsi. Un piede dopo l'altro, una mano dopo l'altra. Gli Sfregiati gemevano e si urtavano nella confusione. Il puzzo di morte arrivò come uno schiaffo nei polmoni di Cassandra, che si bloccò per non tossire. Smise di respirare per tre secondi, deglutì e ricominciò a scalare. La puzza diventava sempre più intensa man mano che si arrampicava. Sembrava che tutta l'orrido odore si fosse concentrato sopra l'edificio, poiché prima non aveva sentito nessun odore. Il ché era strano, visto il centinaio di Sfregiati che infestavano dentro e fuori le mura della casa.

Quelli che erano al limitare dell'orda, cominciavano goffamente ad allontanarsi senza meta dall'edificio, ma il gruppo rimase folto e numeroso. Durante l'arrampicata, verso destra, Cassandra intravide dietro un imposta aperta una specie di sporgenza in legno. Sopra di esso, correva la fune in direzione del casotto. "Strano, dalla finestra la fune sembrava iniziare da sopra il tetto e non sotto." pensò Cassandra. Con cautela, allungò il braccio verso l'imposta e la chiuse. Poi mise un piede sul rivestimento di legno, premette con forza sui talloni degli stivali mentre si teneva stretta alla tubatura, e si accertò che il selciato fosse sicuro. Infine mise l'altro piede, e facendosi forza su una mano che teneva serrata sul tubo, si mise in piedi. 

Sotto di lei, Patrick e Hellis, che l'avevano guardata salire, si guardarono tra loro, incerti. Cassandra non guardò giù, né si interessò se gli Sfregiati l'avevano veduta. Mise entrambi le mani sulla fune, si mantenne con tutto il suo peso alla corda, e quando capì che la fune avrebbe retto il suo peso, attorcigliò le gambe attorno ad essa. Lentamente, Cassandra avanzò attraversò la fune, sopra le teste degli Sfregiati, altri abbandonavano l'orda. Un minuto dopo, si ritrovò a ridosso del casotto. Mise le punte dei piedi sulla sporgenza, mantenendosi alla corda con le mani. Anche qui, quando si accertò che avrebbe retto il peso, si lasciò cadere.

L'aria era pregna di cenere. Cassandra mise una mano davanti alla bocca e guardò giù. Gli Sfregiati continuavano a scontrarsi tra loro, gemendo. Non si erano accorti della donna. Cassandra guardò in direzione della finestra dove Patrick e Hellis erano lievemente affacciati. Fece ceno con la mano di raggiungerla. Il primo a scalare fu Hellis, che con qualche esitazione si arrampicò, raggiungendo senza problemi Cassandra. Anche lui aveva notato la puzza di morte che c'era sul tetto spiovente, e poi l'odore penetrate della cenere nel casotto. 

Patrick stava per mettere una mano sulla tubatura, quando udì un forte rumore provenire dal piano terra. Incuriosito, andò a controllare. Gli Sfregiati salirono le scale come una valanga travolgente. Patrick riuscì a chiudere la porta in tempo, prima che tre Sfregiati si scagliassero contro. Si diresse in tutta fretta verso la tubatura, gli sfregiati colpivano violentemente la porta con calci e pugni. Salì lungo il condotto, nel mentre gli sfregiati abbatterono la porta, riversandosi nella stanza. Uno di loro raggiunse la balconata, il viso sporco di sangue coagulato scosso da frenetici tic. Patrick continuò a scalare. La maggior parte degli Sfregiati raggiunse la balconata, ammucchiandosi sempre più. D'un tratto il balcone venne giù, portandosi a preso tutti gli Sfregiati che si schiantarono a terra o contro altri Sfregiati. Il rumore fu così forte, che tutti gli Sfregiati s'innervosirono, cominciando a gemere più forte. Patrick raggiunse la sporgenza, mise mani e piedi sulla corda e si diresse verso Cassandra e Hellis, che erano rimasti spaventati e sorpresi da quanto fosse successo.

Dal casotto, videro altri Sfregiati entrare nella camera, e spinti da quelli dietro, cadere giù. Era come osservare una cascata di Sfregiati che formavano una pila di cadaveri alla base della casa. Continuavano senza sosta a cadere, e quelli al piano terra a salire al secondo piano. I tre rimasero immobili, aspettando che l'orda si dileguasse. Il cumulo era cresciuto notevolmente, ed ora quando gli Sfregiati si buttavano, razzolavano giù senza morire. 
Patrick si voltò, dando le spalla alla casa. Guardò giù, e vide che non c'erano Sfregiati nei dintorni dell'albero morto.
"Cosa fai?" Disse Cassandra a Patrick.
"Non ci sono Sfregiati di sotto." Rispose Patrick indicando con il dito l'area libera al di sotto dell'albero.
Hellis si girò verso loro. "Che aspettiamo, allora? Andiamo."

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3725605