After Crisis: Selfless di BaschVR (/viewuser.php?uid=38414)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The place I’ll return to someday ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo IV ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 1 *** The place I’ll return to someday ***
After
Crisis: Selfless
Note iniziali
Salve! Vorrei darvi qualche precisazione sulla long fic che sto per
cominciare.
Questa, in realtà, è una storia un po’
vecchiotta pubblicata da me su questo sito all’incirca un
anno fa. Era una storia assai strana, a dir la verità, piena
di luoghi comuni, oltremodo scontata e prevedibile, ma al tempo stesso
singolare (o almeno, io la consideravo così); e per quanto
all’epoca mi piacesse, devo ammettere che rileggendola oggi
difficilmente potrei non mettermi le mani sui capelli e scappare
terrorizzato al pensiero di cosa scrivessi appena un anno fa.
Ma comunque, tralasciando il discutibile stile, devo ammettere che con
questa storia ho seguito un processo di formazione davvero
straordinario, che mi ha portato in breve tempo a migliorare di molto
il mio modo di scrivere (non che adesso io sia arrivato a livelli
eccelsi, ma credo sicuramente di cavarmela meglio rispetto ad un anno
fa).
Ed è per questo che ho deciso di creare un
“remake” per la prima fan fiction che sono riuscito
a concludere su questo sito, e che tanto mi ha aiutato a crescere e ad
abbandonare il pluri-abusato finale “E vissero tutti felici e
contenti”.
Chi ha già letto la versione originale di After
Crisis spero che ritrovi un senso piacevole di
Déjà vu, nonostante molti avvenimenti siano stati
cambiati: a cominciare dal titolo della storia (in cui adesso figura
anche il sottotitolo Selfless,
perché in effetti la storia narra appunto della ricerca di
sé stessi), per passare dal cambiamento di molti avvenimenti
della trama, dall’aggiunta di qualche flashback e dalla
modifica del finale (quello di prima era troppo aperto, vorrei dare un
preciso punto di vista che aiuti a collegare tutta la vicenda tramite
una sorta di cerchio che si chiude).
Al contrario, per chi non ha letto la versione originale, qualche
precisazione: Questa fan fiction descrive, seppur in modo piuttosto
fantasioso, la catena di eventi che da Crisis Core portò a
Final Fantasy VII. Quindi darò una mia interpretazione su
cosa successe a Cloud e su come lui arrivò a Midgar dopo la
morte di Zack, sul ruolo di Cissnei in tutto questo e su molte altre
domande ancora avvolte nell’ombra sugli altri protagonisti
della storia.
Se vi ho anche minimamente interessato, vi auguro una buona lettura,
altrimenti potrete chiudere la storia e chi si è visto si
è visto! XD
Divertitevi! (e scusate le colossali note d’autore!)
Capitolo 1: The place
I’ll return someday
C’era qualcosa di ammaliante
nell’eterea bellezza di Midgar, la notte. Se ammirata dalle
colline adiacenti la città, Midgar appariva come una
tentazione, la città utopica, il centro del mondo. Beh, in
un certo senso lo era. Ma da quelle colline, si riusciva ad avvertire
la poesia di quella città, così unica e
inimitabile, ma al tempo stesso banale e scontata. Così
amata, ma al tempo stesso anche odiata, dai suoi abitanti.
Una distesa infinita di luci e ombre; i lampioni apparivano simili a
lucciole da quella distanza, immobili mentre tutto, attorno a loro,
cambiava; i fanali delle automobili, appena visibili, si muovevano per
le oscure strade di Midgar, rischiarandole.
Dalle colline, poi, non si avvertivano nemmeno rumori. Non il rombo dei
motori delle automobili, né la musica troppo alta di una
sporca discoteca del quartiere malfamato della città,
né le urla degli ubriachi che venivano cacciati dai locali
all’ora di chiusura.
Da quella distanza, Midgar era la città ideale. Le sue luci
rischiaravano a giorno il cielo che le stava sopra; i rumori si
perdevano nell’aria, sostituiti dal canto dei grilli in
estate. All’orizzonte, poteva già scorgersi la
rosea aurora, che illuminava Midgar del suo tipico bagliore rosato.
Era la città teatro di drammi, felicità nascoste
e di grosse risate; le vite che vi si intrecciavano la rendevano unica,
straordinaria, diversa da qualunque altro centro abitato del pianeta.
Era una città straordinaria.
Cissnei aveva sempre pensato questo, della sua Midgar. Non era nata
lì, ma tuttavia, sentiva di appartenere a quella
città dal primo momento in cui vi aveva messo piede, appena
bambina, quando aveva oltrepassato le grandi porte della
città con la meraviglia dipinta nei suoi grandi occhi
nocciola. Ormai non ricordava nemmeno con sicurezza il posto dove era
nata; quelle memorie erano state semplicemente sostituite dallo
splendore celeste della Midgar silenziosa di quella collina.
Midgar. La sua casa.
La ShinRa. La sua famiglia.
Fino a quel momento era stato tutto
così semplice. In effetti, non si era mai resa conto del
perché obbedisse alla ShinRa, o del perché si
stesse così bene nei Turk. Solo ora capiva che era per
riconoscenza, per sdebitarsi con coloro che erano stati tanto generosi
con lei. Era stato facile lavorare alle missioni che, in quanto Agente
dei Turk, le venivano assegnate; si era fatta parecchi amici, come
Reno, Rude, o Tseng; aveva riso insieme a loro, e aveva sempre superato
brillantemente le difficoltà che i suoi nemici le avevano
piazzato davanti. Aveva ormai perso il conto dei malviventi che erano
caduti sotto il suo scarlatto Shuriken. Non aveva mai messo in
discussione di fare del bene, che, in effetti, tutta la ShinRa
lavorasse solo per fare del bene al prossimo. No, non l’aveva
mai messo in discussione.
Almeno, fino a quel momento. Tutto era crollato da quando era successo.
Nulla era più lo stesso da quando Zack era morto.
Perfino in quel momento, su quella collina, mentre guardava la
città che amava e che l’aveva accolta, non
riusciva più a sentire la magia e la serenità che
la vista della Midgar notturna di solito le donava. Tutto appariva
così vuoto…
L’aria fresca della notte le solleticava il volto. Alcune
libellule volteggiavano libere vicino ad un piccolo stagno,
lì vicino, attirate dalla specchio d’acqua che le
rifletteva. Nell’aria, un forte odore di fiori, forse di
rose. La linea dell’orizzonte si tingeva del pallido colore
dell’aurora, e il blu della notte cominciava a lasciare il
passo ad un più leggero azzurro, che avrebbe preceduto il
giorno vero e proprio. Era quasi l’alba.
Era stata tutta la notte ad osservare Midgar, a sentire i grilli
cantare, ad ascoltare la silenziosa melodia delle libellule che
danzavano sulla superficie dello stagno. Era stata tutta la notte
immersa nei suoi pensieri.
Fu quando le luci di Midgar si spensero, restituendo un po’
di stelle al cielo, che Cissnei sentì alcuni passi alle sue
spalle. Passi lenti, controllati, calmi. Passi di un visitatore
capitato lì per caso, magari per osservare la splendente
bellezza dell’alba infuocata.
Fu solo quando il misterioso visitatore si mise accanto a lei, e quando
la luce rosea dell’aurora lo illuminò, che Cissnei
lo riconobbe. Avrebbe riconosciuto ovunque la bruna figura che le stava
accanto.
“Salve, Tseng” sussurrò, continuando ad
osservare il sorgere del sole.
Il Turk chiamato Tseng guardò il profilo della ragazza
illuminato dai primi raggi solari, e si scostò una ciocca di
capelli dal volto.
“Sapevo che ti avrei trovata qui” disse poi lui,
osservandola con attenzione.
“Sono così prevedibile?”
domandò Cissnei, con un mezzo sorriso ironico.
“La ShinRa riesce sempre a rintracciare i propri
dipendenti” rispose il Turk, senza smettere di osservare il
suo pallido viso.
Un sorriso increspò le labbra della fanciulla, che non smise
di osservare l’orizzonte incandescente.
Tseng si stupì ad osservare l’alba riflessa nei
suoi occhi. Avrebbe solo desiderato che Cissnei lo guardasse. Che lo
perdonasse, che non lo giudicasse colpevole per la morte di Zack.
A dir la verità, lui non aveva quasi avuto ruolo nella serie
di eventi che avevano portato alla rovina Zack Fair e
quell’altro fante della ShinRa che viaggiava con lui. Aveva
solo eseguito gli ordini che gli erano stati imposti dai suoi
superiori. Ma non era una colpa quella.
D’altra parte, però, era difficile dare la colpa
ad una singola persona per ciò che era accaduto. La colpa
era forse di Zack e della sua insubordinazione? O dei mille soldati
della ShinRa che lo avevano colpito? No. Sarebbe stato troppo facile.
“Ti avevo già visto molte volte andare su questo
promontorio. Hai proprio ragione a voler venire qui: la vista su Midgar
è splendida” esclamò lentamente Tseng,
senza sapere cosa dirle con esattezza. Stava evitando di toccare
l’argomento per cui era venuto in realtà,
perché sapeva che non sarebbe riuscito a restare calmo in
risposta alle accuse che la ragazza gli avrebbe rivolto contro.
“Lo so. Vengo qui da quando avevo 9 anni” rispose
Cissnei, ancora con lo sguardo perso tra i primi raggi solari che
cominciavano a far risplendere di luce Midgar.
Un silenzio imbarazzante si insinuò tra loro due. Tseng non
trovava le parole giuste per cominciare un amaro discorso che, ne era
sicuro, non avrebbe avuto nemmeno la forza di portare avanti. Ma fu
Cissnei che infine parlò, e dalla sua voce
trasparì tutto il disprezzo che in quel momento aveva in
corpo.
“Perché sei venuto?” aveva chiesto,
guardandolo per la prima volta nei profondi occhi scuri.
Tseng non aveva risposto subito, chiedendosi quali parole fossero
più adatta per introdurre quel delicato discorso.
“Vedi” annunciò poi, con voce ferma
“Sono stato mandato qui… per portarti via con
me” enunciò, cercando di reprimere
l’inquietudine che provava attraverso il suo naturale tono
calmo e pacato.
“Comincio ad essere un problema per la ShinRa?”
chiese Cissnei, incrociando le braccia.
“La cosa è seria! Non ti presenti da tre giorni al
quartier generale dei Turk, sai che potresti essere cacciata per
insubordinazione?” chiese Tseng, alterandosi più
di quanto avrebbe voluto.
Passò un lungo secondo prima che Cissnei rispondesse,
chinando lo sguardo verso l’erba verde che ricopriva la
scoscesa collina. I suoi occhi individuarono la rugiada del mattino
sull’erba, simile a lacrime splendenti alla luce del primo
sole.
“Ormai non me ne importa nulla da molto tempo”
rispose tristemente, senza avere il coraggio di guardarlo negli occhi.
“Ma…” esclamò Tseng. Come
poteva Cissnei stare voltando le spalle a tutto ciò che era
stato suo per una vita? “Cosa diavolo stai
dicendo?” sbottò infuriato. “Ho ricevuto
il preciso ordine di portarti con me da parte di Scarlet, e sono stato
autorizzato anche ad usare la forza se necess…”
Cissnei, lo interruppe, guardandolo fisso negli occhi.
“Scarlet? Cosa c’entra Scarlet con i
Turk?” chiese, con l’espressione seria,
dimenticandosi per un momento del rancore e dell’odio che
provava verso l’uomo che le stava davanti e per la
corporazione di cui stavano parlando.
Tseng non rispose subito. Sembrava che stesse cercando le parole giuste
per spiegare un concetto lungo e complesso senza dilungarsi troppo,
come si fa con un bambino. Nascose il suo nervosismo dandosi dei
leggeri colpetti sulla giacca, per far scivolare la polvere che durante
il viaggio verso il promontorio vi si era depositata. Alla fine fece un
lungo sospiro, e si preparò a rispondere.
“Sono tempi duri per la ShinRa. In effetti, possiamo ben dire
che navighiamo nel caos. Hollander, Lazard... tutti quanti, sono andati
perduti. In seguito alla loro fine, Scarlet e Hojo si sono scontrati
per il controllo del Reparto Soldier, del Reparto Turk e di quello
Scientifico. Alla fine, Scarlet è riuscita a strappare al
Presidente ShinRa un permesso temporaneo per comandare le truppe dei
Soldier e dei Turk, mentre Hojo ha ottenuto il controllo del reparto
Scientifico. Diciamo che è stata una spartizione
equa” concluse Tseng, con una nota di amarezza nella grave
voce.
“Scarlet? Ma che diamine crede di fare?”
esclamò Cissnei, in preda all’indignazione.
“Credevo che il posto di direttore dei Turk sarebbe andato a
te!”
Tseng abbassò lo sguardo, senza rispondere alla sua
esclamazione. Era chiaro che lo pensava anche lui.
Adesso, il sole illuminava ormai il cielo limpido vicino Midgar. Il
bagliore rosato dell’alba era quasi del tutto sparito. Il
silenzio della notte, su quella collina, era stato sostituito dal canto
degli uccelli, che acclamavano il giorno appena iniziato.
“Vieni con me” sussurrò poi Tseng, dopo
qualche minuto passato ad osservare lo spettacolo della Midgar ormai
sveglia. “Non mandare tutto all’aria…
per Zack. Immagino di sapere quello che provi, ma…”
“No” lo interruppe Cissnei. “Non sai
niente di cosa provo. E diciamoci la verità, nemmeno ti
interessa. Sei soltanto annebbiato dalla tua posizione, ammettilo!
Persino adesso, quando hai visto sfumare davanti a te il sogno di una
vita, non hai fatto altro che eseguire gli ordini che gli altri ti
hanno dato, coinvolgendo anche me in questa tua follia! No, non
verrò con te, mi dispiace” disse la ragazza, con
un espressione determinata in volto. Non voleva, non poteva, non doveva
più sottostare agli ordini della ShinRa. O almeno, non dopo
quello che quest’ultima aveva fatto a Zack. Non avrebbe mai
finito di ripeterselo. Lei e la ShinRa avevano chiuso per sempre.
“Non fare la stupida!” le urlò Tseng,
contrariato, così forte che alcuni uccelli spiccarono il
volo dagli alberi vicini, verso il cielo. “Adesso vieni con
me e chiuderemo una volta per tutte questa storia. Anche se provassi a
scappare, nel giro di un giorno o due saresti ripresa dalla truppe
della ShinRa, e in tal caso, sono sicuro che saresti mandata a marcire
nelle prigioni! Fai la cosa giusta. Sii ragionevole”.
Cissnei adesso riusciva a sentire una sottile brezza attraversala, da
parte a parte. Non disse nulla, ancora impegnata a rimuginare.
“Forza, andiamo” disse Tseng, in un tono piatto che
non ammetteva repliche di alcun genere. Si voltò e
cominciò ad incamminarsi alle sue spalle. “Devo
ancora andare a sorvegliare l’Antica, e non voglio arrivare
in ritardo”.
“Io…” cominciò Cissnei, senza
sapere esattamente cosa dire. I suoi occhi andarono involontariamente
verso il suo Shuriken, piantato lì vicino, nella brulla ed
incolta terra della collina. Un solitario raggio di sole fece splendere
la superficie di metallo scarlatto.
Il vento, ancora una volta, le solleticò il volto.
L’aria trasudava del primo tiepido calore del giorno.
E all’improvviso, in preda ad un impeto di follia, o forse di
genialità, seppe che cosa doveva fare. Perché
quel vento, il sole che splendeva, la bellissima giornata che stava
sorgendo, tutto rimandava a quel pomeriggio colorato d’ambra,
di parecchi anni fa, che aveva trascorso insieme a lui.
La sua mano si strinse forte all’arma. Il metallo non era
freddo come si era aspettata, ma, al contrario, ardeva della stessa
fiamma che sentiva dentro di sé. Con precisa determinazione,
lanciò lo Shuriken all’altezza della nuca
dell’uomo che aveva di fronte.
Tseng, voltandosi nuovamente verso di lei, non si rese nemmeno conto di
quello che esattamente successe in seguito: il tempo di avvertire un
sibilo fendere l’aria, e già subito dopo si
ritrovò lungo disteso, con il viso a contatto con
l’umida terra della collina. Non era mai stato un tipo
vendicativo, ma mentre perdeva i sensi, non sapendo nemmeno se sarebbe
sopravvissuto, decise che gliela avrebbe fatta pagare. Per tutto quello
che, in quell’alba macchiata del suo sangue, lei gli aveva
fatto passare.
Adesso gli uccellini non cantavano più. Cissnei si
avvicinò al corpo esanime di Tseng, e lo osservò
da vicino. Le profonde occhiaie, la pelle tirata… tutti
sintomi della sua preoccupazione. Probabilmente, neanche lui se la
passava bene, in quel periodo.
“Scusami” sussurrò Cissnei.
Avvicinò le sue labbra alla guancia dell’uomo,
incurante del sangue che la attraversava, e ve le poggiò
sopra, appena, sfiorando la sua pelle. Anche se non glielo aveva mai
detto, sentiva di volere molto bene a Tseng. Quasi come ad un fratello
maggiore. “Perdonami, ti prego” sussurrò
ancora, mentre le si inumidivano gli occhi. “Ci rivedremo
presto”. Nonostante quelle ultime parole, Cissnei non
riuscì a non pensare a quel bacio come ad un Bacio di Giuda.
In un modo o nell’altro, lo aveva tradito. Aveva tradito lui
e tutta la sua famiglia.
Forse gli uccellini non cantavano più, né sentiva
quella brezza fresca sul suo volto. Ma era comunque ed
inequivocabilmente una nuova e bellissima giornata, appena iniziata e,
per la prima volta da quando lavorava alla ShinRa, veramente sua.
Libera, mosse alcuni passi nella direzione opposta alla grande
città da cui era sempre stata ammaliata ma al tempo stesso
prigioniera. Davanti a lei si spalancava una nuova vita, mentre nella
sua mente riviveva il ricordo che le aveva data la forza necessaria per
cominciare, finalmente, a vivere.
Flashback
Il sole aveva ormai iniziato il suo declino, ben oltre lo zenit,
tramontando verso il limpido mare di Costa del Sol. Il cielo, il mare,
la sabbia smossa dalle onde, tutto sembrava risplendere sotto lo
sguardo ardente del sole.
Un gabbiano volava alto, nel cielo, emettendo con vigore il suo
stridulo richiamo; poi si tuffava in picchiata, sull’oceano,
alla ricerca di una preda con cui concludere degnamente la giornata.
E poi, urla di bambini che giocavano, il ritmico fragore delle onde che
si infrangevano sulla spiaggia dorata, l’odore di salsedine
che regnava incontrastato, le risate... quel luogo sapeva di
serenità. Dovunque si fosse guardata, non avrebbe visto
altro che visi allegri, pronti a dimenticare e a lasciarsi alle spalle
tutto ciò che di brutto era capitato nella loro vita.
Cissnei, ancora in costume da bagno, era seduta in riva al mare,
osservando le onde tingersi di un bagliore arancio sempre
più intenso. Una sottile brezza estiva la rinfrescava
dall’afosa giornata che era ormai solo un ricordo lontano.
Le capitava spesso, in quei giorni, di riflettere sui più
recenti avvenimenti. La morte di Angeal, la scomparsa di Hollander,
l’improvviso congedo di Zack e la sua missione di vigilarlo,
lì, sotto il sole cocente di Costa del Sol.
La vita, in quel paradisiaco luogo, in effetti, non era male. Per la
verità, non sarebbe stata male nemmeno tra i ghiacci del
Nord, se questo avrebbe significato avere Zack al suo fianco. Sentiva
che lo avrebbe seguito in capo al mondo. Non avrebbe potuto chiedere di
meglio di restare con lui, per sempre.
Ultimamente passavano parecchio tempo insieme. Tseng non amava
particolarmente il sole, e quindi usciva dalla sua camera in albergo
molto di rado. Di conseguenza, Cissnei passava gran parte della
giornata da sola con Zack, a parlare e ridere tra una nuotata e
l’altra. Aveva imparato molte cose nuove sul suo conto, e non
passava giorno in cui non smettesse di apprendere su di lui.
Zack sembrava felice e rilassato, in quel luogo. Probabilmente doveva
piacergli molto. Eppure, una nota di malinconia e di tristezza
aleggiava ancora nei suoi occhi. Aveva l’aria di un ragazzino
costretto a crescere contro la sua volontà. Aveva perso
Angeal, il suo mentore, forse la persona che significava di
più per lui; e questo lo aveva cambiato. Lo aveva reso
più… adulto. O forse l’aveva solo reso
più consapevole di ciò che significava essere
vivi, in quel mondo. Il poter sparire in un lampo, nonostante fama,
onore, rispetto… e rimanere solo un ricordo. La morte
è sempre un’esperienza drammatica.
Un’onda si infranse fragorosamente davanti a lei,
riportandola davanti a quel magnifico tramonto. Era così
bello quel luogo... sarebbe rimasta lì per sempre, se ne
avesse avuto la possibilità. Il color ambra acceso del sole
le illuminava il viso. Il mare era una grande distesa infuocata, simile
a lava bollente; e la spiaggia deserta era l’argine che
impediva all’oceano di invadere la terra.
“E’ davvero meraviglioso, vero?” chiese
una voce alle sue spalle. Fragore di passi, dietro di lei, che
smuovevano la sabbia.
“Zack!” esclamò Cissnei, voltandosi
verso il ragazzo appena arrivato. “Non ti avevo sentito
arrivare, scusami”.
“Nessun problema” disse il ragazzo, sedendosi
accanto a lei. “Eri troppo rapita dalla bellezza di questo
tramonto?” chiese, perdendo il suo sguardo cristallino tra le
onde ramate dell’oceano.
Cissnei si ritrovò a sorridere. Zack riusciva sempre a
metterla di buon umore, qualunque cosa dicesse.
“Probabile” si ritrovò a rispondere,
prendendo una manciata di sabbia con la mano destra. “Trovo
che… faccia riflettere.”
Nessuno dei due parlò per qualche minuto. Cissnei
giocherellava con la sabbia che aveva sulla mano, osservandone i
meravigliosi riflessi che donavano gli ultimi raggi di sole della
giornata. Zack invece guardava le nuvole rosate che, in lontananza, si
perdevano nella luce abbagliante del sole.
“Va tutto bene?” chiese d’un tratto Zack,
posando il suo sguardo sul viso della ragazza.
Un gabbiano volò alto nel cielo, verso la costa. Cissnei si
mise ad osservarlo, prima di rispondere. “Si,
perché?”.
“Non so... sembri… pensierosa?”
azzardò Zack.
Cissnei incontrò gli occhi del ragazzo con i suoi,
sorridendo dolcemente. “Beh… in effetti, si, stavo
pensando”. Di nuovo lesse quella tristezza attraversare lo
sguardi limpido del ragazzo e, costernata, abbassò lo
sguardo verso la sabbia dorata.
“Non è facile godersi una vacanza del genere
cercando di immaginare cosa stia succedendo lì
fuori” cominciò Zack, con lo sguardo nuovamente
fisso al tramonto. “Io continuo a pensare in che
difficoltà deve essere in questo momento la ShinRa, ad
Hollander, ad…”
“…Aerith?” chiese Cissnei, divertita.
Zack si ritrovò un po’ imbarazzato. Le guance si
imporporarono, mentre farfugliò “Beh…
si… anche…” .
“Tranquillo, è naturale il fatto che tu la
pensi!” esclamò la ragazza, assaporando la brezza
di mare che in quel momento si era alzata. “Non hai nemmeno
avuto il tempo di salutarla... immagino si stia chiedendo che fine tu
abbia fatto!”
“Si, forse” esclamò Zack, con un
espressione colpevole in volto.
Cissnei non poté fare di rinnovare la sua cristallina
risata, ancora una volta, sogghignando della sua
preoccupazione. “Tranquillo” disse poi, non appena
l’eco delle sue risate si fu spento nella tiepida aria del
tardo pomeriggio. “Sono sicura che se tiene davvero a te, lei
capirà”.
Ormai il sole stava tramontando oltre il vasto oceano. Il cielo si
tingeva del viola del crepuscolo. Un'altra afosa serata stava per
arrivare.
“Sai che ti dico?” disse poi Zack, posandole una
mano sulla spalla. “Forse dovremmo davvero fare quello per
cui siamo stati mandati qui. Una vacanza. Non è difficile,
no? Basta solo... divertirsi! Ormai siamo qui da due settimane, non
manca molto prima che ci richiamino in servizio… tanto vale
utilizzare questo lasso di tempo che ci rimane cercando di rilassarci
il più possibile, giusto? Allora dimentichiamoci dei nostri
problemi! Pensiamo solo…” e si interruppe,
guardando la linea in cui il mare e il cielo si fondevano
“… a questo luogo meraviglioso”
concluse, sospirando.
Cissnei poteva sentire la morsa gentile della mano sulla sua spalla.
Era un contatto che trasmetteva calore, affetto, determinazione.
Stavolta gli era vicino come non mai.
“E’ vero, quelli che stiamo vivendo sono dei giorni
stupendi” rispose la ragazza con un sorriso, scostandosi una
ciocca scarlatta dal viso. “Sai,” aggiunse poi,
mentre gli ultimi raggi del sole si affievolivano oltre
l’oceano. “questo è il posto dove mi
piacerebbe tornare, un giorno”.
Zack la osservò, curioso.
“E’ così strano?”
domandò Cissnei, fissandolo a suo volta nei luminosi occhi
azzurri. “Difficilmente rivivrò
un’esperienza del genere. Me lo sento.
Però… non so, ma il sole, il mare, la gente che
ride… qui si respira un’altra atmosfera rispetto a
quella che c’è alla ShinRa. E poi, il poter
stendersi qui, senza preoccupazioni, a guardare il cielo attraversato
dalle nuvole, o le stelle, la notte… è tutto
diverso. A Midgar non si riescono a vedere nemmeno le stelle. O almeno,
non dall’interno della città. Troppe luci,
credo”.
Il ragazzo si passò una mano tra i capelli scuri,
sorridendo. “Non è strano per niente. Anzi, sai
che ti dico? Questo è il luogo dove ritorneremo, insieme,
quando le cose alla ShinRa si saranno sistemate!”
Cissnei si ritrovò contagiata dalla serenità che
emanava Zack. “Non dimenticare di portare anche Aerith,
però...”
“Già!” esclamò Zack, ancora
più eccitato per il progetto. “E tu di portare...
ehm…”
Il ragazzo la guardò, incerto su che nome pronunciare.
Cissnei abbassò lo sguardo, per non far notare gli occhi
pieni di lacrime.
“Di portare… Reno?” concluse Zack, con
un’occhiata dubbiosa.
“Reno?” chiese Cissnei, osservando la baia per non
incrociare il suo sguardo.
Zack sembrava parecchio imbarazzato. “Beh, vedi...
è da tanto che ti ronza intorno, quindi pensavo che magari,
anche tu…”
“Che cosa?” chiese Cissnei in tono divertito.
“No… non credo di provare qualcosa per Reno!
E’ soltanto un caro amico per me! E poi non è vero
che mi ronza intorno!”
“Ma come! Bisognerebbe essere ciechi per non vedere come ti
scorrazza intorno!”
“Ma no, te lo stai inventando!”
“Se lo dici tu…” sbuffò Zack
divertito, alzandosi. “Il punto è che potrai
invitare chiunque ci sarà nella tua vita in quel momento!
Ora, entriamo? Comincio ad avere fame!”
“Vengo tra un minuto” rispose Cissnei, ancora
seduta sulla riva del mare sempre più scuro sotto
l’ormai violaceo cielo.
“Il luogo dove
ritornerò un giorno? E’ forse questo?”.
La risposta era implicita persino nel ritmico rumore delle onde.
Sarebbe stata lei a decidere cosa fare nel futuro.
Fine Flashback
Reno sbadigliò sonoramente, mentre misurava a grandi passi
il perimetro dell’edificio che proteggeva ormai da parecchie
ore. Qualche timido raggio di sole si insinuava tra le fenditure del
piatto, per poi posarsi sullo stretto sentiero che stava sorvegliando.
Alle sue spalle, si stagliava verso l’alto una chiesa
abbandonata.
Dovevano essere parecchi anni che quella chiesa non veniva
più utilizzata. Lo stile della struttura era gotico, ma al
tempo stesso un po’ grezzo e poco lavorato. Gran parte dei
vetri delle finestre erano rotti, le pareti erano state corrose dal
tempo e dall’usura.
Controllò nel suo orologio l’ora. Le 7:31 del
mattino. Dove diamine era finito Tseng? Avrebbe dovuto essere
lì da almeno mezz’ora! Eppure non arrivava
nessuno, e lui era ancora lì, a sorvegliare
l’Antica nonostante il suo turno fosse già finito
da un pezzo.
Ispirò l’aria fresca della giornata appena
iniziata, ripercorrendo col pensiero la notte appena trascorsa. A
quanto pare, Aerith aveva deciso di dormire in chiesa, quella notte,
probabilmente per riuscire a vedere il cielo sopra di lei, attraverso
il tetto fatiscente del luogo di culto. In verità,
il compito di Reno non era stato molto difficile; gli era
bastato appoggiarsi ad una delle pareti in pietra della chiesa ed
attendere un nemico sconosciuto, senza nome né volto, che
mai sarebbe arrivato a disturbare la quiete di quella notte. Quello che
era stato complicato e che aveva richiesto una notevole forza di
volontà da parte sua, era stato il trattenersi dal lasciare
la postazione per correre da lei.
Una notizia era giunta, un paio di giorni prima, alla ShinRa. Il
ritrovamento di Zack Fair. Morto. Ucciso dalla sua stessa famiglia.
Era stato un duro colpo per tutti loro. Lui stesso conosceva Zack,
avevano affrontato missioni insieme, condiviso opinioni, pareri,
dolori; lo aveva considerato una persona fidata, un alleato. Ma in un
attimo, tutto ciò era svanito. Seppellito dalla misera fine
di un uomo che forse non era suo amico.
In quel tragico quadro, però, la persona che ne aveva
sofferto di più era stata Cissnei. Si era estraniata da
tutti ormai da un paio di giorni; nessuno aveva idea di dove fosse
finita. Rude gli aveva detto di lasciarle tempo, di non cercarla, di
non fare assolutamente nulla che andasse al di fuori della solita
routine di ordini della ShinRa; eppure, non era così
semplice distrarsi. Ogni momento poteva essere quello decisivo. E se
Cissnei fosse fuggita, per sempre? E se non si fosse mai più
fatta trovare dalla ShinRa? Non poteva permetterlo. Avrebbe voluto
trarla a sé, abbracciarla, dirle che per lei era importante;
e poi baciarla, farle capire i suoi sentimenti, stare con lei, per
sempre. Ma se Cissnei se ne fosse andata, nulla di tutto questo si
sarebbe avverato. Mai.
Le 7:34. Tseng era andato a cercare Cissnei per ordine di Scarlet. Dove
diamine era finito? Sarebbe dovuto tornare, ormai. Dopotutto diceva di
sapere dove fosse Cissnei. E poi sarebbe dovuto venire lì
per dargli il cambio nel controllare Aerith. Perché diamine
tardava?
Basta. Se solo avesse tardato un altro minuto avrebbe lasciato Aerith
in balia del suo destino. Non gli importava niente di trasgredire gli
ordini. Trovare Cissnei era senz’altro la sua
priorità.
Stava per muoversi dalla sua postazione, quando sentì il
rumore di passi sull’asfalto coperto da un sottile terriccio.
Tseng stava camminando verso di lui, l’espressione seria, i
vestiti sporchi di fango e con un lungo taglio che gli sfregiava il
volto, diagonalmente, da cui, copioso, fuoriusciva sangue
dall’intenso colore scarlatto.
Mentre con una mano si tamponava la ferita, con l’altra fece
segno a Reno di avvicinarsi.
“Ma che diavolo ti è successo? Sembra che un
camion ti sia passato in testa!” esclamò il
ragazzo, osservando attentamente la ferita che l’uomo esibiva
al mondo.
“Fa’ silenzio! Hai qualcosa per tamponare il
sangue?” domandò sbrigativo Tseng, con un tono
freddo e distaccato.
Reno cercò nelle proprie tasche, rivoltandole.
“No, mi dispiace” rispose poi, constatando di non
avere nulla che facesse al caso di Tseng.
“Non importa” sussurrò quello in
risposta, sfilandosi la giacca d’ordinanza dei Turk e
rimanendo in camicia bianca e cravatta.
“Adesso vuoi dirmi che è successo?”
domandò nuovamente Reno, guardandolo in attesa di una
spiegazione.
Tseng non rispose, limitandosi a tamponare il volto con la giacca.
“Quello non andrà via facilmente”
borbottò pensieroso Reno, indicando il sangue ormai
raggrumato sul viso di Tseng e lo sporco sulla giacca.
“Ma mi renderà più spaventoso, rendendo
minimo il rischio di attacco da parte di un nemico” concluse
ironico Tseng.
Attorno a loro, i Bassifondi di Midgar stavano svegliandosi; il brusio
di centinaia di voci al mercato si era fatto più forte,
incrementando sempre più, ogni minuto che passava.
“L’hai trovata?” chiese poi Reno,
titubante. Sapeva che Tseng aveva capito a chi si riferiva.
Senza rispondere, l’uomo fece segnò con la testa
di sì.
“Ma...!” esclamò Reno. Dentro di lui, fu
come se un macigno si fosse disciolto nell’etere.
“E sta bene? E’ ferita? Dove…?”
“E’ scappata” esclamò Tseng,
senza muovere un muscolo, con lo sguardo fisso in un punto
non precisato davanti a lui.
Reno non comprese appieno il suono di quelle parole, inizialmente. Esse
riecheggiarono vacue e prive di significato per la sua mente, senza
trovare un filo logico che le interpretasse nel giusto modo.
Successivamente, la consapevolezza della disgrazia accaduta lo
colpì in pieno, con la forza di un mare che rende naufrago
l’uomo.
“Scappata? Come sarebbe a dire scappata?! E tu non
gliel’hai impedito?!”
Tseng indicò lo sfregio sul volto, spazientendosi.
“E perché diamine non l’hai
inseguita?!” urlò Reno, suscitando
l’indignazione di alcuni piccioni lì vicino, che
volarono via spazientiti.
“Perché le direttive per la missione sono
cambiate” rispose Tseng, con il suo solito tono calmo e
distaccato. Reno ebbe voglia di lanciargli un pugno e farlo sanguinare
ancora di più. “Ho ricevuto da Scarlet
l’incarico di badare ad Aerith”.
“Che cosa?” sbottò Reno, contrariato
“Quella stupida non ha mandato nessuno alla ricerca di
Cissnei?”
“Ehi, ti ricordo che quella stupida è il nostro
nuovo capo,” rispose Tseng “che a proposito, per la
tua gioia, ha già dato disposizione affinché un
Turk la riporti indietro”.
“Bene” disse Reno, un po’ imbarazzato
dopo la figura che aveva fatto con l’altro. “Chi ha
scelto?”
Tseng lo guardò, inarcando leggermente le sopracciglia.
“Te” disse poi, tranquillamente, continuando a
tamponarsi la ferita.
“Che cosa?! E perché mai avrebbe dovuto fare una
cosa del genere? Io…”
Tseng lo prese per un braccio, forte, bloccandogli quasi la
circolazione. “Tu cosa? Non era forse questo quello che
volevi? Non stavi forse mollando tutto per andare a
cercarla?!”
“Ahia, mi fai male!” esclamò Reno,
liberandosi dalla presa e massaggiandosi il polso e
l’avambraccio. Ma che aveva Tseng? Sembrava come... fuori di
sé.
“Scusami. Non intendevo farlo…”
esclamò subito dopo Tseng, confuso ed assente al tempo
stesso. A Reno sembrò come impazzito.
“E’ tutto a posto… tranquillo”
sussurrò poi, mentre guardava i segni rossi che le sue dita
gli avevano lasciato. “Vado alla ShinRa per avere le
direttive necessarie per la missione, poi partirò
subito”.
Si voltò e, a grandi passi e superò
l’ombra che la chiesa proiettava davanti a sé.
Mentre si incamminava a passo svelto verso una nuova missione, si
chiese se fosse saggio lasciare uno Tseng in quelle condizioni insieme
ad Aerith.
“Trovala!” esclamò una voce alle sue
spalle, abbastanza forte affinché potesse sentirlo. Vide
Tseng rivolgergli un breve cenno di saluto, con un sorriso mascherato
dalla giacca che si premeva sul viso.
Reno non riuscì a trattenersi, e scoppiò in una
fragorosa risata che risvegliò l’ambiente
circostante. No, non riusciva ad arrabbiarsi con quello che considerava
come il suo saggio fratellone. Nonostante tutto quello che era
successo, o quello che sarebbe stato in futuro, il ragazzo
capì di non aver perso ancora nulla. Avrebbe ritrovato
Cissnei, finalmente, e poi sarebbero stati insieme. E il fantasma di
Zack Fair sarebbe svanito, prima o poi.
Fece l’occhiolino a Tseng e, mentre lo salutava, si disse che
tutto era ancora da decidere, e che il gioco era appena iniziato.
Fine Capitolo 1
Ed ecco qui il primo capitolo di questa fan fiction. Cosa ve ne pare?
So che in pratica non accade quasi nulla, ma questo capitolo serve da
base per i prossimi, che vi prometto saranno pieni di avvenimenti
importanti ai fini della trama. Mi rendo conto che Cissnei,
inizialmente è un tantino fuori di sé, ma non ho
voluto mettere OOC negli avvisi proprio perché in effetti la
ragazza è distrutta dalla morte di Zack, ed e quindi
naturale che si comporti così. Stessa cosa per Reno, che
qui, a quanto pare è preoccupato per la sua Cissnei e quindi
non è molto giovale (qualcuno mi ucciderà per
l’aggiunta del potenziale pairing Cissnei x Reno, ma
sorvoliamo!).
E veniamo adesso alle dediche e hai ringraziamenti: dedico questo
capitolo al mio amico Bankotsu
che oggi 28 Luglio compie gli anni (234 anni esatti, mica pochi!) e lo ringrazio per lo stupendo
banner da lui creato che potete ammirare ad inizio pagina!
Grazie Bank!
Spero che il capitolo piaccia, poiché personalmente non ne
sono molto convinto, secondo me avrei potuto anche fare di
meglio… spero di migliorare col passare dei capitoli!
Un’ultima nota, prima di lasciarvi: la velocità
d’aggiornamento non è proprio la mia principale
caratteristica. Essendo impegnato con più long fic diverse,
inoltre, credo che passerà qualche mese prima che io
aggiorni nuovamente... spero comunque di fare in fretta!
Al prossimo capitolo! Ciao!
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Capitolo 2 *** Capitolo II ***
Capitolo
2
Polvere. Nella vaga
penombra della stanza, la polvere eterea era l’unico elemento
che traspariva attraverso i pallidi raggi di luna che entravano dalla
finestra. Sembrava brillare, fugace, per poi disperdersi impetuosa tra
le ombre, come resti di una nave naufragata che svaniscono tra i flutti
perpetui dell’oceano.
Si mosse lentamente
nel buio della sua camera. Arrivò davanti alla finestra e
poggiò una mano contro la fredda superficie lievemente
incrinata, che da anni era la sua protezione contro
l’oscurità della Midgar notturna.
L’unico modo per lasciare fuori le ordinarie storie
di massacri, le sofferenze, le colpe di una città antica
come il mondo e che tesseva la propria realtà a spese di
coloro che vi vivevano. Nel silenzio aprì la finestra,
lasciandola cigolare.
La mezzanotte era
passata da un pezzo e, già da tempo, il sole era tramontato
oltre le colline vicino Midgar. Ci mise un po’ per abituarsi
all’oscurità che permeava ogni vicolo dei
bassifondi, ma alla fine i dettagli di quelle strade, che conosceva
così bene, riemersero pur restando nell’ombra,
celati dalla mano di un artista che ne tracciava sbiaditi contorni.
Riconobbe le strade, i viali, le varie forme dei detriti accumulati dal
tempo; percepì la gente, o la sua assenza, pur non riuscendo
a vederla.
Più avanti
si intravedevano le luci di alcuni lampioni, fari
nell’oscurità, che illuminavano le strade
principali che collegavano i vari Settori di Midgar tra loro. E poi,
oltre le luci, c’era il reticolato di strade e di case che,
come una macchia d’olio, si estendeva fin dove arrivava lo
sguardo; e infine, in lontananza, le onde del mare sulle quali si
rispecchiava confusa la figura della luna.
Distrattamente si
passò una mano tra i capelli, per ravviarli, poi
guardò il letto sfatto sul quale non era riuscita ad
addormentarsi nelle ore precedenti. Impetuosi pensieri
l’avevano distratta, togliendole il sonno. Si
affacciò alla finestra, ripercorrendo con lo sguardo le vie
che abitualmente attraversava nella sua vita quotidiana.
Poggiò il
gomito sul davanzale, taciturna, osservando la città che in
ogni istante si rinnovava davanti ai suoi occhi, simile al flusso dei
suoi pensieri.
In quegli ultimi anni
s’era spesso stupita di come non fosse mai riuscita davvero a
liberarsi dalla sensazione di attesa che quotidianamente
l’attanagliava. Lentamente, i ricordi di quei giorni erano
cominciati a sbiadire, come pagine consunte di un capitolo ormai chiuso
della sua vita. Ogni tanto, mentre camminava per le vie della
città, le sembrava quasi di vederlo: ma la verità
era che il dolore della perdita non si era mai attenuato, ma anzi, era
stato alimentato dalla stessa speranza che gli impediva di credere che
Zack fosse morto.
Pensava spesso a lui.
Pensava alle ottantanove lettere che gli aveva mandato, e alla
novantesima, che aveva avuto tra le mani quel pomeriggio, e che sperava
lo avrebbe raggiunto, riuscendo dove tutte le altre avevano fallito.
Pensava a come non avesse ancora sue notizie, e si chiedeva cosa gli
fosse successo, cosa l’avesse trattenuto lontano da lei per
così tanto tempo. E nonostante i mesi, le stagioni e gli
anni che passavano, lei continuava a pensare a quando sarebbe tornato,
magari alle soglie di una tranquilla estate, in cui, con passo stanco,
avrebbe oltrepassato la porta di quercia della chiesa e, come al
solito, le avrebbe sorriso.
Lui sarebbe tornato un
giorno. Lo sentiva.
O forse,
più semplicemente, lo sperava.
Si alzò e
prese la novantesima lettera che aveva scritto poche ore prima, in cui
fiumi di parole scorrevano impetuosi sul foglio. Si disse che quella
sarebbe stata l’ultima che gli avrebbe scritto, ma dentro di
lei sapeva già che non avrebbe mantenuto quel semplice
proposito che ogni volta si raccomandava di seguire.
Attraversò
a passi lenti la stanza, cercando di non far rumore per non svegliare
la madre nella camera accanto; aprì la porta e la richiuse
alle spalle silenziosamente, facendola aderire allo stipite. Scese con
prudenza le scale, quasi corse verso la porta d’ingresso e,
spalancandola, si ritrovò all’esterno, a respirare
l’aria fresca della notte fonda.
Dovunque il suo
sguardo si posasse, non vedeva altro che
l’oscurità di quei vicoli malfamati e spogli,
tetri a quell’ora della notte. Diede inavvertitamente un
calcio ad una lattina, e il rumore secco risuonò per decine
di metri intorno a lei, amplificato dal silenzio.
Forse non era stata
un’idea così geniale uscire a quell’ora,
si ritrovò a pensare mentre si guardava intorno circospetta.
Tuttavia, il tragitto che doveva compiere non era molto lungo. O
almeno, così pareva di giorno.
La notte, a Midgar,
era carezzevole, ammaliatrice, suadente; una nuova città
sorgeva, al tramonto, ed anche se le strade, le vie e le baracche
rimanevano le stesse, qualcosa cambiava: la luce spariva, e con essa
anche le persone e la vita di quei quartieri; e senza la sua anima, la
città che si levava sul far della sera appariva spoglia,
vuota, esanime. Ed era in quel momento che la città sorgeva,
o forse svaniva, inghiottita dalle tenebre.
Fece qualche altro
passo, aguzzando la vista oltre quei vicoli, finché non fu
irradiata dalle luci dei lampioni della via principale. Chiuse gli
occhi, istintivamente, per schermarli da quell’improvvisa
aggressione; dopo qualche secondo li riaprì, e a passo
svelto percorse il lungo viale che portava alla fine del Settore 5.
Già da lì riusciva a intravedere le alte e
semidiroccate guglie della sua destinazione, che svettavano
sugli edifici bassi delle costruzioni accanto a lei. Quando si
ritrovò davanti alla chiesa, lasciò che le sua
mani aderissero alla maniglia e che, aprendosi, il portone di quercia
scivolasse sui suoi cardini, cigolando. Richiuse la porta alle sue
spalle, con un piccolo tonfo, e si incamminò verso
l’abside semidistrutto di quello che da anni era diventato il
suo santuario e rifugio. Raggi di luna illuminavano fiocamente il
luogo, filtrando dalle parti in cui il tetto era ceduto; in
basso, i fiori che aveva coltivato durante quell’anno si
estendevano rigogliosi, pieni di vita, muovendosi al soffio degli
spifferi che attraversavano le fredde mura.
Si sedette in mezzo al
crocevia, là dove il parquet della chiesa finiva ed il
dislivello nel quale coltivava i fiori iniziava; in mano aveva ancora
la novantesima lettera, canale di speranza o forse solo di illusione, e
nella testa una grande quantità di pensieri, che si
materializzavano in ricordi lontani che una volta, in quel luogo, erano
stati realtà.
Spesso gli pareva
quasi di intravederlo, nell’ombra dietro agli alti pilastri
in marmo, mentre sorrideva, o esplorava la chiesa, strascicando i piedi
e tenendo lo sguardo sull’alto soffitto semi diroccato. Non
parlava, poiché Aerith si era ormai dimenticata che suono
avesse la sua voce, e dopo un po’ semplicemente si dileguava
inghiottito dall’oblio, ogni volta sempre più
sfocato, come se la sua memoria, giorno dopo giorno, lo stesse
allontanando, facendolo scivolare dalla sua mente e dai suoi ricordi.
E mentre rifletteva su
Zack, alle sue spalle udì dei passi. Calibrati, lenti, con
un ritmo costante che non veniva mai variato. In quella notte
così silenziosa e al tempo stesso invadente, quei passi
avevano spezzato la catena di pensieri che si diramava da quando il
sole era tramontato dietro i monti che circondavano ad ovest la
città.
Si voltò, e
riconobbe subito il volto del suo visitatore. Dopotutto, avrebbe dovuto
immaginarselo.
“Non sei a
casa” asserì lui, avvicinandosi e mettendosi di
fianco a lei, osservando l’erba che cresceva ai loro piedi.
“Non sono la
sola” rispose Aerith, accennando un sorriso sul volto che
fino a pochi attimi prima era invaso da una smorfia pensierosa.
“Sei in servizio?”
“Ovviamente”
confermò Tseng, atono, senza scomporsi.
Passò un
momento di silenzio, in cui nessuno dei due proferì parola.
“Come va con
la ferita?” chiese infine Aerith, dopo un po’.
L’uomo si
portò automaticamente le mani al volto, nel punto in cui,
ormai quasi ventiquattro ore prima, Cissnei l’aveva
sfregiato. Percorse con le dita il tratto nel quale si estendeva il
profondo taglio, con leggerezza, percorrendo la linea dei punti di
sutura.
“Va
bene” rispose con sincerità, perché
effettivamente parte del bruciore si era affievolito durante il corso
della giornata.
Aerith lo
osservò attentamente, stringendo gli occhi.
“Perlomeno non sei più coperto di
sangue!” concluse dopo qualche secondo. Gli lanciò
ancora qualche fugace occhiata, poi aggiunse, divertita:
“Posso sapere come…?”
“No”
rispose Tseng, imperturbabile.
“Ma se non
mi hai neppure fatto finire la frase!”
esclamò Aerith, delusa.
“La risposta
è comunque no!”
“Beh,
ma…”
“No”
la interruppe di nuovo l’uomo.
“D’accordo,
d’accordo!” rise Aerith, alzandosi e muovendosi per
alcuni passi lungo la navata della chiesa. Guardò ancora una
volta la lettera che teneva tra le mani, e si costrinse a non pensare
nuovamente a lui.
“E’
una storia buffa?” riprese, cercando di non dare peso al
pezzo di carta che stringeva tra le dita.
Tseng la
guardò come se fosse matta. “No!”
rispose, come se avesse pronunciato chissà quali
assurdità.
“Ma
“No” è l’unica parola che
conosci?”
“No!”
“Eddai,
è buffa?”
“Non
credo.”
“Io dico di
si, altrimenti me l’avresti raccontata!” disse
Aerith, imbronciata.
“Ti ho
già detto che non lo è!” gli rispose
Tseng atono.
“E allora
che motivo hai per nasconderla?”
“Affari
miei.”
“Non
potresti inventare una bella scusa almeno?”
“No!”
“Va
bene…” esclamò la ragazza, chiudendo la
conversazione. Ritornò accanto a lui, sedendosi sul
polveroso parquet della chiesa e osservandolo.
“E adesso
cosa c’è?” chiese Tseng, sospirando e
pentendosi di non aver dato un taglio netto alla conversazione fin da
subito. Purtroppo, Aerith era fatta così, e sapeva che, una
volta imbarcatasi in un’impresa, difficilmente demordeva.
Fuori s’era
alzato il vento. Lo sentirono ululare, caustico e sferzante.
Aerith sorrise, e non
rispose alla domanda dell’uomo.
Nonostante fosse
ancora notte fonda, la chiesa non era poi così buia. Si era
allontanato dall’abside dell’edificio, e adesso si
aggirava silenzioso tra le colonne, ammirandone le fattezze.
Gettò distrattamente uno sguardo ad Aerith, per controllare
che fosse ancora dove il suo sguardo l’aveva lasciata
l’ultima volta. Rassicuratosi, lasciò vagare la
vista sulle travi portanti semidistrutte, smarrito nei suoi pensieri.
Non aveva avuto
nessuna notizia di Reno durante il giorno che era appena trascorso, ma
l’ultima volta che l’aveva visto, quasi
ventiquattro ore prima, sembrava essere quasi fuori di sé.
Sospirò, ripensando alla missione che era stata affidata da
Scarlet al giovane Turk.
Trovare Cissnei.
Riportarla indietro.
Passò una
mano sulla ferita, ancora fresca. Si chiese dove fosse la ragazza.
Subito dopo essere stato attaccato aveva perso i sensi, e non era stato
capace di fermarla.
Aveva
aperto gli occhi, tremando, sbattendoli più volte. Quando si
era accorto di cosa fosse successo, si era alzato di colpo,
procurandosi un’acuta fitta alla tempia. S’era
passato una mano sul volto, percorrendo il solco che lo Shuriken di
Cissnei aveva lasciato su di lui. Poi, alzando lo sguardo
sull’orizzonte su cui stava sorgendo l’alba, aveva
compreso di non aver compiuto la missione che la nuova direttrice,
Scarlet, gli aveva assegnato.
Non
era stata un’amichevole chiacchierata, quella che lui e la
donna avevano avuto al cellulare subito dopo.
“Sai
perché non sono minimamente stupita?” aveva
domandato sardonica lei, non appena l’aveva informata sugli
ultimi sviluppi della faccenda.
Non
aveva risposto.
“Ho
sempre pensato che i Turk non fossero altro che un branco di
mollaccioni incapaci. Il più indisciplinato tra i gruppi
d’assalto della ShinRa, il primo che compare in percentuale
agli imprevisti durante le missioni…”
Tseng
era rimasto in silenzio, stringendo la presa della mano attorno
all’apparecchio.
“Insomma,
una vera e propria palla al piede per la ShinRa Corporation”
aveva continuato lei, non riuscendo a non nascondere un ghigno di
soddisfazione attraverso la sua voce. “Ma ora che mi trovo
temporaneamente a ricoprire l’incarico di comandante della
sezione , capisco che il mio giudizio era errato. Non è
solamente un mio pensiero, perché i Turk sono” e
sottolineò il verbo con enfasi “un branco di
mollaccioni incapaci. La mancanza di disciplina è in effetti
anche la vostra rovina.”
Anche
questa volta non aveva risposto, mentre la donna si compiaceva del
proprio giudizio con una risata. Ricordava di aver sentito
l’odode della terra bagnata. Probabilmente era piovuto da
poco.
“Tseng?”
lo chiamò Aerith, voltandosi.
L’uomo si
destò dalle sue riflessioni. Era quasi l’alba.
“C’è
qualcosa che non va?”
Sospirò.
“Stavo solo pensando” rispose, atono. Sentiva
ancora la voce della direttrice sibilargli in testa.
“Sembravi
molto serio” constatò Aerith, fissandolo con
attenzione e avvicinandosi. “Sei sicuro che vada tutto
bene?”
Tseng ci mise un
po’ a rispondere. La tempie gli pulsavano ancora
terribilmente per via della risata stridula che si perpetuava
all’interno della sua testa. “Sì,
è solo un periodo difficile per tutta la ShinRa”
disse poi, lasciando che la sua mano ancora una volta scivolasse lungo
la ferita chiusa.
Aerith non rispose.
Sapeva che l’uomo non le avrebbe mai detto più di
tanto, quindi non indagò oltre nei suoi pensieri. Mise una
mano in tasca e la strinse intorno alla lettera, lasciando che
scivolasse lungo il foglio ruvido. Lo tirò fuori per
osservarla ancora una volta, lo sguardo chino, incerta se consegnarlo o
meno all’uomo.
“Un’altra
lettera?” la anticipò Tseng.
Alzò gli
occhi, ma non fu abbastanza forte per incrociare il suo sguardo. Poteva
quasi sentire le implicite accuse che il Turk le rivolgeva con il suo
prolungato silenzio, in attesa di una risposta che da parte sua non
sarebbe arrivata. Si disse che doveva essere più forte, e
fece per nascondere la lettera tra le pieghe del suo vestito, con
naturalezza, cercando di celarla agli occhi dell’altro.
“Non
è nulla…” si affrettò a
pronunciare, rimettendola in tasca.
Tseng le si
avvicinò, lentamente. “Ho accettato le altre
ottantanove senza problemi, perché non dovrei prendere
questa?”
Non seppe cosa
rispondere, e si limitò ad osservare la mano spalancata che
l’uomo le aveva teso davanti, aperta e disponibile alle sue
richieste non pronunciate. Dischiuse le dita intorno al foglio di carta
opaco e lo lasciò cadere nel palmo dell’altro, che
lo afferrò e lo ripose all’interno della sua
giacca.
“Grazie…”
emise lei d’un soffio, sottovoce. Tseng non rispose e si
allontanò dai suoi occhi, svanendo
nell’oscurità dell’abside privo di
finestre. Le sue mani tornarono più volte sulla lettera che
si era fatto affidare, sottile e leggermente increspata, inutile eppure
così significativa.
Lasciò che
le tenebre che avvolgevano quella zona della chiesa lo nascondessero
agli occhi di Aeris. Nessuno l’aveva ancora informata sugli
avvenimenti degli ultimi giorni, e sulla reale entità dello
squilibrio che lentamente si stava diffondendo lungo i piano alti della
ShinRa. Il ritrovamento e la morte di Zack Fair era solamente stato
l’ennesimo chiodo sul coperchio della loro bara.
Guardò
Aeris, distesasi su una delle panche di legno della chiesa ad occhi
aperti, mentre osservava le alte finestre da cui filtrava la prima luce
dell’aurora. In quel momento, capì che prima o poi
sarebbe toccato a lui infrangere le speranze che ella aveva accumulato
in tutti quegli anni. S’immaginò di scattare in
avanti, verso di lei, deciso, serio, irremovibile nella sua decisione;
di urlarle contro, di sbatterle in faccia che Zack era morto, che non
sarebbe tornato, e che le sue novanta stupidissime lettere erano state
tutte inutili. Immaginò lo sguardo della ragazza, serio,
affranto, disperato o composto che fosse, e le sue reazioni alla
sconvolgente notizia. Fu sul punto di uscire dall’ombra e
lasciare che quel peso non gravasse più solo su di lui,
cercando di emulare la decisione che ostentava nei suoi pensieri. Ma
non ci riuscì, e rimase ad aspettare che i tiepidi raggi del
sole illuminassero l’abside prima di fare un passo verso
l’uscita del grande edificio.
L’aria era
mite, la mattina presto, e Tseng la assaporò per un istante,
prima di volgere la sua attenzione alla lettera affidatagli da Aeris
che aveva riposto nella tasca interna della sua giacca. Per un lungo
attimo lasciò che gli scivolasse tra le dita, carezzandone
la ruvida fattura. Poi, preso da un impeto di rabbia o forse solo
schiavo delle sue emozioni, la strappò una volta, e ancora,
e ancora, disperdendone i pezzi nel vento.
Osservando
distrattamente il cielo attraverso le fronde scure degli alberi,
capì che la lunga notte nella foresta era finalmente finita.
Ansante, stremato, sfinito dalla lunga marcia, lasciò che la
sua schiena aderisse contro il ruvido tronco di una quercia, respirando
l’aria gelida del mattino imminente.
Confuso e agitato,
posò lo sguardo sulla Buster Sword che teneva tra le mani,
tratteggiandone i solchi con le dita e osservando il suo riflesso opaco
che la lama rifletteva. Era riuscito a scrostare il sangue che gli
insudiciava il volto, presso un ruscello raggiunto qualche ora prima,
ed adesso il suo viso appariva più giovane e meno teso.
Osservò il riflesso dei suoi occhi, stanco, disperato,
lucente a causa dell’esposizione all’energia Mako,
e si chiese per quanto ancora avrebbe continuato a vagare senza meta,
ignorando la sua posizione. Lì, nell’infinita
penombra del sottobosco, sembrava che la natura non avesse mai
conosciuto la mano dell’uomo, tanto era prospera e
rigogliosa.
Non voleva ammetterlo
a se stesso, ma probabilmente per gran parte della notte aveva vagato a
vuoto: nonostante infatti gli fosse sembrato di aver percorso diversi
chilometri, aveva udito comunque il sommesso fruscio del breve corso
d’acqua presso il quale si era rinfrescato, come se non
avesse mai abbandonato il pendio terroso sul quale il fiumiciattolo
sorgeva.
Gli uccelli adesso
cantavano, preannunciando il bagliore rosato di cui lentamente si
tingevano sprazzi di cielo oltre gli alberi. L’atmosfera
divenne, nel giro di pochi attimi, meno greve e cupa, rischiarata dai
primi raggi del sole che, deboli ma accecanti, già
rischiaravano le foglie morte cadute dagli alberi.
Alzatosi in piedi,
riuscì a procedere più velocemente rispetto a
quanto avesse già fatto a tentoni
nell’oscurità. Notò che, nonostante le
apparenze, tracce inequivocabili del passaggio umano apparivano
saltuariamente tra le radici nodose degli alberi: rami spezzati,
tranciati da un’ascia o da altri oggetti contundenti,
liberavano i sentieri più ardui da percorrere, agevolando di
molto il cammino. E, mentre la flebile luce dell’alba cedeva
il passo a quella più sicura e decisa della mattinata, ed il
sole si levava già nel cielo alle sue spalle,
cominciò a notare alberi più radi e meno
affusolati nella forma, le cui radici si diramavano in maniera
più omogenea percorrendo minore distanza rispetto a quelli
secolari all’interno della grande foresta. Ma fu solamente
parecchie ore più tardi, quando il sole, raggiunto lo zenit,
cominciava a tramontare davanti ai suoi occhi, che riuscì
finalmente ad intravedere la grande pianura che si estendeva nei pressi
della Chocobo Farm.
Stanco per il lungo
viaggio, si lasciò scivolare lungo il tronco di un abete,
così come aveva fatto durante l’alba, sedendosi
sulla terra umida bagnata da un temporale passeggero.
La grande luce delle
pianure, così violenta rispetto a quella che filtrava
all’interno del bosco, inizialmente lo assalì
brutalmente, costringendolo a serrare gli occhi e a ripararsi con il
dorso della mano. Poi, cominciò ad abituarsi alla luce
violenta, e al bagliore arancione che si tingeva sulle montagne che
recidevano la linea retta dell’orizzonte, in lontananza.
Cloud si disse che,
probabilmente, per quel giorno aveva già solcato abbastanza
sentieri e, alzatosi da terra, decise di accendere un fuoco per tenere
lontane le bestie a causa delle quali durante la precedente notte non
aveva chiuso occhio. Si alzò e rovistò nello
zaino che portava alle sue spalle, setacciandolo alla ricerca di una
materia adatta ad accendere un fuoco. Ne trovò una incrinata
su più punti, vecchia e dimessa, che doveva avere con
sé da moltissimo tempo, perché non ricordava
neppure come l’avesse ottenuta. Dopo un paio di tentativi,
riuscì ad accendere un fuoco di piccole dimensioni la cui
fiamma venne spenta dopo pochi secondi da un lieve soffio di vento.
Sospirò e
ripeté il gesto, ottenendo una fiamma di dimensioni maggiori
il cui crepitare riempì l’aria del crepuscolo
nascente. La alimentò con diversi rami secchi e infine,
quando fu certo che non si sarebbe più spenta,
cercò qualcosa da mettere sotto i denti, ma con scarsi
risultati.
Quando la sera scese
alle porte della pianura, si ritrovò nuovamente seduto ai
piedi dell’abete, di fianco al fuoco che saltuariamente
scoppiettava, lanciando scintille che si erano spente ancor prima di
toccare terra.
Perse il suo sguardo
nella luce che le fiamme emanavano e nel loro continuo rinnovarsi, di
attimo in attimo, rischiarando le brune cortecce degli alberi. La luna
sorgeva luminosa anche quella notte, rischiarando le lontane colline
aldilà della pianura. E mentre osservava la grande luna in
cielo, sulle colline e aldilà di quelle, notò il
grande bagliore luminoso che, come una scintilla
nell’oscurità, rischiarava la nera notte. Il
grande bagliore luminoso di una città che conosceva bene, e
che, come aveva imparato durante tutti gli anni che vi aveva trascorso,
non dormiva mai.
E mentre la luna si
levava alta nel cielo, mai più splendente che in quella
notte, e l’aria si tingeva dell’aroma di un
temporale appena passato, Cissnei si ritrovò a fermarsi per
riprendere fiato, nel bel mezzo della grande radura che Cloud aveva
ammirato dall’uscita del bosco. Ogni tanto si voltava
indietro, impassibile, ad osservare la grande città che
lentamente sfumava via dalla sua vista; e ad ogni passo, quella grande
luce che rischiarava le colline e il cielo si allontanava e svaniva
inghiottita dalle tenebre, sempre di più.
La notte era soave e
delicata, in quel campo, come uno dei tanti fiori che crescevano
rigogliosi in quella zona. Ne osservò la maestosa corolla
che era il cielo indaco, ammaliata dall’enorme
quantità di stelle che da lì erano visibili, di
gran lunga maggiore a quelle che era solita ammirare
dall’alto della sua collina fuori Midgar. Si sentì
libera, per la prima volta dopo tanto tempo, dai legami che gli uomini
della città avevano stretto intorno a loro, nella vana
speranza di cercare una sicurezza che lei aveva conosciuto solo adesso
che si era allontanata da quel mondo a loro tanto caro. E mentre udiva
i grilli cantare per lei, in quella notte così chiara e
adamantina, allontanò per qualche ora il pensiero di Zack
che tanto l’aveva perseguitata durante tutto il giorno
precedente, e continuò il cammino solo per il puro gusto di
andare avanti, e di scoprire nuovi luoghi come quello, capaci di
rasserenare e acquietare i turbamenti dell’animo.
Quando il display del
suo PHS segnava ormai la mezzanotte da un pezzo, decise di sostare per
un po’ in una radura presso la quale alcuni alberi isolati
proiettavano sfocate ombre alla luce della luna. Ma nel momento esatto
in cui si sedette a terra, tutta la stanchezza accumulata durante le
ore che aveva trascorso in fuga le si riversò addosso, come un
fiume in piena che irrompe furiosamente dagli argini. D’un
tratto sentì il rimorso e il dolore per la perdita di Zack
nuovamente e con maggiore rammarico, e gli parve di rivivere la
conversazione che aveva sostenuto con Tseng come se fosse avvenuta
appena qualche minuto prima.
Strinse le gambe al
petto, mentre il cielo si macchiava di nubi gonfie giunte da est che
sembravano preannunciare una nuova tempesta imminente.
Venne assalita dalla
solitudine che serpeggiava dentro di lei, e si chiese a cosa servisse
quel disperato viaggio senza meta che aveva deciso di affrontare. Aveva
lasciato la ShinRa e non aveva alcuna intenzione di tornare tra i suoi
ranghi, ma adesso si sentiva sola, sperduta, smarrita
nell’immensità di un mondo che non aveva mai
affrontato da sola.
Lasciare la ShinRa, lo
capiva solo ora, era un po’ come perdere se stessi. E lei,
senza se stessa, fino a quel momento, non lo era mai stata.
Persa nei suoi
pensieri, gettò uno sguardo disinteressato al cielo
soffocato dalle nubi; e fu in quell’istante, mentre osservava
i rimanenti limpidi spazi di cielo, che notò un insolito e
scintillante bagliore che si muoveva nel cielo. Ed in quel momento,
allontanato ogni altro pensiero su Zack e sul suo futuro,
cominciò a correre velocemente, cercando riparo nelle grandi
foreste che si estendevano ai margini della pianura.
A Midgar la serata era
stata uggiosa e buia, preannunciando un temporale che di lì
a poco avrebbe scatenato la sua furia sulla città inerte. La
luce della luna, offuscata dalle nubi, non raggiunse nemmeno una volta
le solitarie strade, battute unicamente dai rivoli di pioggia che si
radunavano in pozzanghere di sempre maggiori dimensioni. Al contrario,
invece, l’acquazzone sempre crescente manifestò la
sua furia sulla città addormentata, piegandola al suo volere
e illuminandola saltuariamente quando i lampi squarciavano il cielo.
Gocce di pioggia si
infrangevano contro le ampie vetrate del suo attico, situato nei piani
alti dell’edificio ShinRa. Da quell’altezza,
ammirò come la natura manifestasse la sua tremenda forza
sull’uomo, e su come quest’ultimo fosse indifeso di
fronte ad essa. Mosse alcuni passi verso il vetro, ed il rumore dei
tacchi alti sul marmo scandì elegantemente il suo cammino.
Poggiò una
mano sulla finestra, perdendo lo sguardo tra le oscure vie desolate
della grande metropoli. Midgar si estendeva davanti ai suoi occhi,
costretta ad un letargo forzato imposto ingannevolmente dalla pesante
pioggia. In nottate del genere, quasi nessuno si avventurava per le
vie, rese impraticabili dal tempo. E quando nessuno solcava le strade
della città, sembrava quasi che quest’ultima
perdesse la sua anima, e divenisse un mero fantasma sbiadito, slavato e
incolore.
Ora che ci pensava, in
effetti, in quel momento le condizioni atmosferiche non sarebbero
potute essere migliori.
Da quando era riuscita
a dirigere provvisoriamente anche il reparto Turks, era stata
incaricata di risolvere parecchie seccature inutili; ma ciò,
stranamente, non l’aveva infastidita, perché
sapeva che era solo il primo passo al fine di mettere in moto qualcosa
di più grande. Aveva lavorato per parecchio tempo a quel
determinato piano, instancabile, pregustando la gloria che prima o poi
ne sarebbe conseguita, certa che un giorno i suoi sforzi sarebbero
stati ripagati. E adesso, osservando la ShinRa che cadeva sotto gli
insistenti colpi dei nemici, aveva deciso che probabilmente non avrebbe
trovato un’altra occasione per attuare le sue macchinazioni.
Sorrise alla tempesta,
salutando la pioggia che si infrangeva sulle vetrate come colei che
portava via gli ultimi residui di quel governo poco mirato che aveva
ridotto Midgar in malora. Una volta che lei sarebbe divenuta la nuova
Presidente, era certa che il destino della compagnia si sarebbe
rivoltato, e che una nuova età dell’oro avrebbe
investito la ShinRa e tutto le terre a lei alleate.
Fu in quel momento che
udì qualcuno bussare alla porta, lievemente, battendo due
volte le nocche sul lucido mogano. Si riscosse dai suoi pensieri, e il
ghigno sul suo volto svanì.
“Chi
è?” chiese, calibrando il tono della voce
affinché non sembrasse troppo soddisfatto.
“Sono
Michael.” rispose una voce dall’altra parte della
porta.
Scarlet sorrise,
pregustando una pungente chiacchierata. “Entra pure,
Michael.”
La porta si
aprì lentamente, cigolando sui cardini antichi. Davanti ai
suoi occhi apparve un uomo di circa trent’anni, in giacca e
cravatta, che rimase immobile sull’uscio, osservandola.
“Allora,
Michael” cominciò la donna, ponendo parecchia
enfasi su quel nome. “Credevo di averti dato la serata
libera.”
“Questo
è vero” esordì l’uomo,
avanzando disinvolto per la stanza. “Tuttavia, non credo di
avere molta scelta su dove trascorrere la mia vacanza, data la grande
tempesta che si è abbattuta sulla città. Davvero
simpatico, da parte sua, concedermi del tempo libero oggi.”
“Beh, la tua
dedizione è ammirevole” rispose Scarlet, ironica,
ignorando la sua ultima frase con un sorriso sarcastico.
“C’è un motivo particolare per cui mi
hai disturbato, o si tratta solo dell’ennesimo tentativo
malriuscito di farmi perdere le staffe?”
“Per la
verità, mi manda il Presidente ShinRa”
annunciò l’uomo, con voce ferma.
“Gradirebbe parecchio poter avere una chiacchierata con lei,
il ché, a mio avviso, è davvero straordinario,
poiché di solito ogni persona sana di mente preferisce
starle a debita distanza.”
“Riferiscigli
che aspetto la sua visita con ansia” rispose la donna, seria,
scartabellando alcuni documenti sulla sua scrivania. “E
quanto a te... beh, sentiti pure libero di stare a debita distanza da
questo ufficio. Ti assicuro che nessuno sentirà la tua
mancanza.”
“Naturalmente”
decretò lui, sorridendo. “Bene, andrò a
contattare il presidente subito.”
Scarlet non rispose, e
lasciò che l’uomo abbandonasse la stanza.
Ascoltò il rumore dei suoi passi spegnersi lungo il
corridoio, poi si preparò in vista dell’incontro
con il presidente e ai possibili nuovi pezzi che l’uomo
avrebbe potuto schierare in campo. Era certa che non sospettasse nulla
del suo piano: l’unico che ne era a conoscenza, in effetti,
era Michael. I suoi pensieri deviarono per un momento su di lui, mentre
lo sguardo si posava sulla porta che pochi secondi prima
l’uomo aveva attraversato. In effetti, nel momento in cui si
sarebbe appropriata del comando, il posto che avrebbe occupato Michael
sarebbe stato quello che adesso apparteneva a lei. Nonostante non
perdesse occasione di biasimarlo, sapeva della sua profonda
lealtà nei suoi confronti, ed era per questo che dopotutto
si fidava di lui. Persino quel cinico senso dell’umorismo di
cui era fornito era un punto a suo favore: nonostante talvolta lo
ritenesse tremendamente sfacciato, era certa che questa sua dote, in
futuro, gli sarebbe risultata utile.
Il presidente si
annunciò con un finto colpo di tosse, osservandola serio
dall’entrata dell’attico.
“Presidente
ShinRa!” esclamò lei, voltandosi verso di lui e
chinando lievemente la testa.
“Salve,
Scarlet” la salutò quello, avvicinandosi alla
scrivania dove quest’ultima era seduta. “Pessima
serata, non trova?”
“Piuttosto
uggiosa, in effetti” si ritrovò a rispondere lei,
indicando il vento che ululava fuori dall’edificio.
“Prego, si accomodi” aggiunse poi, indicando una
delle due poltrone situate in un angolo dell’attico.
“Grazie”
disse quello, stanco, sedendosi compostamente. Fece una lunga pausa,
smarrendo lo sguardo tra le pesanti gocce di pioggia che si riversavano
sulla città. Poi aggiunse, con un sospiro
sfiancato: “Dobbiamo discutere del futuro di questa
compagnia. In effetti, non scherzo nell’affermare che siamo
di fronte alla situazione più difficile che la ShinRa abbia
mai dovuto affrontare, e, francamente, non saprei nemmeno dire come
possa uscirne indenne: per questo ho bisogno del suo aiuto, Scarlet,
della sua audacia nel campo degli affari, e della sua attitudine al
comando, per un consiglio fidato su quelle che sono le sorti del mondo
intero. E spero che sarà così gentile da non
negarmelo, perché mai come adesso la compagnia ha avuto
bisogno del suo aiuto.”
Scarlet si sedette di
fronte all’uomo, assumendo una maschera seria sul volto.
“Naturalmente può contare su di me”.
Il Presidente le
rivolse un accenno di sorriso, grato. Poi, tossendo, osservò
nuovamente il violento temporale, facile preda dei suoi pensieri.
“Speriamo che la tempesta esaurisca la sua furia
presto” sussurrò infine, mentre la luce di un
lampo illuminava improvvisamente le iridi dei suoi occhi spenti.
Fine
Capitolo 2
Ehm. Allora. Non
aggiornavo questa fic da circa… un anno. Mica male, eh? xD
Seriamente, scusate il
mostruoso ritardo. D’ora in poi cercherò di
mantenere un andamento più regolare per questa storia, in
modo tale che giunga alla fine più o meno entro una
cinquantina d’anni, invece dei cento che sarebbero passati
con l’andatura da bradipo che ho ingranato durante questi
ultimi mesi.
Spero vi piaccia,
perché, sinceramente, a me non sembra un granché
(specie per la parte finale, che si discosta davvero molto dal resto
del capitolo).
Ringrazio vivamente
Bankotsu, Lirith e Valy_Chan per aver commentato il capitolo precedente
(Grazie a tutti per i complimenti, sono felice che via sia piaciuta
tanto ^^) e soprattutto quest’ultima per aver inserito la fan
fiction tra le preferite. Grazie, grazie, grazie :D
Infine, vorrei
spendere ancora un minuto in questa nota finale di capitolo, per
sottolineare un importante fattore che mi ha spinto a recuperare questa
fic: fino a venerdì sera, infatti, il capitolo contava
appena tre paginette scarse. Tuttavia, ho deciso di scrivere le
successive sei pagine in così poco tempo perché,
dopotutto, volevo onorare la memoria di un amico che, due anni fa
circa, aveva letto la prima versione di questa fan fiction (che
all’epoca si chiamava solo After Crisis) e che
l’aveva da subito amata. Adesso, a due anni di distanza, sono
cambiate molte cose: ma io gliela dedico comunque, perché
credo che sarebbe contento di vedere che (almeno in parte) sono
migliorato e che ho affinato ulteriormente il mio stile.
Quindi, con la
speranza che il prossimo capitolo arrivi entro il prossimo decennio (e
qualcosa mi dice che sarà così), vi lascio qui. A
presto!
|
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Capitolo 3 *** Capitolo IV ***
Capitolo
4
Osservava,
immerso tra i suoi pensieri, il temibile splendore della
città martoriata dalla fitta pioggia, attraverso gli spessi
vetri dell’Edificio ShinRa. Il suo sguardo si perdeva lungo
le vie fiocamente illuminate, osservando la flebile luce dei lampioni
lontani che si piegava al volere della tempesta, svanendo
nell’oscurità della notte.
Un lampo
disegnò la sua esile figura lungo gli aspri contorni di una
nube scura, abbattendosi nell’area antistante alla
città. Una sottile linea di fumo grigio si elevò
fino al cielo, disperdendosi nel grigiore notturno macchiato di nuvole
plumbee.
Rifletteva sulla
conversazione avuta con Tseng pochi minuti prima, quando
l’aveva reso partecipe di quel piano a cui aveva lavorato per
tanto tempo e sul quale aveva investito centinaia di risorse,
nell’attesa che arrivasse il momento in cui persino lui
avesse avuto la possibilità di schierarsi in campo. Aveva
mosso la sua prima pedina, azionato il primo ingranaggio, e adesso era
pronto a vedere come si sarebbe articolata la vicenda, certo che,
dopotutto, ogni cosa sarebbe volta al suo vantaggio, in un modo o
nell’altro.
Gocce di pioggia
picchiavano violentemente lungo la superficie del vetro: era un rumore
lieve eppure invasivo, simile a quello dei crepitii delle fiamme, che
lo distolse dai suoi pensieri e che lo spinse, ancora una volta, ad
ammirare la maestosità della metropoli che si estendeva
aldilà della finestra. Gli angoli della sua bocca
s’incresparono in un tiepido ghigno di vittoria.
“Michael?”
una voce di donna lo chiamò, incerta, alle sue spalle. Si
voltò in silenzio, fissando l’impiegata della
ShinRa che aveva pronunciato il suo nome.
“Sì?”
chiese lui, lievemente stizzito.
“La
direttrice Scarlet ha richiesto la tua presenza nel suo ufficio.
Immediatamente.” La voce della donna era seria,
professionale, fastidiosamente banale in un ambiente come quello.
“Mphf”
sbuffò Michael, annoiato. “ho già detto
mille volte a quella vecchiaccia di chiamare qualcun altro, per la
manicure. Non è decisamente il mio compito.”
“Dice che
è urgente” rispose la donna, seria. “E
di non farla attendere per alcuna ragione.”
Sospirò,
ringraziando con un cenno la ragazza e percorrendo il lungo corridoio
che lo separava dall’ufficio della donna. Osservò
il suo volto riflettersi lungo il vetro delle alte finestre
dell’edificio, e fu stupito di notare le profonde occhiaie
accentuate dalla pallida illuminazione al neon. Probabilmente era
più stanco di quanto il suo corpo riuscisse a concepire,
tuttavia non aveva alcuna intenzione di perder tempo riposandosi. I
suoi rivali, probabilmente, stavano solo aspettando un latente segno di
debolezza che lo spingesse a condurre un passo falso.
Poggiò le
nocche sulla porta in legno dell’ufficio di Scarlet per tre
volte, poi, senza aspettare un invito, spinse la maniglia
d’ottone ed entrò, richiudendo la porta alle sua
spalle.
“Salute,
Michael.” La donna gli dava le spalle, rivolta verso le
grandi vetrate che li separavano dalla furia impetuosa della bufera.
“Scarlet. A
cosa devo il dispiacere di essere convocato per la seconda volta nella
stessa serata?” fece una lunga pausa, ascoltando il rumore
dei suoi passi mentre camminava verso la scrivania. “Dovrebbe
trovare qualche altro modo per passare il tempo, magari partecipando ad
una di quelle gite per anziani di cui si sente parlare così
tanto. Chissà quanti coetanei troverebbe!”
Scarlet si
voltò verso di lui, mordendosi le labbra per impedirsi di
controbattere alle sue frecciatine. “Hai fatto ciò
che ti ho chiesto?” si limitò a chiedere,
l’espressione seria, guardandolo negli occhi.
“Ovviamente.”
L’ombra di un sorriso trionfante si dipinse passeggera sul
volto di Michael. “Non è stato così
difficile, dopotutto. Tseng è uno stupido di proporzioni
immani! Anche se, in verità” e qui fece una pausa,
sfoderando il suo solito ghigno compiaciuto, “trovo che in
questa compagnia ci sia addirittura gente più inetta e
incompetente di lui. Riesce a capire di chi sto parlando?”
La donna fece finta di
nulla, nascondendo la sua indignazione dietro un sottile risolino
compiaciuto: dopotutto, sapeva che il tagliente sarcasmo
dell’uomo era di gran lunga superiore al suo. “La
ShinRa potrebbe essere sotto il mio comando già alle prime
luci dell’alba” affermò poi, ostentando
un’aria soddisfatta. “Mi basterà
soltanto liberarmi di quello stupido trincone che chiamiamo presidente.
Grazie ad una mossa vincente come quella del recupero
dell’antica, il suo posto sarà mio in men che non
si dica.”
“Mphf”
sbuffò Michael, divertito. “Sono curioso di vedere
quante ore resisterà la compagnia, prima del grande
tracollo! Due, o magari tre?”
“C’è
una cosa che vorrei sapere” esclamò Scarlet,
d’un tratto, senza più riuscire a trattenersi,
sostituendo il proprio sorriso soddisfatto con una smorfia seria.
“Per quale motivo hai scelto di aiutarmi? Non mi sembra tu
nutra particolari speranze sulle mie capacità!”
“L’ho
sempre detto che la menopausa la rende un po’
tocca” affermò l’uomo, serio.
“Ho scelto di aiutarla solo ed esclusivamente per la mia
carriera. Nel momento esatto in cui riuscirà a diventare
presidente, io otterrò il ruolo che lei occupa
adesso.”
“Beh,
ma… potrebbe sempre accadere…
l’imprevedibile” fece lei, allargando il proprio
sorriso in un aperto ghigno di sfida nei confronti
dell’altro.
Michael
picchiettò con le dita gli angoli del lucido legno della
scrivania. “Già, potrebbe… suppongo che
sarebbe interessante vedere fin dove può spingersi la ruota
del fato, no?”
Nel momento in cui,
furtivo, incrociò lo sguardo con i glaciali occhi azzurri
della donna, seppe che la sua minaccia velata aveva avuto buon esito.
Ne approfittò per contrattaccare con arroganza, lo sguardo
altero, conoscendo l’effetto che le sue pungenti parole
avevano su Scarlet. “Suvvia, cos’è
quella smorfia tirata? Avrei giurato che dopo il sesto lifting i
muscoli si intorpidissero.”
La donna
continuò a sorridere, mascherando la sua irritazione.
“Vedo che sai come rispondere a tono” rispose,
stizzita, prima di chiudere la conversazione in fretta.
“D’accordo. Dopotutto, l’adempimento del
tuo incarico era l’unico argomento su cui desideravo essere
informata. Puoi andare, Michael.”
“Con
permesso.”
Scarlet prese a
consultare alcuni documenti poggiati alla rinfusa sulla scrivania.
L’uomo le rivolse un’ultima occhiata di disprezzo,
in silenzio, prima di voltarsi e attraversare a lunghi passi la stanza.
Una volta richiusa la
porta alle sue spalle, ascoltò l’immane fragore
della pioggia abbattersi lungo le strade della città. Se
possibile, sembrava che la violenza della tempesta, fuori
dall’edificio, fosse addirittura raddoppiata.
La sua espressione
seria si dischiuse in un sorriso, mentre, attraverso una finestra,
osservava il cielo notturno coperto dalla fitta ragnatela di nubi
scure. I suoi pensieri andarono alla conversazione sostenuta con
Scarlet appena qualche minuto prima: ancora una volta, la donna era
riuscita a dar sfoggio di tutta la sua ingenuità. Avrebbe
dovuto capire che non avrebbe mai accettato di lavorare insieme a lei,
nonostante desiderasse ardentemente il suo posto; ma, in fin dei conti,
era sempre stato questo il suo più grande errore: non tener
conto delle possibili mosse dei suoi avversari.
E mentre, soddisfatto,
osservava il grave crescendo della pioggia intensa, ripensò
alla proposta che aveva fatto ad Hojo qualche tempo prima, quando,
nell’oscurità del laboratorio del professore, era
riuscito a catturarne l’attenzione con appena poche frasi.
I suoi occhi
incontrarono quelli del suo riflesso, trionfanti. Ancora una volta,
guidato dalla propria astuzia, era riuscito a modellare i piani di
Scarlet a suo favore.
Avanzava a fatica,
ansimando, mentre il vento e la pioggia gli sferzavano aspramente il
viso. Affondava gli stivali nelle pozzanghere di pioggia senza
curarsene, proteggendosi il viso con un braccio ed avanzando con
cautela lungo gli sporchi vicoli della grande città.
Midgar era immersa nel
vortice pulsante della tempesta ormai da parecchie ore: gocce di
pioggia si abbattevano lungo il grigio selciato dei viali della
città, radunandosi in pozze d’acqua sudicia di
entità sempre maggiore; il vento, ululando, trascinava lungo
la strada consunti frammenti di rifiuti che da sempre insozzavano le
vie più dimesse della metropoli.
Le gocce di pioggia
scorrevano, prepotentemente, lungo il solco profondo di quella ferita
non ancora del tutto rimarginata, sul suo viso: ne assecondavano la
forma, fastidiose, fino a rigargli le guance e svanire lungo il
colletto sgualcito della divisa da Turk che indossava.
Camminava, a tratti
correva, affrontando l’indomito impeto del tifone abbattutosi
sulla città: e, contemporaneamente, riviveva con il pensiero
la conversazione avvenuta pochi minuti prima con Michael, confuso e
incapace di prendere la decisione atta a salvaguardare il proprio
futuro.
“Devo
ammettere che tutto ciò… ha senso.”
Michael
aveva sorriso. “E’ naturale che abbia senso,
è geniale! E’ esattamente quello che avrei fatto
anch’io, dopotutto!”
“Allora
tutto ciò che devo fare è nascondere Aerith da
qualche parte finché non si sarà calmata la
situazione e il Presidente non sarà riuscito a trovare un
direttore per il dipartimento dei Turk?” aveva domandato
Tseng, cominciando ad intravedere uno sbocco da quella situazione
apparentemente senza uscita.
“Beh…”
aveva cominciato l’altro, sorridendo trionfale. “Io
avrei un’idea sicuramente migliore.”
Tseng
non aveva risposto, pensieroso: si era limitato ad osservarlo
attentamente, nell’attesa che gli illustrasse la sua trovata.
In verità, era un po’ restio ad accettare consigli
da parte di quell’uomo: tuttavia, gli ordini di Scarlet erano
riusciti a metterlo con le spalle al muro.
Michael,
a quel punto, aveva incrociato le braccia, ghignando apertamente.
“Il fulcro del piano di Scarlet coinvolge l’Antica,
no?” aveva cominciato, beffardamente. “Tutto quello
che dobbiamo fare, dunque, è riuscire ad impedire che la
vecchia megera riesca ad appropriarsene. Dobbiamo eliminare ogni
traccia della ragazza da questa città.”
“E
come pensi di fare?” aveva ribadito lui, serio, ascoltandolo
con attenzione.
Il
sorriso soddisfatto agli angoli della bocca dell’uomo
s’era fatto ancora più largo. “Ho
già pensato a tutto, Tseng.” Ricordava come il suo
tono di voce tradisse un leggero fremito d’entusiasmo appena
velato. “Ho degli alleati, qui alla ShinRa, che possono
fornirti tutto il supporto necessario per la missione di recupero. Se,
una volta recuperato l’obiettivo, ti affiderai a noi, ti
garantisco che Scarlet non riuscirà mai a scoprire la
posizione dell’Antica.”
L’uomo
s’era fatto silenzioso, aspettando quella risposta che,
presto o tardi, sapeva sarebbe riuscito a ricevere. Quando, infine,
Tseng aveva acconsentito, il lampo trionfante della vittoria
s’era dipinto nei suoi occhi, glaciale e soddisfatto.
Adesso, mentre la
pioggia s’abbatteva fragorosamente sul lurido selciato, si
chiedeva se fosse stata davvero la cosa giusta da fare. Conosceva
Michael da parecchi anni, nonostante lavorassero in reparti differenti:
s’erano arruolati tra le file della ShinRa durante lo stesso
anno, nell’autunno inoltrato di parecchio tempo prima;
tuttavia, non avevano mai intrattenuto un vero e proprio rapporto
d’amicizia, a causa dei caratteri diametralmente opposti che
da sempre li avevano contraddistinti: Tseng passava le sue giornate da
solo, nella tetra oscurità del dormitorio, evitando quanto
più possibile il contatto con i compagni al di fuori delle
lezioni d’addestramento; Michael, al contrario, era
circondato da una massa di spocchiosi mocciosi arroganti tali e quali a
lui, a cui non faceva altro che delegare compiti assegnatigli dai suoi
superiori. Le poche volte in cui si erano parlati, nel corso di quei
quindici anni, avevano portato a conversazioni brevi, fredde, aride e
forzate; il tono con cui discutevano s’era fatto sempre
più pungente, e ben presto, tra i due, si era accesa una
rivalità mai confessata che li aveva spinti a gareggiare
tacitamente numerose volte, cercando di dimostrare la propria
superiorità sull’altro.
Tuttavia, mentre le
gocce di pioggia rigavano la superficie dei vetri della ShinRa
ininterrottamente, Michael aveva sepolto l’ascia di guerra
proponendogli di unire le forze contro Scarlet, al fine di evitare che
mettesse le proprie mani su Aerith. Non riusciva a credere alle sue
parole, sapeva che c’era qualcosa sotto: sicuramente, Michael
avrebbe ottenuto un qualche tipo di vantaggio dalle sue azioni,
qualcosa che gli aveva volontariamente taciuto al fine di spingerlo ad
assecondare le sue richieste.
Non avrebbe dovuto
fidarsi di lui. Probabilmente, avrebbe dovuto cercare
un’altra soluzione.
Magari, sarebbe anche
riuscito a trovarla.
Tuttavia, nella
confusione che in quel momento regnava incontrastata
all’interno della sua mente, il suo unico pensiero era quello
di salvaguardare la salute di Aerith. Non importava in che modo, o a
quali conseguenze. Se Michael aveva detto il vero, la ragazza non
sarebbe caduta nelle mani della donna.
Sospirò
profondamente, quando raggiunse la tiepida tranquillità dei
bassifondi. Il vento soffiava vigoroso anche per i vicoli bui, tuttavia
gran parte della pioggia veniva arginata dalla presenza del piatto.
Camminava, titubante, attraverso la grande strada fangosa che collegava
gran parte delle vie dei bassifondi, indirizzandosi verso il Settore 5.
Già da quel punto, oltre le migliaia di basse costruzioni
che costituivano uno dei quartieri più poveri di Midgar,
riusciva ad intravedere le alte guglie gotiche della sua destinazione.
Sentiva lo stesso
debole soffio di vento che solleticava le fronde degli alberi sfiorarle
delicatamente il viso. La fredda oscurità del sottobosco era
andata sempre ad aumentare, nel corso di quelle ultime ore, al punto
tale che, in quel momento, solo sporadici raggi di luna illuminavano
debolmente brandelli sparsi di nodose radici. Immersa nella
tiepida penombra della notte, riusciva soltanto ad intravedere lo
sguardo serio e preoccupato di Cloud, di fronte a lei, che osservava
sorpreso un punto al di sopra delle sue spalle.
D’un tratto,
sentì nuovamente il contatto con la fredda canna della
pistola, questa volta sulla sua schiena. La mano libera
dell’uomo che la teneva in ostaggio salì lungo la
superficie del suo braccio fino a fermarsi sulla spalla sinistra,
stringendola delicatamente.
Cissnei
sospirò profondamente, cercando ci calmare i battiti del
proprio cuore. Aveva riconosciuto il timbro di voce dell’uomo
alle sue spalle fin dal primo istante, quando le aveva intimato di non
muoversi, dicendole che non le sarebbe accaduto nulla: era bastato un
lampo, un assoluto momento di comprensione, per capire che colui che la
stava tenendo in ostaggio era Reno. A quel punto, aveva cominciato ad
elaborare una strategia, accumulando pensieri su pensieri nella
speranza di trovare una via d’uscita da
quell’intricata situazione. Sapeva per quale motivo il Turk
era stato mandato lì, sulle sue tracce: il suo compito era
di riportarla alla ShinRa, costringerla a ragionare, riuscire a
reinserirla tra le file dell’organizzazione per la quale
aveva lavorato per così tanto tempo, in passato. Un sorriso
amaro le attraversò il viso, mentre ripensava alle lunghe
giornate trascorse in compagnia di Reno, di Tseng, di tutti gli altri
suoi colleghi alla ShinRa: probabilmente, nonostante non
l’avrebbe mai ammesso, avrebbe provato per sempre nostalgia
di quei momenti che erano stati la sua infanzia. Tuttavia, nel momento
in cui aveva deciso di disertare, aveva fatto una scelta: e non
sarebbero riusciti tanto facilmente a farle cambiare idea, ne era
certa.
“Reno.”
La sua voce era calma e pacata, nonostante il turbine di pensieri che
scorreva impetuoso dentro di lei.
Sentì la
stretta sulla sua spalla farsi più serrata.
“Reno,
ascoltami” ripeté nuovamente, seria, cercando di
far ragionare il ragazzo alle sue spalle.
Vide Cloud avanzare di
alcuni passi, lentamente, portando le mani lungo l’elsa della
sua Buster Sword. In un momento, la pistola di Reno era puntata contro
di lui.
“Chi
sei?” gli domandò il ragazzo, tenendolo sottotiro.
“Mani dietro la schiena, subito!”
L’altro fu
costretto ad obbedire. Lentamente, lasciò scivolare le mani
lungo l’elsa della spada per incrociarle dietro la testa,
lontane dalla propria arma. “Cloud Strife” disse
poi, serio, rispondendo alla precedente domanda rivoltagli.
Reno
continuò a tenere la sua pistola puntata contro di lui,
pensieroso. “Sembri di Soldier” decretò
infine, notando i suoi vestiti.
“S-sì”
rispose Cloud, insicuro, come se fosse un po’ incerto sulla
risposta da dare.
“Mphf”
sbuffò Reno, mentre un sorriso canzonatorio si dipingeva sul
suo viso. “Potresti scegliere con più attenzione i
compagni di fuga, Cissnei. Insomma, un Soldier?!”
“Reno”
ripeté lei, ignorando le sue ultime parole. “Sul
serio, stammi a sentire.”
Il suo tono secco e
autoritario fece ammutolire il ragazzo alle sue spalle.
Impiegò parecchi secondi per trovare le parole adatte, prima
di rivolgerglisi nuovamente. “Devi aiutarmi, Reno, ti prego.
Non ho lasciato la ShinRa solamente a causa della morte di Zack,
nonostante possa sembrare questa, la ragione. La verità
è che credo che qualcuno, all’interno del palazzo,
stia ordendo una grande macchinazione ai danni della compagnia stessa.
Hai idea di chi stia parlando?”
“Non
m’importa un fico secco di quello che accade nei piani alti
della ShinRa!” esclamò lui, scrollando le spalle.
“Eseguo solo gli ordini che mi hanno dato.”
“Suppongo
che questi ordini siano venuti dalla nuova direttrice del reparto Turk,
giusto?” domandò Cissnei, mettendo particolare
enfasi sulla frase.
“Aspetta…”
cominciò Reno, cercando di capire dove volesse arrivare.
“Tu stai dicendo che la direttrice
Scarlet…?”
La ragazza
sospirò di sollievo. Forse poteva riuscire a volgere la
situazione a suo vantaggio. A pochi metri di distanza, Cloud ascoltava
con interesse le sue parole.
“Esattamente.
Scarlet ha preso il controllo di un altro reparto, e probabilmente
punta al controllo di numerose altre giurisdizioni
all’interno della compagnia. Non mi stupirei se in effetti il
suo obiettivo finale fosse impadronirsi dell’intera
ShinRa.”
Udì il
sospiro di Reno, mentre si costringeva a riflettere sulla possibile
autenticità delle sue parole. Poi, il suo silenzio,
improvvisamente, si trasformo in un’acerba risata di scherno.
“Sono
ipotesi alquanto ridicole, in realtà!”
esclamò, divertito. “credi sul serio che Scarlet
riuscirebbe persino a compromettere la posizione del Presidente ShinRa?
Certo che ce ne vuole di fantasia, per concepire una simile
assurdità.”
“Perché
non riesci a capire che tutto questo probabilmente accadrà
sul serio? Suvvia, sai come ragiona quella donna. Ha ottenuto il
comando della sezione Turk e ben presto cercherà di
appropriarsi anche di quella dei Soldier, se non deciderà di
puntare direttamente al vertice della compagnia!” Il tono di
voce di Cissnei era molto più accesso e motivato di quanto
non fosse in precedenza. “Dobbiamo tornare a Midgar e
scoprire che cosa abbia in mente, e se tu decidessi di venire con noi,
magari…”
“Ma ti rendi
conto di che cosa mi stai chiedendo?!” la interruppe il Turk,
infuriandosi. Cissnei non l’aveva mai visto perdere la calma
in questo modo, durante tutti gli anni in cui avevano lavorato insieme.
“Mi stai chiedendo di unirmi alla tua patetica banda ed
espugnare gli edifici della ShinRa?”
“Non ho mai
detto questo!” esclamò Cissnei, rispondendogli a
tono.
Il ragazzo spinse la
canna della pistola nuovamente contro la sua schiena.
“Ehi, non
provare a toccarla!” si intromise Cloud, sfoderando la Buster
Sword e avvicinandosi.
“Tu resta
fermo lì dove sei!” urlò Reno,
puntandogli l’arma contro. Cloud si arrestò
improvvisamente, fissandolo con odio.
“Cloud, non
sono affari che ti riguardano” decretò lei,
improvvisamente, ostentando un espressione seria e preoccupata.
“Vai via.”
“Io non me
ne vado finché il rosso non si toglie di torno!”
rispose lui, scocciato, tenendo ben salda la spada tra le mani.
“Non provare
ad avvicinarti!” esclamò Reno, livido, mentre si
arrovellava per cercare di trovare una via d’uscita da quella
situazione.
Improvvisamente,
Cissnei si decise ad agire. Nel momento in cui si rese conto di non
essere più nella traiettoria di tiro del ragazzo, si
divincolò dalla sua presa e gli assestò una
potente gomitata tra le costole. Nello stesso istante, Cloud prese a
correre verso di loro, pronto ad immobilizzarlo.
“Prendigli
la pistola!” urlò Cloud alla ragazza, mentre Reno
era ancora piegato a metà per il dolore. Annuendo, si
avvicinò prudentemente al ragazzo, pronta a sfilargli
l’arma da fuoco dalle mani. Tuttavia, nel momento in cui
allungò il braccio verso la pistola, lui l’aveva
già nuovamente afferrata con forza, strattonandola
poderosamente.
“Non muovere
un altro passo o sparo!” esclamò Reno, puntando
nuovamente l’arma contro il ragazzo che, per tutta risposta,
accelerò il passo.
“Cloud,
no!” esclamò Cissnei, in tono deciso, cercando di
dissuaderlo; ma, a quel punto, era già troppo tardi.
La
sacralità notturna del silenzio del bosco venne spezzata da
un sonoro schiocco, il cui eco risuonò tra gli affusolati
fusti degli alberi fino ad espandersi per l’intera superficie
della foresta. Numerosi corvi gracchiarono levandosi in volo dalle
fronde dei molteplici arbusti antistanti la radura.
Quando Cloud,
improvvisamente, fu attraversato dalla consapevolezza di essere stato
colpito, era già disteso a terra, tra le foglie secche ed
avvizzite tipiche della stagione autunnale. Il suo sguardo, confuso e
appannato, andò verso Cissnei, accanto a lui, che cercava di
individuare il foro d’entrata della pallottola
all’interno della sua carne.
“Allontanati
da lui!” esclamò Reno, d’un tratto,
utilizzando nuovamente la pistola per dar voce ai suoi ordini. Cissnei
non si mosse, continuando ad esaminare frettolosamente la ferita di
Cloud.
“Non sembra
gravissima, credo di poter riuscire a curarl…”
Il suono della sua
voce venne coperto da quello di un altro sparo, secco e crudele quanto
il primo. In un terribile attimo di comprensione, capì che
il ragazzo aveva nuovamente sparato a Cloud, questa volta ad una gamba.
“Fermati!”
esclamò Cissnei, il volto rigato dalle lacrime, rimettendosi
in piedi e sfidandolo apertamente, guardandolo negli occhi.
“Allontanati
da lui, o il prossimo colpo sarà al cuore.”
Piena di rancore, fu
costretta ad allontanarsi lentamente dal corpo del ragazzo.
Distrattamente osservò come le sue mani fossero macchiate
del più denso sangue scarlatto. Si disse che doveva fare
qualcosa, e in fretta.
“Bene”
esclamò l’altro, sollevato dalla reazione di
Cissnei. “E ora…” continuò
poi, puntando nuovamente la pistola contro il corpo immobile di Cloud.
“Suppongo sia il momento di fare un po’ di
pulizia.”
Premette il grilletto
un’ultima volta, scuro in volto. Ancor prima che la ragazza
riuscisse a fare qualcosa, anche quell’ultimo colpo aveva
centrato macabramente il bersaglio.
Fu in quel momento che
la attraversò la consapevolezza che non c’era
più niente da fare. Cloud era morto, e lei non aveva nessuna
possibilità di sfuggire all’attacco a sorpresa che
Reno aveva sferrato a tradimento. Probabilmente non aveva altra scelta
se non quella di tornare a Midgar insieme a lui, in arresto, pronta ad
essere sottoposta a giudizio per diserzione. Lacrime amare le rigarono
il volto, mentre si lasciava andare in ginocchio, affranta, ai piedi
del carnefice di tutte le sue speranze. Probabilmente avrebbe dovuto
sapere fin da subito che sarebbe finita così, dopotutto.
“Mi
dispiace. Non c’era altro modo per…”
cominciò Reno, cercando di scusarsi, ma in risposta ottenne
solo uno sguardo di profondo disprezzo. No, non sarebbe tornata a
Midgar senza almeno cercare di combattere per la propria
libertà. Cercò con lo sguardo il suo shuriken
rosso, ma era fin troppo lontano per cercare di recuperarlo senza dare
nell’occhio.
“Avvicinati
lentamente.” Le parole di Reno erano lente e calibrate, ed
interruppero il complesso nodo dei suoi pensieri.
Doveva agire.
Senza nessun
preavviso, cominciò a correre verso la sua arma, conficcata
nel terreno ad appena pochi passi di distanza. Evitò un
proiettile che Reno aveva indirizzato contro la sua caviglia, poi un
altro all’altezza della sua gamba destra. E mentre il Turk,
imprecando, infilava altri proiettili nel caricatore, le sue mani
strinsero trionfalmente la fredda superficie dello shuriken.
“Fermo!”
gli intimò rabbiosamente, mentre già si preparava
a puntare di nuovo. “Prova soltanto a sparare
un’altra volta e ti mozzo la testa di netto.”
“Puah!”
commentò Reno, sorridendo. “Complimenti, sarebbe
una morte orribile almeno quanto quella di quel tuo fidanzato biondo
laggiù. A proposito, si dimenticano in fretta i Soldier
scomparsi, vero?”
“Smettila!”
esclamò Cissnei, passandosi distrattamente una mano sul
volto per asciugare le lacrime.
Reno si disse che la
sua frecciatina aveva avuto buon esito. Nell’unico momento in
cui la riconobbe più vulnerabile, decise di mirare alla
gamba destra e sparare.
Il colpo secco che
udì mentre la carne della donna si lacerava fu il peggiore
in tutta la sua carriera. Osservò quella figura, ora simile
ad una ragazzina spaurita, che cedeva sotto il peso del suo stesso
corpo, rovinando sgraziatamente a terra.
Le si
avvicinò, lentamente; ad ogni passo, decine di foglie
rinsecchite si laceravano in più punti, crepitando
rumorosamente. Osservò il volto sconfitto e amareggiato di
Cissnei, umiliata dalla sconfitta ricevuta; e, levando in alto la
pistola, la colpì duramente con l’impugnatura,
tramortendola. Il viaggio di ritorno, in questo modo, sarebbe
sicuramente stato più semplice.
Immerso
nell’intricata natura dei suoi pensieri, quasi non si era
reso conto di essere giunto presso l’entrata in legno di
quercia della diroccata chiesa del settore 5. Sfiorò con una
mano la maniglia di ottone, leggermente, ponendovi una leggera
pressione: il portone scivolò lentamente sui suoi
cardini, con un sinistro cigolio che risuonò lungo le alte
pareti di pietra dell’edificio. Nonostante
all’esterno l’atmosfera fosse parecchio buia, una
flebile e sottile scia di luce si disegnò sul polveroso e
consunto parquet in legno. Immerso nel silenzio e
nell’oscurità dell’androne, richiuse la
porta alle sue spalle, con un leggero tonfo che ancora una volta
riecheggiò per i quattro angoli della costruzione.
Udì il
suono indistinto della pioggia che scivolava lungo le logore travi del
parquet, imputridendo il legno che, marcio, crepitava incessantemente
sotto i suoi passi misurati. Non curandosene, avanzò lungo
la navata centrale fino a giungere nei pressi dell’altare,
là dove il parquet aveva ceduto creando un leggero
dislivello occupato da numerosi e variopinti fiori.
Mentre si chinava
verso di essi, lo sguardo serio, immerso nell’inconfondibile
aroma della terra bagnata dalla pioggia, notò che lei era
lì, come aveva immaginato. Il suo volto era rischiarato
dalla tiepida luce di una lanterna, poggiata sul parquet alla sua
destra, che gettava lunghe ombre sulle pareti antistanti. Non dormiva,
poiché riusciva a vedere il bagliore dei suoi occhi nella
velata oscurità dell’edificio: lo fissava, seria,
senza dire una parola, aspettando che lui si accorgesse della sua
presenza.
Sospirando, le si
avvicinò, lentamente, in silenzio, la mente ricolma di tutti
quei pensieri che l’avevano accompagnato lungo quel tragitto
che gli era parso infinito, sotto la pioggia scrosciante della bufera
sopra il piatto. Si rese conto di quale fosse la sua missione, e al
tempo stesso ripensò alla proposta che Michael gli aveva
fatto, di come quella potesse essere l’unica speranza di
mantenere la sua posizione e di salvaguardare
l’incolumità di Aerith. Sospirando, si decise a
parlare.
“Sei ancora
qui?” le chiese, utilizzando il suo solito tono di voce serio
e inespressivo.
Lei gli
accennò un mezzo sorriso, inconsapevole, immaginando che la
sua presenza lì, in quella burrascosa nottata di pioggia,
non fosse altro che l’ennesimo incarico di sorveglianza
assegnatogli. “Ho preferito non avventurarmi fuori, con
questo temporale. Ho chiamato mia madre, e ha detto che posso restare
qui, per stanotte.”
“La tempesta
potrebbe durare molto di più di una semplice nottata.
E’ raro vedere fenomeni atmosferici di questo genere, a
Midgar.”
“Beh”
osservò Aerith, alzandosi in piedi e rassettando le pieghe
del proprio vestito. “Se domani dovesse piovere, suppongo che
sarò costretta ad uscire comunque. Non posso restare chiusa
qui dentro per sempre, no?”
Tseng sorrise
amaramente per la calzante ironia delle sue parole. Era vero, non
sarebbe potuta rimanere all’interno di quella chiesa per
sempre: era un argomento al quale lui non aveva pensato spesso, ma che
talvolta, nelle lunghe nottate passate in sua compagnia,
s’era intromesso a forza nei suoi pensieri, costringendolo a
considerare l’eventualità che un giorno
ciò che temeva potesse accadere sul serio. “Sembra quasi del
tutto rimarginata.”
Tseng alzò
lo sguardo, sorpreso. “Che cosa?”
“La
ferita!” rispose Aerith, sfiorandogli il volto con un dito.
“Si è quasi rimarginata. Non pensavo fosse un
taglio così superficiale! Probabilmente non
rimarrà nemmeno la cicatrice.”
Quasi
involontariamente, portò una mano lungo il solco della
ferita di qualche giorno prima. La superficie del taglio era ruvida e
piuttosto fragile, ma sembrava davvero che fosse sulla via della
guarigione: se non altro, non pulsava più da almeno qualche
giorno. “Già” tagliò corto
lui, disinteressato, mentre la sua mente volgeva già verso
altri pensieri.
“Aerith”
pronunciò infine, sospirando profondamente. Aveva
abbandonato il solito tono lento e apatico in favore di una parlata
più pratica e concreta. Cercò le parole giuste
per proseguire sulla scia di un discorso che, ne era certo, avrebbe
compromesso per sempre i loro rapporti.
“C’è una cosa che devo dirti, riguardo
alla mia presenza qui. E per favore, ti prego di ascoltarmi fino alla
fine, prima di interrompermi.”
Vide il sorriso di
Aerith scivolare come cera sul suo viso. Probabilmente aveva intuito
che c’era qualcosa che non andava.
“Questa
notte, sono stato richiamato presso gli uffici del mio superiore. In
parole povere, il mio compito, qui, in questo momento, è
quello di scortarti fino alla tua nuova casa.”
“Che
sarebbe…?”
Tseng
sospirò un’altra volta. “La sede della
ShinRa.”
L’espressione
grave sul volto di Aerith non mutò nemmeno di una virgola.
“Continua” sussurrò poi, in tono serio.
“Ma io non
sono d’accordo. Ho ricevuto una proposta da parte di un mio
collega, subito dopo essere stato messo al corrente
dell’incarico. Quest’uomo e i suoi dipendenti
possono nasconderti in un luogo sicuro per un po’, evitando
che la ShinRa riesca a catturarti. Tutto quello che dovrai fare
è seguirmi, finché non…”
“No.”
La risposta della ragazza fu secca e improvvisa. Il suono delle sue
parole riecheggiò per parecchi istanti per tutta la chiesa.
“Come?”
“Ho detto di
no. Ti ho già detto numerose volte che quando sarebbe
arrivato questo momento, le nostre strade si sarebbero separate. Non mi
fido della ShinRa, e non ho intenzione di cadere nelle loro
mani” rispose Aerith, seria.
“Ma non
saresti nelle mani della ShinRa, anzi. Probabilmente, saresti al sicuro
dai piani che la compagnia progetta contro di te.”
“Hai detto
che questa proposta ti è stata fatta da un collega. Mi
sembra comunque un tizio della ShinRa, no? Come mai ti fidi tanto di
lui?”
“Perché
non c’è altra possibilità!”
urlò Tseng, d’un tratto, mentre sentiva la rabbia
montare dentro di lui. “Non c’è altro
tempo da perdere! Probabilmente il mio superiore ha già
mandato qualcuno in ricognizione da queste parti, per controllare che
io svolga il mio incarico senza alcun ripensamento.”
Aerith non si mosse di
un passo. Lo guardava seria e al tempo stesso implorante, gli chiedeva
tacitamente di non forzarla, di lasciarla vivere come aveva sempre
fatto, lì, all’ombra di quella chiesa,
nell’attesa del ritorno di Zack. Probabilmente, che Tseng
riuscisse o meno a crederci, era quella la vita che Aerith voleva per
sé.
“Non
costringermi ad usare la violenza” sibilò in tono
ostile, frugando nella tasca interna della sua giacca e lasciando che
le sue dita aderissero al calcio della pistola. La ragazza si voltò
di scatto, cercando di nascondere il suo volto che si rigava lentamente
di lacrime. Non poteva credere che Tseng le stesse facendo questo, che
tradisse così apertamente la sua fiducia nonostante tutti
gli anni in cui le era stato accanto in passato. Non avrebbe mai
acconsentito alle sue richieste: non aveva mai provato particolare
simpatia per i tipi della ShinRa, nemmeno per quelli che, da bambina,
le facevano credere che tutto ciò che le stessero facendo
fosse per il suo bene, dimostrandosi cordiali e bendisposti nei suoi
riguardi. Li aveva sempre avvertiti come orridi falsi manipolatori,
lontani da quella gente della vita tranquilla che viveva nei
bassifondi, e non avrebbe permesso loro di rovinare tutto
ciò che in quegli anni aveva creato così
duramente.
Quando si accorse che
Tseng aveva estratto la pistola, continuò a sostenere il suo
sguardo, decisa, nonostante la vena di paura che, lo sentiva, si faceva
spazio dentro di lei.
“Dannazione,
Aerith!” esclamò lui, irato. “Non
capisci che sto facendo tutto questo per la tua incolumità?
Le truppe della direttrice Scarlet arriveranno a momenti, me lo sento,
ed allora sì che non avrai altra scelta se non quella di
essere portata alla ShinRa!”
“Vuoi forse
dirmi che il tuo collega non ha intenzione di portarmi alla sede della
compagnia, allora?!” esclamò Aerith, singhiozzando
sonoramente. “La verità è che ho
sbagliato a fidarmi di te! Lo sapevo che eri solo uno sporco mezzo
manovrato dalla ShinRa per cercare di arrivare fino a me,
l’ho sempre saputo! Sono stata una stupida!”
Si voltò,
incurante dell’arma che l’uomo teneva nella mano
destra, e, a grandi passi, percorse la navata della chiesa verso il
grande portone.
“Fermati o
sparo!” esclamò Tseng, ormai fuori controllo a
causa della rabbia.
In quel momento,
Aerith si voltò nuovamente verso di lui, pronta a fissarlo
con crescente rancore attraverso le lacrime di disperazione. E fu in
quel preciso istante che, vinto dalla situazione e dall’ira
nei confronti della ragazza, premette quasi con glaciale indifferenza
il grilletto.
Prima ancora che
potesse rendersi conto di ciò che era accaduto, un rivolo
scuro di sangue denso, in appena pochi secondi, si allungò
attraverso il parquet. Nel momento in cui venne attraversato
dall’orrenda consapevolezza del suo gesto, un brivido freddo
gli percorse la schiena fino alla base, lasciandolo completamente senza
fiato.
La conversazione che
aveva avuto con i suoi compagni rimasti a guardia
dell’elicottero, al limitare della foresta, era stata breve
ed incisiva. Reno aveva più volte strabuzzato gli occhi,
alle parole che il collega gli aveva rivolto: a quanto pare, la
missione di cui erano stati incaricati non era ancora del tutto finita.
Adesso rifletteva,
tenendo la testa tra le mani, su come adempire alle ultime richieste
giunte dal quartier generale della ShinRa: eliminare le tracce di
cattiva condotta. Freddare Cissnei con un colpo di pistola, ucciderla,
mettere la parola fine ad un capitolo che era stato solamente motivo di
noie per la compagnia.
Aveva sempre pensato
che quella fosse solamente una stupida missione di salvataggio: avrebbe
recuperato Cissnei, l’avrebbe riportata a Midgar, tra le
gotiche strade della sua infanzia, pronto ad aiutarla in qualunque modo
al fine di farle dimenticare il dolore causato dalla perdita di Zack.
Ma adesso, le speranze riguardo al futuro che aveva immaginato nel
corso di quel suo lungo viaggio s’erano infrante,
all’ombra dei secolari alberi di quella radura boscosa.
Imprecando, assestò un calcio violento e rabbioso sugli
stinchi del Soldier a cui aveva sparato poco prima: la punta dei suoi
stivali si macchiò del sangue delle ferite del ragazzo.
Pensieroso, si mise ad
osservare il liquido scarlatto che insozzava gran parte della
superficie di quell’area del bosco.
D’un tratto,
ebbe un’idea che lo folgorò all’istante.
Poteva lasciare tutto
com’era. Evitare indirettamente gli ordini che gli erano
stati dati. Probabilmente, una missione fallita non avrebbe avuto
nessuna conseguenza all’interno del suo Curriculum.
I suoi occhi
percorsero velocemente l’area antistante al luogo dove aveva
trovato i due. Quando trovò l’oggetto che stava
cercando, semisepolto dalle foglie, vicino al corpo incosciente di
Cissnei, la sua espressione si dischiuse in un sorriso liberatorio. Fece brillare il grande
Shuriken rosso alla luce della luna crescente, inspirando coraggio.
Poi, con un gesto
brusco e un mezzo singhiozzo soffocato, conficcò una delle
punte dell’arma contro il suo stomaco, fino in fondo.
Fine
Capitolo 4
Uff, che faticaccia
delineare la trama di quest’ultimo capitolo! Da qui in poi le
cose si fanno complicate, eh? Scarlet continua a scalare le vette della
compagnia, Michael fa il doppiogiochista (lavorerà davvero
con Hojo?), Tseng e Reno sono completamente andati... bah, ho
concentrato così tanta azione in questo capitolo che non so
più cosa mettere nei prossimi (no, non è vero, ho
già tutto pronto, ma faceva figo dirlo XD). Come al solito,
non è che io sia granché soddisfatto della
stesura, ma stavolta ho posto particolare attenzione sulla trama, e
dunque, nel complesso, spero che il risultato non sia troppo malvagio.
Dedico questo strano
obbrobr… ehm, capitolo a
Bankotsu, che oggi compie gli anni. Auguri, Bank!
Vi ringrazio di cuore
per le tutte le letture e le recensioni :D Grazie, grazie, grazie!
Zackneifan: Ammazza,
che recensione mastodontica ò__o sono interdetto! Grazie
davvero per tutti i complimenti che mi hai fatto, e complimenti anche
per l’analisi dettagliata del capitolo. Hai formulato
parecchie ipotesi nel corso della tua lunga recensione: beh, posso dire
con certezza che non ne hai azzeccato quasi nessuna, mi dispiace XD ma
comunque, non ti resta che seguire la storia per sapere come
andrà a finire, giusto?
shining leviathan:
Bene, adesso che so che hai letto la prima stesura ti farò
divertire alquanto nel vedere come gran parte delle cose cambieranno
sensibilmente xD spero solo che lo spirito della fic rimanga
inalterato, perché dopotutto sono affezionato
all’originale. Spero di aver risposto almeno in minima parte
a qualcuna delle tue domande con questo capitolo (specie a quelle su
Michael). Purtroppo, ho deciso di eliminare Sephiroth per ragioni di
spazio e di trama. Nella prima stesura non aveva poi questo gran ruolo,
e sebbene inizialmente lo avessi incluso anche qui, ho provveduto a
toglierlo a causa di sviluppi che ho aggiunto successivamente e che
rendevano la sua presenza inutile. Ti ringrazio moltissimo per i
complimenti, spero che anche questo capitolo ti piaccia!
the one winged angel:
Grazie anche a te per la valanga di complimenti XD Mi fa piacere che il
flashback su Aerith e Zack ti sia piaciuto e anche che Cissnei ti abbia
trasmesso quella sorta di malinconia che ho voluto imprimerle,
perché, dopotutto, la reputo il personaggio chiave di tutto
il racconto (è dalla sua fuga, infatti, che si dipanano la
maggior parte delle vicende).
In quanto a Scarlet,
beh… sì, è il mio personaggio
preferito. Ma comunque, ti svelo un segreto: più mi
piacciono i personaggi e più li maltratto, spingendoli al
limite della follia. Bel passatempo, no? XD
Per il resto, credo
che tu ormai abbia capito chi fosse il misterioso tizio alle spalle di
Cissnei, giusto?
Grazie anche a te per
la bellissima recensione, mi ha fatto piacere sapere cosa ne pensavi xD
Il prossimo capitolo
arriverà… boh, non lo so. Suppongo intorno alla
metà di Agosto, ma non posso esserne del tutto sicuro.
Speriamo solo che l’attesa non si prolunghi troppo, eh? XD
Ciao a tutti, e grazie
^^
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Capitolo 4 *** Capitolo III ***
Capitolo 3
La tempesta,
incontrollabile e nefasta, s’era abbattuta maestosamente sui
vicoli bui della Midgar notturna. La pioggia scivolava lungo il
selciato impetuosa, filtrando attraverso le fessure dei tombini usurati
dal tempo e dalla ruggine. I suoi passi si celavano attraverso
l’incessante battere dell’acqua sulla strada,
lenti, calibrati, incuranti del trambusto che il temporale portava con
sé ad ogni goccia che bagnava il ruvido asfalto.
Adesso che era giunto
il crepuscolo, Midgar s’era tinta delle scure pennellate che
caratterizzavano una notte senza astri, forti e decise, pronte ad
inghiottire nelle tenebre la fievole luce dei lampioni agli angoli
delle strade. Nonostante non avesse venduto un singolo fiore nel corso
della giornata, non era dispiaciuta di aver speso gran parte del
pomeriggio sotto il suo ombrello, all’angolo di uno dei tanti
viali della grande città. Fin da quando aveva alzato gli
occhi al cielo per ammirare le nubi che, irrequiete, velavano gran
parte dell’orizzonte, aveva sperato affinché il
temporale giungesse in fretta, per interrompere la muta disperazione di
quei giorni che, imperturbabili, scivolavano via da lei. E in quel
momento, alle soglie della notte crescente, mentre ascoltava il suono
della pioggia infrangersi contro le spesse pareti dei suoi pensieri,
respirò l’aria fresca che la pioggia aveva portato
con sé.
Era da tanto che un
acquazzone di quelle dimensioni non lambiva le buie strade della grande
metropoli. Saltuariamente Midgar, in quegli anni, aveva conosciuto
numerose tempeste di simile proporzione, violente, oscure, implacabili;
tuttavia, solitamente erano fenomeni che si esaurivano velocemente, nel
corso di pochi minuti. La pioggia di quel giorno, invece, batteva
ininterrottamente contro le strade grigie della città ormai
da parecchie ore, e, a giudicare dalla mole delle pesanti nubi, non
sembrava intenzionata ad abbandonare la posizione prima di qualche
giorno.
Tenendo alto sopra la
testa l’ombrello rosso, immersa nella solitudine della
tempesta crescente, si diresse, instabile ma determinata, verso la
piazza centrale della metropoli. Il temporale frantumava il
cielo sopra di lei, scuotendolo violentemente; si guardò
intorno, gli occhi socchiusi a causa della forza del vento: e non fu
sorpresa di constatare che anche quel viale che si estendeva davanti a
lei era del tutto deserto.
La città
appariva dormiente, eterea, quasi impalpabile attraverso la torrenziale
pioggia che si riversava sull’asfalto bagnato. Avanzando
nell’oscurità crescente, osservò come
in quella zona già da parecchie ore la ShinRa avesse fatto
saltare la corrente elettrica, per limitare gli eventuali danni del
temporale. Sospirando, tenne lo sguardo chino, per essere sicura di non
inciampare in qualcosa celato dal buio: ma una rapida occhiata al
selciato le bastò a comprendere che il torrente
d’acqua aveva già trascinato con sé
tutti i detriti che abitualmente infangavano le strade di Midgar.
Accelerò il ritmo costante dei suoi passi, imboccando una
sporca e umida scorciatoia che l’avrebbe condotta in fretta
nei bassifondi.
Quando vi giunse,
immersa nell’aria notturna velata dal gradevole odore del
terriccio umido, trovò riparo presso una tettoia sudicia,
nei pressi di quel parco giochi in cui tante volte, nel corso
dell’infanzia, si era trovata a passare le giornate della sua
vita. Ripose l’ombrello nella cesta semivuota dei fiori, e,
lentamente, ascoltando il sussurro della pioggia scrosciante, si
avvicinò ad un’altalena corrosa dalla ruggine che
cigolava al ritmo dei soffi di vento. Intrecciò le mani alle
fredde catene, pensierosa, gettando uno sguardo all’orizzonte
lontano da cui provenivano stormi di nuvole brune.
C’era
già stato un temporale come quello, nell’autunno
di numerosi anni prima, pensava tra sé, mentre studiava la
fugace forma delle nubi lontane. E ne ricordava i dettagli in maniera
vivida e intensa, così come si fa con quei ricordi a cui ci
si aggrappa per evitare che sfuggano inghiottiti dal tempo.
Le parole di Zack
erano lente e calibrate, mentre scrutava attentamente il cielo azzurro
di quella limpida mattinata d’autunno. Camminavano insieme, a
passo lento, lungo una delle numerose strade della metropoli che lei
non aveva mai attraversato, un po’ per paura, un
po’ perché, dopotutto, il mondo sopra il piatto
non aveva mai catturato il suo interesse. Si guardava intorno sorpresa
dalla vastità degli edifici e dalla magnificenza dei viali,
e il ragazzo, ridendo del suo stupore, la guidava lungo le vie
più maestose, mostrando la gloria che la ShinRa Inc. aveva
donato alla città.
Le parlava di
parecchie cose sconnesse tra di loro, brevi aneddoti di vita che non
avevano nessuna importanza, buttati lì, tra una risata e
l’altra, solo per ingannare il tempo sotto i raggi lucenti
del sole. E lei lo ascoltava, le dita affusolate strette intorno al suo
braccio, ridendo ed esclamando di tanto in tanto qualcosa, ad ogni
pausa dell’altro.
“Ora, non
vorrei darmi delle arie,” disse lui, ma si capiva che in
realtà era proprio quello il suo intento “ma
è grazie a me che il fantomatico bandito Godot adesso
è in una delle celle di massima sicurezza della ShinRa, a
marcire in galera a causa dei suoi crimini!”
“Mmm... e
quali sarebbero stati i suoi crimini, di preciso?”
“Ma
è naturale, Aerith!” esclamò lui,
annuendo come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
“I suoi crimini furono… ehm…”
“Dì
la verità, te lo sei inventato?” gli
domandò Aerith, sorridendo.
“Beh,
è che sono stato tutta una notte ad aspettarlo, ma non si
è nemmeno fatto vivo. E’ chiaro che dovevo
ricamarci su un bel raccontino, che figura avrei fatto con te
altrimenti?”
“Non hai
pensato che forse ha avuto troppa paura di te e non si è
nemmeno fatto vivo?”
Zack sorrise con
rinnovato vigore. “Hai ragione! Grazie, Aerith!”
Gli angoli della bocca
della ragazza si curvarono leggermente, mentre voltava il viso verso di
lui. “Figurati.”
Entrambi scoppiarono a
ridere. Erano risate liete, sincere, spensierate, che si infrangevano
lungo il confine di giornate invariabili che sembravano non avere mai
fine. La ragazza si strinse con rinnovato vigore al braccio del
Soldier, lasciandosi guidare attraverso quelle lunghe ed intricate
strade che sembrava conoscere alla perfezione.
D’un tratto,
Zack volse lo sguardo al cielo limpido, verso la linea
dell’orizzonte fuori città. “Sembra che
stia per piovere” decretò improvvisamente,
pensieroso.
“Il cielo
è sereno” osservò Aerith, osservando
l’azzurro limpido che si estendeva sopra di lei.
“Guarda
là, però!” esclamò Zack,
allungando una mano verso le floride colline adiacenti alla
città. “Il vento porterà quelle nubi
qui entro pochi minuti. Faremo meglio a tornare nei
Bassifondi!”
La ragazza
osservò i raggi di sole che lentamente sbiadivano sul colore
cinereo dell’asfalto. Respirò l’aria che
il vento portava con sé, limpida e fresca, così
diversa dal solito nauseabondo odore di smog a cui in quegli anni era
stata abituata.
“Perché
invece non rimaniamo semplicemente qui?” propose Aerith,
osservando a sua volta le nubi incombenti. “Non credo che
sarà un grande acquazzone. Di solito a Midgar non piove
quasi mai.”
Mezz’ora
dopo, entrambi arrancavano faticosamente lungo le vie secondarie della
grande metropoli, alla ricerca di un modo per sfuggire alla violenta
tempesta che, in pochi attimi, aveva rovesciato tutta la sua potenza
sull’ignara città. Correvano a testa china,
inzuppati fino all’osso, attraverso il grigiore stentato di
una Midgar all’apparenza quasi disabitata.
“Diamine,
non c’è un singolo posto che riesca ad offrire
riparo in questa città!” sibilò Zack,
irritato.
“Beh,
perlomeno tu riesci ad orientarti!” gli rispose Aerith
sorridendo. “Io non ho neppure la più pallida idea
di dove ci troviamo.”
Zack smise di
camminare, voltandosi verso la ragazza. “E allora
perché sorridi?”
Aerith
impiegò diversi secondi a rispondere, cercando con lo
sguardo una figura di riferimento attraverso lo spesso drappo di
pioggia che le oscurava la vista. “In verità, non
pensavo che il mondo al di sopra del piatto potesse essere tanto
affascinante. Mi hai stupita.”
Zack la
guardò smarrito. “Ti stai divertendo? Sotto questo
temporale?” un mezzo sorriso si dipinse sul suo volto.
“Ma davvero?”
Aerith rispose al suo
sguardo confuso con una sonora risata. “Sì,
davvero!” esclamò. “Immagino che tu non
sappia nemmeno da quanto tempo non mi accadeva qualcosa del genere. Io
adoro la pioggia, certo, ma nell’oscurità dei
bassifondi raramente puoi provare la sensazione dell’acqua
che ti scorre addosso e che ti fa sentire in questo modo. E poi,
guarda!” continuò, indicando con la mano la strada
deserta alle loro spalle. “Quando piove… tutto
appare diverso. Siamo noi che cambiamo, o è il mondo che
varia la sua indole per noi? Non lo so, però riesco a vedere
tutto in maniera differente. Riesco a vedere ciò che
c’è di bello in questa città, e di come
essa sia grande nella sua terribile magnificenza. E’ tutto
meraviglioso, quando piove.”
“A parte il
fatto che poi ci si ammala.”
“Sì,
a parte quello!” terminò Aerith, sorridendogli.
Continuarono la loro
faticosa avanzata, accarezzati dai fendenti che la pioggia infrangeva
sul ruvido selciato.
“Grazie”
sussurrò poi la ragazza, d’un tratto divenuta
seria, mentre i primi raggi di sole cominciavano ad irradiare le strade
di pallida luce dorata. “Non avrei mai trovato il coraggio di
andare da sola qui su, e probabilmente mi sarei persa tutto
questo.”
“Prego!”
esclamò Zack, sollevato. “Sono felice che tu ti
sia divertita, pensavo che avresti ritenuto
quest’appuntamento un fiasco, e che…” ma
non riuscì a continuare, perché prima ancora che
riuscisse a finire la frase, Aerith aveva già poggiato le
labbra sulle sue.
Perduto
nell’oscurità crescente che contraddistingueva
perfino una notte serena come quella, Cloud Strife si muoveva tra i
secolari arbusti che cingevano l’interno della grande
foresta. Avanzava lentamente, lo sguardo chino e la mano tesa lungo
l’elsa della Buster Sword riposta alle sue spalle, pronto a
sguainarla in caso di difficoltà. Il vento soffiava tra le
foglie sugli alberi, frusciando ininterrottamente e coprendo il rumore
dei suoi passi.
Quando il sole era
svanito aldilà delle montagne, tingendo il cielo di
un’accesa sfumatura di rosso, aveva deciso che
avrebbe continuato il suo viaggio durante la notte. Aveva pensato che
avrebbe corso meno rischi di essere visto dall’alto, e che,
costeggiando l’interno della foresta, non avrebbe sicuramente
perso il senso dell’orientamento. Tuttavia, solo adesso si
rendeva conto di come il buio rendesse ogni punto di riferimento
instabile e provvisorio, e di come, già dopo una manciata di
passi, non riuscisse più a ricordare da che parte fosse il
limitare della fitta boscaglia.
Respirò
profondamente, fermandosi ad ascoltare il silenzio degli arbusti che si
ramificavano fino al cielo. Nessun rumore che lo aiutasse a capire da
che parte andare. Nemmeno il vago scroscio del ruscello che la notte
precedente l’aveva guidato.
Immerso nella calma
apparente che celava il bosco ai suoi occhi, riusciva solamente a
percepire lo stridio dei rami che cozzavano tra loro, sospinti dal
vento. Nessun verso di animale, neanche quello dei grilli che, durante
le prime ore della serata, aveva udito cantare ai margini della grande
pianura. Riprese la sua marcia, strizzando gli occhi per riuscire ad
intravedere le figure scheletriche di alcuni rami secchi che gli
impedivano il passaggio. Guidato dalla luce della luna che
saltuariamente filtrava attraverso le folte chiome degli alberi nodosi,
mosse alcuni passi incerti verso la sua destra, all’erta come
sempre, pronto ad attaccare il nemico in caso di necessità;
e, sotto le sue scarpe, numerosi rami secchi si spezzarono sonoramente.
Parecchi corvi si alzarono in volo dai più oscuri anfratti
della foresta, macchiando il cielo stellato e perdendosi
nell’oscurità delle fronde degli alberi. I versi
dei volatili echeggiarono nelle sue orecchie per alcuni secondi, prima
di svanire nell’aria notturna.
D’un tratto,
alle sue spalle, riecheggiò il debole fruscio di alcune
foglie secche del sottobosco che venivano calpestate.
Agguantò l’elsa della Buster Sword,
all’erta, voltandosi e cercando di capire, attraverso
l’oscurità, quale fosse la natura di quel rumore.
“Chi
c’è?” chiese incerto, sguainando la
spada. L’eco della sua voce si confuse col richiamo del
vento. Mosse alcuni passi lenti e calibrati, serrando gli occhi per
cercare di intravedere oltre le sagome ramificate delle
querce che popolavano la foresta. D’un tratto, un altro corvo
s’alzò in volo, gracchiando sonoramente sopra la
sua testa; e fu nel momento in cui, col cuore in gola, distolse lo
sguardo dall’oscurità degli alberi più
lontani per osservare il volatile, che sentì un sottile
sibilo scindere l’aria davanti a lui con velocità.
Riuscì a
bloccare il fendente grazie alla Buster Sword, deviando il colpo con la
sua vasta e lucente lama. L’arma utilizzata per
l’attacco, uno shuriken scarlatto di grandi dimensioni, si
conficcò lungo il tronco di uno degli alberi adiacenti alla
zona. Un sottile filamento di fumo grigio si levò dai suoi
angoli arroventati. Cloud ne osservò la fattura,
così ben lavorata e lucida: sicuramente non era un
giocattolo per bambini. Fece un balzo in avanti, seguendo quel rumore
di passi sulle foglie che si allontanava sempre
più dal punto in cui si trovava; tuttavia, già
dopo pochi secondi, aveva perso le tracce del suo misterioso
assalitore. Sospirando, sfilò lo shuriken dalla ruvida
corteccia della quercia, rigirandolo tra le mani.
Improvvisamente,
qualcosa lo colpì alla schiena con tanta forza da mozzargli
il fiato. Cadde a terra stremato, mentre un altro colpo si abbatteva su
di lui, travolgente; e, per diversi attimi, fu come se non avesse
nemmeno la forza necessaria per ragionare. Poi, in un impeto di rabbia,
afferrò la Buster Sword e la roteò alle sue
spalle, cercando di colpire alla cieca qualunque cosa lo stesse
attaccando. Il tonfo tetro che ne seguì gli disse che era
riuscito a stendere il suo avversario.
Con fatica, si
rialzò da terra, respirando profondamente. Aveva gran parte
della schiena indolenzita, nel punto in cui era stato
ripetutamente colpito, ma per il momento decise di ignorare le fitte e
di concentrarsi sull’esile figura che gemeva di dolore
davanti a lui. Le si avvicinò cautamente, pronto a colpire
nel caso vi fosse stata la necessità di farlo: ma la ragazza
sembrava non aver alcuna intenzione di continuare il suo attacco.
“Chi
sei?” le chiese atono, tenendo la Buster Sword in mano,
pronto a colpire al minimo accenno di un movimento. Nessuna risposta.
“Ti ha mandato la ShinRa?” continuò, con
lo stesso tono freddo e distaccato che utilizzava per i suoi nemici.
La ragazza si
voltò a fissarlo, confusa dalle sue parole. “Ho
lasciato la ShinRa. Credevo che fosse per questo che mi
seguivi!”
“Aspetta un
minuto!” esclamò Cloud, altrettanto stranito dalle
affermazioni dell’altra. “Non stavo seguendo
nessuno, eri tu che davi la caccia a me!”
“Sei un
Soldier, però. Che ci fai qui allora?”
“Non sono
affari che ti riguardano. E poi… non ricordo con esattezza,
è tutto piuttosto confuso…” disse lui,
riflettendo per la prima volta sulla nebbia oscura che si dipanava
attraverso le sue memorie. Riusciva solo a cogliere piccoli sprazzi di
avvenimenti che sembravano quasi ad appartenere ad un’altra
vita, tanto gli apparivano distanti e poco nitidi.
“Eppure, non
ricordo di averti mai incontrato in giro, alla ShinRa.”
Constatò lei, osservandolo attentamente.
“In che
divisione lavoravi?” chiese lui, d’un tratto,
cercando di ricordare se avesse mai visto il suo viso.
“Tra i Turk,
fino a poco tempo fa. Ma ho lasciato la compagnia, ed è per
questo che mi inseguono” disse lei, alzandosi in piedi e
rassettandosi le maniche della giacca. “A proposito, mi
chiamo Cissnei.”
Cloud le fece un cenno
con la testa. “Io sono Cloud Strife.”
Al suono del suo
cognome, l’espressione di Cissnei si fece pensierosa, come
se, d’improvviso, si fosse ricordata di qualcosa di
importante a cui inizialmente non aveva attribuito molta attenzione. I
suoi occhi si posarono più volte sui lineamenti del ragazzo
che le si trovava di fronte, studiandoli e cercando di associarli ad un
altro volto incontrato nel suo passato.
D’un tratto,
quando incrociò il suo sguardo, ebbe un lampo di
comprensione. Cloud Strife era il nome del fante che, parecchi anni
prima, era stato dato per disperso insieme al Soldier di prima classe
Zack Fair.
“Tutto
bene?” chiese lui, vedendola sovrappensiero.
La ragazza si riscosse
di colpo, come se fosse stata scrollata da qualcuno con forza.
“Sì, va tutto bene!” mentì,
ancora scossa.
Sospirò,
cercando di riflettere. Solo adesso ricordava di averlo già
visto, seppur in condizioni parecchio peggiori, durante il periodo di
latitanza dei due, quando era riuscita a scovare Zack e
l’aveva aiutato a fuggire. E adesso lui era
lì, davanti ai suoi occhi, mentre le parlava con la spada
che era appartenuta ad un altro uomo che, in un modo o
nell’altro, le aveva cambiato la vita. E improvvisamente si
rese conto di quanto le facesse male quella situazione, e di come
persino la vista di quel ragazzo non facesse altro che procurargli
nuovo dolore. Chiuse gli occhi, pregò che se ne andasse, che
la lasciasse in pace, che smettesse di scavare in una ferita mai del
tutto rimarginata. Ma quando li riaprì, lui era ancora
lì, che la fissava, sconcertato e confuso, con quel bagliore
negli occhi che era così simile a quello che aveva lui.
Respirò profondamente, cercando di calmarsi.
“Cloud...
noi non siamo nemici.” Pronunciò queste parole in
tono grave, abbassando lo sguardo, evitando di guardarlo direttamente
per paura di perdersi nuovamente nei suoi pensieri. “Anzi, in
un certo senso siamo due alleati. Entrambi, in un modo o
nell’altro, siamo perseguitati dai soldati della ShinRa.
Abbiamo fatto delle scelte che ci hanno portato qui dove siamo:
probabilmente sono state scelte giuste, o magari soltanto tentativi
sciocchi di cambiare un destino che per noi era già segnato.
Tuttavia, questo non ha importanza. Conta solamente il fatto che siamo
uniti sotto lo stesso vessillo, e questo significa che abbiamo un
obiettivo ed un nemico comune. Riesci a fidarti di me?”
Le sue parole erano
grevi, intricate, come tessere di un puzzle disposte alla rinfusa sul
piano di gioco. Tuttavia, Cloud riusciva a sentirlo, erano parole
sincere.
“Sì,
suppongo di sì.”
Cissnei
abbozzò un tiepido sorriso in risposta alle sue parole.
“Allora ho bisogno che tu mi metta al corrente degli
avvenimenti in cui sei stato coinvolto durante questi ultimi giorni.
Senza tralasciare alcun dettaglio.”
“In
verità è tutto piuttosto confuso,
all’interno della mia testa…” le rispose
Cloud, premendosi una mano sulla fronte.
“Andrà
bene lo stesso” lo spronò Cissnei, incoraggiandolo
con un altro sorriso, questa volta più ampio,
così come si fa con un bambino timido nella speranza di
incutergli il coraggio necessario per prendere la parola.
Il ragazzo
cominciò il suo lungo racconto, la voce ferma, il tono
calibrato. Raccontava gli episodi più disparati che
lentamente affioravano nella sua memoria, senza rispettare un ordine
preciso, perché non ne ricordava la successione
temporale. Cissnei, d’altro canto, lo ascoltava con
un’espressione seria, cercando di ricollegare i pochi
dettagli che Cloud ricordava ai dati dei documenti che aveva letto
prima di abbandonare la ShinRa.
Alla fine, quando il
ragazzo raccontò tutto ciò che ricordava, rimase
per diversi attimi in silenzio, cercando di elaborare il tutto. Ma
mentre stava per aprire di nuovo bocca, il rumore di alcuni passi alle
sue spalle la interruppe, disorientandola.
“Non
muoverti, Cissnei. Non ti accadrà nulla.”
La canna di una
pistola premeva contro la sua nuca. Un brivido gelido le percorse la
schiena, mentre riconosceva la voce dell’uomo che era alle
sue spalle.
Tseng osservava il
riflesso del proprio viso sfumare nel grigio di un temporale che, ormai
da parecchie ore, teneva la città sotto assedio. Durante la
notte, a Midgar, tra gli immensi chiaroscuri interminabili che erano le
vie della città, nonostante il buio impedisse di vedere con
esattezza l’entità della tempesta, il fragore
della pioggia era continuo ed incessante.
Teneva le mani
poggiate contro una delle tante finestre dell’edificio
ShinRa, in attesa, mentre osservava le gocce di pioggia che lentamente
scivolavano lungo il vetro, fino a sparire oltre il bordo
d’acciaio del davanzale.
Nonostante stesse
lavorando da quasi ventiquattro ore, non aveva ancora interrotto il suo
turno. Persino in quel momento, perduto a contemplare la
maestosità di una Midgar sconvolta dal temporale, stava
solamente attendendo che la nuova coordinatrice del reparto Turk,
Scarlet, lo accogliesse nel suo ufficio. La chiamata che aveva ricevuto
pochi minuti prima era stata breve, lapidaria, intimidatoria,
così com’era nello stile di quella donna che
adesso si apprestava ad incontrare.
Sospirò,
riordinando il turbine di pensieri che gli intasavano la mente.
Ripensò a Cissnei, alla fuga, allo sfregio che gli
insudiciava il volto e che sperava sarebbe guarito presto; e poi, alla
chiacchierata con Aerith della scorsa notte, e alle sue lettere, e alle
speranze che la ragazza ancora conservava ma che sapevano ormai
solamente di mere illusioni. Ma più cercava di mettere
ordine negli ultimi avvenimenti, più il suo mal di testa si
acuiva terribilmente, provocandogli intense fitte all’altezza
della fronte.
Mentre teneva il capo
tra le mani, stropicciandosi gli occhi per la stanchezza, la porta
dell’ufficio di Scarlet cigolò improvvisamente.
“Prego, la
signora la sta aspettando” pronunciò un giovane
dall’aspetto anonimo che non aveva mai visto prima
all’interno dell’edificio. Si ricompose nel giro di
pochi istanti e, una volta entrato nella stanza, richiuse la porta alle
proprie spalle, facendola aderire con un leggero tonfo allo stipite di
legno.
Scarlet gli dava le
spalle, osservando attraverso la grande vetrata del suo ufficio lo
splendore della Midgar notturna ottenebrata dalla bufera. Quando
sentì il rumore dei suoi passi sull’elegante marmo
bianco, voltò leggermente la testa, non riuscendo a
trattenere un sorriso compiaciuto sul volto.
“Salve,
Tseng.” Il suo tono di voce era misurato, tuttavia
riuscì a distinguervi una vena di sarcasmo che lo
infastidì parecchio.
“Buonasera”
rispose educatamente lui, avvicinandosi alla sua scrivania.
Ascoltò il
rumore cadenzato dell’andatura di lei mentre faceva
altrettanto. “Suppongo che ti stia chiedendo per quale motivo
ti ho convocato qui” affermò poi, mentre cercava
alcuni documenti tra i vari fascicoli sopra la sua scrivania.
“Dopotutto, basterebbe il telefono per sproloquiare
sull’inefficienza della divisione di cui fai parte.”
Non rispose, cercando
di ignorare l’ultima parte della frase. Sapeva che Scarlet
voleva solo burlarsi di lui.
“Tuttavia,
questa volta la faccenda è parecchio più
seria” continuò lei, ignorando il suo silenzio.
“Dunque ho ritenuto opportuno parlarti del tuo prossimo
incarico di persona. Ma prima che io lo faccia, dimmi, ci sono notizie
della Turk che ti è sfuggita?”
“Reno
dovrebbe averla raggiunta a quest’ora”
affermò Tseng calmo, cercando di ignorare il velato insulto
alle sue capacità che quell’odiosa donna non aveva
esitato ad inserire tra le sue parole. “Sono fiducioso sulla
riuscita della missione.”
“Eccellente.”
Ancora una volta, quel sorriso sardonico di derisione
riaffiorò sul suo volto. “Entro domani allora
dovrebbero essere entrambi qui.”
A Tseng non piacque
quell’espressione compiaciuta che la donna ostentava con
tanta libertà.
“Questo
sarà sicuramente un punto a favore della
compagnia” riprese Scarlet, compiaciuta, mettendo fine al
discorso. “Ma adesso, veniamo a noi”
cominciò, porgendogli un fascicolo. “La ShinRa,
nel corso degli anni, è stata dispensatrice di numerosi beni
e la prima promotrice di movimenti che hanno alzato la soglia del
benessere in tutto il mondo. Siamo riusciti a compiere ciò
tramite vari studi sull’ambiente che ci circonda, sul
passato, sulle risorse del sottosuolo che il nostro mondo ci ha
offerto e, in particolare, sull’energia Mako che
ricaviamo dai nostri reattori. Ciò ha permesso alla
compagnia di ottenere un vasto monopolio in svariati ambiti
commerciali, industriali e manifatturieri.”
L’uomo
sfogliava le pagine del fascicolo alla rinfusa, senza studiarle
davvero. Erano in gran parte dati sulle entrate e sulle uscite annue
della ShinRa – roba poco pertinente al lavoro di un Turk. Si
chiese dove Scarlet volesse arrivare con quel suo discorso.
“Tuttavia,
il mondo sta cambiando rapidamente, e la nostra compagnia non riesce
più a far presa sulla gente così come faceva una
volta. La stessa Midgar, negli ultimi cinque anni, è stata
contagiata dal malessere di una crisi che sembra avere radici ovunque
ma al tempo stesso in nessun luogo, e che, come tale, risulta dunque
inestirpabile. In molti ritengono che questa crisi sia dovuta ai metodi
esageratamente remissivi del nostro attuale Presidente, ed io,
dopotutto, credo che siano nel giusto. Per questo gli ho fatto notare
che era necessario fare qualcosa, qualcosa di memorabile, qualcosa che
potrebbe aprire numerosi nuovi settori di ricerca e ridare alla
compagnia il lustro che ha perduto ormai da tempo. Così ho
parlato con il direttore del Dipartimento scientifico, Hojo, che si
è dimostrato parecchio benevolo nei confronti del mio
suggerimento. Insieme abbiamo elaborato una strategia i cui ingranaggi
verranno messi in moto in questa stessa uggiosa notte. Ed è
qui che entri in gioco tu, Tseng.”
Ascoltò
attento e al tempo stesso poco convinto ciò che Scarlet
stava per rivelargli a proposito del suo prossimo incarico. Qualunque
idea le fosse venuta in mente, sapeva che probabilmente non
l’avrebbe condivisa. C’era un motivo di fondo per
il quale lui e la donna non erano mai andati d’accordo,
dopotutto, ed era il loro diametralmente opposto metodo di pensiero.
“Ho bisogno
che tu scorti presso il nostro edificio Aerith Gainsborough, il
più presto possibile. E’ tempo che anche lei
ripaghi il debito nei nostri confronti, sottoponendosi ai nostri
esperimenti al fine di trovare nuove risposte sugli Antichi che
popolavano la terra parecchi millenni fa.” Il tono della
donna era ancora serio, tuttavia adesso era chiaramente visibile quel
sorriso compiaciuto che malamente era riuscita a mascherare durante il
suo lungo discorso.
Tseng
indirizzò lo sguardo sul lucido marmo bianco nel quale
vedeva la sua immagine riflessa. Anche se con contorni poco nitidi,
riusciva comunque ad intravedere l’espressione stravolta che
aveva assunto il suo volto, a discapito della sua forza di
volontà. Cercò di non lasciare trasparire i suoi
pensieri alla donna che malignamente lo fissava, ma capì dal
suo eloquente sguardo che non era un caso se, tra tutti gli abili
sicari del dipartimento dei Turk, aveva ordinato l’esecuzione
del piano proprio a lui. Non riuscì a dissimulare
l’odio che in quel momento provava, e, sfidandola
apertamente, incrociò il suo sguardo macchiato dalla
tracotanza.
“Fa’
quello che devi fare per mantenere la tua posizione.” Le
parole di Scarlet erano sottili e minacciose, e lo colpirono come se
una lama affilata gli avesse improvvisamente trapassato il petto.
Quella che gli stava proponendo non era nient’altro che una
prova di lealtà verso la compagnia. Se si fosse rifiutato di
accettare l’incarico, probabilmente sarebbe stato congedato
fino a tempo indeterminato, e la donna avrebbe avuto un motivo in
più per macchiare con le sue parole l’onore dei
Turk. Decise che non poteva perdere tutto in questo modo.
“Lo
farò.” Nel momento stesso in cui lo disse,
sentì il sapore amaro del tradimento invadergli la bocca.
Fu solo per un
istante, ma l’ombra del trionfo si estese lungo le iridi
azzurre della donna. “Allora va’ pure. A breve ti
saranno comunicate le direttive della missione.”
Mentre lasciava
l’ufficio a grandi passi, Tseng cercò di mantenere
l’autocontrollo necessario per impedire a se stesso di urlare
contro quella donna. Ribattere alla sue richieste sarebbe stato
inutile, lo sapeva, ed accettando la missione aveva guadagnato un
po’ di tempo, ma non vedeva scappatoie nelle richieste che
Scarlet gli aveva imposto. Lui ed Aerith, spesso, durante le lunghe
notti che avevano trascorso insieme, avevano toccato numerose volte
l’argomento, parlando di cosa sarebbe successo quando un
giorno sempre più vicino sarebbero giunti degli ordini
inequivocabili come quello; e tutte le volte che ne discutevano, Aerith
finiva sempre per ribadire come fosse libera e padrona delle proprie
scelte. Cos’avrebbe fatto, nel momento in cui avrebbe varcato
l’alto portone di legno e avrebbe incrociato i suoi occhi?
Profondamente
afflitto, richiuse la porta dell’ufficio alla sue spalle,
maledicendosi per non aver semplicemente spinto dalla vetrata
quell’orribile donna. Sospirò profondamente,
cercando di snebbiare la mente e di elaborare un piano alternativo a
quello propostogli. Tuttavia, non avrebbe ingannato Aerith facendole
false promesse.
Doveva pensare ad
un’altra soluzione efficace, e in fretta.
All’improvviso,
udì il rumore di alcuni passi provenire dalla sua destra.
“Sai,
credevo che sinceramente saresti riuscito a tenerle testa. Dopotutto,
è solo una logorroica donna isterica con manie di grandezza
alle soglie della menopausa.”
“Va’
via, Michael!” esclamò Tseng, irato. Non sapeva
chi sopportasse meno tra lui e Scarlet: dopotutto, li trovava entrambi
arroganti e smisuratamente ambiziosi.
“Uh, che
caratteraccio” esclamò l’uomo,
avvicinandoglisi. “E io che volevo solo darti un consiglio da
amico.”
“Lasciami in
pace.”
Michael
abbandonò il suo tono canzonatorio e gli si mise davanti,
d’un tratto divenuto serio. “Se solo mi ascoltassi
un momento, forse capiresti che non sono solo un gigantesco
manipolatore visionario!”
Tseng
sospirò, decidendo di assecondare le sue richieste con la
speranza che se ne andasse presto.
“Vedi, il
cardine di tutta la bella storiella che ha raccontato Scarlet gira
proprio intorno alla sua figura. Lei ha convinto il Presidente ShinRa
ad agire, ha persuaso Hojo ad accettare le sue richieste, e adesso ha
mandato un membro della sua divisione a recuperare
quell’Antica che, ovviamente, una volta giunta in questo
edificio sarà sotto la sua tutela. Tuttavia,” e
qui il tono di Michael si fece più conciso, “credo
che tutto ciò sia quantomeno sospetto. E soprattutto, penso
che il piano di Scarlet sia prendere sotto custodia la ragazza per poi
usarla per scalare le vette della compagnia.” Fece una pausa,
cercando di cogliere una reazione nel viso pensieroso di Tseng.
“Ovviamente capisci quanto me che, se fosse comandata da
quella vecchia scorfana, la ShinRa avrebbe i giorni contati. Con
l’orrendo carattere che si ritrova, scatenerebbe una guerra
civile nel giro di poche ore.”
“Devo
ammettere che tutto ciò… ha senso.”
Michael sorrise.
“E’ naturale che abbia senso, è geniale!
E’ esattamente quello che avrei fatto anch’io,
dopotutto!”
“Allora
tutto ciò che devo fare è nascondere Aerith da
qualche parte finché non si sarà calmata la
situazione e il Presidente non sarà riuscito a trovare un
direttore per il dipartimento dei Turk?” domandò
Tseng, cominciando ad intravedere uno sbocco da quella situazione
apparentemente senza uscita.
“Beh…”
rifletté l’altro, sorridendo trionfale.
“Io avrei un’idea sicuramente migliore.”
Fuori dalle finestre,
la furia delle tempesta si acuiva ad ogni minuto che il tempo
trascinava via con sé.
Fine
Capitolo 3
Via, stavolta ho
aggiornato decisamente in tempi più recenti. xD
Tuttavia,
com’è mia abitudine, sono rimasto parecchio
insoddisfatto dalla stesura del capitolo, che, in generale, mi sembra
anche fin troppo “stridente”. Mah, spero sia solo a
causa della mia ossessione per la perfezione. xD
Vorrei inoltre
ringraziare individualmente i recensori per le loro magnifiche parole
di supporto. A dire la verità, mi aspettavo di essere presso
a manganellate a causa del megaritardo!
shining leviathan:
caspita, una lettrice della prima versione di questa storia xD non
sapevo avessi letto la prima “stesura” della fic,
ma sono felice che questa ti stia piacendo altrettanto ^^ è
vero, purtroppo il fandom italiano di FFVII contempla poco un
personaggio come Cissnei, nonostante sia una delle più
interessanti aggiunte in Crisis Core (e poi lei con Zack sta benissimo,
è vero ç____ç). Spero che la piega che
gli eventi hanno preso in questo capitolo ti soddisfi xD Grazie per il
commento!
Bankotsu: che
recensione mastodontica! Sul serio, la prima volta che l’ho
vista sono rimasto lievemente sconcertato. E sebbene credo che tu abbia
un po’ (un po’ troppo, in effetti) esagerato con
gli elogi per il capitolo, devo ringraziarti davvero molto:
è bellissimo avere un lettore come te così
attento nella lettura e capace di assaporare in maniera così
approfondita lo scritto di un autore. Grazie ^^
the one winged angel: Ciao!
Beh, il fatto che tu non abbia letto la prima versione probabilmente
è un bene, vorrà dire che gli sviluppi futuri per
te saranno totalmente inediti ^^. Grazie tante anche per i
complimenti sulle descrizioni: metto sempre parecchia attenzione nelle
parti descrittive e sono felice che ciò influenzi
positivamente i giudizi. Addirittura uno dei tuoi modelli da seguire?
XD *si dà delle arie* grazie T^T xD
Non sopporti Scarlet?
Ma è il mio personaggio preferito XD vabbé, spero
che comunque l’aggiornamento piuttosto rapido ti abbia fatto
piacere. Ancora grazie!
Lirith:
Non è passato un anno, sono passati solo… 10 mesi
e mezzo. Ehm. xDDD Però alla fine ho aggiornato, non
è questo che conta? *si para il culo* Comunque, sono davvero
felice che la mia storia ti abbia sortito un tale effetto, sapere che
uno scritto ha emozionato tanto un lettore è una delle cose
che fanno davvero piacere ad uno scrittore come me ^^ grazie per le tue
belle parole ^^ a presto!
Ringrazio inoltre the one winged angel
per aver inserito la storia tra le preferite e LadySnape e shining leviatan per
averla aggiunta tra le seguite. Grazie, grazie, grazie :D
Il prossimo
aggiornamento arriverà il 28 luglio, a un anno di distanza
da quando ho pubblicato primo capitolo (non ho ancora deciso
però in quale anno pubblicarlo, quindi se non la trovate fra
un mese controllate direttamente l’anno prossimo xD). No,
via, non potrei mai essere così perfido xD A presto, con il
quarto capitolo di questa fan fiction!
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Capitolo 5 *** Capitolo V ***
Capitolo 5
C’era qualcosa, nella sottile pioggia che solcava leggiadra i vetri della sua auto, che lo rendeva ansioso, livido, incapace di emettere alcun suono che non fosse quello di uno stanco sospiro di disapprovazione. Il silenzio all’interno dell’abitacolo era greve, massiccio, inasprito dal battito pulsante delle gocce di pioggia che s’infrangevano soavi e cariche di disprezzo, scivolando lentamente lungo il finestrino. Incrociò gli occhi con il sottile orologio da polso che portava al braccio sinistro: le quattro e ventuno. Quella notte tremendamente lunga non aveva ancora nessuna intenzione di intravedere la tanto agognata alba.
Gettò uno sguardo vago al cellulare, immobile in uno dei tanti vani portaoggetti pieni di inutili scartoffie. Lo prese in mano grossolanamente, facendo scivolare in fretta il proprio dito sul tasto di spegnimento. Lo stress delle ultime ore gli aveva procurato un grande, terribile mal di testa, e non aveva certo intenzione di condividerlo con il resto del mondo. Portò una mano alla tempia, quasi improvvisando, mentre con l’altra teneva ancora il volante, distratto, avanzando nel fragore crescente della tempesta. Ripercorse con la mente le tappe di quella lunga ed oscura notte, passata a tessere intrighi sulla tela del fato: disfaceva il filo dei suoi ricordi, smembrandolo in più parti, cercando di ricordare ogni parola dei discorsi di poche ore prima con Tseng e Scarlet. Era sicuro di essere riuscito a manovrare entrambi: dopotutto, aveva studiato i suoi piani con estrema attenzione, facendo in modo che coincidessero almeno apparentemente con quelli della direttrice; in quella notte, aveva davvero messo in moto gli ingranaggi che lo avrebbero portato alla vittoria.
Il cupo rombo della pioggia lo riscosse momentaneamente dai suoi pensieri. L’auto avanzava per le strade deserte un po’ a fatica, scivolando sulla spessa cortina di ghiaccio che la notte aveva portato con sé; si disse di fare più attenzione, se non voleva schiantarsi contro un muro. Aguzzò la vista per riuscire a distinguere gli edifici che incorniciavano il grande viale in cui si trovava, chiedendosi se mancasse ancora molto alla meta: quando riconobbe uno dei locali più dimessi della sesta strada, capì di essere finalmente vicino alla sua destinazione.
Involontariamente, le sue mani andarono ancora una volta sulle tempie pulsanti. Era sicuro di aver controllato qualunque cosa, e che ogni parte del suo piano fosse pressoché architettata alla perfezione. Ma allora, cos’era quella sensazione che gli impediva di felicitarsi per la riuscita dei suoi progetti? Sentiva che qualcosa non andava. Aveva certamente dimenticato un dettaglio, o magari non era stato abbastanza cauto in alcune sue mosse. Forse Scarlet si era accorta di qualcosa ed aveva cominciato a pedinarlo, e così aveva scoperto dei piani per sovvertire i suoi progetti. In effetti, adesso che ci pensava, c’erano troppe falle in quelle che aveva definito strategie perfette: frammenti lasciati al caso, ma che, con la giusta spinta, potevano irrimediabilmente rovinare ogni cosa.
Magari, era solo il suo latente nervosismo a parlare. Magari era il suono della pioggia che lo rendeva inquieto. Magari, quando il tifone avrebbe lasciato la città, i suoi sensi avrebbero ritrovato pace.
Magari, era destino che qualcosa andasse irrimediabilmente storto.
Le sue labbra si schiusero in un breve sospiro di riprovazione. Quando spense il motore dell’automobile, esausto, ebbe l’impressione che lo scroscio costante del temporale aumentasse addirittura d’intensità.
Il vento sferzava il suo viso con raffiche improvvise di gelo che lo costringevano a socchiudere gli occhi, ansante. Con soffi così poderosi era inutile persino tenere aperto l’ombrello. Avanzava con fatica, un passo dopo l’altro, mentre l’usuale sporcizia che distingueva la ragnatela di strade di Midgar veniva trascinata dal vento e dalla pioggia via dalla strada, verso i bassifondi. Dopotutto, nei bassifondi finiva tutto ciò che, a detta della ShinRa, non doveva essere mostrato.
I suoi passi si arrestarono davanti ad un edificio come tanti, un po’ dimesso, la cui luce proveniente dalle finestre appariva flebile nella foschia di una Midgar dilaniata dalla tempesta. Si strinse più forte nella sua lunga giacca invernale: poi, una volta emesso un lungo sospiro, si avvicinò lentamente alla porta e bussò tre volte, in rapida successione.
Mentre attendeva che qualcuno gli aprisse, sotto lo scroscio pulsante della pioggia che si abbatteva sulle strade, i suoi pensieri ripercorsero ancora una volta i numerosi intrighi che aveva intrecciato quella notte. Si rianimò, convincendosi di aver agito per il meglio e di non aver lasciato nulla, nemmeno la più sottile eventualità, sotto le direttive del caso. Sì, era la cosa giusta da fare: dopotutto, era da parecchio che non agiva più solamente per se stesso, nonostante fosse quella l’immagine che la gente poteva avere di un uomo che aveva anteposto ad ogni cosa la strada per il potere.
La porta scivolò lentamente sui propri cardini, producendo un sottile cigolio appena udibile nel fragore vibrante del tifone: sul volto della donna che gli stava davanti, per un momento, scivolò un’ombra di stupore.
“Non credevo che sarebbe venuto anche oggi. E’ la tempesta più violenta degli ultimi vent’anni.” La donna si ricompose velocemente, scostandosi leggermente dall’uscio per far sì che Michael entrasse.
“Avrebbe dovuto immaginarselo” commentò Michael, serio, facendole un cenno di saluto con la testa.
“Già, forse. In tutti questi anni non ha mai mancato una settimana.” La voce della donna si fece più seria, mentre richiudeva la massiccia porta alle spalle di Michael.
La sala d’attesa dell’edificio era stretta, un po’ angusta, con un pavimento a scacchi sbiadito dal tempo e dall’usura. Le pareti erano verdi, leggermente umide, quasi soffrissero della vigorosa tempesta che stava piegando Midgar in ginocchio. Senza ulteriori indugi si avvicinò al bancone, seguito dalla donna.
“Il paziente della camera 13 sta dormendo, mi spiace” esordì lei, mentre consultava rapidamente diversi fascicoli posti sulla sua scrivania.
“Non mi importa. Non è che mi aspettassi diversamente, data l’ora.”
“Sembra che questa notte sia destinata a non terminare mai” commentò quella in risposta, quasi leggendogli nella mente. “Credo sia colpa del tempo, sa. Non che di solito Midgar sia abbagliata dal sole, ma… con nuvoloni del genere, credo che non avremo nemmeno un po’ di luce per un bel po’ di giorni… sarà triste.”
Michael non rispose, forse perché non aveva particolarmente voglia di stare a contatto con la gente, a quell’ora. Era stanco e provato dalla sferzante bufera di eventi che aveva coinvolto la ShinRa, e tutto ciò che voleva era soltanto attendere e lasciare che il destino si compisse, nonostante tutto ciò che riguardava il futuro lo turbasse più di quanto riuscisse ad ammettere persino a se stesso. Quando la donna gli intimò di seguirla, Michael era ancora perso tra i suoi pensieri, e si riscosse solamente quando quella, fermandosi bruscamente, aprì la porta della camera 13 e lo invitò ad entrare.
“Si prenda tutto il tempo che vuole” disse, facendo scivolare la mano sulla maniglia.
Michael annuì e la ringraziò a bassa voce; poi, con un respiro profondo, entrò all’interno della camera e richiuse la porta alle proprie spalle, con un leggero tonfo il cui eco fece vibrare appena le finestre rigate dalla pioggia.
E infine, era arrivato. La stanza era piccola, forse anche più di quanto ricordasse, nonostante non vedesse quel luogo da solo una settimana; la luce al neon era fredda e innaturale, e illuminava con violenza le pareti completamente bianche della stanza. Mentre si avvicinava lentamente al letto bianco all’interno della camera, diversi lampi squarciarono il cielo notturno, illuminando con chiarezza, anche solo per un attimo, l’intera Midgar in preda alla furia del vento e della pioggia.
Lentamente, alzò un braccio fino a toccare la guancia della bambina che dormiva serenamente nel candido letto della stanza. Scottava di febbre, ma non se ne sorprese più di tanto: dopotutto, non era una novità.
Ebbe la tentazione di svegliarla, di scuoterla leggermente per un fianco fino a farle aprire gli occhi gonfi di sonno; e poi di parlarle, perché sentiva che poter esternare a qualcuno le proprie preoccupazioni avrebbe potuto aiutarlo, tranquillizzarlo in quella turbinosa notte in cui aveva scelto di venire allo scoperto. Ma non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere, perciò si limitò a scostarle una ciocca di capelli chiari dal viso e ad osservarla dormire, in silenzio, mentre pensieri sconnessi si agitavano nella sua mente, trainati dalla crescente inquietudine che lo irretiva e che, ne era certo, lo avrebbe sicuramente portato a commettere un passo falso. Mentre osservava il viso della figlia, si chiese se quella sarebbe stata l’ultima occasione in cui avrebbe potuto vederlo: il destino aveva già dimostrato di essergli avverso, ed un ulteriore attacco durante quella notte avrebbe potuto rivelarsi fatale.
In quel momento, mentre la tempesta infuriava per le strade della città, ogni cosa era nelle mani di Tseng. Se avesse consegnato l’Antica ad Hojo, Scarlet non sarebbe riuscita a prendere il potere e lo scienziato avrebbe rispettato i loro patti. E Michael Kreuger, finalmente – per la prima volta da parecchio, forse – avrebbe potuto essere libero.
Era accaduto parecchio tempo prima, in un’altra serata di pioggia, quando il futuro della ShinRa era ancora ricolmo di sogni e speranze – era l’epoca dei Soldier e di Sephiroth, dopotutto. Ricordava qualcosa, nel tiepido fragore del temporale che si abbatteva sulla città silenziosa, che lo circuiva e ammaliava al tempo stesso, spingendolo ad osservare con sempre rinnovato interesse le gocce che scivolavano lungo la superficie delle grandi vetrate della ShinRa.
Ricordava di aver ammirato la pioggia scendere oltre il bordo della finestra, mentre i suoi pensieri, sfuggevoli come la scia leggera dell’acqua, si muovevano vorticosamente, trainati dal turbine degli ultimi eventi che l’avevano travolto con la forza del temporale che si era abbattuto sulla città.
D’un tratto, s’era ritrovato a respirare profondamente, percorrendo con le dita la linea elegante di una goccia d’acqua appena infrantasi contro la superficie velata del vetro. La testa gli pulsava terribilmente, ma non se n’era preoccupato, poiché aveva questioni più urgenti a cui pensare e che richiedevano prepotentemente la sua attenzione.
Quando uno scienziato dal viso anonimo lo aveva chiamato, chiedendogli di seguirlo, Michael aveva tirato un profondo sospiro, in preda all’agitazione; poi, cercando di dissimulare il proprio nervosismo, s’era alzato in piedi e, a passi lenti e ben calibrati, l’aveva seguito fino all’interno del laboratorio del Professor Hojo, guardandosi intorno in un misto di timore e preoccupazione.
Alla fine, era stato condotto proprio davanti al sorriso sardonico del direttore del reparto scientifico, che l’aveva osservato con lo stesso malcelato interesse perverso che avrebbe avuto per una qualsiasi cavia da laboratorio. I suoi occhi s’erano stretti fino a diventare due fessure, mentre con una mano raddrizzava gli occhiali su per il lungo naso.
“Devo dire che non mi sarei mai aspettato una tua visita, Michael Kreuger” aveva gracchiato Hojo, sorridendo beffardo. “Ho sempre pensato che il tuo testone fosse così pesante da non permetterti neanche di alzarti dal letto di Scarlet.”
Michael non aveva risposto, perché sapeva che Hojo non avrebbe mai resistito all’idea di canzonarlo un po’. Era rimasto in silenzio, mordendosi le labbra per non controbattere alle provocazioni che l’altro elaborava con l’ombra di un ghigno sottile sul viso.
“D’altro canto, però,” aveva ripreso Hojo, schiarendosi la voce e guardandolo negli occhi, “sapevo che saresti venuto da me fin dalla prima volta che ho sentito di tua figlia. Insomma, Eliza Kreuger affetta da intossicazione da mako? Non è mica uno scandalo a cui la ShinRa deve porre rimedio, è soltanto un pettegolezzo succoso che non farà altro che alimentare quelle meravigliose voci nei tuoi confronti. E questa faccenda sarà la tua rovina.”
“Ma tu stai conducendo diverse ricerche sull’intossicazione da Mako…” aveva protestato Michael, avvicinandosi di qualche passo allo scienziato gongolante. “Potresti inserirla nel programma di sperimentazione Soldier che…!”
“Credi sul serio che userei il corpo di un fragile essere come tua figlia per i miei esperimenti?” il ghigno vibrante sul volto di Hojo si era aperto sempre più, fino a schiudersi in una risata stridente che aveva fatto scorrere diversi brividi sulla sua schiena. “Perché non ti rivolgi semplicemente ad un becchino, allora?”
D’un tratto, aveva sentito i propri muscoli del viso irrigidirsi. “Si dice che con Lucrecia Crescent però non ti sia fatto problemi, vero? Quindi non sarebbe la prima volta che…”
“SILENZIO!” il grido improvviso di Hojo l’aveva zittito in un istante, ma qualcosa nel suo viso, in quel momento, gli aveva suggerito che forse era quello il tasto giusto da premere per ottenere ciò che desiderava.
Hojo si era ricomposto in pochi attimi, tuttavia i suoi occhi lo avevano guardato con sospetto e ammonizione. “Forse potrei accettare la tua richiesta. Dopotutto, è da parecchio tempo ormai che le mie ricerche non vertono più sulle direttive del Presidente. Suppongo che aggiungere un paziente idoneo al programma di sperimentazione non sarebbe un… problema.”
Michael aveva alzato lo sguardo, quasi incredulo per le parole dello scienziato davanti a lui. Proprio allora, però, aveva notato con timore l’ampio ghigno sul volto di Hojo. “Tuttavia, credo che… chiederò qualcosa in cambio. Giusto perché ritengo che Scarlet non sia per nulla adatta a diventare Presidente di una compagnia come questa.”
I loro occhi si erano incontrati nuovamente, ed era stato in quel momento che Hojo – osservando la determinazione di un padre disperato – aveva compreso di aver trovato un prezioso alleato in quel gioco di potere contro Scarlet.
Così, in una serata di pioggia di qualche tempo prima, Michael e Hojo avevano stretto un patto. Michael avrebbe dovuto tradire Scarlet e consegnare l’Antica al reparto sperimentazione scientifica, attribuendo ad Hojo il merito della sua cattura. A quel punto, Hojo sarebbe riuscito a prendere il potere e a spodestare il presidente, e solo allora la figlia di Michael – già in fin di vita – avrebbe potuto avere una possibilità di salvezza.
La tempesta di Midgar, se possibile, sembrò aumentare d’intensità durante tutta l’ora successiva. Quando l’orologio sulla sua scrivania in mogano segnò le sei e trenta del mattino, Scarlet, con un mezzo sorriso tirato, gettò uno sguardo di sfuggita alla sottile linea dell’orizzonte oltre Midgar, quasi invisibile nella furia della pioggia ininterrotta e del vento. Il sole, che già raramente lambiva la ragnatela di strade di Midgar, sembrava non esser nemmeno sorto: il buio delle strade persisteva con la stessa intensità di alcune ore prime, quando era ancora notte fonda. Interi settori della città erano in pieno blackout, probabilmente a causa dei danni del vento e della pioggia ai generatori di elettricità: dovunque, la luce sembrava flebile ed effimera, pronta ad annichilirsi per l’effetto del tifone che aveva colpito la città con inaudita violenza.
Un lampo squarciò il cielo plumbeo e gonfio di pioggia a poche centinaia di metri della sua finestra, mentre i suoi occhi si dilatavano per la sorpresa: appena pochi secondi dopo, un intero vicolo della città ardeva tra le fiamme di un generatore d’energia esploso. Il boato che seguì l’esplosione fece tremare le grandi vetrate del suo ufficio. Mentre il bagliore pulsante delle fiamme che si espandevano a macchia d’olio, contrastando la pioggia battente, si rifletteva nei suoi occhi, si chiese quante fossero fino ad ora le vittime di quella tempesta: probabilmente, erano già centinaia solo nella parte superiore del piatto, non considerando i bassifondi. Tuttavia, non è che le importasse granché delle vite umane in pericolo nella città: la sua era una stima rigorosamente scientifica dei danni causati dal temporale, qualcosa che, nel momento in cui avrebbe preso il comando, si sarebbe rivelata di vitale importanza.
Era ormai certa della riuscita del suo piano. Dopotutto, la discussione avuta con Michael poche ore prima dimostrava la validità dei suoi progetti, che avrebbero trovato riscontro entro pochi minuti da quel momento. Ripensò alle parole dell’uomo, mentre la rassicurava sulla riuscita della strategia che avevano ideato insieme per ottenere l’Antica. Un leggero sorriso sprezzante le si dipinse sul viso, mentre prendeva un fascicolo dal cassetto più profondo della sua scrivania e lo osservava. Ma davvero Michael l’aveva creduta così stupida? Aveva creduto sul serio che non avrebbe raccolto informazioni sui suoi spostamenti e sulle sue intenzioni? Di certo non si sarebbe lasciata ingannare così, senza far nulla per contrastare le sue mosse. Al contrario, aveva lavorato duramente per far sì che ogni possibile mossa di Hojo e Michael potesse venire intercettata dalle sue spie: solo così era riuscita ad elaborare una strategia alternativa a cui avrebbe dato il via entro pochi minuti. Come ogni settimana, Michael aveva lasciato l’edificio ShinRa per andare a trovare Eliza nella casa di cura della sesta strada, ma al ritorno avrebbe trovato un comitato di benvenuto pronto a sequestrarlo. E con Michael fuori dai piedi, l’Antica sarebbe finita dritta nelle sue mani, e il Presidente – probabilmente l’unico escluso nel gioco di potere che mirava alla sua posizione – sarebbe stato arrestato e rinchiuso in una delle celle dei sotterranei.
Si era dimostrata più astuta dei propri avversari, ed aveva vinto la battaglia. Pregustò il sapore della gloria imminente, mentre alle sue spalle, oltre la spessa vetrata del suo ufficio, in basso, tra le strade di Midgar, il fuoco crepitava e s’inaspriva con violenza, riducendo a nero carbone le vite e i sogni degli abitanti di Midgar.
Michael osservava dal parabrezza la pioggia di scintille che si espandeva per l’aria. Il cielo sopra Midgar si era tinto di rosso, mentre l’incendio si propagava con rapidità trainato dal vento sferzante della tempesta. Alcune centinaia di metri alla sua destra, un altro generatore esplose con un grande boato che risvegliò l’intera città. Le urla dei cittadini di Midgar crebbero d’intensità, mentre la luce abbagliante di un terzo lampo annunciava l’ennesima violenta esplosione.
Scese dall’auto a passo svelto, guardandosi intorno e stringendosi nella propria giacca per cercare di ripararsi dal vento e dalla pioggia. Gli edifici alla sua destra sfumavano nel rosso cremisi delle fiamme, mentre i corpi della gente all’interno – i più probabilmente colti nel sonno – emanavano un odore nauseante di carne bruciata. Il calore delle fiamme era quasi insopportabile.
Risalì nell’auto, afferrando una manciata di documenti e una pistola dal cruscotto; poi, richiudendo la portiera alle sue spalle, cominciò a correre il più lontano possibile dalle possenti fiamme dell’incendio: inciampò nel cadavere semicarbonizzato di una donna mentre l’aria veniva scossa da un’ulteriore esplosione, e le fiamme, ancor più selvagge e indomabili, avvolsero ben presto l’automobile che fino a qualche minuto prima l’aveva ospitato, distruggendola. I suoi occhi si spalancarono di sorpresa mentre diversi frammenti di lamiera fendevano l’aria alle sue spalle, incartapecorendosi e sfumando nel rosso accesso delle strade di Midgar. Si rialzò in piedi proprio mentre molti degli edifici alla sua destra cedevano sotto il loro stesso peso e una valanga di detriti invadeva la strada prepotentemente.
Si mosse con circospezione, evitando i numerosi cadaveri che gli intralciavano il cammino; ascoltò le grida disperate di un uomo sepolto sotto le macerie lambite dal fuoco, ma non fece nulla per cercare di salvarlo, e mentre un’ulteriore esplosione scatenava le fiamme con una nuova e rinnovata furia distruttrice, si chiese se Hojo avesse rispettato il loro patto anche qualora fosse morto. La risposta gli venne quasi spontanea, insieme ad un sorriso leggero carico di disprezzo che gli curvò gli angoli della bocca.
Muovendosi con circospezione evitò i cadaveri di due bambini trascinati in strada dall’onda d’urto dell’ultima esplosione: corse con forza, mentre la pioggia picchiava sul suo viso e il vento scuoteva forte le sue membra, cercando di ignorare le urla e lo sfrigolio della carne bruciata dal fuoco alle sue spalle.
E poi, all’improvviso, qualcosa afferrò una delle sue gambe, impedendogli di muoversi. Era un ragazzo, non più che quindicenne, semisepolto dalle macerie di una casa già bruciata che aveva ceduto sotto il peso delle sue fondamenta. C’era del sangue che colava dalla sua fronte, e mostrava diverse scottature sul viso.
“Ti prego, aiutami, le mie gambe…!”
Michael gettò un’occhiata alle fiamme trainate dal vento, poi guardò nuovamente il ragazzo, incerto sul da farsi. Alla fine si chinò su di lui e cominciò a spingere via le macerie. Il ragazzo tossì forte per i fumi dell’incendio, mentre cercava di dare una mano all’uomo che tentava di salvarlo.
“N… non riesco…” la voce di Michael era quasi rotta dallo sforzo. “Non riesco… a spostarlo…” Provò per un’altra manciata di secondi, poi si rimise in piedi, ansante. “Mi spiace… io, devo… devo andare via…!”
Il ragazzo rafforzò la presa sulla sua gamba. “Non lasciarmi qui, ti prego! Il vento soffia da questa parte, le fiamme arriveranno a momenti, ti prego, aiutami!”
“Lasciami andare!” esclamò Michael, mentre il cuore gli batteva a mille. Diede uno strattone, ma non aveva più molte energie e non riuscì a liberarsi dalla presa del giovane; a pochi metri, il fuoco venne alimentato dall’esplosione del serbatoio di un automobile. “LASCIAMI!”
Il ragazzo non sembrava intenzionato a lasciarlo andare, e Michael, quasi senza accorgersene, prese una decisione. Estrasse dalla giacca la pistola che poco prima aveva recuperato dal cruscotto della proprio auto e la osservò impassibile, mentre gli occhi del giovane si dilatavano per la sorpresa e la paura. Ma prima ancora che quest’ultimo potesse aprire bocca per supplicarlo, Michael lo aveva già colpito con il calcio dell’arma, e il ragazzo era già morto sul colpo, accasciandosi con grazia sulle rovine del marciapiede. La presa intorno al suo piede non sembrava più così salda, adesso.
E poi, ancora una volta, saette, vento, pioggia, fuoco: l’inferno si era scatenato sul settore 6 di Midgar, e la città stava ardendo annichilendosi sotto il peso della tempesta che l’aveva stracciata. Quando alla fine, correndo senza mai voltarsi indietro, raggiunse l’ombra rassicurante di un vicolo nei pressi dell’Edificio ShinRa, il suo cuore batteva forte e le sue mani tremavano terribilmente, ma di certo era ancora vivo. E mentre osservava il cielo rosso sopra di sé, e guardava le proprie mani sporche di sangue e polvere, si disse di analizzare con calma la situazione, e di decidere il da farsi una volta giunti al Quartier Generale. Mentre il suo respiro, lentamente, tornava regolare, si mosse con circospezione, incurante del proprio aspetto stravolto, ed entrò all’interno dell’Edificio ShinRa, fino a raggiungere la hall della struttura.
C’erano due uomini davanti al bancone d’ingresso. Appena lo videro, incuranti del suo aspetto, si fecero un cenno di assenso e gli andarono incontro, con un’espressione neutra sul volto.
“La Direttrice Scarlet vorrebbe vederla. Siamo stati incaricati di scortarla fino al suo ufficio.” Le loro voci non tradivano alcuna emozione, tuttavia, nel momento esatto in cui Michael le ascoltò, capì che qualcosa, nei suoi piani, era andato storto. E si dimenticò dell’inferno al Settore 6, dei morti, del fuoco, degli occhi di quel ragazzo che avevano implorato prima aiuto e infine pietà, mentre la sua mente si focalizzava su un unico pensiero che lo paralizzò e lo gettò in preda al terrore. Lei sa. Ha sempre saputo.
Con un gesto elegante portò la propria mano al mento, come se si stesse chiedendo il perché di quella strana convocazione, ma poi, con uno scatto repentino, la fece scivolare all’interno della giacca e, con la pistola in mano, sparò colpendo uno dei due uomini in testa.
Il sangue gli schizzò sul viso e sulla giacca nera, mentre il corpo dell’uomo crollava sul pavimento di marmo della hall. Mentre l’altro uomo osservava con stupore la bile rossa che sgorgava dal cervello del cadavere, Michael lo stese con un pugno e lo freddò colpendolo allo stomaco con un altro proiettile.
In breve, si scatenò il panico. Cominciò a correre per la hall, evitando gli spari dei numerosi fanti posti a guardia dell’entrata; poi si infilo in uno dei corridoi secondari del primo piano, mescolandosi tra la folla che si accalcava verso le uscite. Doveva andarsene, prima che lo uccidessero: se Scarlet l’aveva scoperto sul serio non sarebbe resistito molto lì dentro. In verità, doveva allontanarsi da Midgar: l’intera zona sarebbe stata sicuramente messa a ferro e fuoco dalla direttrice, nella speranza di trovarlo. Si avvicinò a una delle tante uscite di emergenza, ma con un tuffo al cuore si accorse che tutte le porte erano state bloccate. A quanto pare, Scarlet aveva progettato i suoi piani con cura.
Alle sue spalle accorsero diversi fanti della ShinRa. Michael ne colpì uno, poi si gettò a terra per evitare gli spari di altri tre soldati. In risposta al fuoco nemico alzò il braccio e premette nuovamente il grilletto con forza: un altro fante si accasciò a terra ansante, mentre la vita scivolava via dalle sue mani. Si rimise in piedi, evitò un altro proiettile e rispose con un colpo che tuttavia mancò il proprio bersaglio.
D’un tratto, sentì le ossa della propria gamba spezzarsi con un sonoro schianto, mentre il sangue gli impegnava i pantaloni sgualciti e macchiava il pavimento di marmo. Represse un urlo di dolore e crollò a terra, trascinandosi sulla gamba ferita dallo sparo di uno dei fanti che lo inseguivano. Rispose con un altro sparo che colpì due fanti, poi si rimise in piedi a fatica e cercò di fuggire trascinando la gamba ferita. Imprecò quando si accorse della scia di sangue che la sua gamba aveva lasciato sul marmo lucido del corridoio.
Attorno a lui, adesso, c’era il silenzio. Si trascinò ansante sulla gamba ancora sana fino a poggiare la schiena lungo la parete, poi riprese fiato ansimando, approfittando dell’innaturale quiete di quel momento. Si posizionò meglio, con la pistola pronta in mano: presto sarebbero accorse altre guardie, dunque sarebbe stato meglio non farsi cogliere impreparato.
“Sai che è stata una mossa stupida venire qui, vero?” pronunciò d’un tratto una voce femminile davanti a lui. Ascoltò l’eco dei suoi passi avvicinarsi sempre di più, mentre sul volto gli si dipingeva già un sorriso sprezzante.
“E tu sei una che se ne intende di mosse stupide, giusto?” ironizzò lui in risposta, osservandola.
Scarlet chiuse gli occhi, mentre un sorriso sarcastico le curvava le labbra. “Non avresti dovuto allearti con Hojo: ho vinto io. Sapevi che sarebbe finita così, dopotutto! Non ricordi cos’è successo a Eliza?”
Michael scattò all’improvviso, levando la pistola in alto e cercando di colpire Scarlet, ma la donna si rifugiò dietro lo stipite di una porta e il colpo andò a vuoto.
“Che c’è, è passato così tanto tempo, dopotutto…!” fece lei ironica, mentre rispondeva con un colpo di pistola che gli sfiorò la spalla.
“L’ho fatto soltanto per salvarla!” rispose, la faccia contratta dal dolore per il brusco movimento che era stato costretto a fare per evitare il proiettile della donna.
“Beh, è stato comunque inutile. Io ho capito fin dal primo istante che non c’era più nulla da fare per lei… avresti dovuto lasciar perdere!”
Scarlet pronunciò le ultime parole con ferma amarezza, poi prese nuovamente la mira, uscendo allo scoperto: e prima ancora che Michael riuscisse a puntarle contro la propria arma, lei aveva già premuto il grilletto. L’urlo di Michael riecheggiò per i freddi corridoi della ShinRa, seguito dal clangore della pistola che toccava terra. L’ultima cosa che l’uomo vide, prima che la coscienza lo abbandonasse, furono i tacchi alti di Scarlet che si allontanavano, salendo le scale, certamente diretti verso l’ufficio del presidente ShinRa.
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Bene, avevo promesso un capitolo entro 15 giorni ed è passato un anno. Forse è meglio non far più nessuna promessa, se è questo l'effetto che hanno. xD
Che capitolo travagliato. Ci ho messo un anno e non sono per niente soddisfatto: magari la prossima volta mi prendo un decennio.
Comunque, ringrazio tutti coloro che hanno letto e commentato il precedente capitolo, ovvero Zackneifan, the one winged angel e shining leviathan. Ringrazio ulteriormente Zackneifan per l'entusiastica recensione che ha permesso ad ACS di meritarsi un posto tra le Storie Scelte (sebbene da allora non è che mi sia ammazzato di aggiornamenti, ma vabbé, proverò a farmi perdonare). Infine, un grazie anche a tutti coloro che hanno letto. Arrivederci al prossimo capitolo di questa storia!
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Capitolo 6 *** Capitolo VI ***
Dov’eravamo
rimasti, ovvero riassunto
veloce per tutti coloro che in quest’anno hanno dimenticato
cos’era successo:
Cloud
e Cissnei, entrambi in fuga da Midgar, si scontrano nella foresta e
sono
sorpresi da Reno, inviato a recuperare entrambi per conto della ShinRa
e in
particolare della nuova direttrice del reparto Turk, Scarlet. Dopo una
colluttazione in cui Reno ha la meglio su entrambi, essendo venuto a
conoscenza
delle nuove direttive della ShinRa (freddare entrambi nella foresta
eliminando
ogni traccia di cattiva condotta), decide di inscenare la fuga dei due
ricercati e di ferirsi utilizzando lo Shuriken di Cissnei.
Contemporaneamente,
Scarlet e Michael concorrono per il potere in una Midgar sempre
più martoriata
dalla tempesta. Entrambi sanno che l’unico modo per
spodestare il presidente
ShinRa e mettere a tacere l’avversario è
recuperare l’antica, ma solo Scarlet
ha il potere di ordinare ai Turks di farlo, mentre Michael deve trovare
un
altro modo. E’ per questo che, nel momento in cui la donna
ordina a Tseng di
recuperare Aerith, Michael decide di entrare in azione alleandosi con
Tseng e
promettendogli un posto sicuro dove nascondere la ragazza, nonostante
egli
agisca in realtà per conto di Hojo e del reparto scientifico
della ShinRa, a
cui aveva promesso l’antica in cambio dell’appoggio
nella sua imminente presa
di potere ai danni del presidente.
Durante
la notte si svolgono, parallele, le storie di Tseng e di Michael: il
primo va a
recuperare Aerith, che si sente minacciata dalle sue parole e, dopo uno
scontro
con il Turk, viene ferita gravemente da un colpo di pistola; il
secondo,
inquieto, passa le ore notturne ripercorrendo con la mente il suo
piano,
cercando di convincersi che nulla può andare storto. Dopo
una visita silenziosa
in una casa di cura, Michael, attraversando la tempesta di Midgar,
torna alla
ShinRa: ma è qui che lo coglie la consapevolezza che tutto
è andato storto, e
mentre Scarlet attua il suo piano per la conquista del potere, egli
viene
colpito e messo fuori gioco, perdendo definitivamente la lotta per il
potere.
Capitolo
6
Era
sottile, la linea chiara che timorosamente lambiva
l’orizzonte. Accarezzava
quasi negligentemente le valli, con noncuranza, incapace di sbiadire il
cielo
cupo che si estendeva sopra le fronde nodose delle querce della
foresta: e
l’oscurità della nottata trascorsa si insinuava a
forza tra le radici degli
arbusti, accarezzando gli angoli più sinuosi del sottobosco
che si snodava
attraverso la vegetazione agitata da una brezza sottile.
Presto
sarebbe stata l’alba. Il sole non si vedeva ancora, ma il
cielo assumeva già
una leggera venatura perlacea che entro pochi minuti sarebbe stata
screziata di
cremisi, e gli uccelli rintanati sulle alte querce avevano
già cominciato a
cantare. Deboli gocce di rugiada lambivano le punte dei fili
d’erba e gli steli
sottili dei fiori selvatici che si estendevano per le radure, mentre il
vento –
carezzevole, ma al tempo stesso anche
florido – li curvava dolcemente sotto il suo
soffio tenue.
La
sua mano cercò sostegno sulla corteccia nodosa di un albero
nei paraggi, spostandosi
all’improvviso fino a tastare la superficie irregolare
dell’arbusto. Si muoveva
lentamente, in maniera irregolare, faticando terribilmente anche nel
compiere i
più piccoli e semplici gesti: annaspò, il respiro
spezzato, muovendo un ulteriore
passo verso la radura e oltrepassando una radice che si estendeva,
articolata,
lungo il selciato roccioso e quasi impercorribile. Respirò a
fondo per diversi
secondi, gli occhi chiusi, cercando di ritrovare l’equilibrio
e la
concentrazione adatta per muoversi in quell’intricato
labirinto di sterpi che
si estendeva davanti a lui: ascoltando il rumore
dei passi della ragazza che lo precedeva,
cercava di coglierne i movimenti, la direzione,
l’intensità dell’andatura.
Cissnei andava veloce ed era svelta, si muoveva con innata naturalezza
tra gli
sterpi e li evitava con appena un delicato movimento: il suo shuriken
brillava
alla luce della luna, ancora macchiato del sangue del Turk dai capelli
rossi
incontrato qualche ora prima. L’avevano recuperato accanto al
suo corpo esanime
e, indecisi sul da farsi, avevano semplicemente deciso di fuggire,
nella
speranza che, nel momento in cui si fosse svegliato, egli non avrebbe
avuto
l’ostinazione di inseguirli nuovamente e di attaccarli
ancora. D’altro canto,
Cissnei sembrava conoscere bene il Turk ed era rimasta turbata
dall’esito del
loro scontro: ma aveva preferito – come lo stesso Cloud, del
resto – chiudersi
in un silenzio inquieto piuttosto che esternare ad alta voce i propri
timori.
Dopotutto, in quel momento era necessario allontanarsi il
più possibile dal
ragazzo svenuto: ben presto avrebbe ripreso conoscenza e avrebbe
indubbiamente
provato a seguirli di nuovo.
Camminavano
sulle rocce per evitare di lasciare impronte, ma le ferite al petto e
alla
gamba lo impacciavano parecchio e spesso si ritrovava semplicemente
senza fiato
per il dolore, all’oscurità ancora pressante del
giorno che si era appena
dischiuso. L’orizzonte si infuocava al nascere
dell’aurora, ma all’interno
della foresta erano pochi i raggi luminosi di sole che bagnavano il
sottobosco:
procedeva quasi a tentoni nella penombra delle fronde degli alberi,
ancora in
difficoltà, quasi inseguendo l’ombra sfuggevole di
Cissnei che – spaventata,
forse – si muoveva agilmente tra le frasche esangui degli
arbusti più bassi.
Avanzò
ancora di qualche passo, ma una fitta all’altezza dello
sterno lo stremò e fu
costretto a lasciarsi cadere sulle ginocchia, il volto schiuso in una
smorfia
di dolore.
“E’
tutto a posto?” chiese la ragazza, fermandosi e voltandosi a
fissarlo con una
nota di apprensione nella voce.
“Sì…”
biascicò lui in risposta, smorzando con le parole il senso
di nausea che gli
impediva di risollevarsi in posizione eretta.
“Avremmo
dovuto medicare con più attenzione quelle ferite. Sembrano
gravi” osservò la
ragazza, tornando sui suoi passi e fissandolo con attenzione.
“Hanno
solo bisogno di tempo. Ne abbiamo bisogno entrambi, direi”
fece l’altro in
risposta, dando un’occhiata alla gamba ferita di Cissnei e
alla pelle del
polpaccio macchiata di denso sangue vermiglio.
“Abbiamo
bisogno di allontanarci da qui, innanzitutto.”
“Sapevo
che l’avresti detto.”
“Se
Reno o qualcuno degli altri dovesse trovarci in queste condizioni,
finiremmo
direttamente nelle mani di Scarlet, ed è l’ultima
cosa che desidero in questo
momento” rispose Cissnei, contrariata.
“Quindi
credi che il rosso stia dicendo la verità?”
“Conosco
Reno da abbastanza tempo per sapere quando mente o quando è
davvero preoccupato
per qualcosa. Se ha nominato Scarlet, allora vuol dire che a Midgar sta
accadendo davvero qualcosa.”
“Non
ho molti ricordi di lei, in realtà.”
Cissnei
incurvò leggermente gli angoli della bocca in un sorriso
aspro. “Sfido,
non è che fosse particolarmente
legata a SOLDIER, né del resto ai Turks.”
“E
adesso perché li comanda, allora?”
“E’
quello che vorrei capire anch’io, ma non sono certa che la
notizia sia
esattamente delle migliori. Sta tramando qualcosa.”
Il
cielo si era ormai del tutto rischiarato, e i raggi di sole screziavano
di luce
la superficie irregolare del sottobosco. Procedevano più
velocemente, adesso,
ed anche se l’inquietudine di Cissnei, al ricordo delle
parole di Reno, si
destava e riprendeva vigore, un’ulteriore sensazione, forse
di sollievo, si
faceva strada all’interno di lei con la stessa
intensità del chiarore che si
insinuava tra le fronde degli alberi. Era finalmente giorno, aveva
trovato un
alleato, e persino le radure circondate da secolari arbusti che
l’avevano tanto
spaventata la notte prima adesso apparivano più serene e
luminose, prive di
quell’aria inquietante e tormentata che le
contraddistingueva.
“Comunque,
volevo solo dirti… grazie.”
Cloud
alzò lo sguardo verso di lei, sorpreso.
“Uh?”
“Beh,
lo sai, per aver cercato di proteggermi di fronte a Reno.
L’ho apprezzato
tanto.”
Il
ragazzo continuò ad avanzare, senza trovare le parole adatte
per rispondere.
Per la verità, avvertiva una strana sensazione, quasi si
sentisse imbarazzato a
causa sua. Alla fine decise di borbottare a bassa voce un
“Non è che sia
servito poi a molto”, evitando accuratamente di rivolgere lo
sguardo verso di
lei.
“Ho
capito che posso fidarmi di te, non è poco”
rispose lei. “Ed è stato davvero un
bellissimo gesto.”
“Abbiamo
lavorato insieme.”
“Beh,
allora siamo un’ottima squadra.”
Le
sue labbra si schiusero in un sorriso. Era da parecchio che non le
succedeva, in
effetti. Non ci avrebbe giurato, ma le parve che persino il volto di
Cloud si
fosse fatto meno duro, quasi come se gli angoli della sua bocca si
fossero
leggermente increspati sotto la spinta di quelle parole. Ed ora che il
suo viso
appariva così rilassato, era facile scorgere in lui quelle
espressioni e quei
gesti che lo rendevano simile a Zack, e un nuovo velo di tristezza le
oscurò il
volto improvvisamente.
In
breve, gli alberi si erano già fatti più radi.
Interi fazzoletti di terra
venivano adesso irradiati dalle luce del sole che, ormai sorto del
tutto,
rischiarava le radure e le valli circostanti. Si erano ormai lasciati
alle
spalle le gelide ombre della foresta oscura, ed entrambi, leggermente
rincuorati, decisero presto di sostare all’ombra di un nodoso
faggio che
svettava tra l’erba alta.
“Fa’
vedere le ferite”
Cloud
mugugnò riluttante, borbottando che stava bene e di farsi
gli affari propri.
“Pff,
certo che sei cocciuto.”
“Ho
detto che sto bene.”
“Non
sembrerebbe, dato il tuo aspetto. Hai qualche materia curativa con
te?”
Il
ragazzo fece no con la testa.
“Mmmh.”
“Che
c’è?”
“Dovremmo
trovare un altro modo per curare quelle ferite, allora.”
“Guariranno
da sole” rispose Cloud stizzito.
“Non
abbastanza in fretta, però.”
“Va
bene, va bene, fa’ come ti pare, allora!”
Trascorsero
alcuni istanti di silenzio in cui ognuno evitò lo sguardo
dell’altro.
“Beh,
dovremmo essere molto vicini a Kalm Town, da qui”
decretò Cissnei alla fine,
scrutando l’orizzonte verso ovest aldilà delle
montagne.
Cloud
la guardò un po’ confuso. “E
allora?”
“Allora
hai bisogno di cure e Kalm Town è il posto più
vicino per procurarcele. Da lì
possiamo decidere come muoverci per attuare la nostra prossima
mossa” rispose
la ragazza risoluta.
“Kalm
Town” le fece eco Cloud, mentre un sorriso sardonico gli
macchiava il viso.
“Quindi hai deciso di tornare a Midgar, non è
così?”
Mideel,
alcuni anni prima.
C’è
qualcosa di insolito e particolare nella disarmante impazienza con cui
la notte
avvolge Mideel. Il cielo si tinge di vermiglio quasi inaspettatamente,
cogliendo di sorpresa lo spettatore più svagato e
disattento: e mentre questi,
riscossosi appena dai suoi pensieri, osserva ammirato il profilo del
sole oltre
la rigogliosa vegetazione, l’aria si è
già fatta più frizzante, e le stelle,
luminose come nelle notti d’estate, si espandono per la
grande volta celeste.
Le torce e i falò crepitano serenamente, mentre le ombre
– delle case, degli
alberi, della gente del luogo – si allungano
sull’arido selciato, fino al
limitare del bosco. Il sentiero che conduce alla selva è in
terra battuta,
breve, definito da un esile steccato di legno rugoso.
Mentre
ritorna al villaggio, la sua mano lambisce quasi di sfuggita la
superficie
coriacea della staccionata. Il legno è mal lavorato e
risulta ruvido e
discontinuo al tatto, ma ritira la mano solamente quando una scheggia
gli si
conficca nel dito, facendolo imprecare sonoramente nella tranquilla
serenità
della notte ormai matura. Il suo cuore accelera i battiti, colto di
sorpresa
dalla fitta improvvisa: ma poi, con un respiro profondo, i suoi sensi
si
quietano, rabboniti dalla brezza che fa ondeggiare pacificamente
l’erba che
separa il villaggio dal bosco.
D’un
tratto, alle sue spalle, le risate sature d’allegria di Zack
Fair e di Reno
riempiono la notte, costringendolo ad assumere nuovamente una sottile
espressione contrariata. Accelera il passo, lievemente stizzito dalle
inutili
chiacchiere dei due uomini alle spalle, e si concentra sul tiepido
canto delle
cicale estive, cercando di allontanare dalla mente la mole di
scempiaggini che
gli altri – chissà, magari anche consapevolmente
– non smettono di elucubrare;
ma è tutto inutile, e le loro frivole parole –
così inadatte ad un incarico
oneroso come quello – s’insinuano nella sua mente,
vanificando ogni suo sforzo
di mantenere inalterata la concentrazione.
“Da’
retta a me, quella roba è palesemente truccata!”
osserva con noncuranza Reno,
mentre muove distrattamente il taser fendendo l’aria.
“D’altronde si sa che il
Gold Saucer è una gigantesca trappola per turisti
idioti.”
Zack,
accanto a lui, incrocia le braccia con un’espressione
corrucciata sul volto. “Non
dev’essere molto semplice pilotare le corse dei chocobo,
però. C’è sempre un
possibile margine d’errore che non può essere
calcolato in anticipo…”
“Che
c’è, stai pensando a come fare soldi
imbrogliando?” lo stuzzica beffardamente
Reno, dandogli una leggera gomitata sul fianco. “Il tuo
misero stipendio da
Soldier di prima classe non è abbastanza?”
“Via,
non è questo il punto.” La voce di Zack si fa
più seria, mentre lui e i due
Turk mettono piede nel centro abitato quasi deserto. “E
comunque,” aggiunge subito
dopo, mentre un sorriso gli si dipinge sul volto, “non
credere che io abbocchi
ad ogni tua storiella idiota.”
“Peggio
per te, questa qui è una storia vera” afferma
l’altro con noncuranza, mentre
indirizza lo sguardo verso un vicolo avvolto
nell’oscurità. “Me ne ha parlato
lo Zio Al l’ultima volta che sono andato a
trovarlo.”
“Quello
che spala le cacche dalle piste del Gold Saucer?”
“Esatto,
proprio lui” afferma Reno, distogliendo lo sguardo dal vicolo
e procedendo alle
spalle di Tseng. “Un giorno è andato ad appartarsi
con la sua nuova compagna
Polly – che, tra parentesi, è davvero una gran
bella…”
“Reno!”
“Scusa
tanto, capo, ma per come la vedo io un complimento a una bella donna
è sempre
dovuto.”
“Non
è questo il punto.” Tseng accelera il passo
all’improvviso, lasciandosi alle
spalle i due straniti dal suo brusco e inatteso comportamento. Si porta
una
mano alla tempia pulsante, maledicendo i toni squillanti e
sfacciatamente
allegri dei suoi compagni di missione: poi fa un respiro profondo,
cercando di
non perdere la calma. “Abbiamo un compito da portare a
termine.”
“A
me sembra una notte piuttosto tranquilla, in
realtà” s’intromette Zack, alzando
le spalle in direzione della quieta foresta. “Non credo che
si nasconda davvero
qualcuno in questo luog…”
“Sssh!”
gli fa Reno sottovoce mollandogli una gomitata sugli stinchi.
“Mai contraddire
il capo quando siamo in missione.”
“Ma
tu l’hai fatto giusto qualche minuto fa!”
Sul
volto del Turk si dipinge un lieve ghigno canzonatorio; poi, senza
rispondere,
l’uomo accelera il passo fino a raggiungere Tseng, che si
è già infiltrato in
una delle vie secondarie del villaggio.
“A
quanto pare qui è tutto regolare” decreta
quest’ultimo alcuni minuti dopo,
quando, poco dopo aver ispezionato l’ultimo vicolo della
città, i tre uomini si
incontrano nuovamente al centro di Mideel. “Credo sia meglio
rientrare, per
stanotte. Farò rapporto al Quartier Generale e vi
comunicherò le direttive per
domani.”
Reno
ha sul viso un sorriso un po’ storto, malizioso come quello
di un bambino che
in segreto affonda le mani in un barattolo di marmellata: si allontana
senza
dire una parola, mentre la coda vermiglia, alle sue spalle, ondeggia
leggermente nella brezza della sera. Zack, d’altro canto,
incrocia le braccia,
incerto sul da farsi, mentre lancia uno sguardo distratto al limpido
cielo
notturno; poi, quasi senza che se ne accorga, le sua mani scorrono
sulla
tastiera del cellulare.
“Non
credo sia sveglia a quest’ora” osserva Tseng con
noncuranza, poggiando le
lunghe dita sul mento. “Va sempre a dormire presto, la
sera.”
Zack
ricambia il suo sguardo, stupito. “Pagano i Turk per spiare
le ragazzine,
adesso?”
“A
mio parere è un po’ da pedofili!”
aggiunge Reno dall’oscurità, facendoli
trasalire. “Strani ordini, quelli del
capo…”
“Reno!”
lo ammonisce Tseng, con voce ferma.
“Sto
solo scherzando!” risponde l’altro con un tono
giovale, allontanandosi nella
notte.
Infine,
sono tornati presso la locanda nella quale alloggiano. La loro camera
è al
piano superiore, illuminata da alcune torce alle pareti che gettano
lunghe
ombre sul resto della stanza. Reno si getta sul letto, sollevato, con
le mani
incrociate dietro la nuca; sul volto di Tseng, d’altro canto,
traspare una
sottile inquietudine, un leggero fastidio che non riesce a dissimulare
e che
s’insinua tra le pieghe del suo viso. Ha le braccia
incrociate, la schiena ben
dritta, il passo svelto: il rumore degli stivali neri, sulle assi di
legno del
pavimento, è rapido e scandito. Il suo sguardo
s’insinua oltre la finestra
annebbiata, fino a perdersi nella fitta e varia vegetazione di Mideel:
la luce
della luna illumina tutta la campagna circostante.
Interrompe
il ritmo cadenzato dei suoi passi e posa, immerso nei suoi pensieri, le
lunghe
dita sul vetro annebbiato. E’ rientrato da pochi minuti, ma
probabilmente ha
già nostalgia della fresca brezza delle notti estive di
Mideel, e sa già che i
suoi sensi – ancora in allerta, nonostante la fine della
missione – forse
potrebbero trovare un po’ di pace, nel ritiro solitario della
foresta che circonda
il villaggio.
Sta
uscendo nuovamente, a pochi minuti dal rientro, ma Reno non gli fa
alcuna
domanda, mentre sente la porta scivolare cigolando sui cardini: rimane
con gli
occhi chiusi, disteso sul letto, tra le candide lenzuola di lino su cui
il suo
corpo ha disegnato una sottile e quasi invisibile ragnatela di pieghe.
L’aria
è ancora più dolce di come la ricorda, nonostante
abbia trascorso appena
qualche minuto all’interno della locanda: muovendosi per le
vie fiocamente
illuminate dalla luce della luna, da solo, ha l’impressione
che la brezza si
sia fatta più fresca e sottile, e che la luce della luna
– già così intensa, in
quella tiepida notte priva di nuvole – si sia fatta
più viva, e pulsante, e
argentea, sulle chiome vibranti degli alberi e sugli steli
d’erba che si
piegano sotto il vento leggero.
Probabilmente
anche Zack sta vagando per le vie fiocamente illuminate di Mideel, da
solo,
immerso nei suoi pensieri, lontano da casa e da Aerith. Non che abbia
particolarmente voglia di incontrarlo, comunque. Sospira lievemente,
mentre
lascia il sentiero principale e si adagia leggermente
sull’erba, ad un paio di
metri dallo steccato che delimita i confini del villaggio.
Tramite
rattoppate e disoneste associazioni di idee, i suoi pensieri si
soffermano nuovamente
sulla ragazza. Non ricorda precisamente quand’è
andato a farle visita per
l’ultima volta: negli ultimi tempi è stato sempre
impegnato con ogni genere di
incarico differente. Forse è passato addirittura un mese,
dal loro ultimo
incontro, nella chiesa abbandonata dei bassifondi di Midgar, tra
un’occhiata
distratta e l’altra in un pomeriggio tranquillo trascorso in
città.
“Ti
credevo già addormentata da un pezzo” afferma
Tseng d’un tratto, il microfono
del cellulare accostato all’orecchio, mentre una leggera
smorfia si disegna sul
suo volto.
“E
allora per quale motivo hai chiamato?” chiede Aerith in
risposta, non riuscendo
a reprimere una leggera risatina di scherno.
Tseng
è infastidito dal tono canzonatorio della ragazza: a volte,
quando parla con
lei, ha l’impressione di essere preso bonariamente in giro.
Non risponde alla
domanda, preferendo sbuffare sull’erba carica di rugiada.
“Eddai,
dovresti sostenere la conversazione, dopotutto hai chiamato
tu!” esclama Aerith
dopo un po’, reprimendo a fatica l’irritazione
dalla voce.
“Non
ho niente da dire.”
“Okay,
ma non è molto educato.”
“Sei
in camera tua?”
La
domanda di Tseng la coglie di sorpresa, ma quando risponde il suo tono
è
tranquillo e carico dell’ironia che la contraddistingue.
“Sono
nella chiesa a fare da babysitter alla mia guardia del corpo”
afferma,
trattenendo a stento una risata, mentre dal cellulare si avvertono
delle
lamentele in lontananza. “E sta’ un po’
zitto!” esclama di nuovo lei, alzando
la voce. “A quest’ora i marmocchi dovrebbero
dormire, anche se sono Turks della
ShinRa.”
Un
breve sospiro di Tseng si perde nella rarefatta aria notturna di
Mideel. Ha
imparato a conoscere quella ragazza e sa bene quanto possa essere
cocciuta, a
volte. La ascolta redarguire il giovane Turk incaricato di
sorvegliarla, in
silenzio, cercando di immaginarne il viso che si infervora, animato da
un
guizzo a metà tra il divertito e l’irritato.
Sì, riesce quasi a vederla, nella
penombra della chiesa fiocamente illuminata dalla pallida luce della
luna: e i
suoi pensieri si fanno sempre più vivi e complessi, mentre
una mite fantasia –
giostrata dal suo sguardo – s’insinua sempre
più a fondo tra le pieghe nascoste
della sua mente.
“Non
hai ancora risposto alla mia domanda” afferma lei
all’improvviso, con
semplicità, nuovamente rivolta a lui.
“Come?”
“Ti
avevo chiesto perché mi hai chiamata.”
Tseng
esita per qualche istante, prima di rispondere. “Agisco in
difesa degli
interessi della ShinRa, lo sai. La tua incolumità
è qualcosa che la compagnia
deve costantemente tenere sotto controllo.”
“Ah-ah”
annuisce Aerith, con un tono a metà tra il sorpreso e il
divertito. “Ma c’è già
qualcuno, con me.”
“Volevo
accertarmi che andasse tutto bene.”
La
ragazza sorride. “Capisco. Un po’ come ha fatto
Zack poco fa.”
Tseng
impiega qualche secondo per rispondere. “Io e Zack siamo
molto diversi” afferma
poi, quasi sovrappensiero, più a se stesso che alla ragazza.
“Mmmh.
Forse” esita Aerith, anche lei pensierosa. “Ma in
un modo o nell’altro, tenete
entrambi a me. E’ una bella cosa.”
Sul
volto di Tseng si dipinge un tiepido abbozzo di sorriso.
E’
stata una lunga telefonata, ma quando infine ripone il cellulare,
sospirando,
si accorge di sentirsi ancor più inaridito di prima. Rimane
ancora un po’ ad
assaporare la brezza che si espande per la radura, poggiando una mano
sull’erba
dietro di sé: tiene gli occhi sul cielo limpido, immerso nei
suoi pensieri,
mentre qualcosa – in quel luogo, o magari soltanto nella sua
testa – gli fa
desiderare di andar via, mettersi in viaggio, lasciare tutto alle
proprie
spalle e ricominciare, lontano, una nuova vita.
S’alza
in piedi, infine, con un vago senso di disgusto sul volto grave che
fatica
persino a nascondere. I suoi passi sono l’unico suono
artificiale che disturba
la quiete della foresta, mentre ascolta il canto dei grilli levarsi dai
campi
intorno al villaggio. Riprende il percorso principale, in silenzio,
senza
pensare a nulla in particolare – d’altronde, gli
è sempre piaciuto lasciar
vagare la mente, senza essere obbligato a focalizzarsi su qualcosa di
definito.
E lasciandosi trainare dal flusso incostante dei suoi pensieri, ma non
riuscendo a coglierne nemmeno uno, si accorge di come la nottata
trascorra con
la rapidità di un sospiro, e, prima ancora che se ne renda
conto, è già
iniziato un altro giorno, tra le coperte bianche come la neve di un
letto che
non è il suo, e tra le braccia di una donna che non
è lei.
Ascoltava
il rumore dei suoi passi infrangersi contro le luride pozzanghere dei
bassifondi, mentre il vento, quasi all’improvviso, gli
sferzava il viso sporco
e macchiato di sangue. Metteva un piede dopo l’altro,
incerto, cambiando spesso
direzione ed osservando la sagoma sbiadita delle sue orme che si
perdeva tra
gli schizzi di fango sollevati dalla pioggia. Si voltava spesso
indietro, lo
sguardo serio e denso di preoccupazione, cercando di individuare la
figura di
un possibile inseguitore tra la pioggia battente della tempesta di
Midgar. Gli
abiti zuppi lo rallentavano e lo rendevano impacciato, confuso,
incapace di
procedere con la sua solita andatura fiera e sicura: si infilava nei
vicoli più
bui dei bassifondi allagati senza davvero sapere dove stesse andando,
con il
solo obiettivo di allontanarsi il più possibile dalla
chiesa. Era caduto in una
trappola, aveva sbagliato ogni cosa, tutto era stato rovinato
dall’imprudenza
del suo gesto, e dal livore rabbioso che l’aveva fatto suo.
L’aveva
ferita. E nel momento stesso in cui aveva premuto il grilletto, il
vibrante
frastuono del colpo s’era amplificato attraverso le volte in
pietra e le guglie
dell’edificio diroccato, così come il suo senso di
colpa. Poi, appena pochi
secondi dopo lo sparo, l’aria era vibrata ancora una volta
quando le porte di
quercia della chiesa si erano spalancate dietro la spinta di alcuni
agenti
della ShinRa, pronti a recuperare Aerith e a scortarlo davanti al nuovo
presidente della compagnia.
“Sono
cambiate molte cose” aveva detto Rude con un tono di voce
grave, ma piuttosto
che seguirlo aveva preferito colpirlo e provare a fuggire.
Probabilmente,
finire davanti a Scarlet equivaleva a firmare volontariamente la
propria
condanna a morte, e non era ancora tempo.
Mentre
da lontano, sul piatto, s’udiva il sordo boato di una grande
esplosione,
s’infilo in un vicolo giusto in tempo perché una
squadra di fanti in
ricognizione non lo notasse nella penombra delle strade dei bassifondi.
Era lui
che stavano cercando? Erano questi i nuovi piani di Scarlet?
Probabilmente era
troppo rischioso per il momento tornare all’Edificio ShinRa.
Eppure,
nello stesso momento, mentre un fulmine si abbatteva su un reattore
scatenando
il fuoco sulla città, una nuova preoccupazione
s’era insinuata nella sua mente,
non richiesta ma allo stesso tempo indelebile tra i suoi pensieri; e se
dapprima ne aveva solo un vago e al tempo stesso terribile sospetto, la
squadra
di ricognizione mandata a prelevare lui e Aerith ne era una conferma:
la
compagnia voleva rispolverare la documentazione sperimentale sugli
antichi e
per farlo voleva utilizzare il corpo della ragazza.
Della
ragazza che adesso
–
realizzò, quasi per la prima volta – era
in mano loro.
Deglutì
profondamente, sospirando forte. L’immagine pacata e
controllata che aveva di
se stesso gli era scivolata addosso, in appena una notte, quasi portata
via
dalle spire di vento che avevano circondato Midgar: la calma che
l’aveva sempre
contraddistinto aveva lasciato il posto all’ansia e alla
preoccupazione per il
destino di Aerith alla ShinRa.
Doveva
fare qualcosa. Sospirò profondamente ancora una volta,
lasciando che la mente
razionale riprendesse nuovamente il dominio sul suo corpo. Mentre la
tranquillità ritrovata dei bassifondi veniva sconquassata da
un ulteriore
fulmine che recideva di netto la fornitura elettrica di un intero
quartiere, in
un boato luminoso e fiammeggiante, capì, negli occhi il
guizzo luminoso che era
il riflesso del lampo, che cosa doveva fare. Bisognava prenderla
adesso,
quand’era ancora possibile farlo, nel letto
d’infermeria in cui sarebbe stata
medicata, e fuggire. Insieme, entrambi, lontani da Midgar e dalla
ragnatela di
morte e distruzione che gli intrighi portano sempre con sé.
Bisognava stare
lontani da Scarlet.
Era
stato il fragore inconsueto della tempesta a ridestare i suoi sensi,
quasi
all’improvviso, quasi inaspettatamente, nella penombra scura
di una stanza che
non conosceva. Il pavimento era scuro, vermiglio, soffice al tatto dei
suoi
piedi nudi, inaspettatamente caldo.
Fuori,
il rumore della pioggia era scrosciante, continuo, inaspettatamente
clamoroso e
massiccio, e diverse gocce di pioggia si infrangevano a
velocità pulsante sulle
vetrate appannate della stanza, scivolando poi leggere sulle superficie
esterna
in un rivolo incerto d’acqua gelata. Il tepore della stanza e
il sordo scroscio
della pioggia battente lo cullavano e gli conciliavano il sonno, ma
c’era
qualcosa, nella fosca penombra di quella stanza che brillava alla luce
pulsante
della tempesta, che lo aveva svegliato e che lo rendeva inquieto,
ansioso ed
incapace di placare il proprio animo turbato. D’un tratto
avvertì una fitta
all’altezza dello sterno e provò di scatto
l’impulso di piegarsi in due dal
dolore, ma con sempre crescente inquietudine si rese conto di avere
entrambe le
mani legate al di sopra della testa, tenute insieme da una spessa
catena di
ferro che gli univa i polsi e che pendeva macabramente dal soffitto.
Provò a
dare uno strattone alla catena ma un’ulteriore fitta lo
costrinse a desistere,
piegando la sua volontà in una patetica smorfia di dolore e
in un sussurro – un
gemito, forse – appena udibile a causa dell’immane
fragore del vento che
scuoteva ritmicamente le vetrate.
Quasi
con timidezza, gli occhi di Michael si schiusero in uno sguardo
interrogativo e
saettarono con precisione ai lati opposti della stanza, cercando di
comprendere, in uno sguardo d’insieme, dove si trovasse.
Aveva il fiatone a
causa delle fitte che gli provenivano dal torace, ma continuava a
scuotere le
catene che aveva i polsi con forza e con una rabbia greve e continua
che lo
fomentava e lo incitava ad agire nonostante il dolore.
Poi,
d’un tratto, al suono della sua voce
il sangue gli si gelò nelle vene.
“Credevo
fossi abbastanza saggio per intuire quando una guerra è
persa fin dall’inizio.”
Lentamente,
i suoi occhi riconobbero la figura di Scarlet che emergeva dalla
penombra della
stanza, il sorriso tronfio e superbo marchiato sul volto. Un risolino
sofferto
gli attraversò il volto, mentre raccoglieva le forze per
rispondere a tono
all’insolenza della donna.
“Potrei
dire lo stesso della tua battaglia contro il tempo”
sussurrò, quasi in un
soffio, mentre il corpo veniva scosso da diversi brividi e la testa si
faceva
più pesante. Aveva la febbre…? Probabile.
“Sul serio, donna, riesci a capire
quand’è il momento di piantarla con i
lifting?”
Scarlet
non sembrò sorpresa dal suo sarcasmo: dopotutto, conosceva
Michael abbastanza
da sapere che non si sarebbe fermato facilmente, pur di ostacolare i
suoi
piani. O semplicemente, pur di ostacolare lei.
“Come
pensavo” sussurrò la donna in risposta,
guardandolo dimenarsi senza risultato
tra le catene. “Sai, non ho mai capito il motivo per cui ti
diverte tanto
metterti contro di me. Sapendo poi come ogni volta tu ne esca
irrimediabilmente
sconfitto!”
“Lo
dico da sempre che non sei particolarmente sveglia, ovvio che non
capisci le
cose.”
“Ma
davvero?” fece lei in risposta, socchiudendo gli occhi e
allargando il sorriso
perfido che le sfregiava il volto. “Riesci a spiegarti allora
come hai fatto a
cadere nella più insulsa delle trappole?”
“Semplice
galanteria. Mi hanno insegnato che bisogna sempre assecondare i
capricci di una
donna, specie se la natura non l’ha benedetta con molti
doni.”
“Non
la pianti mai di scherzare, non è vero?” fece lei,
mentre il sorriso scivolava
via dal suo volto come cera. “Cosa devo fare per far
sì che tu ammetta la tua
sconfitta?”
“Levarti
di torno non sarebbe male.”
“Hai
mai provato a prendere una donna sul serio?”
Michael
sorrise sornione. “Le donne certamente, gli ammalianti
transessuali che battono
nei bassifondi un po’ meno. Ti suggerirei di tornare da dove
sei venuta e di
abbassare un po’ i prezzi, magari qualche disperato ciccione
peloso riuscirà a
trovare il modo di trapanare quelle chiappone da vacca che ti
ritrov…”
Le
sue parole vennero ingoiate da uno schiaffo poderoso della donna,
livida di
rabbia e incapace di trattenere la sua apparente
tranquillità per ancora un
secondo di più. Per tutta risposta Michael, un rivolo di
sangue che gli colava
giù dalla bocca, le sputò con disprezzo sul viso,
facendola imprecare
sonoramente e scatenando ulteriormente la sua rabbia.
“Pff”
esclamò Michael contrariato, il volto impegnato a mascherare
il dolore che gli
attraversava tutto il corpo. “Finché non ti
libererai di quest’atteggiamento
sarà tutto inutile. Prova a picchiare ogni singolo uomo
della ShinRa perché non
obbedirà ad un tuo ordine! Sei soltanto una stupida se credi
di poter mandare
avanti così l’intera Midgar. E’
impossibile, sei troppo irrimediabilmente tonta
e tronfia per avere la meglio sugli avversari. Tutto questo
finirà presto, ti
suggerisco di goderti un po’ il calore che quella poltrona
può dare al tuo
sedere grasso e cellulitico. La gente non permetterà che tu
governi su questa
città!”
Michael
riprese fiato, sospirando, un mezzo sorriso sul volto che contrastava
con
l’espressione incredula che la donna aveva sul viso. Sapeva
che le sue parole
avevano sortito l’effetto in lei, e, nonostante avesse voglia
di urlare e di
sbattere la testa contro un muro, si costrinse a mantenere
l’apparenza
tranquilla e imperturbabile che lei – da sempre,
perché era da sempre che si
conoscevano – gli ricordava addosso.
Scarlet,
al contrario, era in preda alla rabbia, incapace di trattenersi, pronta
a farla
pagare a Michael Kreuger per le sue parole sfacciate e piene di
disprezzo. Fece
scivolare tra le mani uno stiletto sottile che teneva solitamente in
vita,
facendo ondeggiare una scintilla di luce, proveniente da una saetta
improvvisa
che aveva squarciato il cielo, sulla lama affilata.
“Scommetto
che riesci a capire quale sia il problema che abbiamo sempre avuto
entrambi,
Michael.” Gli occhi di Scarlet mandavano bagliori, mentre
rigirava la lama
sottile del pugnale tra le lunghe dita. Improvvisamente, con un
movimento
secco, Scarlet gli lacerò la carne e gli abiti,
procurandogli una profonda
ferita pulsante lungo il petto insozzato di rosso.
Michael
annaspò, colto di sorpresa, lasciandosi andare
all’improvviso e cedendo sulle
ginocchia. Sentiva il calore del sangue che gli colava giù,
oltre l’ombelico,
fino a insozzargli i pantaloni che si tingevano di nero. Il sorriso sul
volto
di Scarlet si allargava sempre di più.
“P-puttana
bastarda…”
“Ecco,
era esattamente di questo che parlavo. Non sceglieresti di salvare te
stesso
neppure se ti tagliassi le palle.”
“Che
c’è, te ne serve un paio per caso?”
Per
tutta risposta, Scarlet gli conficcò il pugnale nel ventre,
con forza, ridendo
sguaiatamente. “Pff, eccolo qui, Michael Kreuger in tutto il
suo splendore! Basta qualche
ferita per metterti fuori gioco?”
“Ggh…”
“Sai
credevo fossi più resistente, ragazzo.”
Michael
la guardò con disprezzo, sollevando a fatica la testa verso
di lei. Poi,
trattenendo il fiato, le sputò di nuovo in pieno volto,
sorridendo subdolamente
all’espressione contrariata della donna.
“Brutto…!”
“Ci
riesco ancora, Scarlet. Ci riuscivo dieci anni fa, e ci riesco ancora
oggi. Tu
sai di che cosa parlo.”
Scarlet
tremava dalla rabbia. Lentamente, si rigirò il coltello tra
le mani e fece
scivolare le mani lungo il corpo dell’uomo, soffermandosi sul
cavallo dei
pantaloni. Un sorriso malvagio le permeava il volto, mentre, lasciando
scivolare la lama sui pantaloni, lacerava profondamente e
irrimediabilmente la
carne sottostante, ed una macchia di sangue – sempre
più denso – si allargava lungo
il corpo seviziato di Michael.
Partendo
dal presupposto che Michael e Scarlet a mio parere si amano follemente,
devo
ammettere che mi sono divertito un mondo a scrivere la scena finale.
Questa
parte avrebbe dovuto essere nel prossimo capitolo, ma quello che avevo
scritto
mi sembrava troppo serio e vuoto, e chi mi conosce sa bene come io VIVA
per
inserire nelle mie fan fiction momenti trash o WTF a cavolo.
Così, for the
lulz. Perdonatemi o accettatemi così come sono, ma vi prego,
evitate di
compatirmi. X°°
Sì,
lo so, sono mortalmente in ritardo perfino per i miei standard. Dovevo
aggiornare il 28 Luglio ma tra una trasferta random al Giffoni Film
Festival e
la conseguente febbrona da cavallo durata 6 giorni ho perso un mucchio
di tempo
e mi sono ritrovato al 28 con solo metà capitolo e una
discreta propensione al
suicidio. Poi mi sono reso conto che via, non cadeva di certo il mondo
per
qualche giorno di ritardo (o per 9 giorni, ma who cares!), e che avrei
potuto
finire quando ne avevo voglia o semplicemente quando ero più
in forma, e così
ho fatto. Sebbene il risultato non mi convinca pienamente. Oltretutto,
dopo lo
scorso capitolo, tutto incentrato sulle vicende di Michael e Scarlet,
ho preferito
scrivere un capitolo più corale, concentrandomi su tutti i
protagonisti della
fan fiction, anche se ho deciso di approfondire maggiormente Tseng e il
suo
rapporto con Aerith e Zack: il flashback l’avevo scritto
diverso tempo fa, così
come altri flashback in cui compare Zack e che non ho ancora
utilizzato, ed ho
pensato di inserirlo in questo capitolo, che è
prevalentemente riflessivo, per
rendere più profondi i legami che intercorrono tra i vari
personaggi e per
spiegare in maniera marcata come gli ultimi avvenimenti li abbiano resi
diversi
da com’erano un tempo.
Comunque,
6 capitoli pubblicati, 6 ancora da scrivere prima della fine della fan
fiction.
Questo era un po’ un capitolo di raccordo tra la prima parte,
terminata con la
scalata al potere di Scarlet, e la seconda, leggermente più
caotica e in cui si
cercherà di far coincidere la trama della fic con
l’inizio di Final Fantasy
VII. Se mantengo questo ritmo di scrittura, quindi, la storia
finirà nel 2018.
CAVOLI, DEVO DARMI UNA MOSSA, avevo 14-15 anni quando l’ho
cominciata e adesso
ne ho 18 e mezzo, sono TROPPO lento. Ma tanto so già che
passerà un altro anno.
Pazienza.
Vabbé,
comunque, grazie a tutti coloro che hanno letto il capitolo scorso e in
particolare a coloro che hanno recensito, ovvero shining
leviathan, Lirith, the one winged angel e
Zackneifan. Spero nessuno di voi sia
morto di vecchiaia nell’attesa di questo capitolo.
X°°D
Ci
si sente presto, spero, con il settimo capitolo. Ciao!
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