Per una vita in più

di Ser Cipollotto
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap. I ***
Capitolo 2: *** Cap. II ***
Capitolo 3: *** Cap. III ***



Capitolo 1
*** Cap. I ***


La campanella del forno a microonde suonò e attirò la mia attenzione. Tenendo il segno con un dito, chiusi il libro che stavo leggendo, e recuperai la tazza di latte caldo all'interno dell'apparecchio. Finalmente pronto, mi avviai verso la camera, verso il mio letto, per dedicare interamente la mia attenzione a quel libro. Riuscii a fare giusto tre passi, prima che qualcuno cominciò a bussare insistentemente alla porta d'ingresso. Lanciai un'occhiata all'orologio: erano le dieci e un quarto. Spostai lo sguardo verso la finestra: erano le dieci e un quarto, di sera. Chi mai poteva essere? Non mi aspettavo visite e quello non era l'orario più adatto per riceverle a sorpresa.
«Ehi! Lo so che ci sei! E' troppo presto per addormentarsi perfino per te! Forza, aprimi!»
Alla voce familiare seguirono altri colpi alla porta, più pesanti dei precedenti. Appoggiai la tazza sul ripiano della cucina, cercai rapidamente un foglietto da usare come segnalibro e mi rassegnai ad eseguire gli ordini. O, altrimenti, sapevo che avrei dovuto rinunciare a quell'uscio. Di nuovo.
«Aspetta un attimo! Non buttarla giù come l'altra volta!» temporeggiai preoccupato.
«Aprimi allora!» gridò la voce in risposta.
Era perfettamente comprensibile perché la Signora Rossetti dell'appartamento di fronte non apprezzasse molto i miei amici. "Un caro ragazzo quello, sai? - l'aveva sentita dire al marito una volta - Ma sono preoccupata per le compagnie che frequenta". E come darle torto? Si presentavano sempre agli orari più impensabili, gridavano come se non ci fosse un domani e mi costringevano ad uscire di casa quando l'unica cosa che desideravo erano le coperte del mio letto. Non avevo idea del perché continuassi a frequentarli, ma dubitavo che fosse una cosa su cui io avevo voce in capitolo: era da quando ci eravamo conosciuti che mi si erano appiccicati addosso; non importava quanto mi lamentassi, il giorno dopo tornavano sempre, sorridenti e pronti a tirare giù a manate l'ingresso di casa mia. A volte chiedevo se un giorno mi avrebbero mai lasciato in pace e mi rispondevo sempre che, probabilmente, l'unico modo per potermi davvero liberare di loro era di disdire l'affitto, cambiare nome e scappare all'estero. Purtroppo, ero troppo pigro per essere sociofobico: a parte qualche ora di sonno persa in quelle inutili feste e gli sproloqui della Signora Rossetti sul problema della delinquenza giovanile, non erano amici poi così fastidiosi da avere attorno...
«Allora? Ti sbrighi, cazzo!» urlò la voce dall'esterno. Ok, domani mi sarei informato a quanto ammontava il costo della vita in Argentina.
Aprii la porta con un sospiro e mi trovai davanti al naso Michela Iorio, una ragazza dalla corta chioma di un biondo paglierino, bassa e in apparenza piuttosto gracile. A mio parere poteva essere considerata una bella ragazza, anche se quando non si allenava aveva la mania di imbrattarsi la faccia con così tanto trucco intorno agli occhi, che a me sembrava di avere a che fare più con Ramses II che con la Venere di Botticelli. Non che mi sarei mai sognato di dirle una cosa del genere: avendo visto più di una volta di cosa fosse capace durante le sue competizioni, ero certo di non voler testare la sua pazienza più del necessario. Per quanto minuta, sapeva come assestare un pugno quando voleva.
«Finalmente! Ma che stavi aspettando?» mi domandò, con il suo solito tono brusco.
Mi scostai di lato per permetterle di entrare e le risposi con una semplice scrollata di spalle. La vidi abbassare lo sguardo e squadrarmi da capo a piedi. Si focalizzò sui vestiti che portavo.
«Ti sei già messo il pigiama?»
Feci cenno di no con la testa, chiudendo la porta d'ingresso alle sue spalle. Per esperienza era meglio non ammettere che a quell'ora preferivo rintanarmi sotto le coperte per leggere.
«Tecnicamente sono ancora in pigiama. Non sono uscito di casa oggi e non mi aspettavo visite. Quindi perché disturbarsi?»
Osservai il suo sopracciglio alzarsi. La immaginai trattenersi a fatica dal commentare la mia pigrizia cronica.
«Non ha importanza: - disse invece - hai mezz'ora di tempo per farti una doccia e vestirti!»
Ci fu un istante di silenzio.
«Perché dovrei?» chiesi infine, senza premurarmi di nascondere il mio scetticismo.
«C'è una festa qui vicino! E tu sei stato invitato!»
Ero abbastanza certo che se davvero fosse successa una simile evenienza, o avrei rifiutato a prescindere o mi sarei ricordato di aver accettato con una pistola puntata alla tempia.
Notai il sorriso smagliante nel volto dell'amica e seppi con certezza che quella era la prima volta che sentivo parlare di una storia del genere.
«No, non è vero.» esclamai.
Michela sbuffò.
«Ok, in realtà è stato invitato Marco, ma all'ultimo ha risposto picche... sicché, ti puoi infilare tu a suo nome! E' praticamente la stessa cosa di essere invitati.»
Per qualche strana ragione, dubitavo che il suo fosse un ragionamento sensato.
«Marco chi?» chiesi, nel tentativo di guadagnare abbastanza tempo per inventarmi una scusa credibile.
«Marco Ponti. Non lo conosci.»
Quindi non solo mi dovevo imbucare ad una festa su invito, ma non conoscevo nemmeno chi mi toccava sostituire?
«Michela, a me non interessano questo genere di...»
«Lo so, - mi interruppe, implacabile - ma ci vieni lo stesso.»
«Domani devo svegliarmi presto e...» obiettai di nuovo.
«La prossima volta che usi questa scusa informati su che giorno sia: domani è domenica e non ci sono lezioni di domenica.»
«Ma...»
«Niente ma, sbrigati piuttosto a farti la doccia. - esclamò, accomodante come sempre - Il tempo scorre: ora hai solo 25 minuti per prepararti.»
Sapevo che, se non l'avessi accontentata, Michela non mi avrebbe mai lasciato in pace. Anzi, era più probabile che avrebbe trasferito la festa nel mio appartamento, pur di rompermi le scatole e ottenere ciò che voleva. Per lo meno, accompagnarla significava potersene andare via quando lei era troppo sbronza perché si accorgesse di dove svicolavo; al contrario, la mattina successiva, avrei dovuto gestire pure i postumi della sua sbornia.
Non la degnai nemmeno di una risposta. Mi limitai a dirigermi in bagno accompagnato appena da un grugnito e un paio di imprecazioni sommesse. Mi chiusi la porta del bagno alle spalle e aprii l'acqua della doccia, perché si scaldasse mentre mi toglievo i vestiti.
«Un giorno mi ringrazierai per i miei continui sforzi nel cercare di farti uscire dal tuo guscio!» la sentii gridare dal salotto.
Finsi che il rumore dell'acqua fosse troppo forte per sentire le sue parole e non le risposi. Aprii la bocca solo dopo qualche istante, per imprecare, quando mi ricordai di aver lasciato il mio latte fumante in balia di Michela.

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Capitolo 2
*** Cap. II ***


Il peggiore dei miei pensieri si avverò: dopo appena un quarto d'ora, ormai vestito e profumato, ero uscito dal bagno solo per scoprire che il mio latte caldo era scomparso. La colpevole era senza ombra di dubbio Michela che, accomodata sul divano com'era, pareva invece incapace di commettere una qualunque cattiveria nei miei confronti. Mi avvicinai alla tazza e sospirai. Altro che volto angelico: con un'indicibile faccia tosta, non solo si era scolata tutto il mio latte, ma aveva pure rimesso la tazza vuota esattamente doveva l'aveva trovata. Come se nulla fosse successo.
Non sarebbe stato troppo traumatico se il progetto fosse stato quello di rimanere a casa, leggere un libro o guardare cosa ci fosse in TV: non solo mi sarebbe toccato uscire al freddo e gelo senza niente di caldo nello stomaco, ma con l'azione tamponante del latte la mia aguzzina ci avrebbe messo il doppio del tempo a dimenticarsi di me grazie ai fumi dell'alcol. Traduzione: l'agonia quella sera sarebbe durata più del solito.
Michela alzò lo sguardo dal cellulare e iniziò a squadrarmi dal basso verso l'alto. Approvò i miei vestiti con appena un cenno del capo e, dopo un'ultima occhiata al telefono, si alzò in piedi.
«Sei pronto?»
Era palese che si aspettasse un "Sì" come risposta, altrimenti non si sarebbe mai proiettata verso l'ingresso, recuperando al volo il suo cappotto. La vidi abbassare la maniglia e spalancare la porta, senza farsi troppi problemi di come fossi messo davvero. Non dubitavo che avrebbe fatto la stessa cosa pure se fossi stato in mutande.
«Dammi solo un secon... ehi, Michela?» temporeggiai, mentre recuperavo la giacca da un appendiabiti vicino all'entrata e cercavo le chiavi di casa.
La seguii all'esterno e chiusi la porta d'ingresso a doppia mandata, nonostante una vocina in testa che mi consigliava di barricarmi in casa e di non rispondere più a nessuno. Inutile dire che, nei cinque secondi che mi servirono per fare il tutto e sopprimere la mia coscienza, Michela era già schizzata al piano di sotto. Quando la raggiunsi, era già fuori dal condominio, con una mano nella tasca del cappotto e l'altra che reggeva il cellulare.
«Non c'è segnale a casa tua.» si lamentò senza neanche guardarmi.
«Lo so, l'ho scelta apposta: mi offre un'ottima scusa per non rispondere ai vostri messaggi.» Riuscii ad attirare la sua attenzione, anche troppo: alzò lo sguardo e mi tirò una delle sue occhiatacce più truci. Senza altri indugi, si ficcò il cellulare in tasca e si avviò lungo la strada. Non disse null'altro. Si accontentò di sentire alle sue spalle il rumore dei miei passi, interrotti solo da sospiri che esprimevano tutta la mia tristezza. Più sconsolato che mai, mi apprestavo a seguirla, notando appena i suoi continui gesti affettati. Fu solo quando cominciò a fissare l'orologio al polso con un'insistenza tale che pure un cieco si sarebbe accorto della sua preoccupazione, che mi decisi a domandarle se c'era qualche problema.
«Che c'è?»
Non era possibile che fossimo in ritardo. Fare prima di così non era umanamente fattibile.
«Siamo in anticipo di dieci minuti. - mi lanciò una rapida occhiata - Mi aspettavo che ci mettessi almeno il doppio del tempo a prepararti...»
Era ovvio: normalmente disapprovava ogni mio outfit da festa (a quanto pareva, i miei vestiti casual erano in voga appena un paio di generazioni fa). Questa volta ero così svogliato che avevo indossato quello che Michela mi aveva fatto mettere nell'ultima occasione, così che non potesse avere nulla da ridire riguardo la scelta cromatica e dei vestiti.
«Appunto! Come mai sembri di fretta?» le chiesi.
Michela sbuffò prima di rispondere.
«Ho provato a chiamare Jack mentre aspettavo che ti preparassi, ma ora che siamo finalmente tornati nella civiltà non mi risponde più.»
Jack, alias Giacomo Novak, era il ragazzo di Michela. Anche lui si considerava nel mio gruppo di amicizie ed era uno dei tanti che la Signora Rossetti dell'interno 2B disapprovava e descriveva al marito come un "giovane delinquentello".
«Non ti preoccupare, sarà in moto. - cercai di rassicurarla - Vedrai che ti chiama non appena arriva.»
«Se lo dici tu...» borbottò, per nulla convinta. Non cercai di forzare ulteriormente la conversazione, non sembrava che Michela necessitasse altre inutili consolazioni. O per lo meno, non dei miei patetici tentavi.
L'ambiente intorno a noi cominciò ben presto a cambiare: dal quartiere prettamente residenziale dove abitavo, ci stavamo per addentrare nelle prime vie del centro storico. Dopo appena una decina di minuti da quando eravamo usciti da casa mia, un vocio non troppo distante annunciò che eravamo quasi a destinazione. Svoltammo l'angolo e ci ritrovammo circondati da persone raccolte in diversi gruppetti, alcuni seduti a dei tavolini davanti al bar lì vicino, altri già pigiati all'entrata della discoteca che tanto odiavo: il "Platinum". Piccolo per gli spazi limitati che il centro offriva e sempre affollatissimo di gente, anche quando la festa era solo su invito; musica strappa-timpani che non favoriva esattamente la conversazione e alcolici annacquati serviti in miseri bicchieri di plastica. L'unica salvezza di questo posto era la striminzita area fumatori: una stanzetta a lato della sala principale in cui la musica era attutita e i quattro divanetti sparsi erano relativamente comodi. Ovviamente io non fumavo, ma con tutto il fumo passivo che mi sorbivo ogni volta che mi trascinavano in queste situazioni, non c'era da sorprendersi se presto sarei diventato dipendente dai derivati della nicotina.
Stavo per chiedere a Michela che cosa mi sarei dovuto aspettare da questo evento, quando il suo cellulare squillò.
«Scusa...» borbottò nella mia direzione, prima di allontanarsi di qualche passo.
Rispose e il suo viso si illuminò.
«Oh, finalmente! Ma che fine avevi fatto?»
Anche se non lo aveva chiamato per nome, dalla sua reazione era fin troppo chiaro con chi stesse parlando.
«Come...? Cosa hai detto? Eri in moto?» continuò.
Quando ero io a dirlo non andava mai bene. Sospirai e mi appoggiai contro il muro dell'edificio accanto. Qualcuno dal bar vicino cominciò ad urlare "Dottore, dottore..." e molti si aggiunsero per completare la canzoncina.
«Aspe' Jack, non riesco a capire una mazza. - Michela portò la mano libera all'altro orecchio - Jack, non-ti-sento! Aspetta un secondo che provo ad allontanarmi da 'sto casino!»
Staccò la bocca dal ricevitore e mi si avvicinò.
«Ti spiace? Torno subito.» mi domandò frettolosamente.
Le risposi con una semplice scrollata di spalle e lei si congedò con un cenno del capo. Dopo poco, però, tornò sui suoi passi.
«E non azzardarti a scappare.» mi ordinò.
Era questa la fiducia che mi meritavo? Mi limitai ad annuire, impedendo al mio orgoglio ferito di ribattere una qualche acidità nei suoi confronti. Dopo tutto, quell'indifferenza non era poi così immeritata: se non lo avesse specificato, me ne sarei andato quasi certamente. In silenzio la osservai percorrere a ritroso il percorso dell'andata, con passi rapidi ma decisi. Quando scomparve dietro l'angolo di una casa, alzai lo sguardo improvvisamente annoiato a morte.
«Nome?» sentii poco più in là.
La voce era troppo flebile per essere qualcuno che si rivolgeva a me. Abbassai lo sguardo e cominciai ad osservare distrattamente l'ingresso del Platinum. Una donna dai corti capelli castani si era avvicina al buttafuori.
«Sabina de Giorgi.» rispose quella.
Il buttafuori scorse rapidamente i fogli che aveva in mano, tenendo il segno con la punta di una penna. Ciò che disse che venne coperto da una fragorosa risata poco distante, ma non serviva averlo sentito per intuire che non avesse trovato il nome della ragazza. Ci fu un secondo scambio di battute e controllò un altro paio di volte, ma concluse con un secondo cenno di diniego.
«Oh beh, che peccato!» esclamò la ragazza.
La sua espressione, tutt'altro che dispiaciuta, me la rese subito simpatica. Non avevo idea di chi fosse, ma non mi dispiaceva l'idea che nei dintorni ci fosse qualcun'altro che, come me, non apprezzava troppo quell'ambiente. La ragazza accennò ad allontanarsi, ma venne ben presto intercettata da una sua amica, che la prese a braccetto impedendole la fuga.
«Ma che è successo? Perché non sei entrata?» sentii dire dall'altra.
Anche se parlavano più piano, il loro tono non era comunque così basso da non riuscire a comprenderle.
«Non c'è il mio nome sulla lista. Perché devo rimanere qui se non posso entrare?»
«Ma, Sabi, sei scema? Ti ho detto di dirgli che sei la Giulia, non c'è mica il tuo nome sulla lista...»
La ragazza sbuffò infastidita.
«Non ha un cazzo di senso...» esclamò quindi.
«Ancora? Oh, ma te l'ho già spiegato prima!»
«E continua a sembrarmi una cazzata! Se mi volevano tra i piedi, avrebbero scritto il mio nome fin dall'inizio!»
Il tutto avveniva ovviamente davanti al povero buttafuori che, non sapendo come reagire alla palese infrazione, alzò gli occhi al cielo vagamente perplesso. Si schiarì la voce per attirare la loro attenzione.
«Il vostro nome?» chiese, aggrottando la fronte.
Sabina accennò a parlare ma viene presto zittita da un'occhiataccia dell'amica. Decisamente, oltre ad essere due animi affini in un ambiente ostile, eravamo tormentati perfino dallo stesso genere di bulli. La risposta dell'altra si perse nella confusione generale e il buttafuori tornò a guardare la lista.
«Cristo... mi devo spacciare proprio per quella Giulia? - disse la ragazza, mentre il buttafuori le lasciava passare vagamente imbarazzato - Quella tizia mi sta pure in cu...»
La conclusione della frase si perse nella confusione che uscì dal locale quando aprirono la porta.
Alzai di nuovo lo sguardo verso l'alto, appoggiando la testa contro il muro del palazzo dietro la mia schiena. Senza né una via di fuga, né un altro piccolo svago, mi sentii improvvisamente e profondamente annoiato. Tastai le tasche del giubbotto e... fantastico: nella fretta avevo pure dimenticato il cellulare a casa. Quella serata si preannunciava grandiosa!

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Capitolo 3
*** Cap. III ***


Passarono ben cinque minuti prima che qualcuno si ricordasse della mia esistenza. Forse non era l'eternità con cui l'avevo paragonata nel frattempo, ma fu comunque un'attesa abbastanza lunga perché mi rassegnassi all'idea di morire congelato in quel posto. Non successe nulla di così drastico: Michela tornò, insieme ad un ragazzo alto il doppio di lei, dai tratti spigolosi ma decisi, un casco in mano e una giaccia di pelle nera aperta nonostante il gelo della notte. Anche se avesse avuto il casco indosso, mi sarebbe bastata l'espressione ebete di Michela per riconoscerlo.
Jack era arrivato.
Li osservai da lontano, mentre percorrevano la stessa strada che poco prima aveva condotto me e Michela nella piazzetta davanti al Platinum. Jack si abbassò in modo che lei potesse sussurrargli qualcosa all'orecchio e si rialzò dopo qualche istante con una strana espressione divertita dipinta in viso. Lo osservai guardarsi attorno finché i nostri sguardi si incontrarono e, con un certo disappunto, notai il suo sorriso approfondirsi. Qualcosa nell'aria mi diceva che ero io il soggetto della loro conversazione.
Portai gli occhi al cielo con una studiata teatralità e sospirai sonoramente, in modo che entrambi capissero la mia esasperazione. Non sortì alcun effetto: i due ignorarono i miei gesti e si avvicinarono, come se niente fosse. Mi staccai pigramente dal muro su cui mi ero ancorato e Jack fece un cenno con la mano libera, a mo' di saluto.
«Jack, finalmente sei arrivato!» ricambiai.
Jack era un altro membro del mio ristretto gruppo di amici e una delle poche persone oltre a Michela che mi spingeva in quelle indecenti situazioni. Dovevo ammettere, però, che in questo caso specifico ero infinitamente più contento di vedere lui, piuttosto che Michela. Non che facessi spesso differenze tra i miei amici (erano tutti altrettanto fastidiosi), ma anche se non lo si poteva considerare il più responsabile del gruppo, era quantomeno uno di quelli meno irresponsabili: la sua presenza significava che non avrei dovuto preoccuparmi delle sorti di Michela. O meglio, non avrei dovuto temere per i poveretti che avrebbero incrociato la sua strada: una Michela ubriaca, esitava spesso in una Michela problematica.
«Ti sono mancato così tanto?» mi chiese Jack, passando il casco da una mano all'altra.
Nonostante i suoi tratti somatici e il nome che lo facevano associare ad un Paese dell'Est Europa, Jack era nato e cresciuto in Italia. Il suo accento era perfetto e non celava alcuna inflessione, se non forse qualche dialettalismo locale che di tanto in tanto scappava al suo controllo.
«Io? - risposi - No, è Michela quella che stava avendo un attacco di panico finché non l'hai richiam... ahi!»
Portai la mano destra sull'altro braccio, così da massaggiare il punto in cui Michela mi aveva malamente tirato un pugno.
«Non è vero.» si limitò a dire lei, come se quella fosse una spiegazione sufficiente per giustificare il perché delle sue azioni.
Le labbra di Jack si piegarono all'insù, in una sorta di sorriso naturale ma trattenuto a forza. Era palese che volesse scoppiare a ridere in maniera più conclamata, ma che si stesse dando un contegno per evitare che Michela gli riservasse il mio stesso trattamento. Non che fosse molto bravo a nascondere la sua ilarità.
«Come mai siete arrivati così presto? - ridacchiò lui - Mickey, quando c'è lui non arrivate sempre con almeno tre ore di ritardo?»
Michela mi liquidò con un'occhiataccia. Distolse poi lo sguardo e scrollò le spalle con un cenno di stizza.
«Forse sta migliorando.» ammise infine.
Jack aggrottò la fronte e si voltò verso di me con sguardo perplesso. Sospirai prima di rispondere a mia volta.
«No, non è vero... - sussurrai, avvicinando una mano davanti la bocca e protendendomi verso di lui - è solo che mi sono rassegnato al volere della tiranna.»
Con la coda dell'occhio, notai Michela incrociare le braccia al petto. Mi aveva chiaramente sentito. Non avevo fatto grandi sforzi per impedirglielo.
«Avete finito di fare i cretini?» ci chiese. Mi chiese.
Non ci lasciò altre alternative che annuire mestamente nella sua direzione.
«Bene.» commentò lei, appagata dalla nostra condiscendenza.
Michela prese l'iniziativa: avanzò di un passo prendendo Jack per mano, così da poterlo spintonare verso l'entrata del locale. Li seguii tristemente sul fondo della coda per aspettare il mio turno, con la stessa espressione di un condannato a morte che aspettava di essere appeso alla forca. Nel vedere che i due amici si erano voltati dall'altra parte, valutai l’idea di scappare il più lontano possibile approfittando della loro distrazione. Forse, con un giusto vantaggio, sarei riuscito a far perdere le mie tracce.
«A proposito, - mi chiese Jack - com'è che ti chiami oggi?»
Alzai lo sguardo, temendo di sapere ciò che avrei trovato: il grosso testone di Jack rivolto nella mia direzione. L'operazione "Fuga" era miseramente fallita ancora prima di cominciare. Mi schiarii la voce per cercare di sopprimere l'imprecazione mentale che sorse spontanea nella mia testa.
«Un certo Marco Pozzi... è possibile?» tentai.
«Marco Ponti.» mi corresse sbrigativamente Michela, lanciando una rapida occhiata nella mia direzione.
Beh, quasi. Con tutte le identità che mi avevano costretto ad interpretare nel corso del tempo, era già tanto che non avessi sviluppato dei problemi di personalità multipla.
«Davvero Marco non può venire?» chiese Jack rizzandosi sull'attenti. Anche lui conosceva questo fantomatico Marco?
«Aveva degli impegni fuori città e mi ha scritto che un imprevisto lo ha costretto a ritardare il viaggio di ritorno a domani.»
«Oh, capisco.»
Seguirono tre secondi di silenzio. O meglio, la conversazione si interruppe e non potei fare altro che focalizzarmi sulla confusione che animava la piazzetta attorno a noi, sul vocio che proveniva dal bar lì accanto, sulla musica che sfuggiva dalla porta della discoteca. Altri tre secondi in cui non sapevo che fare. Tre secondi di pura Noia.
Finalmente, Michela si voltò verso di me.
«Mi raccomando, Marco, tocca a noi.» mi sussurrò.
Calcò un'attenzione particolare alla parola "Marco", tant'è che ci aggiunse un indice all'insù e uno sguardo arcigno. Peccato che non ne capii il significato: intendeva che non dovevo dimenticare nuovamente la mia falsa identità o che non mi conveniva svignarmela senza alcun ritegno? Conoscendola, significava probabilmente entrambe.
Il buttafuori terminò di parlare con un ragazzo basso e brufoloso, e alzò lo sguardo verso Michela. I due scambiarono quattro chiacchiere, finché il buttafuori si scostò di lato per farla passare. Pure Jack non ebbe alcun problema, anche se fu costretto a ripetere il suo cognome almeno un paio di volte prima che il suo nominativo fosse trovato. Insieme si avviarono verso l'ingresso.
Era il mio turno, dunque. Se avessi voluto scappare, questa era l'ultima occasione per farlo.
Michela notò subito la mia indecisione e socchiuse gli occhi mentre si faceva timbrare il dorso della mano. Mio malgrado, mi ritrovai a fare un passo in avanti.
«Nome?» mi chiese il buttafuori, leggermente spazientito da tutti quei millesimi di secondo che gli stavo facendo perdere.
«Marco Pozzi.» risposi.
Girò un paio di fogli e cercò il "mio" nome, aiutandosi con la punta della penna per non perdere il segno. Lo vidi scorrere su e giù un paio di volte per concludere infine con un cenno negativo.
«Mi spiace, nessun Pozzi nella lista.» confermò.
Non... non c'era? Michela non era così sadica da farmi uscire di casa solo per trovare la strada sbarrata, giusto?
«In che senso nessuno? - borbottai senza troppo entusiasmo - Non può controllare meglio?»
Il buttafuori si limitò ad un cenno negativo e passò a quelli in fila dopo di me. Michela e Jack tornarono sui loro passi, probabilmente per controllare che non fossi davvero fuggito, piuttosto che accertarsi se mi fosse successo qualcosa. Per una volta cercai di giocare d'anticipo: invece che aspettare la solita occhiataccia dell'amica, provai a chiedere il suo aiuto.
«Michela, - le gridai - come hai detto che mi chiamavo?»
La tattica non funzionò: Michela portò una mano alla fronte e mi riservò uno dei suoi sguardi più eloquenti. Come se non bastasse, se ne aggiunse un secondo di sguardo accigliato, proveniente dal buttafuori.
«Ma sei scemo? Quanto può essere difficile ricordare un nome per più di cinque secondi? - mi chiese Michela, prima di rivolgersi direttamente al buttafuori - Quest'imbecille si chiama Marco Ponti. Ponti!»
Il buttafuori alternò due rapide occhiate tra me e Michela, per poi sospirare sonoramente.
«E sì che siamo solo ad inizio serata...» borbottò, mentre scorreva di nuovo l'elenco dei nomi.
Se si stesse lamentando del fatto che fosse già il secondo ad entrare con un nome palesemente altrui o se mi stesse dando dell'ubriaco, io non ne avevo proprio idea. In ogni caso aveva ragione: da qui in avanti poteva solo andare peggio.
Il buttafuori fece un rapido cenno del capo.
«Va bene, puoi entrare. E buona serata.» mi augurò.
Stavo per rivolgergli un "Altrettanto", ma si era già voltato verso le altre persone della fila.

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