Perfectly Blue.

di amirarcieri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il frutto del mare perduto: è solo una leggenda? ***
Capitolo 2: *** Il racconto del frutto del mare perduto. ***
Capitolo 3: *** Anonima anima straziata. ***
Capitolo 4: *** Mio caro amico – fratello ***
Capitolo 5: *** La verità sul frutto Chiostro Chiostro finalmente svelata ***



Capitolo 1
*** Il frutto del mare perduto: è solo una leggenda? ***


PERFECTLY BLUE

 

Capitolo Uno

 

Il frutto del mare perduto: è solo una leggenda?

 

 

Era una giornata di caldo estivo al massimo dei suoi picchi.
L'afa era così pesante da risucchiarti tutte le energie mentali e fisiche, privandoti così di ogni iniziativa di svago.
Ma, volente o non, un essere umano per rimettersi in forze abbisognava di una scorta abbondante di viveri e per rifornirsi di viveri doveva servirsi di una dose plausibile di soldi che avrebbe guadagnato solo lavorando.
Che questo sia stato con dura onestà o malleabile disonestà.
Ci trovavamo in un’isola situata verso la rotta del nuovo mondo – ma dalla distanza comunque stimabile e non precisa – che prendeva il nome di Fourteenth Mark per via della sua inconsueta forma geografica.
L’isola, effettivamente si divideva in quattro parti analoghe e discordanti che viste dall'alto ricordavano le cuciture vecchie di un vestito tenuto insieme da diversi colori di stoffa: c’era il quartiere dei ricchi, quello dei benestanti, gli abusivi e per ultimi i poveri.
Molti viaggiatori o nativi che venivano istruiti alla storia di questa antica isola tra tante, si ponevano l’automatica domanda “Ma perché se si divide in quattro parti allora si chiama Fourteenth Mark?”.
E ognuno aveva avuto la sua risposta esaustiva rimanendo conquistato dal significato profondo che quell'isola portava con fierezza da generazioni.
Ma non era solo quello a renderla una meta statica dei ricercatori intelligentemente curiosi o pirati. Neanche il fatto che a ormeggiare nella sua costa fosse stato il famigerato re dei pirati Gol D. Roger.
Dopotutto quale territorio remoto e irraggiungibile non avevano calpestato le sue suole?
A fare spopolare il suo nome nel tratto conducente al nuovo mondo era la sua attività florida di turismo fatta di lussuosi o confortevoli alberghi, ristoranti e le leggende intorno alle quali prendevano forma i suoi reperti di storia antica.
Uno degli alberghi - ristorante situato nella zona benestante, veniva gestito da una deliziosa famigliola composta da madre, padre, due figlie femmine, e, due gattini randagi adottati segretamente da queste ultime.
Simultaneamente alla vita ordinaria di questa famiglia, in quest’isola erano appena sbarcati i Pirati di Picche, il quale capitano era il singolare e temutissimo Portgas D. Ace.
La ciurma aveva approdato li guidata dalle precise coordinate del Log Pose di quest’ultimo, approfittandone anche per rifornirsi delle scorte di cibo e “acqua” che cominciavano a scarseggiare.
Come al solito, al momento dell’esplorazione, non si sa come, avevano perso di vista il loro capitano che se l’era filata via per conto suo, ma ormai abituati a questa circostanza, avevano curiosato per l’isola in cerca di un albergo – ristorante nella zona benestante, con la speranza, magari, di ritrovarlo addormentato a qualche tavolo.
Il caso volle che scelsero proprio quello citato precedentemente: il “Deep Blue”.
L’ambiente era intinto di un blu oceano brillante e circondato da un’atmosfera oniricamente calma da far sembrare ai clienti di essere appena entrati dentro un acquario.
La cosa stupefacente era che il locale lo era davvero.
Tetto, pavimento e pareti interne complessive erano fatte in cristallo purissimo e dentro ci sguazzavano le tipologie di pesci più sorprendenti.
La sala era ampia e ariosa con colonne verde mare sparpagliate per gli angoli in forte contrasto con il meticoloso ordine dei tavoli rotondi: ognuno aveva un’equa distanza dall'altro e finiva con una pinna di sirena argentata, le posate erano anch'esse di argento e la musica in sottofondo si sposava perfettamente al resto dell’albergo con una sonata di mareggiata rilassante.
Non c’erano cameriere e le ordinazioni venivano prese dai due proprietari.
Quando i Pirati di Picche presero posto nei vari tavoli – ogni tavolo disponeva di quattro sedie a circolo quindi essendo loro in diciotto ne occuparono cinque e mezzo – si prepararono a gustare la buona cucina del posto.
Durante la degustazione, realizzarono che il locale fosse un posto dai sapori e sensazioni oceaniche, adatto a chi passava gran parte della sua vita in mare.
La ciurma certamente incassò decine di sguardi diffidenti alternati a quelli impauriti, sintomo che fossero stati inequivocabilmente riconosciuti – la fama e le taglie appartenenti avevano cominciato a farsi scottanti e onerose sulle loro teste - o le persone stavano semplicemente tenendo il conto di quanti minuti ci avessero messo per fare scoppiare un putiferio.
Però alla fine si goderono allegramente il pasto, parlando e bevendo come se si trovassero in totale agio sulla propria nave.
Questo almeno fino a quando ad entrare dalla porta con un gran chiasso, non fu un tenente della marina scortato da altri quattro omuncoli armati di fucile fasciato sulle spalle.
«Buongiorno Carmen» disse indirizzandosi direttamente al bancone dove marito e moglie - i proprietari - osservavano la scena con occhi granati dal terrore.
Il tenente della marina aveva il mento malformato e una macchia di peluria verde erba che pareva masticata, sputata e incollata con la saliva di una pecora, il naso aquilino, gli occhi neri e serpenteschi, mentre i capelli dello stesso colore del pizzetto, schizzavano fuori da un assurdo capello bianco a coppola come spigoli pungenti.
Ma quello che molto più del suo aspetto e la frusta arrotolata al fianco sinistro riusciva a renderlo tragicamente spaventoso, era quell'immacolata divisa tenuta a lucido, dissimulante di un animo fangoso e marcio più dei vestiti di un vagabondo raggomitolato sotto un ponte della zona dei poveri.
«Meno confidenza quando parli con mia moglie» antepose il marito districando un braccio davanti a questa come una sbarra di divieto. I due sposi potevano avere una cinquantina d’anni ciascuno. Il marito era di media altezza, con i capelli tendenti all'ardesia, il baffone che seguiva la morbida curva del labbro superiore, e lo sguardo infuriato si, ma era evidente quanto fosse stato snaturato dalla presenza dell’ufficiale della marina, perché solitamente manteneva una luce riccamente genuina.
La moglie era bassina, ma ben formata, portava un taglio carrè mosso del colore del manto della pantera e aveva due grandi occhi elaborati dall'essenza di tre sfumature differenti quali l’azzurro, il verde e marrone.
«Perché ti dispiace che sia così intimo con lei?» li infastidì ulteriormente il tenente. Carmen abbassò il capo e lo scosse come a voler scacciare via un rumore fastidioso e ricorrente.
«Cosa vuoi, sto lavorando» disse poi.
«Lo vedo. Ciò che non vedo è tua figlia. Ero venuto per salutarla, puoi chiamarla?»
«Non, c’è» scandì questa a denti stretti.
«Davvero? E dov'è andata con precisione?» insistette l’altro. Carmen lo affrontò in maniera ardita, imprimendosi un’espressione salda sul volto.
«Non siamo così sciocchi, non ti diremo dov'è così andrai dritto da lei per tormentarla e fargli chissà cos'altro»
«Oh, beh, ma se è uscita, tornerà. Posso aspettarla qui, se ordino qualcosa» li istigò ancora il tenente poggiando un braccio sul bancone come a imporsi a cliente coattivo del locale.
Quel suo atteggiamento arrogante fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Il marito venne fuori dal bancone e lo fronteggiò con uno sguardo disarmatamente inesorabile.
Chi era di passaggio o recente di frequentazione – ad esempio i Pirati di Picche – avrebbe ipotizzato ad un drastico attacco di violenza, invece il pugno arrivò micidiale comunque, ma sotto forma di impressive parole.
«Te lo dirò nuovamente come ho fatto ieri, il giorno prima e farò domani: lascia in pace nostra figlia. Lei non c’entra niente con quello che pensi e a maggior ragione non sa niente di tutta questa storia in cui l’hai invischiata» quello scambio di parole stuzzicò l’udito dei pirati di Picche che da lì in avanti, seguirono con una misurata attenzione, ma un totale coinvolgimento il seguito della conversazione.
«State esagerando con i vostri doppi giochi e umiliazioni, se andate avanti così ci lascerà le penne. Lei non ha fatto niente» aggiunse la moglie spremendo lo strofinaccio tra le mani.
Ma le loro suppliche battagliere non servirono a far recedere la boria malvagia di cui il tenente era padrone, anzi lo incentivarono ad accanirsi ancora più illecitamente con l’intera famiglia.
«Bellissima dimostrazione di amore materno e paterno, ma è ora di smetterla. Abbiamo un testimone oculare che l’ha vista fare quello di cui viene incolpata. Quella notte era li ed era lei. Quindi ogni vostro inutile tentativo di farla apparire debole e innocente non funzionerà. Sappiamo che è un mostro e dovrà pagare per aver trasgredito la legge suprema dell’isola» la sua crudeltà meschina fece mordere il labbro e stringere i pugni alla moglie, e il padre, ormai arrivato al limite della sopportazione, stavolta lo afferrò rabbiosamente per i baveri della divisa, pronto a colpirlo fino allo sfinimento.
Ma, a spezzare quell'atmosfera pericolosamente funesta, fu il suono di un lumacofono portatile.
Il tenente rise malignamente, mentre con lentezza, estraeva dal taschino interno della divisa bianca il lumacofono trillante.
«Si?» domandò all'altro capo del telefono senza staccare gli occhi dalla coppia sull'orlo della disperazione. Immaginava già a cosa fosse dovuta quella chiamata e al solo pensiero le sue labbra assunsero dei lineamenti forsennatamente serpentini.
«Tenente, abbiamo trovato la ragazza. È con la sorellina a fare acquisti in una libreria. Restiamo in attesa dei vostri ordini» rapportò un marine dall’altra parte della cornetta facendo muovere in simultanea il lumacofono.
Il tenente ghignò talmente crudelmente da fare avere la tremarella ai clienti meno indifferenti e più paurosi.
«E’ perfetto. Per adesso tenetela d’occhio fino al mio arrivo. Oggi sono particolarmente ispirato. Voglio divertirmi più del dovuto con lei»
Dopo quello breve scambio di informazioni, il tenente, soddisfatto, riposò il lumacofono nella tasca interna e batté in ritirata.
«E’ stato un piacere parlare con voi. Ma ora non mi servite più» li salutò sventolando la mano del braccio sollevato.
Distrutti e impotenti davanti a quella svolta, marito e moglie si supportarono con lo sguardo senza aggiungere altra lettera.
I Pirati di Picche pagarono il conto e lasciarono il locale con il più sconfinato e tumultante groviglio di domande: che cosa aveva fatto la figlia dei proprietari dell'albergo – ristorante per essere braccata in quel modo dalla Marina? Perché l’avevano definita un mostro e qual’era la legge suprema che aveva trasgredito?
Trovarono tutto molto strano e misterioso, ma si dissero che per adesso esisteva solo una priorità: ritrovare il loro capitano.

 

 

 

 

 

Due ore scorrevano regolarmente complici, e il nostro Ace – il capitano dei Pirati di Picche – se l’era appena data a gambe dopo aver mandato in bestia l’ennesimo proprietario di ristorante e quindi aver scroccato la milionesima ordinazione.
Però, era riuscito a cavarsela, disperdendosi tra la folla di persone con la maestria che solo un pirata provetto aveva, per ritrovandosi così nella parte culturale della zona benestante.
Li tutti i locali, ristoranti, alberghi e negozi si dissipavano per lasciare posto solo ai libri e la loro saggezza.
A riempire l’angolo di profumo antico e storia ci pensavano la varietà di genere e utilità di tutti questi.
Si potevano scovare romanzi di tutte le epoche, guide turistiche, minerali rari, ori liturgici, documenti di eventi passati o gazzette, e perfino la decrittazione delle varie lingue antiche.
Dopo aver svoltato tre o quattro vie, Ace si ritrovò immerso dentro la piazza principale: al suo centro esatto si trovava un'impressionante fontana la cui sommità rappresentava la forma immaginaria del grande re dei mari Poseidone.
Beh, che capitombolasse addormentato – testa cascante sul petto totalmente coperta dal cappello, mani e braccia distese sciattamente sulle gambe - a causa della sua improvvisa narcolessia, era scontato, pure che il resto della sua ciurma lo ritrovasse in quelle condizioni, ma che questi fossero invischiati per un puro e assurdo caso in un duello fragoroso, beh, forse quello anche. Ma stavolta il loro capitano non aveva colpe.
La combriccola di scavezzacollo e simpatici pirati non ebbe neanche il tempo di colloquiare, che dovette immediatamente scansare una mina vagante che andò ad abbattersi violentemente addosso al muro.
«Ma chi?» pronunciò seriamente irritato Ace, tenendosi il cappello ben fermo durante il tempo dell’acrobazia in cielo.
Ma non appena fu atterrato sul suolo e vide chi era stato scaraventato al muro ormai in pezzi, chi lo stava soccorrendo e il tiranno che l’aveva maltrattata con un metodo viscidamente aguzzo, la sua rabbia scemò di colpo, tramutandosi in un’ira manovrata da un’irrefrenabile senso di giustizia.
Ai piedi del muro e sommersa dai frammenti dei suoi cumuli, invero, era visibile il corpo malridotto di una ragazza sui diciannove anni massimo.
 I ricci neri si sparpagliavano disordinatamente sulle spalle, aveva un’incisione profonda che partiva dall'angolo della mascella a quello della palpebra e le braccia e gambe spoglie e pallide erano cosparse di ferite rosso acceso.
La sorellina di nove anni gli era volata accanto per scuoterla e assicurarsi che non perdesse i sensi, mentre il tenente tiranno dei marine avanzava pericolosamente verso di loro sotto il sole cocente e accecante delle due del pomeriggio. 
C'erano solo tre uomini dei dieci di scorta che possedeva e se ne stavano a pochi centimetri di distanza dal loro superiore con i fucili abbassati, ma scrupolosamente carichi. 
In generale la gente tendeva a farsi i fatti propri per non essere impicciata in qualche richiesta di testimonianza o dimostrazione di fedeltà al sindaco dell’isola, però molti altri non poterono trattenere la curiosità e si appostarono al limite della strada nella mera speranza di non essere notati.
Nel vedere quella scena, Ace, capì subito che stava accadendo qualcosa di maledettamente sbagliato e oltre questo, che non poteva sopportare di vedere certe ingiustizie che gli facevano infuocare, in ben che non si dica, la testa.
Il tenente, nel frattempo, senza avere nessun riguardo per le condizioni disumane in cui aveva conciato la ragazza, si accovacciò a terra, la afferrò per il collo e perseguì a torturarla con delle altre sevizie.
«Avanti, esci fuori i tuoi poteri. Mostrami la vera identità che il frutto del mare ti ha conferito»
«N – no – non so, d- di cosa p- parli» biascicò questa provando dolore anche a muovere la lingua.
«I – io non ho nessun potere. S -sono solo una normale umana. No - non so di cosa parli»
«Smettila di prendermi per il culo. La mia pazienza ha un limite. Quindi parla» la intimò tirandola brutalmente per il tessuto strappato della maglietta grigia. Ogni osso e muscolo della ragazza bruciò al punto da farla lamentare.
«Ma io non ho nessun potere. No - non so cosa volete da me»
«Se non hai il potere, almeno sai dove si trova il frutto del mare leggendario dell'isola. Dimmi dov'è»
«N- non lo so. Io non lo so»
«Basta lasciala stare» si intromise la sorellina di nove anni dando un calcio nello stinco del tenente.
«E’ la verità lei non ha nessun potere. Lei non è quello che credete. Non ha quello che cercate. E non sa dove si trova. Lasciatela in pace vi prego» supplicò la bambina in preda alle lacrime. Ai pirati di Picche si accese forse una lampadina perché avevano sentito delle simili parole qualche ora fa.
Dunque era lei la figlia dei proprietari dell’albergo – ristorante che il tenente cercava?
«Oh quindi mi stai dicendo, che questa signorina qui, tua sorella, non è un mostro?» chiese con gli occhi neri invasi dalla malvagità.
«No, ad esserlo forse sei tu. Brutto cattivo» la bambina gli rispose a tono aggiungendogli anche tanto di altri pugni e calci sulla braccia e caviglie.
«A- Aya, vattene a casa» gli suggerì la sorella riuscendo a ridestarsi dallo svenimento per un secondo. La voce della sorellina l’aveva esortata a non lasciarsi andare.
«No, io non me ne vado» insistette testarda la sorellina con gli occhi appannati.
«Vattene» disse coincisa. E il doversi voltare verso di lei gli fece patire un acutissimo dolore alla base del collo.
«No, lui ti farà del male, potr – potresti, lui potrebbe. Sei in grave pericolo e io non me ne vado» la fronteggiò a pugni stretti.
Ad Ace riaffiorò alla mente un episodio d’infanzia con il suo fratellino combina guai e capoccione. Quel devoto ricordo gli fece provare dell’accentuata solidarietà e impulso di intervenire.
E l’avrebbe fatto se ad accedere non fosse stato quello che accadde un secondo dopo.
«Ti ho detto di tornare a casa. Adesso» il rimprovero della maggiore fu talmente gridato severamente che la bambina sobbalzo dal terreno a occhi serrati.
Quella devastante e precaria scarica di adrenalina però permise alla ragazza di liberarsi dalla presa tentacolare dell’ammiraglio e attaccarlo con un’ultima e micidiale mossa: il gomito si andò a conficcare accuratamente sulle sue costole e il ginocchio sinistro si depositò sul mento, entrambi con una forza tale da riuscire a spedirlo per aria, ma durante l'urto di rimando, il tenente riuscì a srotolare la frusta, agganciarla alla caviglia della ragazza, e quindi finire di scaraventarla nuovamente addosso ad un muro, stavolta nella parte opposta alla precedente.
Il corpo della ragazza rotolò balzando per due volte, prima di giacere esanime su un fianco.
«Sei proprio una seccatura ragazzina» commentò infastidito il tenente. Si era appena rialzato e stava ripulendo la divisa dalla polvere di cui era stata insozzata.
«Sorellona no. Ti prego parlami» intanto la piccolina si era accucciata su di lei per prestargli soccorso. Ma la ragazza aveva, forse, perso conoscenza.
«Perché. Perché fate questo? Perché a lei? Perché? Smettetela. Basta» disse singhiozzando. Anche a lei cominciava a mancare l'energia anche solo per rimettersi in piedi.
«Mi spiace ragazzina, ma mi vedo costretto a interpellare la sorellina» diede un avvertimento questo sbattendo furiosamente la frusta sul pavimento polveroso sottostante.
«Povera bambina, così piccola e fragile, sfortunata perché deve pagare per l’egoismo della sorella maggiore»
«Lasciala. Non devi toccarla» rantolò questa muovendo a fatica le dita della mano. Era stremata e piegata dal dolore in ogni parte del corpo a partire dalla tempia alla punta dei piedi, ma non si sarebbe mai consegnata immotivatamente al nemico.
«Mi spiace, ma mi hai portato tu a questo punto» disse drammaticamente scoccando la frusta in direzione della bambina.
«Non la devi toccareee» quei suoi discorsi manipolatori e scorretti diedero alla sorella maggiore lo stimolo incontrollato per frapporsi tra la sorellina e l’ammiraglio tiranno.
Ci fu un attimo di silenzio e poi il rumore della frusta che entra in contatto con una spina dorsale umana, echeggiò per tutta la piazza, e fu talmente agghiacciante da far inorridire parte degli occhi degli spettatori.
Alcuni furono perfino costretti a coprirseli o soffocarsi un urlo in gola.
Quello che accadde, fu che la ragazza, gettandosi sulla sorellina, l’aveva coperta in un abbraccio per fargli da scudo.
Incassando il contraccolpo la sua schiena si era inarcata e abbassata ritmicamente.
La tortura provata l’aveva talmente sfinita, da non essere neanche riuscita ad emettere un suono straziante dalla bocca.
E ciò che fece fu solamente di cadere di botto a terra ormai priva di sensi.
«Perché, perché sorellona? Perché? Non dovevi farlo» una fontana impetuosa di lacrime scese dalle pupille miele della sorellina.
A quel punto Ace sentì infiammarsi qualcosa dentro che non seppe e volle più governare.
Vedendo il Marine attorcigliare la corda intorno al collo della bambina, non attese oltre.
«Adesso è il tuo turno» la minacciò sollevandola per aria. La povera piccola si dimenava e cercava di liberarsi dalla corda della frusta provocandosi graffi ai palmi.
«Ti conviene parlare prima ch..» la mano dell’ammiraglio scottò improvvisamente e la coda della sua frusta attorcigliata intorno alla bambina, scivolò al suolo ormai in fiamme.
Ace infatti ricorrendo alla sua famosa vampa di calore aveva poggiato una mano sullo strumento seviziatore di quest’ultimo mentre con l’altra aveva bruciato la parte che strangolava la bambina.
«Ma cosa...scotta. Scotta» il tenente si lamentò come un poppante contorcendosi a destra e sinistra.
«E tu da dove sbuchi? Che vuoi?» lo aggredì privandosi dal ragionare, ma non appena lo mise a fuoco, tutto il suo apparato scheletrico tremò.
«Aspetta, ma io ti conosco tu sei il capitano dei Pirati di Picche» Ace sorrise esaudito. La sua fama da pirata iniziava ad essere divulgata in giro per i mari come sperava. Presto sarebbe diventata rinomata anche nel nuovo mondo. Questo per lui era sufficiente ad indurlo a fare un'altra festa sulla nave non appena avrebbero ripreso la loro lunga traversata.
«Perché stai difendendo queste persone? In che rapporti sei con loro?- E poi non sai che non puoi rimanere sull’isola? Hai possessori di un frutto del mare è vietato fermarsi qui per più di un giorno» Ace fu perplesso dall'udire quelle sue notificazioni. L’ultimo punto in particolare gli sembrava arci - incomprensibile.
«Non so quale assurda motivazione vi abbia spinto a mettere questa legge e mi interessa poco, ma se maltrattate dei bambini senza farvi alcuno scrupolo, per me, questo si che è un motivo valido per intervenire in loro aiuto» riferì spingendo di qualche centimetro in avanti la mano infuocata come fosse un cristallino avvertimento. 
«Se non hai nessun legame con queste persone allora togliti di mezzo. Per oggi chiuderò un occhio. Ma domani controllerò che tu sia già salpato dall'isola» avvertì l’altro strofinandosi lo schifoso pizzetto d’erba sputata di capra. Ace assottigliò lo sguardo sollevando contemporaneamente le labbra.
«Mi spiace ma non me ne andrò perché me lo chiedi tu, non sarebbe nella mia natura da pirata. Ma se vuoi ingaggiare un combattimento io non mi tirerò indietro» lo sfidò Ace giocosamente, ma mantenendo comunque uno spirito intimidatorio.
Il tenente serrò la mascella per ponderare bene la sua decisione.
Sapeva che Ace aveva uno dei frutti del mare più potenti tra quelli esistenti, battersi con lui sarebbe stato stupido e pretenzioso.
Gli costava caro ammetterlo a se stesso. L’unica cosa che poteva fare era di ritirarsi dignitosamente da quella battaglia improvvisa e tornare a cercare la sospettata in un tempo migliore e appartato. Era immensamente chiaro che stesse agendo per un'egocentrica codardia e non certo per un'altruistica saggezza.
«Per questa volta e dico solo stavolta battiamo in ritirata, ma ti tengo d’occhio, pirata» pronunciò l’ultimo appellativo con tutto lo sdegno che poté, e Ace lo percepì, ma non gli diede importanza.
Il tenente scomparì all'angolo della strada - tallonato dai sottoposti - dove si erano raggruppati i civili e dopo la sua scomparsa, sembrò che l’aria si fosse alleggerita e liberata apparentemente dalla tossicità di cui era stata invasa.
«Grazie signore del fuoco» lo ringraziò la piccola tirandolo per i bermuda neri così da richiamare la sua attenzione.
Ace fece scorrere gli occhi su di lei e gli accarezzò la testa per rendergli la risposta.
Poi li posò sul corpo della sorella maggiore priva di sensi e lo scrittore – dottore di bordo che intanto era andato a controllarla.
In pochi minuti diede la sua diagnosi.
«Ace è in gravi condizioni. Dobbiamo medicarla immediatamente»
«Non perdiamo altro tempo allora» Ace intimò la sua ciurma a lavorare compatta.
Come proposito in realtà, avevano avuto quello di nasconderla nella loro nave in modo di medicarla in tutta tranquillità e proteggerla da eventuali aggressioni dei Marine, ma l’intromissione della sorellina, gli fece modificare leggermente i piani.
«Io...» parlò sperando di potergli essere utile.
«Io posso farvi strada nel nostro albergo – ristorante. Li potrete medicarla in tutta tranquillità nella sua camera» concluse. I ragazzi si accordarono con unanimità mediante un’occhiata svelta.
«Okay. Facci strada» disse il medico – scrittore.
Ace si caricò la ragazza sulle spalle – posizionandola a cavalcioni su di lui – e seguì la sorellina fino alla meta prestabilita. Meta in cui, a dire il vero, la sua flotta aveva già avuto modo di degustarne il luogo sia con il palato, che con la vista. 
La ragazza, che intanto, era addossata esanime sulla schiena di Ace, nel suo stato semi – coscente si sentì invadere da qualcosa di estremamente caldo e accogliente. Una sensazione incredibilmente benefica che la fece sentire orgogliosamente a suo agio.

 

NOTE AUTRICE: Salveee, si beh sono qui anche con questa mia nuova FF su Portgas D Ace. Si, lo so sto facendo una pazzia dato che ne ho una in corso e sto finendo di scrivere un romanzo a parte. Ma mi andava. Mi sono detta che dato che Oda ha dato poco spazio al suo speciale e meraviglioso personaggio, perché non farlo io? Quindi descriverò le probabili avventure che ha potuto vivere durante i suoi viaggi. Infatti parte delle cose le inventerò io: ad esempio il frutto in questione che presto scoprirete cos'è o l’isola, e, sorpresa sorpresa anche un nuovo tipo di ambizione che vedrete con il tempo. Non è nulla di che in realtà. Ma mi piace. Beh, spero di essere all'altezza di tutto questo.
E altra cosa la FF si svolge nel periodo in cui i Pirati di Picche stanno facendo il loro viaggio per raggiungere il nuovo mondo e di conseguenza l'arcipelago Sabaody e l'isola degli uomini pesce. La FF seguirà la storia originale, ma prendendo un percorso più lungo.
Che dire spero sia di vostro gradimento e vi appassioni. Alla prossima. 

 

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Capitolo 2
*** Il racconto del frutto del mare perduto. ***


 

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Capitolo Due

 

Il racconto del frutto del mare perduto”

 

 

 

 

Deuce il medico – scrittore della ciurma dei pirati di Picche scese le scale con pacato flemma.
Il medico - scrittore aveva fasciato e medicato le ferite della sfortunata ragazza per metterla nelle condizioni di riprendersi. Adesso stava andando ad aggiornare i suoi famigliari dei suoi lenti progressi.
«Tutto a posto. Sua figlia si riprenderà tra un giorno o due. Ma è importante che stia in completo riposo e immobile» riferì aggiustandosi la maschera che lo contraddistingueva dalla ciurma.
Nel curare la ragazza si era deciso a toglierla, ma tornato dagli altri aveva avuto la precauzione ossessiva di indossarla nuovamente.
«Non so come ringraziarvi ragazzi» disse in un sospiro la madre. Si erano tutti radunati – compagni di viaggio compresi - intorno al tavolo di quello che era il soggiorno, in attesa di nuovi ordini o ricevere notizie sullo stato della ragazza.
La casa, si trovava convenientemente dietro l’albergo – ristorante dei proprietari.
A due piani composti da camere da letto a quello superiore, mentre quello inferiore dalla cucina e il soggiorno, si presentava come un’accogliente caseggiato dove ti saresti fermato a chiedere riposo per una notte o immaginavi i suoi dimoranti il giorno di Natale con il naso all'insù per ammirarne l’incanto dei fuochi d’artificio.
«Come possiamo ricambiare il favore?» domandò a seguire Carmen, gentilmente disponibile.
«Un pranzo e una cena gratis ci basteranno» rispose immediato Ace con un sorrisone largo.
Marito e moglie rimasero lì per li, un attimo interdetti. Sopratutto perché la figlia minore gli aveva passato l’informazione della loro identità.
Da un ciurma di novelli pirati si sarebbero aspettati villania e rovina, ma quello che invece il capitano aveva preteso in cambio al loro encomiabile gesto, era stato un pasto gratis come un qualunque Marine senza macchia o famiglia della zona povera.
Carmen e Julianus cominciarono a capire da cosa derivasse quella loro umana condotta ed era dovuta all'irreprensibile ingenuità di quest’ultimo.

«Però potremmo essere informati di quello che succede all'incirca su quest’isola?» Skull forbì la domanda fiutando già odore di pirati all'orizzonte. Con quella sua maschera da teschio issa a nascondergli il viso, ti metteva in una minacciosa suggestione, però una volta relazionatotene, la sgradevole sensazione smetteva progressivamente di assillarti.
«Oh» i due coniugi si scambiarono una guardata di autorizzazione reciproca, per poi cominciare a narrarne la storia avvincente contenuta dai fondamenti intaccati e vetusti dell’isola.
«Si, è vostro diritto essere al correnti di quello che capita ed è capitato in passato su quest’isola» Julianus prese posto su uno dei sgabelli racimolati da uno dei tanti ammassati nella cantina dell’albergo. Quindi in mezzo a Deuce e la moglie.
La stanza dove si erano raccolti aveva un tavolo di legno di massello color noce, in cui se stretti come sardine, ci sarebbero entrati una quindicina di persone.
Ai lati dei due muri a ovest – cioè l’entrata – erano collocati due divani in velluto blu cadetto.
Le pareti fiordaliso, spopolavano di quadri raffiguranti navi in procinto di affrontare tempeste mortali, altri traboccavano di banchi di pesci dalla squame brillanti e dimensioni irreali.
Nella parete est invece, un cassettone in legno di pino, faceva sfoggio di quattro coppe d’argento e foto di famiglia in stati di gaia ebrezza: in una la ragazza medicata sorrideva luminosa con la sorellina di nove sulle ginocchia. In quella accanto la piccolina mostrava fiera all'obbiettivo una specie di fiore bicolore bianco e magenta con il viso sporco di terra. Nelle ultime due la famiglia intera sorrideva posizionata davanti a uno sfondo d’area artistica, nell'altra scattata al mare, padre e figlie si schizzavano festosamente l'acqua.
«Come avrete capito quest’isola si divide in quattro località unificate dalla direzione di un solo presidente. Lui enumera le leggi, imposta le tasse e autorizza i mandati della marina, di cui, beh, il figlio è a capo di un plotone» parafrasò Julianus come un giornalista che rapportava al suo direttore una notizia fresca di giorno. Ai pirati di Picche iniziarono a omogenizzarsi i fatti che avevano visto e sentito, ma non parlarono, ascoltarono invece nel silenzio, avidi di altri esaustivi dettagli della storia.
«Sei anni fa accadde una disgrazia alla loro famiglia. Mia figlia e il figlio del Marine erano molto amici e passavano le giornate a giocare agli esploratori archeologi in cerca del famigerato tesoro dell’isola» riprese Carmen sostituendosi al marito. Aya, la piccoletta di famiglia, che fino a quel momento era stata a vegliare sulla sorella, intanto, si era messa a origliare nell'angolo della porta nascosta dal resto degli ospiti.
«Vedete, quest’isola è celebre per molte cose. Il suo florido turismo, i luoghi artistici da visitare e per essere stata calpestata dal grande pirata senza rivali Gol D. Roger. Ma c’è una cosa che l’ha resa meta ambita sopratutto dalle flotte dei pirati più temerari ed è la leggenda del frutto del mare perduto» specificò Julianus.
«Si narra che vent'anni fa un detenuto di Marineford fosse riuscito a evadere in un'incidente di fortuna della prigione e che durante la sua fuga per mare si imbatté in uno dei frutti più potenti tra quelli conosciuti. Uno di tipo Paramisha. Il chiostro chiostro: il frutto in grado di forgiare o creare qualsiasi oggetto e identità esistente nella terra proprio come farebbe uno scrittore in un romanzo. Viene narrato anche che abbia la capacità di modificare il destino delle persone, ma purtroppo fino ad adesso nessuno l'ha mai potuto appurare» Carmen prese una pausa dando il cambio al marito.
«La leggenda racconta ancora che naufragò da queste parti nella zona dove se la passano parecchio male. Noi siamo arrivati solo dieci anni dopo, ma gli abitanti ci hanno riferito che stese per un anno intero vivendo indisturbato tra i cittadini dell’isola, fin quando, uno di questi con il forte senso del dovere e affamato di soldi, gli ha fatto una soffiata alla marina, il pirata, una volta capito quello che stava accadendo, prese con se il frutto e prima di essere catturato lo nascose in uno delle quattro zone sperando che a trovarlo fosse colui che nel cuore possedeva i viaggi di mille vite» Julianus sospese il racconto per assicurarsi che qualcuno dei pirati non volesse soffermarsi su un punto poco chiaro o intervenire con una domanda mirata. Vedendo che però erano tutti in una dissimulata trepida attesa, fece procedere la moglie.
«Sempre sei anni fa, mia figlia e il suo amico avevano disegnato una mappa con ogni zona segnata da una X: i posti più probabili dove credevano potesse trovarsi il tesoro. Noi, pensavamo che era solo un gioco per loro e li lasciavamo divertire, ma a quanto pare quel gioco aveva dato dei risvolti inaspettati, perché la sera stessa in cui accadde quella spiacevole disgrazia, sono entrati in possesso del frutto»
«Ma questa per noi non è altro che un’altra stupida leggenda creata per avere un colpevole» si interpose con un’autorità stizzita il marito. La moglie fece un assenso leggero del capo come un gabbiano che si librava libero in cielo.
«Siamo tutti d’accordo. I resoconti non tornano perché secondo un testimone oculare senza nome, mia figlia avrebbe tenuto il frutto per se e scaraventato giù dalla rupe il suo amico in una lite di contesa»
«Ma sono solo balle. Mia figlia e Akira erano amici per la pelle. Quasi fratelli. E poi non è un comportamento suo. Darebbe la vita per chi ama e l’avete visto anche voi» sostenne il marito dimostrando una vigorosa fiducia per la figlia. I pirati di Picche non dissero nulla, ma molti di loro, compreso il capitano, si trovarono d’accordo.
Una persona, una ragazza donna, che si prendeva frequenti bastonate e frustate per proteggere i propri famigliari, non era sicuramente soggetto che si faceva manipolare facilmente da un’avida spietatezza.
«E poi, abbiamo parlato a lungo con lei e lei ci ha detto che ha fatto di tutto per tirarlo su dal dirupo, ma per colpa del cattivo tempo e la pioggia, alla fine la presa si è allentata fino a cedere. Però del frutto non ha mai fatto accenno, né di una lite furiosa per quest’ultimo» Julianus fornì ulteriori frammenti della faccenda per dare alla figlia un alibi di ferro.
«Da quel giorno la marina prese precauzioni specifiche e impose leggi massimali. Questo solo per scovare l’ubicazione del frutto e tenerlo lontano da chi avrebbe potuto usarlo nella maniera sbagliata. E, in conseguenza nacque anche la legge che ogni possessore del frutto del mare non potesse risiedere nell'isola per più di ventiquattro ore, perché considerati mostri tossici e ispiratori di una ricerca asfissiante da parte delle persone che avrebbero potuto voler essere come loro» disse Carmen e i suoi occhi si immalinconirono di colpo come se a velarli fosse stata un’impetuosa tristezza.
L’avvertimento che da li in poi la storia avrebbe preso una piega criticamente tragica.
«Da quel giorno cominciò anche la nostra odissea personale. Inizialmente, non era pesante. Il marine si limitava a pungerla con parole acidamente cattive, nella speranza di portarla all'esasperazione e farla cantare. Ma la sua tattica non funzionò. Allora passò alle maniere più forti. Attaccando noi come lei in precedenza e maltrattando lei con atti sempre più violenti e disumani» Carmen serrò le dita alla stoffa blu del vestito che indossava e trattenne con un grosso sforzo le lacrime in procinto di sgorgagli tumultuose.
Arricchite da quel malinconico scintillio, le sfumature elaborate delle sue pupille acquisirono l'iridescenza dei riflessi di un opale.
«Mia figlia ha sofferto così tanto e sta soffrendo ancora. Non ha mai potuto elaborare il lutto dell’amico in santa pace e non si è mai perdonata dell’errore che ha commesso. Il vederselo morire davanti agli occhi e sentirsi impotente, l’hanno cambiata, trasformandola in un’altra persona. Ma non ha mai pianto, non si è mai arresa o lamentata» un gemito soffocato fuoriuscì dalla sua gola.
«Sono sei anni che sopporta in silenzio e trattiene il dolore dentro di se. Ma anche se sorride sempre e fa di tutto per proteggere i più deboli, io so quanto sia provata e sofferente nell'animo. È mia figlia dopotutto. E come se non bastasse ha dovuto affrontare il disprezzo per se stessa. Povera bambina mia, le cicatrici che gli hanno inferto, gli hanno fatto perdere la fiducia in lei. Già si vergognava di quella che aveva nella gamba e mano destra, e molti per strada la denigravano, ma quelle di adesso, le persone non avranno compassione per lei e lei se ne condannerà a livello psicologico. Adesso sarà costretta a coprirsi. Povera figlia. Un corpo così giovane sfigurato dall'ingiustizia e cattiveria. Non lo posso accettare. Non lo accetterò mai» Carmen si coprì il viso con entrambe le mani per lasciare cadere qualche lacrima di sfogo. Il marito la consolò sfregandoli amorevolmente le spalle.
Carmen sapeva che dimostrarsi così disinvolta in affari di famiglia di una tale delicatezza e incorrere in cerca d’aiuto a qualcuno di appena conosciuto o chiedere a dei manigoldi di portare la propria figlia con se nei loro viaggi, era da squilibrati. Ma giunti a quella linea dove la conclusione della loro corsa sembrava interminabile, che cosa importava?
La disperazione e la stanchezza li aveva fatti arrivare ad una prospettiva in cui stringere una sorta di alleanza con dei pirati, era sempre meglio del rassegnarsi al futuro di vedersi sottomettere dai soprusi della Marina.
I pirati di Picche, difatti, rimasero notevolmente impressionati dalla forza di volontà di quella ragazza e la sua resistenza mentale.
Per questo non si aspettavano niente di più di un sussidio da parte dall'animo gentile del loro capitano. Quel suo animo estremamente gentile e rivoltoso che gli aveva causato degli impareggiabili problemi con molteplici nemici.

Come dimenticare il tizio barbuto che gli aveva detto “Ti voglio bene” prima di sparargli solo perché sulla sua testa pendeva una taglia alta? O il vederlo lanciare un salvagente ad una giovane luogotenente della Marina che si era introdotta furtivamente sulla loro nave per ammanettarli tutti?

Citare tali esempi gli veniva naturale, ma con molta probabilità ne avrebbero avuti tanti altri con i quali confrontarsi, perché le intenzioni nette e inconsulte del loro capitano erano di sfidare i membri della Flotta dei sette, i Draghi Celesti e gli Imperatori per rendere il suo nome immortale e sbarazzarsi della dannazione alla quale il sangue lo ancorava.
«Mammina» vedendo la madre in lacrime e così sconfortata, Aya corse verso di lei, se ne arrampicò agilmente sulla ginocchia e la abbracciò forte stingendola imponentemente per il costato.
«Non devi piangere per lei, perché Ayako è la ragazza più formidabile che io conosca» la motivò questa con un’espressione risoluta.
Con quelle grandi iridi ambra, i capelli mossi sulle spalle color castagna e il vestito bianco a macchie di leopardo oro ricamato intorno a orli di merletto, era in inequivocabile contrapposizione con il carattere che possedeva.
Aveva nove anni, ma pareva navigata come una donna di trenta.
«E’ proprio così. Capito, voialtri?» li mise in guardia voltandosi ora verso la loro parte ma sempre seduta sopra le gambe della madre. Nel suo sguardo non c’era insicurezza o paura.
Quel metro e tanta voglia di crescere riuscì a fronteggiare una ciurma di venti pirati come se fosse alta quanto un gigante e canaglia come un bandito.
«E guai a voi se cercherete di deprezzarla con uno sguardo o parola perché dovrete vedervela con me» ai pirati scappò di sorridere in reazione alla visione di quella bambina che da grande avrebbe potuto benissimo diventare una donna pirata o fare parte di un’organizzazione di spionaggio a cui capo era il Governo Mondiale. Anche Ad Ace spuntò sulle labbra un mezzo sorriso, collegandola immancabilmente all'immagine bricconcella del fratellino con il singolare cappello di paglia.
«Mia sorella è una ragazza formidabile, dopo essere stata pestata la prima volta, ha preso lezioni private da un maestro specializzato in arti di combattimento. A volte si è spinta al limite della sopportazione, del dolore, una volta è anche svenuta, ma si è sempre rialzata, pronta a mostrare al mondo di che pasta è fatta. Lei è il mio idolo. l’unica che seguire ovunque andasse. Mi fido di lei e so che non mente»
«Anche noi la pensiamo così tesoro, ma vorremmo tanto che lasciasse l’isola. Potrebbe essere la sua unica via di salvezza, lei però non ne vuole sapere. Dice che non cambierebbe niente e che la Marina gli darebbe comunque la caccia, oltre che iniziare a prendere di mira solo noi» se ne accordò la madre, accarezzandogli la testolina. Gesto che a lei non piacque granché.
Dopo quel momento incisivo fatto di scoperte esaurientemente avvincenti, commoventi risvolti e tragici seguiti che ancora non trovavano il loro punto finale del racconto, i ragazzi si sparpagliarono ognuno dove meglio gli piaceva, e i coniugi tornarono alla loro attività alberghiera.
Tra un discorso e un altro si erano fatte le otto e mezza di sera e il cielo si era tinto del colore tipico di quell’ora: un blu torpidamente scuro sfavillante di tante stelle quanto i desideri formulati dagli esseri umani.
Ace decise di appostarsi nel retro dell’albergo - ristorante dove poteva osservarle in completa serenità. Sollazzo che lo favoreggiava a riflettere o riappacificare lo spirito. A secondo delle giornate e i periodi.
Deuce, che voleva assicurasi non finisse per litigare con qualcuno della marina, vedendolo lì, mansueto, a contemplare il cielo, ne approfittò per scambiarci due chiacchiere specificamente esplicative.
«Andremo a cercare il frutto del mare?» fu la prioritaria domanda diretta per il suo capitano.
«Ti piacerebbe averlo?» gli ridomandò senza staccare gli occhi e modificarne l’espressione assorta dal viso. Deuce acconsentì voltandosi verso di lui.
«Non esiste niente al mondo che potrebbe soddisfarmi. E poi mi si addice a pennello» giocò sul fatto che coincidesse su una delle sue due passioni. Una curva intermedia si conformò sulle labbra di Ace per un secondo.
«Allora ci tratterremo qui giusto il tempo necessario di trovarlo» ciò stese a significare che accettò una delle due proposte che la signora Carmen gli aveva fatto.
«Ho trovato il modo per dimostrarvi la mia riconoscenza» aveva detto parlando all’intero uditorio pirata.
«Perché non restate qui per una settimana? Vi offrirò viveri e alloggio gratis» al che il loro capitano non aveva aggiunto nessuna parola condiscendente o restia. Ma Deuce sapeva che con quell’ordinazione speciale del menù, lui aveva già preso la sua irrazionale decisione.
Deuce sapeva anche che aveva accettato perché possedeva un’indole innata per cercare i tesori di ogni genere. Quella considerazione gli fece tornare alla mente il modo in cui si erano incontrati.
Ace invece rievocò i tempi andati di quando aveva dieci anni e insieme al suo amico di marachelle sdentato e con il cilindro in testa, andavano a rubare i tesori altrui per averne uno loro e sognare di partire in età maggiore verso avventure infinite e imprevedibili.
«Come faremo con il Marine? Già stiamo qui illegalmente se scopre che siamo alla ricerca del frutto, non ci darà vita facile.» la seconda domanda prioritaria di Deuce fu quella.
«Tenerlo a bada sarà semplice» rispose per niente preoccupato. Aveva precedentemente appurato che non contasse un fico secco né di personalità, che di forza fisica.
«La ragazza, pensi che, lei sappia qualcosa del frutto o ne è davvero ignara?»
«Dovremo chiederlo a lei direttamente, no?» le pensate Scriteriate del suo capitano che di primo acchito non avevano una logica da nessuna ottica, ma il più delle volte, alla conclusione, la loro semplicità trovava sempre l’evidente sensatezza.
«Ace, stavo pensando, che quella ragazza, è davvero sorprendente. Quando l’ho medicata, ho visto ferite e cicatrici dove una donna non dovrebbe averne, ferite aperte e infette che per una donna potrebbero essere fatali. Eppure. Quella ragazza possiede una forza di volontà spaventosa. Anche se non so per quanto ancora possa cavarsela se continuerà a incassare così tante bastonate in un così ricorrente tempo» evidenziò cercando un suo onesto riscontro.
«E’ interessante» commentò solamente questo sollevandosi il cappello.
Ace era stato vivamente colpito a balzi da alcune parti della storia: il modo in cui la sorellina la ammirava, l’irriducibilità con cui la ragazza non aveva mai barcollato e si era fatta forza senza mai versare una lacrima, il dolore indelebile trattenuto in lei e i tormenti in costante rappresaglia nel cuore.
Ascoltando il racconto dei genitori, Ace, se ne era irreparabilmente riconosciuto.
Per puro istinto, aveva cominciato a valutare la seconda proposta della Signora Carmen.
Un abbozzo di filantropa idea che avrebbe messo in atto tramite un’offerta di mano e un entusiastico invito.
Improvvisamente, alle narici dei due pirati, giunse uno stimolante odore di carne grigliata misto a quello di pesce speziato.
«Senti che buon odorino?» domandò il capitano mettendosi istantaneamente sull’attenti.
«Ah, che fame» disse in effetto, seguendo il sublime profumo con una camminata esilarante e la lingua a penzoloni.
Quando si trattava di cibo non esisteva nient’altro per lui.
Ogni volta che approdavano in una nuova isola, la preminente cosa che gli urgeva di intraprendere corrispondeva al chiedere informazioni sui luoghi di cucina presenti e che tipo di leccornie fossero inserite nel menù della locanda segnalatagli.
Naturalmente, quella nell’isola corrente di Fourteenth Mark, era stata una ragionevole sosta da fare.
Così I due si diressero così verso all’albergo – ristorante con l'aquilina in bocca.
Per una volta, Deuce poté pensare – e non gli sembrò neanche vero - che non aveva niente di cui preoccuparsi. Nessun proprietario si sarebbe lamentato del mangiare a scrocco del suo capitano, perché per una settimana sarebbe stato tutto gratis.

NOTE AUTRICE.: Sono tornata si, con il secondo capitolo. Diciamo che questo spiega un po' cosa succede e da indizi per pensare cosa è successo nell'isola. 
Secondo voi la protagonista ha davvero il frutto? Se si perché non l'ha mangiato? Magari invece quella notte non è andata come tutti pensano. 
Chissà. Lo scoprirete solo leggendo. 
Come sempre ringrazio i lettori silenziosi e chi mi ha aggiunto alle storie seguite o ricordate. Grazie mille. 
Alla prossima. 

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Capitolo 3
*** Anonima anima straziata. ***


PERFECTLY BLUE

 

Capitolo Tre

 

Anonima anima straziata”.


 

 

La ragazza, si trovava all’interno dell’intelaiatura di un sogno.
Tutto intorno era oscuro e privo di suoni, tranne che per una luce in fondo al tunnel infinito che si estendeva davanti a lei.
La luce le si avvicinò gradualmente, passo dopo passo, rivelando un fuoco amico dalla sagoma umanoide incapace di scottare e anzi confortevole quanto l’abbraccio di un tenero amante.
Ayako se ne accertò quando lasciandosi circondare da quelle lingue di fuoco simili a braccia, calò le palpebre, permettendogli di farsi cullare dolcemente come se fosse su un’amaca sospesa al centro di un palpitante e sinuoso oceano.
D’un tratto però, ogni cosa si capovolse, annerì, provocandogli un intenso disorientamento.
Il pacifico fuoco amico si dissolse. Il buio la sovrastò fino togliergli il fiato
Qualcosa - forse una mano che cercava di stritolargli il cuore, forse voleva strapparglielo rozzamente via dal petto – la fece accasciare a terra, distesa in un posizione fetale, preda di una singhiozzante crisi di pianto.
Perché? Perché proprio io devo subire questa tortura? Perché proprio io devo possedere questa capacità?” diceva a mascella serrata mentre cercava di sopprimere, espellere quel dolore estraneo lontano dalla sua ampliata percezione.
Perché? Perché io?” strillò con le lacrime che gli inibivano il respiro.”

 

Le sue stesse urla la riscossero da quell’incubo soffocante.
Ayako si sveglio di scatto, drizzando la schiena e sbarrando febbrilmente i bulbi.
Portandosi una mano in mezzo al petto, constatò che fosse tutto normale - Sempre se di normalità si poteva parlare - come ogni mattina in cui si destava dalle sue fantasie subconscie.
Nessun dolore aggiuntivo e stordente stava cercando di straziargli il cuore mediante il rigetto convulso delle lacrime.
«Non capisco» mormorò fra se, rendendosi ora conto di essere avvolta nelle coperte violette del suo letto, mentre dalle tende ametista tirate, notava il fulgore accecante del sole fluttuare nella mattina già sbocciata da un pezzo.
«Chi era la persona con la quale le mie capacità empatiche mi hanno fatto avere un contatto? Condividere parte della sua sofferenza?»
Come poteva esistere qualcuno in grado di contenere nel suo nucleo interiore un dolore così spietato e lugubre?
La ragazza aveva trovato quelle emozioni grondanti di rabbia e negazione, comparabili ai suoi, ma anche ineguali, poiché evoluti in una sorda paralizzazione.
Sollevando le gambe, ci poggiò il gomito per coprirsi un lato della faccia con la mano sinistra.
Immediatamente, avvertì un bruciore pungente all’altezza della guancia su cui aveva deposto il palmo.
Era fasciata da capo a piedi, ma seguendo la protezione di stova, tastandosi con l'indice, percepi uno strato gonfio e ben delineato sulla pelle.
Ayako sentì screpolarsi per la miliardesima volta, un altro strato della sua anima.
Conosceva quei penalizzanti solchi indelebili. Ci aveva imparato a convivere ogni singolo attimo di ogni giorno della sua vita.
Dandosi lo slancio, era stata sul punto di alzarsi e fare emergere il suo peculiare esiguo aspetto sulla superficie specchiante dell’oggetto da lei mortalmente ripudiato in passato, quando la sorellina Aya apparì davanti alla soglia della sua stanza con un vassoio tenuto ben saldo nella minuscole manine.
«Sorella!» esclamò la piccola facendo cadere il vassoio a terra per tuffarsi sulla pancia della maggiore.
«Ti sei svegliata» schiamazzò avviluppandosi serratamente al suo costato.
Dalla gola di Ayako fuoriuscì un fievole pigolio. Un secondo bruciore la lenì alla schiena.
«Già, ma così mi riporti in coma tu però» Aya sollevò il capo allentando la presa.
«Scusami, è che sono felice di vederti sveglia» si giustificò con un orgoglioso rossore sulle guance. Ayako allargò le labbra in un comprensivo sorriso materno.
«Si anche io sono felice di rivederti tutta intera» gli disse affondando le dita nei capelli della sorella per accarezzargli la testolina.
Vederla indenne da graffi superflui e singulti convulsivi, la ripagava di ogni crudeltà subita o che avrebbe dovuto subire. Ancora.
«Vado a chiamare mamma e papà» la avvertì Aya sgusciandogli fuori dalle braccia per galoppare velocemente al piano di sotto.
Nell’attesa Ayako scostò le tende – attigue al letto – lasciandosi accarezzare il viso dai tiepidi raggi di sole. Ogni muscolo irrigidito del suo corpo si distese.
Quel leggiadro contatto però, gli riportò inevitabilmente nei pensieri il fuoco amico dalla sagoma umanoide.
«Ma chi era?» continuava a tartassarsi con quella domanda.
Un secondo dopo, la testa di Ayako fu invasa dal trillò di un’assordante intuizione.
E se qualcuno si fosse preso il carico di condurla a dovuta destinazione?
Le altre volte si era trascinata fino all’ospedale più vicino grazie alla cruciale riserva di forze rimastagli, ma non stavolta.
Il combattimento aveva seguito una dinamica talmente massacrante da fargli lasciare campo libero al nemico con la sua perdita di conoscenza.
«Un’altra umiliazione da incassare» sospirò scoraggiata.
Ayako comunque continuava a pensare logicamente che un’anima pia se l’era portata in spalla dal punto in cui aveva perso i sensi alla porta di casa.
«Si, ma chi?» Ayako si rattristò. Possibile che quel plumbeo dolore appartenesse realmente ad una persona?
«Chissà se ti riconoscerò quando ti vedrò. Chissà cosa starai facendo adesso, anonima anima straziata» cercò di invocarne il ricordo.
Quell’iniziativa, in ogni caso, fu stimolatrice di un’altra valente ipotesi.
E se, Magari, nientedimeno, stava seguendo la pista di un ragionamento malfatto?
E se si fosse trattato del suo dolore?
Se quello non fosse atri che un sogno premonitore messaggero di un avvertimento ?
Nella sua pericolante vita, sarebbe sopraggiunta una mano astrusa responsabile dell'estinzione totale della sua utopica illusione?
La sagoma umanoide infuocata avrebbe dovuto essere un lapalissiano indizio, ma lei non riusciva comunque ad associarla a nessun conoscente o simpatizzante dell’isola.
L’aveva già incontrata? O sarebbe accaduto nei mesi, anni a venire?
E poi Il fuoco non doveva per forza raffigurare un particolare genetico come la temperatura sopraelevata del corpo, poteva anche essere un rompicapo allegorico.
Ayako si dondolò nel letto innervosita.
«Chi mai potrà essere?» non riusciva proprio a venirne a capo.
L’unica cosa assodata, si disse, era che avessero stabilito un fugace contatto durante il suo stato di incoscienza e che lei non possedesse alcuna generalità della sua fisionomia.
«Ayako piccola mia!» la sottoscritta saltò fuori dal suo guscio meditativo e si voltò pacatamente verso l’uscio della porta.
La madre e il padre avevano fatto irruzione nella camera come due purosangue da corsa che gareggiavano per disputarsi la vincita del suo epico abbraccio trofeo.
«Come ti senti, amore?» domandò quest’ultima poggiandogli una mano sulla spalla destra e l’altra sotto al mento per sollevarglielo.
«Bene» rispose indolente.
«Ne siamo orgogliosi e ricompensati» la riverì il padre scrollandogli la chioma riccioluta. Lei emise un sorrisone compiaciuto.
«Hai fatto presto a riprenderti» una terza voce forestiera si svelò all’udito di Ayako.
Ne fu talmente spaventata, dallo scattare in piedi nel letto e assumere la posizione aggressiva della guerriera cazzuta.
«Chi..» vociò intimidatoria. Tuttavia la sua tenacia si dissipò quando il cristallo oculare delle sue ambre guardinghe, mise a fuoco l’individuo tipizzato con il quale era tornata la sorellina.
Nel cassetto chiuso a chiave dei suoi oggetti strettamente personali, tre le altre cose, aveva insabbiato sotto due voluminosi tomi, le insigne taglie dei pirati più famigerati degli ultimi tempi.
Vista da un occhio esterno poco incline all’osservazione, questa sua stranezza, sarebbe stata in un chiaro indizio della professione di cacciatrice di taglie alla quale era promessa, ma la verità era che si trattasse, semplicemente, di una segreta ammirazione.
Ayako, ammirava i pirati fin dagli albori della sua tenera nascita.
Li ammirava e li invidiava contemporaneamente.
Lei e Akira, nelle lunghe e caldeggiate giornate di agosto, avevano sognato di prendere il mare in maggiore età, assemblare una loro coesistente ciurma e riportare alla luce tutto quello che ancora doveva essere scoperto.
Disgraziatamente però, i due migliori amici che si amavano come due fratelli, non avevano messo in conto la parte oscura della vita nel loro destino.
Quella parte oscura che esisteva per portarti via in un solo, immodificabile, odioso attimo ogni legame e sogno che fino ad allora avevano alimentato le tue singolari giornate.
E quella sera di sette anni fa, Ayako aveva perso entrambe le cose.
«Mi complimento con te. Sei una tipa tosta» la esaltò Deuce amichevolmente.
Se ne era avvicinato disinvoltamente e non sembrava affatto preoccupato di poter essere prossimo al ricevere una calcagnata in fronte.
Tornata con i piedi per terra, Ayako gettò la spugna, ricadendo mosciamente nel letto a gambe incrociate.
«Allora come la trovi dottore?» domandò la sorellina mettendosi accanto alla paziente. I quattro membri della famiglia erano accalcati in quel letto di una piazza scomodamente stretti, ma contenti della presenza reciproca in quella stanza.
«Mi sembra in ottima forma» dedusse Deuce mettendoci un punto interrogativo invisibile alla fine per sollecitare una conferma dall’interessata. Erano passati tre giorni quindi per quanto ne sapeva e lei si muoveva poteva anche togliersi le bende.
«Lo sono» avvalorò lei tornando a ispezionare le fattezze di quel dottore anticonformista.
E seppe con precisione di non essersi sbagliata.
L’identikit fotografico del manifesto – la peculiarità della maschera blu che gli fasciava gli occhi, il lungo taglio dei capelli ciano e il vestiario vistoso– era inconfondibilmente identico al tizio davanti a lei che si stava prendendo la libertà di scherzarci come se fossero cugini.
Masked Deuce. Membro della ciurma dei pirati di Picche, capitanata da.
Ayako si ricordò solo allora del nome e identità del loro capitano.
Portgas D. Ace. Soprannominato “Pugno di fuoco”.
A quel punto Ayako fu colta dall'intensità di un’illuminazione.
Il suo sogno. Lui. Era stato lui e la sua ciurma a soccorrerla?
Il suo potere empatico, Aveva seriamente instaurato un contatto con la sua anima dopo che lui se l’era caricata in spalla?
Oh, merda.
Internamente, Ayako era andata in totale escandescenza.
Avvertendo un alveare di api pungergli lo stomaco, non seppe come sentirsi in merito: sconcertata? Affrancata? Onorata?
«Loro. Sono stati loro. È lui» si disse senza condividerlo ad alta voce.
Ma prima di dare per risolto il caso avrebbe dovuto accreditare i suoi sospetti.
E l’affare, gli donava un’inspiegabile senso di codardia.
«Qualcosa non va, Ayako?» chiese il padre accigliato.
«Le ferite ti provocano dolore?» si informò la madre in apprensione.
«No, per niente» liquidò la faccenda con freddezza.
Giusto in quel momento stava notando un fattore collegato al mestiere che il medico – pirata anticonformista aveva esercitato su di lei.
«Tu...sei stato tu...tu mi hai medicata? Tu hai visto...hai visto» farfugliò imbarazzata. Non era certo avvampata per la maschile presenza di Deuce nella sua camera, ma bensì un’altra ragione che per lei equivaleva ad un’incolmabile vergogna.
«E’ stato inevitabile» disse Deuce usando l’intonazione lapidaria di un chirurgo dopo un intervento. Ayako scosse seccamente il capo a destra e sinistra.
«Io non mi stavo riferendo a quello...io mi riferivo a...»
«Lo so..» la rassicurò lui compassato.
«Appunto per questo...» Deuce decise di essere sincero con lei fin da subito perché sapeva che avrebbe incassato quel doloroso colpo con lodevole risolutezza.
L’aveva constatato tre giorni fa durante quell'estenuante scontro con il tenente e lo vedeva tuttora che da quando la sua schiena si era staccata dal letto, non aveva mai lamentato di nessun bruciore alle ferite o piagnucolato disperata.
Quella ragazza possedeva uno spirito eminentemente incrollabile revocatore dell’irrefrenabile istinto di versare una lacrima generata in rimpianto al suo passato. E Deuce l'ammirava sconfinatamente.
«Credimi io ho fatto il possibile, ma, non ho potuto fare niente per evitare le due cicatrici che ti rimarranno sulla pelle.»
«Dove?» chiese avendolo già intuito dalle fitte martellanti che provava sulla spalla e la guancia.
«Sono una sulla spalla e l’altra sulla guancia sinistra» a quel punto il raro cuore di Ayako si sarebbe dovuto spaccare in mille insanabili pezzi, ma non accadde nulla di questo.
Le orecchie non gli fischiarono in ripercussione alle palpitazioni nervose.
Ayako non aveva perso la facoltà di provare le emozioni, ma solo temprato il cuore al dolore.
Si era sentita dire così tante volte quelle parole da averle rese vuote, inefficaci.
Quindi ciò che fece fu quello che stava precedentemente facendo al suo risveglio: posizionarsi davanti allo specchio.
Fu un processo lento e interminabile, ma alla fine Ayako riuscì a sciogliere tutte le bende di cui era stata fasciato il suo corpo.
La prima cicatrice, Ayako la vide immediatamente. Impossibile da non adocchiare: uno sfregio gonfio e rosato ancora in fase ci cicatrizzazione che andava dall'inizio della palpebra e ne seguiva il delicato tratto della mascella.
Dandosi forza, Ayako si morse il labbro inferiore, evitando di descrivere l’immagine replicata sulla superficie di cristallo.
La prima volta che aveva saputo che una cicatrice si sarebbe incavata sulla sua gamba destra, non si era data al dramma, dicendosi di poterla nascondere con dei jeans lunghi.
Però, quando le cicatrici cominciarono ad aumentare e l’estate ad arrivare, per lei era diventato pressoché impossibile occultarle agli sguardi impiccioni della gente.
Irrisa dalle ragazze e malamente rifiutata dai ragazzi, Ayako aveva rischiato di avere un dannoso crollo mentale, di distruggere ogni specchio esistente sulla terra, ma a salvarla da quel punto di non ritorno furono le parole amabili di Akira.


Qualsiasi cosa accadrà o qualsiasi cosa ti diranno, ricordati che tu sei speciale poiché dotata di una bellezza interiore che ne oscura quella esteriore. Possiederai anche un aspetto ricercato, però si tratta sempre di qualcosa che non potrà mai eguagliare la meraviglia prodigiosa che detieni dentro di te”.

 

Così Ayako aveva lavorato in termini di livelli fisici e spirituali riuscendo ad accettarsi e amarsi nel giro di pochi anni, infischiandosene beatamente se nessuna amica gli avrebbe mai dato un consiglio su quale colore di vestito risaltasse meglio i suoi occhi o se nessun ragazzo l’avrebbe stretta appassionatamente a se.
«Okay» sussurrò. Senza battere ciglio Ayako passò senza indugio alla seconda cicatrice.
Sollevando la maglietta fin sopra le spalle – lasciando il davanti coperto - e voltatasi a tre quarti, identifico il mostruoso sfregio inciso sulla schiena: in fase di cicatrizzazione anche questo era lungo dalla scapola destra alla parte bassa del fondo schiena sinistro e spesso quanto due suoi indici.
«Oh, bambina mia» la madre si coprì il viso con entrambe le mani per non mostrargli l’espressione sofferente.
«Sorellona, io...» la piccolina di casa sembrava indecisa sul cosa dire.
«Ayako» si pronunciò il padre, sostituendola. Alzatosi per confortarla, aveva boccheggiato in cerca di una frase convincentemente favorevole.
Ayako che però non voleva essere compatita, fermò il suo discorso raccapezzato sul nascere.
«Fa niente» disse con voce evacuata di emozioni.
L’impatto di quella orrida vista avrebbe devastato la forza trascendentale di qualsiasi creatura umana del pianeta, Ayako tuttavia, non era una creatura qualsiasi, ma la creatura più pregiata del pianeta che non solo governava il soffio vitale e virtù di una guardia imperiale, ma riusciva perennemente a trasmettere quell’energia cosparsa di rettitudine al resto degli altri.
«Meglio essere sfregiata che morta, no?» recitò dandosi un’aria serena mediante lo sfoggio del suo instancabile sorriso radioso.
«Si» affermò Deuce, rimasto ancora una volta spiazzato da lei. Quella ragazza gli piaceva. Decise ufficialmente.
Se fosse stato il capitano della sua ciurma non ci avrebbe pensato neanche due secondi a portarla con se a viaggiare per i mari.

«Beh, io ho fame» notificò questa, schiaffeggiandosi la pancia.

«Che ne dite di prepararmi una nutriente colazione?» pretese come se fosse una principessa viziata che lo chiedeva ai suoi camerieri di corte. Era uno degli aspetti che più amava della sua famiglia. Gli piaceva vederli tutti e tre indaffarati a ideare la ricetta di una colazione amorevolmente dedicatagli.
«Oh, si certo. Provvediamo subito» scalpitarono i tre famigliari, dileguandosi dalla camera in un unico blocco.
Ayako ridacchiò e dislocò apertamente lo sguardo su Deuce.
Per dei secondi nessuno dei due conversò. Rimasero a studiarsi rabboniti dalla sputata curiosità di collocare la relativa personalità.
Infine, inaspettatamente, fu Ayako a sbloccare la situazione, con un garbato inchino.
«Vi ringrazio per avermi soccorsa e medicata. Sono in debito con voi per il resto della vita»
«Oh, non c’è di che e non preoccuparti» pattuì il medico - scrittore.
«Fiera ed educata. Somiglia sempre più a lui» Deuce non riuscì a celare un sorriso divertito.
Ayako acconsentì e fu per andarsene a rinfrescarsi, ma Deuce aveva già trovato il modo per farla sdebitare dei favori offerti.
«Però, Ayako. Se vuoi davvero esserci riconoscente, non ringraziare me, ma il nostro capitano. A lui farà sicuramente piacere» Deuce era a conoscenza delle manchevolezze affettive di Ace.
Di quanto disarmante bisogno avesse di essere elogiato, apprezzato e beneamato, e se quella ragazza che sembrava avere più di una concomitanza con lui avrebbe riconosciuto in lui anche uno solo di questi pregi, Ace ne sarebbe stato legittimamente gratificato. Anche se in maniera velata.
«D’accordo. Sarà fatto» assicurò sparendo dietro la soglia.
A seguito di una doccia rigenerante, Ayako lasciò i capelli mori liberi di asciugarsi con le temperatura naturale del sole.
Poi facendo una veloce corsetta, si infilò nella sua camera, su cosa decidere d’indossare.
In primis però, chiamò la madre e gli chiese di aiutarla a fare il cambio con le bende, che rimise nella parti del corpo dove erano state meticolosamente fasciate.
Non ne aveva bisogon, ma prevenire era sempre meglio che curare. 
In quanto al vestiario, per quella giornata tremendamente afosa, optò per una minigonna a fantasia scozzese grigia e lilla, degli stivali argento che ne toccavano la caviglia e una maglietta corta sopra l’ombelico grigio cenere.
Ormai erano passati i tempi in cui si faceva condizionare dalle cicatrici, vestendosi in base a quanti strati di pelle avrebbe potuto coprire.
Non avrebbe permesso mai più a nessuno di ferirla o limitarla.
Consapevole della sua pregevolezza interiore, era tornata raggiantemente a mettere i capi che più gli piacevano quando e per andare dove voleva. Malgrado la madre fosse portata a pensare ancora il contrario.
Voltandosi verso i raggi di sole. Ayako si sgranchì le spalle in modo da trovare la calma desiderata.
Poi, senza riuscire a trattenersi, si mise a fissare l'affresco raffinato fatto da lei e la sorella nella parete centrale della camera.
Per abbellirla aveva scelto un letto a una piazza dalle lenzuola lilla abbinate alle pareti grigie e bianche, una scrivania al lato sinistro del letto, un armadio alla sua sinistra e nient’altro.
Tutti gli avevano detto che fosse una camera squallidamente smorta.
Ma lei lo amava perché ne rappresentava una stato mezzano. Né mai troppo felice, né mai troppo triste. Era parte di entrambi e in qualsiasi momento poteva scegliere quando essere totalmente uno dei due. Esattamente come lei.
Ayako fece un passo verso la parete disegnata, governata da un'istinto di nostalgia.
Quell'affresco gessato di bianco sulla parete, l’aveva proposto la madre.
Uno sprazzo di luce in mezzo a quei nuvoloni porta malinconia”.
Ci avevano messo mesi, lavorandoci con un’assiduità coinvolgente, e tutto sommato, vista complessivamente, l’opera d’arte era venuta abbastanza suggestiva: una gigantesca farfalla bianca – in memoria di Akira – dalle grandi ali all’interno delle quali sguazzava uno sconfinato banco di carpe, simbolo di anticonformismo, perseveranza e il coraggio di abbattere le sventure della vita.
«Si, mamma. Hai ragione. Mi si addice proprio» pensò abbozzando un sorriso.
Rilassatasi a sufficienza, Ayako prese il corridoio centrale, scese al piano di sotto, quindi entrò dalla porta sul retro dell’albergo – ristorante di famiglia.
Ritrovatasi accanto al bancone principale, notò la solita parapiglia di clienti, seguiti dal tintinnio dei piatti accompagnato dalla musica calmante che subentrava nel vasto atrio come una boccata d’aria fresca.
Guardandosi intorno, ad Ayako non ci volle molto per rivelare la festosa quanto chiassosa brigata di pirati.
Avevano occupato tutta la parte destra del ristorante e si stavano godendo quel momento salottiero alla grande.
Erano tutti soggetti di altri mondi, ma alcuni spiccavano sugli altri per l’aspetto fisico singolare allacciato ai modi di fare: un tizio con un cappello di seta e degli occhiali, stava mostrando le pagine di un libro ingiallito alla sua sorellina.
Un altro con la maschera a forma di teschio tracannava da un boccale della spumante birra.
Deuce il medico di ciurma, sedeva alla sinistra di un tizio – svenuto? Collassato di sonno? - sul tavolo.
Aveva la faccia completamente spalmata sul piatto riempito di riso alla marinara, ma il capello arancione da Cowboy con la corona circondata da una collana di palline rosse e due faccine - una triste, l’altra felice - al suo esatto centro, non le lasciarono dubbi su chi fosse: Ace pugno di fuoco.
Senza cercare di svignarsela coprendosi il volto con un libricino del menù, si indirizzò da loro adoperando un passo svelto e lungo.
Perché tutte le si poteva dire, tranne che fosse un pauroso coniglietto.
Così facendo, si portò davanti al loro tavolo, schiarendosi la gola per attirare la loro assoluta attenzione.
«Ecco, io...» disse, ma non appena le ventine di teste si voltarono verso di lei, riconoscendola, questa fu magnificata da degli amichevoli schiamazzi.
Ayako, sollevò un sopracciglio mortificata da quella loro esuberante accoglienza, specialmente perché nonostante il trambusto creato, pugno di fuoco perdurava a rimanere un busto di marmo senza sangue nelle vene.
Si chiese se prestargli una manovra di soccorso o ridersela anche lei.
E poi che si crucciava a fare se il suo medico di bordo gli era seduto accanto?
Se fosse stata una situazione di emergenza gli avrebbe dato assistenza, anziché ignorarlo. Giusto?
«É...» pronunciò, nessuno però parve capirla. Ayako dovette indicarlo con un cenno del mento per fargli presenti i suoi dilemmi.
«Ah, lui?» gli chiese il tizio che stava facendo leggere un suo libro alla sorella.
«Non preoccuparti. È normale. Vedrai che tra pochi secondi si risveglierà di colpo e riprenderà a mangiare come niente fosse» la informò parlando con leggerezza.
E così accadde.
Inconcepibilmente, pugno di fuoco si raddrizzò di scatto sulla sedia come se qualcuno l’avesse pizzicottato, navigò con gli occhi offuscati in cerca di un grembiule in cui asciugarsi la bocca e non trovandolo riprese a mangiare come nulla fosse successo.
Tutto questo sotto lo sguardo sconcertato di Ayako.
«E’ proprio un tipo fuori dal comune non c’è che dire.» commentò divertita.
«Ma adesso...» Ayako si accorse di dover cogliere la palla al balzo.
«Emh...» ruggì per richiamare la sua attenzione correntemente rivolta a un cosciotto di carne.
Ace si bloccò e la guardò in attesa.
Il pirata non si spiegò perché l’averla lì di fronte lo rendesse nervosamente impaziente. Forse perché aveva già compreso quanto in comune avessero nei fattori esperienze e caratteriali. L'interagirci quindi sarebbe stato un po' come farlo con se stesso.
«No, ecco vedi, io….»
«Oh!» dissero contemporaneamente, accavallando così le proprie parole. Ayako ammutolì nel vederlo alzarsi, assumere una posizione eretta – braccia incluse – e protendersi in un inchino educato.
«Piacere io sono Ace. Capitano dei pirati di Picche»
«Io sono...» balbettò lei imbarazzata. Era passato così tanto tempo da quando un ragazzo gli si era presentato in maniera così garbata.
Quel giovane pirata aveva certamente dei modi di fare assurdamente illogici, ma che lo rendevano un pezzo unico nel suo genere.
Ace, sembrava essere proprio il frutto nato dalla notte d’amore di un’audace pirata e una dolce principessa dotata da un cuor di leone.
«Ayako» dichiarò il suo nome ormai noto.
«Ecco, io volevo ringraziare» prosegui, malgrado lì per li non seppe se essere sincera e confessargli che sapeva benissimo chi fossero e non gliene fregava niente della loro cattiva reputazione.
L’avevano salvata dopo che era stata quasi ridotta in fin di vita e questo soltanto aveva dimostrato a sufficienza che la sua ammirazione per loro era stata ben riposta.
«Te e la tua ciurma di pirati per avermi difesa e soccorsa» Sul viso di Ace si dilatò uno splendido sorrisone.
«Figurati è stato un piacere. Si mangia benissimo qui da voi» rispose facendogli capire che ne era davvero valsa la pena.
«E fidati, lui se ne intende dato che ha girato tutti i ristoranti dell’isola» se ne beffò Skull.
«A scrocco» tossicò un pirata ai margini della sala sicuro di non essere sentito.
«Quindi suppongo che hai assaggiato anche il nostro piatto forte» Ayako gli parlò con innata naturalezza.
«Si. Ottimo tutto. Non avrei mai smesso di mangiare» un compagno pirata di Ace fece una battuta su di lui e lui se ne aggregò ridendo svagato.
«Eppure a vederlo pare essere così felice e sereno» Ayako stava rivalutando la sua teoria sul sogno premonitore, ma quando partì a esaminarlo fissamente, capì di averlo trovato.
Quei suoi capelli corvini e mossi fin sul collo che si mescolavano perfettamente al suo tipo di carnagione chiara.
Quelle lentiggini spruzzate sulle guance estimatrici di un viso ilare.
Il tatuaggio nel braccio sinistro, la camicia lime sbottonata che gli attribuivano il valore della fermezza.
Ma c’erano gli occhi che se pur brillassero di ambizione e schietta serenità, tradivano una minuscola rifrazione di insoddisfacente mestizia.
«Somigli molto alle faccine del tuo cappello. Somigli un po’ anche a me. Sei come il sole , Ace»
Ace era come un sole mortale che dispensava sorrisi calorosi ai suoi simili per scaldarne gli appositi cuori addolorati, ma non sciogliere il suo freddo dolore.
«Ne sono certa, sei tu. Non posso sbagliarmi»
Non c’erano più dubbi, l’anonima anima straziata, La sagoma umanoide infuocata, era lui.
Ayako l’aveva supposto e confermato nel giro di pochi minuti.
«Ayako i ragazzi volevano andare a vedere il dirupo della memoria e la scalata del poeta» la informò la piccola Aya stringendosi ai suoi fianchi. La maggiore sussultò colta a vagare nei suoi pensieri. Successivamente, ne ricambiò l’affetto incrociando le braccia sulle sue minute spalle.
«Volete andare a vederlo?» nella sua domanda c’era stata della palpabile angoscia.
«Si. Perché? Ce lo sconsigli?» la torchiò Deuce.
Ace assomigliò lo sguardo senza pronunciarsi.
«Ci hanno detto che sei tu la specialista del posto e abbiamo deciso di aspettare la tua ripresa per permetterti di farci da guida. Ma se non te la senti, possiamo recarci da soli» gli spiegò Skull.
«Si, possiamo capirlo» assicurò Deuce.
Ayako fu incerta sul da farsi.
Però, di cosa si stupiva d’altronde?
Era prevedibile che dei pirati fossero attratti da un posto in cui albergava la leggenda di un tesoro senza eguali.
Tesoro che tra l’altro non si trovava più dove era stato seppellito. Lei lo sapeva bene.
«Ma che sto facendo. Non devo sospettare di loro»
Una fitta di colpa gli brontolò allo stomaco. Forse non doveva diffidare.
In fondo avevano dimostrato di essere dei pirati dignitosamente onesti e non avrebbe avuto alcun senso usarla per arrivare al frutto dopo averla aiutata.
Escludeva che l’avrebbero costretta a confessare la verità di quella notte come stava facendo da ormai anni quel maledetto tenente della marina.
Non doveva confondere delle coerenti intenzioni con delle ruffiane allo stesso modo del confondere l'oro con il piombo.
Li stava giudicando erroneamente. Loro erano tipi a posto. Il loro capitano lo era e lo sapeva perché in quel breve contatto non aveva sentito alcun sentimento opportunista o fasullo.
«No, è vero. Io faccio da guida turistica una volta al giorno a chi vuole vedere le rovine artistiche di quel posto» tranquillizzò cordiale portandosi le ciocche sinistre dietro la schiena.
«Sapete avete avuto un’ottima idea. In genere è una gita che mi faccio ragionatamente pagare, ma stavolta adotterò il metodo deluxe. Sarà un modo per sdebitarmi con voi» disse e si voltò per controllare l’orologio sito sopra il bancone d’ordinazione.
«Sono quasi le due. Siamo in perfetto orario. Mangio qualcosa e poi si parte»
«Agli ordini Miss» dissero i pirati in coro sollevando i boccali pieni fino all’orlo.
Così chi doveva mangiare, mangiò. Chi doveva fare un sonnellino antecedente alla scarpinata, sonnecchiò sulla sedia.
Svolta ogni faccenda e sistemato negli zaini l’indispensabile per “sopravvivere” alla mini gita, La piacevole combriccola partì verso le due e quindici con il sole scottante sulla testa, totalmente ignara di essere seguita da uno degli esponenti più menzogneri nella fattispecie della Marina.


NOTE DELL'AUTRICE: E rieccomi con un nuovissimo capitolo. 
Piaciuto? Che ne pensate di Ayako? Vi siete già fatti un'idea del suo potete speciale? Un'haki particolare no?
Detto questo come vi sembra l'evoluzione del tutto?
Ayako sa molto di più di quello che sembra sul frutto? 
Vi aspetto alla prossima e come al solito ringrazio i lettori silenziosi e chi mi aggiunge/rà alle preferite, ricordate, seguite. 

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Capitolo 4
*** Mio caro amico – fratello ***


 

PERFECTLY BLUE

 

Capitolo Quattro

 

Mio caro amico – fratello”.

 

 

 

 

La modesta comitiva di pirati – alla gita erano andati dieci dei venti di loro – si lasciò trasportare e istruire dalle parole accurate della loro guida come se fossero turisti di un’altra nazione.
Ayako amava fare quel lavoro nei suoi ritagli svuotati di impegni della giornata.
Gli dava il senso di una pienezza benefattrice che gli faceva credere di poter migliorare questo mondo anche solo con un sorriso luminescente.
«Perché l’isola si chiama Fourteenth Mark, se le località di ceto sono solo quattro?» gli domandò ad un certo punto Mihar arci interessato a quel secondo mistero. E anche gli altri erano affetti da un'inarrestabile prurito alla testa per scoprirne il significato nascosto.
«L’isola come avete fatto presente è divisa in quattro località di ceto diverso: ricca, benestante, abusiva e povera. Ma fu chiamata fin dai tempi antichi “Fourteenth Mark” per via del quinto stato» Ayako introdusse così la sua delucidazione storica.
«Quinto stato?» fece Mihar centuplicando i suoi interrogativi.
«Si, quattordici. Quattro più uno cinque. Quest’isola aspetta da secoli che avvenga la fusione dei quattro ceti divenendo un quinto unico stato. Compatto. Corretto. Omogeneo. Dove non conta più la razza, il titolo nobiliare o da che parte provieni. Quest’isola sogna uno stato fondato sull’uguaglianza, ma da secoli a questa parte, questo sogno tarda a figurarsi. Lo vedete anche voi stessi, no? Ogni contea è accessibile all’altra, ma è inusuale vedere un ricco che va a trovare il ceto povero se non giusto perché ha sperperato tutti i suoi averi. Viceversa il povero può tentare la fortuna ai casinò signorili e se la sorte gli arride può sistemarsi in una casa confortevole nel ceto benestante. I cittadini di ogni fazione si sforzano di andare d’accordo, ignorandosi per la maggior parte del tempo, e se non lo fanno la puzza sotto al naso è palpabile.

Gli abusivi vengono guardati storti. I ricchi pretendono un rispetto reverenziale. I poveri sono dimenticati. E i benestanti ingaggiano costantemente rovesciamenti del potere per usurpare degli agi dei nobili» argomentò indottrinata dall’esperienza personale.
«La vita qui sembra spassosa. Non ci si deve annoiare proprio mai» volle dedurre Skull giocoso. La principessina del gruppo – correntemente intenta a camminare con i suoi blasonati piedini al fianco della sorella – scrollò disattentamente le spalle.
«A volte non succede niente, altre si. Ma quello dipende anche dalle notizie che trapelano dalla giornata precedente» le due sorelle si fissarono come se avessero afferrato nell'aria la medesima idea e si stessero compiacendo della loro pazzesca genialità.
Ad un coinciso segnale segreto di un sorriso connivente, le due partirono con uno scioglilingua intervallato che si capiva bene fosse uscito dalle loro innovative menti.
«Verde per le notizie rigogliose»
«Gialle per quelle eclatanti»
«Rosse le violente»
«Nere le misteriose»
«Bianche le pacifiche»
«E infine grigie le neutrali» lo chiusero sprizzanti di energia.
«Oggi però sembra che l’intera isola stia ancora dormendo» quel giorno sembrava davvero che le male lingue fossero state sedate con una medicina tranquillante.
Nel realizzarlo, Ayako si voltò presa da un’inspiegabile frenesia e passeggiò all'indietro mostrando un gigantesco sorriso da otto carati di brillantezza.
Ed eccoli li. Ad Ace sembrò di ricevere un pugno in pieno stomaco come quelli che gli era ormai impossibile incassare data la mutazione genetica che il suo corpo aveva subito.
Il sorriso di lei dopotutto carezzevolmente gentile, ma compiangente della mimetizzazione di un dolore malinconico e raccapricciante, fece contorcere i sensi sviluppati di Ace, perché per lui fu come guardare la sua parte antitetica allo specchio.
Si sentì altamente frantumabile nel modo in cui si sentiva ogni maledetta volta che udiva il nome del padre o permetteva ai suoi complessi intimi di sciupargli l’anima con il loro fracassante rumore.
Ayako, lesse il turbamento negli occhi del ragazzo e il suo sorriso scemò immediatamente.
«Che stupida. Gli sarò sembrata troppo audace e inopportuna. È stato sciocco da parte mia. Non devo lasciarmi trasportare dal momento solamente perché questi ragazzi mi fanno sentire a mio agio nell'identico modo in cui lo faceva Akira»
E depositati i suoi pensieri, a occhi bassi, Ayako gli ridiede le spalle, dimenticando l’insignificante circostanza in cui si era ritrovata.
«Forza, che la strada è lunga» disse riassumendo l’atteggiamento efficiente di guida turistica.
La gita si fece passo per passo appetibile grazie alla parlantina giovanile e forbita di Ayako
Ogni mezz'ora Deuce chiedeva a quest'ultima se fosse stanca o le ferite le dolessero, ma lei sollevava il pollice con un sorriso angelico guizzante sulle labbra, rispondendogli “Tutto a meraviglia”.
Fatto un altro pendio pianeggiante, si ritrovano davanti ad un sentiero che si estendeva a perdita d’occhio nell'oceano equidistante.
A scoscenderlo erano due lati disparati per lunghezza e contenuto: a destra, pecore dalle fattezze dubitabili – piccole ali salmone da canarino, code lunghe come giaguari - brulicavano l’erba nelle vicinanze di alberi dalle policrome gamme che offrivano deliziosi quanto succosi frutti.
La sinistra, appariva più remota poiché ad assieparla erano ruderi di grosse torri che sembravano essere state affettate dal grande spadaccino in persona “Drakul Mihawk”. Altresì chiamato “Occhi di falco”.
«Adesso ci immergiamo nel vivo della parte storica dell’isola. Pronti?» disse Ayako innamorata di quel paesaggio dall'età di otto anni.
Aveva voluto mettere appositamente dell’abbondante aspettativa nelle menti dei suoi esclusivi villeggianti. Così da rendere quella gita approvata ed elettrizzata.
«Avanti! Marche!» fece da risonanza la sorellina, alzando un pugno in aria.
Seguendo la loro gioviale guida, quando i pirati furono per passare dalle parti dei ruderi del castello e gli alberi policromi, si permisero di offrirgli delle domande da turisti eruditi.
«Nessuno lo sa con precisione» diede risposta questa, tirando fuori dal piccolo zaino da viaggio un tomo blu corallo che sulla copertina esponeva la scritta argento “Chi eravamo e chi siamo diventati: storia e racconti di Fourteenth Mark”.
«Nei libri della biblioteca secolare che vi accennavo poco fa, dicono che in precedenza questa è stata una splendida città guidata da un re ambizioso e onesto, ma durante una congiura di ribelli venuti da altre parti dell’oceano, lui e la sua discendenza sono stati massacrati. Quindi di conseguenza, voi capite bene, l’ordine irreprensibile della monarchia è stato annullato. Da qui poi, ovviamente, è anche nata la divisione delle quattro classi sociali che vedete adesso» Ayako fece scorrere le pagine del tomo creandone un effetto ventaglio.
«Molte altre enciclopedie invece narrano che essendo il re dell’isola cronicamente ambizioso, cercò spontaneamente un scontro epocale con il re dei pirati Gold Roger.» menzionò questa fermandosi per stabilire una sosta al centro del sentiero.
Deuce lanciò un’occhiata eloquente al suo capitano mortalmente serio come ogni volta che veniva citato il nome del leggendario padre.
«Ma è una cosa che non ha fondamento perché quando il re dei pirati è approdato qui, il castello si trovava già in queste deteriorate condizioni» continuò la ragazza.
«Però sapete? I popolani lo fanno sopratutto per i bambini. A loro piace che si favoleggi sulle cose per avere un esempio da imitare e su cui giocare» Ayako sollevò il tomo per mostrare una pagina del tomo ai suoi turisti.
«Comunque questo era l’antico splendore del castello» i pirati si ammassarono davanti a quello strumento quadrato di carta focalizzando una fortezza regale del colore del cielo con un mastio, due torrette collegate dalla tonalità dei lingotti d’oro più un muro di cinta intorno dalla merlatura guelfa e un barbacane atto a rafforzarne la tutela.
«Effettivamente le torri sono quelle» fischiò Mihar notevolmente impressionato.
Il loro cammino riprese e questo gli chiese di poter sbirciare tra le pagine del tomo di cui era padrona. Ayako glielo prestò volentieri.
Nel leggerlo, di tanto in tanto Mihar chiedeva consulto a lei su dove si trovasse tale posto o cosa ne pensasse lei di una determinata rovina antica.
La sorellina invece, passava di uomo in uomo. Per un breve tratto si mise in groppa a Deuce, poi passò a Mihar e infine a Ace al quale chiese di sollevarla su una spalla per fargli ammirare meticolosamente il paesaggio tinto da cromature tiepide.
Mezz'ora dopo, arrivarono ai margini di una battigia dove a pochi tratti di lì, alla sua estremità sinistra, si poteva osservare una stupefacente grotta dalla struttura peculiare.
Esternamente appariva come un ponte asimmetrico di calcare scisso da due parti mastodontiche uguali, internamente era quello che più fascino si potesse contemplare: la muraglia calcarea appariva come un guscio di drago di un oro perlaceo menzognero dell’illusione di esserne quasi ricoperto fino all’ultimo strato.
A sinistra, destra e sulla sua volta, si elevavano tre aperture scavate dalle temperie del tempo.
Quella sulla volta era la più stupefacente poiché se veniva inondata dalla luce solare, generava un fascio di luce dalla specifica forma a cono che ti dava la disarmante sensazione di essere il prescelto per sentire i cori degli angelici cherubini.
I pirati seguirono la loro guida con il naso all'insù e gli occhi ben aperti ad osservarne quel prodigio favoloso partorito dalla natura.
«Pensi che fosse il luogo in cui aveva intenzione di nascondere il tesoro?» Skull fece l’azzardo di fare quella domanda tabù quando Ayako li portò davanti a dei scarabocchi inconsueti affrescati sulla parete frontale.
«Ne dubito» negò Ayako piegandosi sulle ginocchia per poggiare la mano su quei segni.
«Penso che sia più il tempo di permanenza che si è dato per stare nell'isola. Sapeva che prima o poi l’avrebbero acciuffato quindi doveva architettare un piano di fuga perfetto» esplicò facendo scorrere le dita nel primo punto segnato con una X rossa.
«Queste qui potrebbero essere le gallerie scavate per non farsi beccare e le X le vie d’uscita provate e perciò sicure» la mano di Ayako scartò nel cerchio irregolare vuoto.
«Questo invece penso che avrebbe dovuto essere il momento della sua fuga, ma non ha avuto il modo di segnarlo perché è il giorno in cui è stato catturato» i pirati restarono in silenzio incantati dalla sua vivace intellettualità.
C’era chi si aggirava intorno alla parete calcarea della grotta esplorandone le curve manco fossero degli archeologi capaci di comprendere quei graffiti indecifrabili, mentre nella testa di altri faceva da eco la stessa domanda “Dov’era il tesoro?”
Notando che nessuno aveva nessuna domanda da fare, Ayako aspetto altri due minuti poi proclamò.
«Riprendiamo il cammino» La loro seconda – e penultima meta - fu la scalinata del poeta bandito.
Adornata dalla bellezza suggestiva di cinquanta gradini di marmo latteo, la scalinata si affacciava ad abbracciare l’immensità incalcolabile dell’oceano, assicurandoti una visuale che ti avrebbe tolto il fiato. In ogni senso plausibile.
Se stendevi le braccia e chiudevi gli occhi a metà altezza, avevi l’effetto chimerico di sorvolarne la vastità d’acqua con il vento che ti scombussolava i capelli amalgamato al profumo di salsedine che ti inondava le narici.
«Le persone raccontano che il pirata si metteva a sedere qui per ore in cerca d’ispirazione, trovandola. Voci narrano che abbia scritto un romanzo dedicato a se stesso e le sue strabilianti avventure piratesche» Ayako descrisse i lati portentosi del rinomato pirata dell’isola fermandosi a metà salita così da avvalersi di dieci minuti di riposo e godersi la pazzesca vista dell’oceano che la scalinata gli offriva.
Un quarto della ciurma aveva deciso di emulare i compagni assiepandosi in angoli sparsi dei gradini, approfittando anche per frangiare acqua e viveri. Il resto forse per non rammollirsi, forse per preferenza, era bello che alzato.
Il resto come ad esempio Ace, situato ad un metro da Ayako, però volto nella direzione opposta, stava a fissarsi il cappello sul capo, lasciandosi scombinare la chioma corvina dalla brezza marina.
Sul suo volto e le iridi si riverberava il sentimento inconfondibile della nostalgia poiché contemplare a bocca chiusa il panorama oceanico di fronte a lui gli faceva fatalmente rimembrare le giornate dell’infanzia in cui l’aveva fatto con i suoi due fratelli.
«Che fine ha fatto quel manoscritto?» la interrogò Deuce seduto tre scalini più in alto alla postazione di Ayako
«Molti dicono che l’ha portato con se e gli è stato confiscato dalla marina perché contenente pensieri e segreti non condivisibili, altri che sia stato seppellito insieme al frutto così che il cercatore prescelto lo possa proseguire al suo posto» dettagliò coinvolta da quel discorso. Era uno dei suoi preferiti.
«Sarebbe interessante poterlo leggere e avere l’onore di proseguire la sua missione, non trovi?» le chiese confidenzialmente Deuce, ingolosito da quella verosimile cronaca.
«Si, sarebbe il massimo» confermò lei emettendo un sorriso impiastricciato dall’omologata sorpresa di essersi trovata in perfetta linea con il filo logico del suo ragionamento.
Era l’identico pensiero che aveva generato lei una volta venuta a conoscenza dell’esistenza di quel manoscritto.
«Mi trovate totalmente d’accordo» si intromise Mihar innamorato pazzo dei libri e la scrittura come loro. Ayako gli restituì l’equivalente sorriso. Poi la sua espressione si fece progressivamente severa e riflessiva come un pirata al quale era stata fatta fuori la sua ciurma, ma che incrollabile, proseguiva il suo itinerario sconosciuto per i mari, in cerca di quelle risposte che valevano più di un bottino nemico.
«Li» disse impastando la voce di cemento.
«C’è il dirupo della memoria» rivelò indicando la sua ubicazione a ore tredici con l’indice.
Tutti i pirati si voltarono per osservare il precipizio che si stagliava a pochi metri da loro, sospeso a un centinaio di metri dal terreno sottostante terroso e roccioso.
Gli immediati pensieri furono “Quindi è li che è avvenuta la spiacevole disgrazia? e “Caspita, ha fatto un bel volo il ragazzino” o dei persistenti Chissà se si trova li il tesoro”
Dopo aver gettato un'abbondante dose di sudore e virilità, la comitiva si ritrovò ai margini di una foresta tratteggiata alla sua destra da un sentiero segnaletico di paletti di legno che li proiettarono dinanzi al dirupo della memoria.
Lo spiazzo si presentava come una spianata dal selciato di terra polveroso ricavato naturalmente. Nei vari punti cardinali massi dalla grandezza sconcertante arredavano quel luogo estremamente spoglio insieme alla sezione centrale dove spiccava l'unico elemento contemplativo sede di attrazione dei vari turisti: una tomba color sabbia dalla forma geometrica rettangolare posizionata verticalmente, riportava il nome, la data di nascita, quella di morte e una piccola dedica da parte dei suoi più cari affetti “A chi sperando ha dato speranza”.
Al lato, nel posto dove ci sarebbe dovuto essere un vaso riempito di fiori, c’era invece una boccia di vetro per pesci con dentro una trentina di piccoli passerotti di carta colorata fatti nello stile origami.
«La storia del dirupo della memoria è una storia realmente accaduta proprio come quella del pirata latitante. E come quella del pirata latitante presenta della parti romanzate. La morte di Akira Watanabe è stata talmente sede di scandalo e notizia che ancora oggi se ne parla per le vie dell’isola» Ayako si avvicinò alla tomba contemplandola con la maschera di un volto incavato da una calma piatta.
«Tutto avvenne quella notte di sei anni fa. Si racconta che lui e la sua più cara amica piaceva giocare agli esploratori, che cercassero il frutto, e che arrivati ad un punto cruciale di quella loro insussistente ricerca, cominciò a piovere così violentemente, da non riuscire neanche a tenere gli occhi aperti. L’amica ha provato in tutti i modi ad impedire l’irreparabile, lei, avrebbe voluto essere più forte, forte come un gigante, ma….non ci è stato niente da fare. Il temporale ha impedito il suo salvataggio facendolo schiantare dal dirupo e morire sul colpo. Quando il corpo fu recuperato, a decisione unanime, fu deciso di commemorare la sua memoria in questo luogo anziché nel cimitero principale dell’isola» recitò e quelle sue parole suonarono ridondanti e vuote come il discorso prefissato di un sindaco consapevole del suo significato e del perché lo stesse tenendo.
Il ritrovarsi li, davanti alla sua tomba, il cercare un ricorrente appuntamento con il luogo dove Akira aveva perso la sua irriproducibile vita, la soggiogarono, inghiottendola nell’irrequieta aspirale di ricordi da lei coattivamente soppressi.


[«Ayako» il ragazzo aveva pronunciato il nome dell’amica con della tenera arresa.
«Non parlare, Akira. Tieniti stretto alla mia mano. Io..non ti lascerò. Non lo farò mai. Costi quel che costi, ti tirerò su» lo interruppe lei invasa da una prostrata rabbia.
Il temporale imperversava dannoso nell'aria che li attorniava.
Lampi e fulmini si succedevano in una macabra composizione musicale che gli faceva vibrare l’intera cassa toracica e massacrava i timpani.
Il corpo di entrambi assoggettato ad uno strazio inammissibile, urlava al contatto con ogni singola goccia di pioggia, che doleva sulla pelle allo stesso modo di violenti quanto ripetitivi colpi di frusta.
«Ayako» il ragazzo ripeté il suo nome come se fosse il titolo del suo romanzo preferito.
«No, non voglio sentirti» gli aveva gridato la ragazza scuotendo convulsamente la testa. Pioggia e lacrime si erano amalgamante sul suo bel visino candido - ora rubizzo - e privo di sfregi. Gli occhi ambra, ridotti a due fessure per lo sforzo fisico al quale era sottoposta, la chioma mora appiccicata alla tempia, gli donavano la tipica aria di chi aveva il folle eroismo di preferire precipitare giù dallo strapiombo con il proprio amico anziché lasciarne la presa della mano.
«Ayako per favore, lo sai che devi farlo. Devi lasciarmi andare» insistette il ragazzo con le gambe a penzoloni e la mano stretta all'amica sul punto di scivolare nel vuoto.
«No, ti prego, non lasciarmi» si agitò lei in preda ad un attacco madornale di nervi.
«Io non so come, come fare senza di te. Tu, sei...tu sei..» balbettò, e il resto delle altre parole gli rimasero incagliate in gola, senza avere possibilità di poter essere soffiate con della sentimentale dolcezza.
Il ragazzo sorrise per dirgli che non aveva bisogno di dirgli nient’altro perché lui conosceva dettagliatamente ogni angolo del suo dedalo di cuore. Perfino che tipo di melodia irresistibile producesse la sua incantevole voce o addirittura quanti battiti al secondo emettesse.
«Lo sai Ayako. Sei più forte di chiunque altro» “]



«Lo sai Ayako. Sei più forte di chiunque altro»
Non lo era, non lo era affatto.
«Non lo sono, Akira. Non lo sono mai stata»”.
Se lo fosse stata, Akira sarebbe stato li con lei. Se lo fosse stata non avrebbe mai collezionato tutte quelle orripilanti cicatrici sulla pelle, segno e promemoria delle innumerevoli sconfitte della donna guerriera che rappresentava.
Lei aveva solo orgoglio e temerarietà, ma non la forza.
«Vorrei tanto averla». Come avrebbe tanto voluto averla. E sapeva che esisteva un modo per ottenerla, per ottenere quella forza invincibile e inarrivabile, tuttavia, sapeva anche che così facendo avrebbe tradito la promessa di sei anni fa, fatta all'amico.
Ayako però ricordò anche di essere nel bel mezzo di un itinerario turistico quindi la loro guida addossata dal dovere di intrattenere i suoi turisti mediante una fantasiosa parlantina.
Perciò, ridestatasi dalle sue infauste memorie, tornò a fare permanere la sua voce un suono privo di tremore ed emozioni.
«Nell’isola corre la diceria che a spingerlo sia stata la sua cara amica e che avessero avuto un diverbio per accaparrarsi il frutto del mare. Ma sono solo calunnie infondate» riprese mantenendosi distaccata dalle sue cronache come se lei non avesse mai fatto parte di quelle dolorose vicende.
In intermezzo al suo itinerario culturale, regnò un silenzio religioso alla stessa maniera di una tempesta catastrofica che una volta cessata, lasciava solo terrore e disperazione dietro al suo passaggio.
I dieci pirati di Picche, con le labbra immobili quanto incapaci di dire una qualunque inaccettabile frase di conforto, stesero muti ad ascoltare l’incessante canto del mare e farsi alitare in faccia dalla leggiadra brezza marina.
«Allora? Non avete domande da farmi?» li istigò lei rimanendo di spalle, accorgendosene.
Sul suo viso si marchiò l’ombra di un sorriso che sapeva di aspro come un frutto acerbo.
«E’ così strano. Di solito arrivati a questo punto le persone accantonano la buona creanza, cominciano a chiedermi cose come “E’ vero che lo hai ucciso tu per avere tutto per te il frutto del mare?” o “Dov’è che lo nascondi?” per poi concludere con “Riesci a dormire la notte dopo aver fatto una cosa così tanto meschina?”» Ayako si voltò verso di loro, stavolta, con un sorriso malinconicamente genuino.
«Ma voi siete diversi. La vostra comprensione e deferenza mi colpiscono» non fu necessario aggiungere il “Grazie” finale, perché i pirati l’aveva bello che percepito nell'eloquenza delle parole appena esposte dalla ragazza.
Proprio allora, Ace si decise a muovere dei passi affiancandola accanto alla tomba dell’amico.
Al che si piegò sulle ginocchia, abbassando il capello sulle spalle, per onorarlo come si deve.
Ace però, meditava anche su ciò che aveva sentito e interpretato.
Ne riconosceva tutti i segni, ogni minima emozione trasparita dalla ragazza perché viaggiavano praticamente in parallelo ai suoi stessi sentimenti.
Non aveva bisogno di interagirci, o guardarla dritta negli occhi, perché poteva avvertire nettamente l’odio, il rimorso, il senso di colpa, il diniego e l’abnegazione di cui ne era stata caricata ogni lettera, ormai consumata nell'insussistenza dell’aria.
Anche lui come lei, avrebbe voluto fare di più per suo fratello Sabo.
Avrebbe voluto esserci al momento della sua partenza per salutarlo e per rinnovare la promessa di ritrovarsi in quelle acque mutevolmente infinite.
Avrebbe voluto esserci nell’istante in cui era accaduto il colposo incidente per poterlo portare in salvo l'annegamento certo.
Perché in quel periodo della sua vita, Ace aveva appreso che esistessero persone in grado di amarlo e accettarlo per ciò che era e non pensassero che la sua nascita stessa fosse un abominio per la razza umana.
In quel periodo il fardello che Ace portava nel cuore era divenuto inspiegabilmente meno lacerante, ma più sostenibile.
E quando aveva letto la lettera scritta da suo fratello prima che partisse, quel suo pianto era stato un grido di scuse che aveva squarciato il cielo per dei secondi che erano somigliati a secoli.
In ogni caso quel ciclo della sua infanzia sarebbe rimasto l’ennesimo oscillante capitolo della sua involuta vita.
Dopo essere stati degli altri minuti in raccoglimento, Ayako gli chiese se potessero concedergli del tempo per stare sola.
Comprendendo il suo bisogno di rimanere in privato con la tomba dell’amico, i pirati la seguirono la piccola principessa in fila disordinata.
«Hey ciao» Ayako salutò l’amico defunto mettendo il novecentesimo passerotto di carta azzurra.
«Qui è dura senza di te, sai Akira?» proseguì a parlargli in piedi, convinta che in qualche modo trascendentale, lo spirito di lui potesse sentirla.
«So che dovrei andare avanti, e lo sto facendo, mese per mese, attimo dopo attimo, ma portandoti sempre nel mio cuore.» Ayako poggiò la mano sinistra al centro del petto.
«Perché se tu non ci sei qui, la mia volontà cessa di esistere. E ti giuro che manterrò la promessa che ti ho fatto, concluderò la nostra missione e serberò in me il nostro segreto anche a costo della mia vita» rinnovò il suo giuramento come ogni giorno che riusciva fieramente a rimanerne fedele.
«A proposito...sai?» discorse. E di colpo, lo strato di pelle intorno alla cicatrice della guancia destra incerottata, da indurito, si distese in un sorriso emozionato.
«Nell’isola è arrivata una ciurma di pirat...» Ayako stava per raccontargli della squinternata ciurma conosciuta da poco e quanto fosse sicura che quei cordiali bricconi gli sarebbero piaciuti, ma un rumore di foglie smosse da un corpo umano la interruppe.
«Si, scusatemi, avete ragione, arriv...» disse voltandosi verso dove era giunto il rumore scoprendo che la figura dietro di se fosse.
«Oh, ma guardo un po’ che colpo di fortuna. Ti stavo cercando e ti trovo davanti alla tomba di mio figlio» prese a provocarla per incentivare la sua rabbia ad accrescere rapidamente. Il tenente indossava quella divisa candida che faceva a cazzotti con la sua personalità deviata. Al fianco sinistro portava la sua inseparabile, bestiale frusta, ma stavolta al fianco destro, si era premurato di portare anche una malfida arma da fuoco.
«Hai una guarigione veloce. Devo sospettare qualcosa?» portò avanti la sua tattica contraffatta. Il suo ghigno da rettile fece accaponare la pelle di Ayako, che affondò le unghie nei palmi per la scossa di rabbia avuta.
«E’ inutile che mi provochi, tanto io non ti temo» sbottò lei a denti stretti. Ma non era affatto così. Ayako era cosciente che nonostante la cicatrizzazione delle ferite non fosse ancora pronta per un sanguinario scontro fisico. E il meglio sul quale poteva destreggiarsi risultava la dialettica.
«Ora vattene!» gli intimò con tonalità arida. Il tenente non mosse alcuna falcata intimidatoria in avanti o rese ancor più enfatico il suo ghigno.
«Sono venuto a sapere da alcune persone che avete dato alloggio gratis ai pirati di Picche. Cos’è, adesso simpatizzate anche per i fuori legge?»
«Sono affari e ospiti nostri» ribatté e quando vide la minuscola figura della sorella nascosta dietro il tronco di un albero per spiarli, gli zompò il cuore in gola.
Per sua fortuna, Ayako, sapeva misurare le reazioni quindi fece un’impercettibile gesto dell'indice e medio uniti e messe in orizzontale – il loro segno di allarme segreto – dicendo alla sorellina di scappare, nascondersi, perfino chiamare aiuto.
Quello che preferiva, l’importante era che il nemico non l’avesse scoperta.
«Affari e ospiti vostri? Sapete che cosa comporta questo vostro atteggiamento negligente? Ospitare dei possessori del frutto del mare comporta non solo un aumento delle tasse, ma vi denuncia automaticamente come cospiratori. E come se non bastasse, adesso ti vedo qui a visitare la tomba di mio figlio come se niente fosse» straparlò il Marine.
«Io ho dato la degna sepoltura al figlio di cui tu non ti sei mai curato di riempire di attenzioni e affetto» «Si, gli hai dato un luogo dove riposare in pace dopo averlo ammazzato. Cosa credi basti questo per redimerti?» la accusò stando attento di fargli arrivare quella sua avvelenata frustata morale.
«Io non avrei mai fatto una cosa simile. Akira, era...importante per me» Akira era la sua altra metà del cuore, il suo pilastro, la sua ragione per crescere e, e, amare in ogni senso compiuto e totale della parola.
«E ora non lo ripeterò più. Vai via di qui perché altrimenti non risponderò più di me stessa» gli ruggì addosso. Il Marine di tutta risposta spalancò un occhio e ridusse ad una fessura il corrispondente. L'avvertimento della ragazza aveva avuto per lui lo stesso effetto di un colpo di pistola sparato a salve.
«Se c’è qualcuno che deve stare alla larga da quella tomba sei proprio tu»
«Tu non hai rispetto per la memoria di tuo figlio, perché allora dovrei averla io per te? Anche Akira, sapeva che genere di uomo meschino e riprovevole sei, per questo passava più tempo con la mia famiglia che con sua»
«Akira, non ha mai capito che genere di uomo sarebbe potuto diventare. Sei stata tu ad incantarlo e abbindolarlo con i tuoi stupidi sogni da pirata»
«No, tu lo tiranneggiavi. Volevi muovere i fili del suo destino, tentavi di corrompere la sua anima per renderlo come te. Ma lui era troppo intelligente e puro per cadere in simili macchinazioni» se ne avventò lei surriscaldandosi la lingua. Ciò, mandò fuori dai gangheri la pazienza inesistente dell’imbarstadito Marine.
«Adesso basta ragazzina, mi hai stufato. È arrivato il momento di regolare i conti una volta per tutte»
«Per un volta, siamo d’accordo su una cosa» Ayako, si slanciò verso di lui con il pugno sinistro proteso a mirarne alla mascella, ma quel rapidissimo movimento, gli paralizzò gli arti.
«Maledizione! Il mio corpo non è ancora pronto a uno corpo a corpo. Ne ero certa. Cosa faccio adesso? Pensa Ayako. Ignora il dolore e pensa. Pensa»
Il tenente della marina, intanto, da vigliacco e opportunista che era, approfittò di quel suo impedimento fisico, per imprigionarla nella spira della sua “invertebrata” corporatura: un braccio la stritolava accanito per spalle, l’altro pressava strategicamente sul costato.
«Mi hai stufato, sciocca e stupida, donna» gli sibilò all’orecchio deprezzandone il sesso a cui apparteneva. Poi mollando la presa dal costato frugò nella tasca interna della giacca bianca di Marine, estraendone una boccetta ripiena di un contenuto verde sciroppo che gli passò sotto il naso al modo di un pendolo ipnotico.
Ayako perse i sensi qualche secondo dopo e il Marine se la caricò di peso sulla spalla come se fosse un mero sacco di merce da vendere ad un’acquirente.
Mantenendo una camminata placida, sparì nel fitto della foresta attento a non lasciare alcuna traccia di se nel suo cammino.
La piccola principessina della comitiva, nel contempo, correva a perdifiato in mezzo alla selva disseminata di trappole naturali, rischiando anche di capitombolare a terra.
Per proverbiale combinazione però, la sua sconsiderata corsa fu priva di intoppi.
Le scarpinate con la sorella gli erano servite a rassodare i muscoli e l’equilibrio.
Arrivata in cima alla scalinata, la piccolina non si fermò, ma proseguì a rotta di collo fino a metà, dove si trovava ad aspettarli l’originale ciurma di pirati di Picche.
«Ragazzi, vi prego» ansimò svuotata di respiro. Con le codine che gli dondolavano sul collo sudato e le manine fissate sulle ginocchia non ci mise molto ad allertare i dieci pirati.
«Aya, che è successo?» chiese Deuce sgomento.
«Dov’è tua sorella?» si accorse della sua assenza Ace.
«Lei...il Tenente della Marina l’ha trovata e...» disse tra una pausa e l'altra la piccoletta.
«Vi prego dovete impedirgli di arrivare ad uno scontro. In quelle condizioni non è in grado di sostenere un lotta fisica. Questa volta lei potrebbe….» la bambina prese a singhiozzare incontrollata.
Davanti a quel grido d’aiuto fattogli da una bambina, Ace ci calcò il capello sulla fronte con lo sguardo ardimentoso di un capitano che si accingeva punire il membro della sua ciurma che aveva volato i codici essenziali della pirateria.
La combriccola si mosse in un unico blocco rincorrendo le gambette agili della piccoletta ancora in lacrime, quando poi sopraggiunsero sul luogo però, ormai non c’era più nessuno da tramortire a suon di cazzotti o in pericolo di vita da mettere in salvo.
I pirati rimasero quindi a farsi frazionare la chioma dalla delicata brezza marina e contemplare la tomba del giovane ragazzo, che se pur la sua anima avesse assistito a cosa fosse avvenuto, non sarebbe mai stata più in grado di comunicargli la verità.

 

NOTE AUTRICE: Oh, ma è un miraggio o sono io? E bene si. Sono imperdonabile aggiorno ora dopo mesi, mesi e mesi. E vi chiedo perdono per questo. E per farmi perdonare ho aggiornato la fan fiction. Tadan!
Ecco a voi il quarto capitolo. Allora? Che ne pensate? Ayako vi sta piacendo come personaggio? Il suo passato? La vorreste ad esempio nella ciurma di Picche? ;P
Comunque sia che ne pensate invece delle similitudini che ha con Ace? E il frutto i vostri sospetti si sono incentivati sul fatto che lei sappia dov’è o addirittura che è in suo possesso? E secondo voi qual è la missione e segreto che deve portare a termine a nome di Akira? E che cosa avrà in mente di fare il Marine con Ayako?
Beh, ditemi pure. Io leggerò con piacere.
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Al solito ringrazio chi mi ha aggiunto alle preferite, seguite e ricordate e chi legge silenziosamente o recensirà.
Thanks di cuore di tutto. Alla prossima.

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Capitolo 5
*** La verità sul frutto Chiostro Chiostro finalmente svelata ***


Piccola parentesi/consiglio [Per scrivere questo capitolo ho ascoltato la seguente canzone

quindi potete ascoltarla mentre lo leggete o non farlo affatto. Era solo per farvi sapere. Tutto qui]
Bene, detto questo, vi auguro una buona lettura.

 


PERFECTLY BLUE

 

Capitolo Cinque

 

La verità sul frutto Chiostro Chiostro finalmente svelata”.

 

 

 

Ayako vegetava sul pavimento di una cella logora e penosa che minacciava di inghiottirla in una lenta agonia di oscurità.
Ma anche in tutto quel deprimente putridume, Ayako, riuscì a trovare la luce interiore atta a farla vagare nel labirinto mentale colmo dei suoi ricordi più luminosamente felici:

 

[Erano le tre del pomeriggio e due amici sedevano a metà altezza della scalinata del poeta.
Di quindici anni ciascuno, se ne stavano muti come pesci, a lasciarsi ispirare il cuore dalla musicalità infinita prodotta dalla civiltà di mare e la panoramica frontale.
Per quel giorno e ore, nessuno avrebbe potuto disturbarli, nonostante il posto fosse sede di visite turistiche ricorrenti.
«Akira, come chiameremo la nostra ciurma di pirati?» gli aveva chiesto lei ad un certo punto, voltandosi verso l’amico. Lui la guardò con i suoi magnifici occhi perfettamente blu che a contatto con la luce del sole sembravano gocce cangianti d’acqua marina, ed esordire con.
«Che ne dici di “Pirati del cuore”?» Ayako storse il naso come se gli fosse andato sotto alla narice un pelo di coniglio.
«E’ un nome troppo comune e scontato. Sono stra sicura che ci sarà una ciurma che presto o tardi lo assumerà»
«Tu dici?» Akira glielo chiese con un sorriso guascone.
Poi lentamente, la piacevole brezza marina eterea gli smosse la chioma castano dorato, rendendone le ciocche il liscio piumaggio di un'aquila in volo.
«Si. Ne sono stra convinta» fece lei saccente.
«Allora...» Akira, portò l’indice e il medio sotto il mento per rendere ancora più irresistibile il suo fascino intellettuale.
«Sai una cosa? Non pensiamoci adesso. Quando avremo la nostra nave e ciurma pronti per salpare, sono “stra” sicuro che il suo nome ci nascerà automaticamente tra le labbra non appena li vedremo»
«Roger» accettò lei. Akira si tirò su in piedi, allungando galantemente la mano per aiutare l’amica ad alzasi.
Lei la prese, ma aspettò un attimo prima di darsi lo slancio in avanti.
Aveva da porgli una domanda fondamentale.
«Akira, noi, ci vorremo per sempre bene vero?» la risposta soddisfacente del ragazzo si palesò dapprima, in un enorme, accecante raggio di sole.
«Si, io e te, saremo insieme per sempre» Ayako ne ricalcò il sorriso estendendone la grandezza. Quindi dopo essersi issata sulle gambe, si tuffò sul petto dell’amico. per appoggiarsene sulla spalla e nutrirsi di quell'affetto inesauribile di cui andavano parlando con tanta vanagloria]

 

Senza che lei se ne rendesse conto una lacrima le rigò fugacemente il voltò, bagnandoli le labbra di un retrogusto salato.
«Ti voglio bene, Akira. Te ne vorrò sempre. Sarai per sempre con me Akira. Vivrai e ti porterò in eterno dentro di me» promise singhiozzando.
Si era data quel giorno di scadenza per farlo. A sei anni dalla morte di Akira, Ayako aveva finalmente concesso a se stessa di piangere.
A prendere e lasciarsi prendere a cazzotti dal dolore.
Di accettare il lutto.
Di farsi manipolare a bocconi dalla rabbia.
Perché Ayako sapeva che quel momento l’avrebbe raggiunta, ma era anche convinta che non ci sarebbe stata una replica.
Ayako si concedeva quell’unico momento di debolezza, una volta sola per commemorare la memoria dell’amico ed esiliare lontano da lei l’ammasso di fobie più croniche di cui era subissata la sua mente.
Si vincolava in silenzio a non versare nessun’altra lacrima, perché nessun’altra lacrima avrebbe bagnato il suo viso sfregiato, anche quando l’assenza di Akira gli avrebbe dilaniato il petto come una Katana affilata.
Proprio quando le lacrime abbondavano di dose, occludendogli le vie respiratorie, un altro inesorabile ricordo fece galleggiare i suoi ricordi a quell’attimo struggentemente infausto.

 

[Stava diluviando in maniera così estenuante e tumultuosa da non concedere ai due amici di potersi guardare adeguatamente negli occhi.
Il ragazzo era in condizioni precarie a penzoloni nel vuoto di un dirupo. Il suo corpo era bagnato fradicio, la sua voce argentina talvolta veniva sovrastata dai roboanti echi dei tuoni, ma il suo mirabile viso non tradiva alcun accenno di paura o arresa.
I suoi occhi perfettamente blu sorridevano felici che l’ultima cosa che avrebbero ammirato sarebbe stato il volto della persona che più amava al mondo.
Il ragazzo si sentiva esaudito di quella visione perché sapeva che lei avrebbe ereditato pienamente la sua volontà.
La ragazza, inversamente da lui, piangeva a dirotto e serrava la mano dell’amico con un’espressione supplicante nelle pupille.
Il ragazzo, però sapeva che era ormai questione di secondi prima che le braccia dell’amica raggiungesse il limite di resistenza fisica, avvertiva che quella stretta fragile e scivolosa era destinata a sciogliersi, per questo aveva urgenza di parlarle con il cuore in mano, affinché lei potesse essere in grado di capire e reagire.
«Ayako, so che ti costa tanto, ma devi ascoltarmi» le disse quasi sgolandosi.
«Ascoltami, devi promettermi che lo proteggerai. Fingi che sia il mio cuore e proteggilo anche a costo della tua vita. Non devi permettere per nessun motivo al mondo che cada nelle mani abbiette di mio padre. Deve essere solo tuo. Tuo e di nessun altro. Hai sprecato mille giorni e notti per trovarlo e te lo meriti. E se per caso qualcuno di giusto vorrà reclamarlo, allora dovrai sfidarlo a duello per decidere chi dovrà mangiarlo» le fece promettere. Ayako scosse vigorosamente la testa fradicia.
Accanto a lei, uno scrigno di legno di sei centimetri circa, conteneva il tesoro che le loro giovani e intelligenti menti erano riusciti a disseppellire con un’incredula eccitazione.
«Akira, pe – perché mi dici questo, Io...non posso, ti già detto che io...non posso..non voglio...» balbettò lei in mezzo al torrente di lacrime.
E nel frattempo, La presa cominciò ad allentarsi progressivamente.
«Ayako, non dubitare mai di te stessa perché io so che tu diventerai una donna straordinaria. La più eroica e gentile che possa esserci in questo mondo. Tu non riesci ancora a vederti, ma io ho sempre visto la donna che sarai. Amati come ci siamo amati noi. In fondo tu mi hai salvato più volte di quante ho fatto io con te e tu possa immaginare. Mi hai dato una famiglia con cui sorridere e crescere. Mi hai offerto la tua casa per dormire e risollevato l’animo quando stavo da schifo. Tu mi hai mostrato la purezza dell’amore senza alcuna pretesa egoistica in cambio, e di questo ti sono grato più che mai. Sei stata la mia luce, grazie Ayako» a quel punto la ragazza andò fuori di se perché comprese che epilogo del discorso voleva giungere l’amico – fratello.
«Sta zitto. Non voglio sentirti. Noi cresceremo insieme, tu me l’hai promesso. Noi solcheremo i mari, recluteremo una ciurma di tutto rispetto e avremo mille avventure di cui parleremo con orgoglio nella vecchia ai nostri nipotini. Ti prego Akira, non puoi lasciarmi, me l’hai promesso. Il mio sogno senza di te non ha senso. Dobbiamo realizzarlo insieme» Ayako ebbe un violento sfogo di pianto che fece allentare repentinamente la stretta delle mani. Akira era ormai oscillante a pochi centimetri dalla sua fine.
«Ti prego, non lasciarmi. Anche tu sei stato la mia luce» gli confessò mentre la fiumana di lacrime perseguiva a straripare dai suoi occhi.
«Fidati tu di me, arriverà qualcuno tra non molto e ci soccorrerà. Nasconderemo il tesoro in un posto sicuro e torneremo a parlare del nostro meraviglioso futuro. Insieme»
«Lo faremo, io sarò sempre al tuo fianco Ayako. Non ti ho mentito, Noi saremo sempre insieme» le disse con un bel sorriso angelico dipinto sulle labbra, e proprio allora, la stretta degli amici si disunì, facendolo sfracellare la sua vita nell’oscurità più avviluppante.
«AKIRA» Ayako si inclinò pericolosamente al margine del precipizio in un avventato tentativo di riafferrarlo.
Quel suo urlò graffò l’aria tempestosa sotto forma di eco ricorrente.
Poi, si udì solamente il velenoso fruscio del vento e il riversarsi ininterrotto della pioggia sulla terra come a voler nascondere le infinite lacrime di quella ragazza, ormai rimasta sola con un tesoro inestimabile per amico. ]

 

«Perdonami, Akira. non sono così forte. Ti ho deluso. Perdonami, perché non ho mantenuto la promessa e tra un po’ potremo rincontrarci» Ayako sapeva che quelli sarebbero stati i suoi ultimi attimi di vita, se tutto sarebbe degenerato e lei non avrebbe altra scelta che di lottare, per questo li dedicava a una delle persone che per lei possedevano il valore del mondo intero.
La stavano torturando con la tattica dell'isolamento. Lasciarla lì, abbandonata a se stessa con le orecchie riversate dal silenzio incombente che faceva male e le imponeva a parlare ai fantasmi del tuo passato a lungo repressi, pensavano che l’avrebbe portata a cantare facilmente in cambio di un sorso d’acqua o la perfino negoziare la sua libertà.
Ma erano così ingenuamente fiduciosi da non pensare che lei, si sarebbe morsa persino la lingua pur di non rivelare il suo segreto a lungo custodito nei recessi dalla vasta sua mente.
Dieci minuti dopo, i Marine mandati a prelevarla dalla cella si avviarono a raggiungerla. I loro passi erano a tal punto rustici e rumorosi da allertare immediatamente i nervi di Ayako.
Il suo collo si drizzò istantaneamente. Le orecchie che le fischiavano per il troppo essere stata a contatto con il silenzio, gli suoi occhi inebetiti che misero a fuoco per un efficiente attimo le sagome ignote di fronte a lei.
Uno soldato aveva una massa muscolosa notevole con il pizzetto castano compatto sul mento, lo sguardo malevolo e il capello e la divisa da marine accoppiati.
L’altro possedeva una capigliatura vaporosamente riccia, indossava la divisa da marine smanicata che mostrava un fisichino allenato, ma a differenza del suo partner di ronda, lo sguardo era più docile e i suoi modi meno rozzi.
«Forza alzati» le ordinò scorbuticamente Mr. soldato dai muscoli di ferro. La prese così sgarbatamente per il gomito da farla trovare alzata in piedi anche senza la sua volontà.
Mentre scorrevano lungo il corridoio spoglio, Ayako non si chiese dove erano diretti o cosa le avrebbero fatto.
Voleva stipare tutte le forze di cui disponeva correntemente, in modo da sovraccaricarsene e lasciarle esplodere di faccia al suo obbiettivo finale.
I segugi Marine, la scortarono per un breve tratto, poi si fermarono davanti una porta di legno verniciata di un fresco blu mare.
Il Marine più gentile, batté sulla superficie legnosa per due volte. Poco dopo si sentì un grezzo “avanti” del tenente.
Con accanita cafonaggine, i Marine presero la ragazza per il cozzo e la gettarono in ginocchia al cospetto del tenente come se lui detenesse l’autorità di poterla giustiziare con un colpo secco al cuore lì e subito.
La camera lussuosa del Marine sbrilluccicava di un sanguinario rosso e un pretenzioso oro.
Quadri di navi dei Marine – Marine stessi - spopolavano per le pareti, una scrivania in legno massiccio occupava la parte destra della stanza con tutte le cianfrusaglie e pile di documenti che un tenente della Marina accumulava negli anni, la parte sinistra invece appariva scarna eccetto che per una porta finestra, che diede ad Ayako una speranza d’uscita.
Si, una speranza d’uscita, se questa non avesse avuto il pensiero costante dell’incentivare l’apertura delle ferite e quindi l’impossibilità di muoversi agilmente.
«E’ la fine. Sono con le mani legate davvero. Se le ferite si riaprono, sono davvero spacciata» pensò Ayako risentendone parecchio di quella caduta.
Ma ormai poco gli importava di avere le ore contate, e proprio per questo si sarebbe permessa il lusso di togliersi due o tre sassolini dalla scarpa.
«Anche se...» nella sua testa costituita da una rigenerazione di pensieri incessante, capitombolava sempre la travolgente aspettativa dell’illusione di sua sorella che era riuscita a raggruppare il soccorso dei famigerati pirati di Picche.
«Oh, ma cosa abbiamo qui?» il tenente la fomentò con un sorriso aspido, quando fu a pochi millimetri di distanza.
«Le manette non erano necessarie. Ti ho già detto che non ho mangiato nessun frutto» sputò lei indignata, facendo un limpido riferimento ai ceppi di agalmatolite che tenevano congiunti e immobili i suoi polsi.
Il tenente fece un veloce cenno di capo per acconsentire alla sua richiesta.
I suoi tirapiedi tirarono fuori la chiave, poi ruotandola per due volte dentro la fessura delle manette, le liberarono i polsi indolenziti.
Per tutto il tempo della procedura, lei aveva trovato la sfacciataggine di non abbassare mai lo sguardo da lui, mentre il tenente si piegava sulle ginocchia, poggiando un braccio sulla gambe e allungava l’altro per incastrare l’indice della mano chiusa sotto il suo mento.
«Ma l’hai trovato. Ho mi sbaglio?» la forzò a parlare. Ayako sigillò letteralmente le labbra.
«Non fare giochetti con me, ragazzina. Se non l’hai capito, questa è l’ultima occasione che ti concedo» gli ultimò con infamia. Ayako riuscì a farsi spuntare un sorriso sprezzante.
«La sua è una messinscena. Sta palesemente mentendo. Io sono l’unica che può portarlo al frutto, gli servo per questo non mi ucciderà mai.» un’incolmabile intuizione grattò ancora una volta i pensieri della ragazza.
«Perché non riesco a togliermi dalla testa la speranza che presto qualcuno verrà a salvarmi?» congetturò quel mero desiderio che proprio non riusciva e voleva lasciare andare.
«Forse è solo la famigerata speranza inconscia alla quale tutti ci aggrappiamo per rendere meno doloroso ciò che ci attende, ma...se non mi sbagliassi, se non mi sbagliassi e fosse così...e potessi perdere dell’altro tempo...» rimuginò mordendosi a sangue le labbra.
«Ragazzina, non ignorarmi, se non vuoi farmi incazzare già da adesso» la mise sull’attenti costringendola a guardarlo fisso.
«Dimmi dove hai nascosto il frutto Chiostro Chiostro e non costringermi a ripetermi» scandì ogni parola talmente a rilento che persino il più ottuso degli uomini avrebbe colto al colo il messaggio nascosto.
«Mai» replicò lei cinica. Temeva la sua incoercibile reazione, ma doveva stringere i denti e affrontarlo a viso scoperto, mostrandosi rigorosamente inamovibile, non spaventata come una bambina davanti a un abnorme re dei mari.
«Stupida donna, qual è il tuo problema? Perché ti ostini tanto a non dirmi il tuo segreto?» persa la ragione e pazienza, il generale gli diede un furibondo calcio nella pancia, che la fece rotolare qualche centimetro più in là.
Con della stremata fatica, Ayako si ritiro sui gomiti, e sputò un grumo di sangue.
«Fa male» si disse Ayako.
Il dolore fisico faceva orribilmente male, a tal punto da farti svenire, ma quando vedevi morire una delle persone che amavi davanti ai tuoi occhi, quando realizzavi che non l’avresti potuta mai più riabbracciare, quando la tua anima veniva scheggiata da una cicatrice irremovibile, allora, era lì che il dolore fisico diveniva soltanto un po’ sopportabile.
«CONFESSA!» le comandò in un cagnesco veemente.
La voce altisonante, così piena di se, ma tetramente amorfa del tenente, le diedero la volontà di sollevarsi sui palmi instabili e di trafiggerlo con uno sguardo indomitamente spartano.
Dinanzi a quella guardata aguzza che lei le rivolse, il tenente indietreggiò spaventato come se la ragazza possedesse la facoltà di usufruire del raro Haki del re imperatore con cui solo pochi eletti nascevano.
«Non è possibile. Tu, non puoi. Si, può sapere chi sei tu davvero?» le chiese in preda ad un snaturante panico.
Ayako però non aprì bocca.
Allungando una mano tramenante verso di lui, gli arpionò rudemente l’avambraccio per attivare il suo speciale potere empatico e lasciarsi costellare le iridi dorate da delle mistiche pagliuzze danzanti.
«Egoismo, cupidigia, ossessione, ipocrisia, empietà, superbia.» pronunciò come se stesse formulando un incantesimo. Non stava accadendo niente. Non si era alzato alcun vento invisibile intorno alla sua chioma riccia. Nessuna evanescenza inconsistente lo stava trascinando a se.
Erano solo la sua mano avvinghiata serratamente al suo avambraccio e quel suo sguardo velato, insostenibile da guardare, a dargli i brividi.
«Cosa mi stai facendo? Che razza di potere è mai questo?» Le domandò il tenente a cui cominciava a ballonzolare la mascella per il terrore.
«Sto leggendo dentro di te. La tua anima è putrida di sentimenti aberranti, non è rimasto neanche un goccio di umanità o luce in lei» la mano sinistra di Ayako lasciò la presa, ricadendogli smorta sul fianco.
«Uno come te non potrà mai farmi infrangere la promessa che ho fatto ad Akira. La proteggerò ad ogni costo» si sgolò, imponendosene mediante una voce alta sei volte la sua. Quella promessa era l’unica cosa che la teneva ancora legata a lui e non l’avrebbe mai tradito mai, anche a costo della sua stesa vita.
«Ci tieni così tanto a raggiungerlo?» le chiese retoricamente, assestandogli un altro calcio che la fece ritrovare a pancia in giù sul pavimento.
«Bene, ti accontenterò subito» le diede un ultimatum tramite l'estrazione del fianco destro della frusta e uno sguardo sanguinario nelle pupille serpentesche.
«Buon viaggio, stupida donna e salutami tanto mio figlio» le auspicò con il braccio sollevato in alto per caricare la potenza della frustata.
Ayako strizzò furiosamente le palpebre, pronta a sentire la schiena spazzarsi a contatto con quell’oggetto sadico, e quando il colpo atroce arrivò, lei non ebbe nemmeno il tempo di provarne dolore, perché era stato talmente violento da fargli perdere i sensi non qualche attimo dopo.
Di conseguenza a quello, Ayako tornò cosciente per due o tre volte cogliendo con il senso dell’udito frammenti di dialoghi scollegati tra di loro.
Nel primo caso avvertì una vampa di calore dirompente che razionalizzò come la presenza di Ace nei paraggi e il Marine che
Oh adesso, capisco. Te la stai lavorando per arrivare al frutto. Mi congratulo con te. Un comportamento da vero pirata”
Nel secondo, ripresa conoscenza per dei temporanei secondi, riconobbe la voce agitata del medico Deuce dire Dobbiamo medicarla immediatamente, Ace. Ho questa volta non supererà la sera”.
La terza e ultima volta in cui la sua coscienza si ridestò, a raggiungerla fu il pianto commiserato della madre e la sorellina che speravano nella sua salvezza.
Ayako rimase prima di coscienza per quasi una settimana, mostrando stati reattivi al dolore e gli spasmi muscolari.
Nel quinto giorno di incoscienza Ayako si agitò più del solito nel letto scandendo un sussurrato «Ace, io posso guarirti» nel delirio del sonno e la febbre.
A sentire quelle parole così ardentemente empatiche, Gli occhi di Deuce andarono a inchiodarsi su quelli del suo capitano, che sul volto aveva solidificato non uno sguardo diffidente, né restio, ma aveva scritto chiaro in faccia quanto quelle parole giungessero al suo orecchio come scorrettamente irrispettose.
Altri tre giorni passarono e in mezzo a tutti quei sogni deliranti in cui era finita, in uno dove era avvolta da ogni angolazione dal tepore di una luce estremamente accecante, a raggiungerla fu la voce che più gli stava a cuore.

Vivi Ayako” le disse con tenera premura.
Ormai per te è tempo di fare salpare il tuo cuore verso nuove avventure.” aggiunse quindi incorporeo.
«Akira» pronunciò lei sentendo un groppo in gola. Ayako percepiva la forte presenza dell’amico di fianco a lei, malgrado udisse la voce come distante mille galassie di pianeti.
Il bel tempo per te è ormai arrivato. Devi vivere, Ayako e andare dove ti porta il vento. Segui la sua voce come se fosse la mia e non potrai mai smarrirti in un sentiero fallace” approdò perciò al fondamento del suo insigne discorso, rendendo la sua voce sempre più febbrile, fino a renderla insussistente.
«No, Akira. Aspetta. Io, devo...chiederti, tante cose...Akira, per favore...non andare» si affrettò a proferire lei gettandosi in avanti verso la vibrazioni prodotte dalla sua voce, ma ciò che ne ricavò fu solo di precipitare oltre quegli abbaglianti fasci di luce, risvegliandosi gradualmente nella sussistenza ininterrotta del presente.
Quando le sue palpebre ripresero a sbattere e la sua vista ad assorbire le figure colorate che la circondavano, la baraonda di voci commosse e urlanti, le portò uno scampanellante mal di testa nel cervello.
«Ayako, puoi parlare?» le chiese quella che riconobbe a malapena come la voce di Deuce.
«S – si?» Ayako pose la domanda anche a se stessa così testare le sue attuali condizioni.
«Sai chi sei?» Deuce prosegui con il copione prassi da dottore.
«Si. Ayako» rispose basica.
«Perfetto. E dove ti trovi?»
«Nella mia stanza?» replicò lei raccattando il tono più acidamente cristallino che poteva.
«Ah, evviva la sorellina sta bene» esultò la sorellina con l’intento di gettarsene addosso per abbracciarla, ma fu presa in tempo dal padre che la bloccò a mezz’aria. La piccoletta perciò cominciò a dimenare piedi e gambe come se stesse avendo lezioni preparatorie di nuoto.
«Cos...cosa è successo?» domandò ai presenti portandosi la mano alla testa per il forte capogiro avuto.
«Come ci sono arrivata qui? Che ne è stato del tenente? E...quei miei sogni deliranti, erano davvero deliranti?» ragionò repentinamente, ma la sua mente era troppo debilitata e frastornata per poter riesumare impeccabilmente l’ordine cronologico degli avvenimenti accaduti.
«Lasciamo le indiscrezioni a dopo. Adesso devo visitarti, cara Ayako» le disse autorevole Deuce, chiedendo agli altri di lasciarli soli.
Il medico - scrittore fece un controllo accuratamente impeccabile delle condizioni fisiche e celebrali della ragazza, stabilendo che nonostante il prolungato risveglio, stesse subendo una prodigiosa guarigione.
Durante l’accertamento medico, però, Ayako seppe proprio tenere la lingua a posto.
«Quindi cosa è successo? Ricordo di essere stata colpita dalla frusta del tenente, ma poi da i miei ricordi diventano confusi e storpiati» nel provare a unire la testa cominciò a pulsargli ferocemente.
«Non sforzarti, Ayako. Sei ancora convalescente» gli suggerì con la tonalità paziente, ma allo stesso tempo di ammonizione della sua professione.
«D’accordo però tu mi dici cosa è successo comunque. No stress. Ascolterò solamente» davanti a quella insistenza Deuce non poté che sorridere eccitato perché la sua testardaggine eguagliava quella del suo capitano.
Perciò, il medico – scrittore riprese a fare la sua visita, fornendogli al contempo anche quei dettagli di avvenimenti di cui lei non aveva consapevolezza ed utili ad agganciare i frammenti dei flashback raccolti dalla sua mente.
«Quando siamo piombati nella stanza ti abbiamo trovata senza sensi in un pozza di sangue ed Ace è andato fuori di testa immediatamente. Il Marine ha cominciato a fargli accuse insensate come di non essere un uomo migliore di lui perché si era avvicinato a te per arrivare al Chiostro Chiostro. Ace però gli ha risposto che era un pirata e i pirati per etichetta fanno quello che gli pare senza dare conto a nessuno» Deuce non stava mentendo, perché nei contenuti assimilato dalla memoria di Ayako, quello era vividamente presente.
Oh adesso, capisco. Te la stai lavorando per arrivare al frutto. Mi congratulo con te. Un comportamento da vero pirata”. Ayako poté quindi distendere i nervi e restare a credere a tutto quello che le sarebbe stato raccontato.
«La situazione come puoi immaginare si è surriscaldata facilmente, ma Ace ha avuto la meglio, lasciandolo stramazzato al suolo»
«Quindi lui è….»
«Si, Ace se n’è sbarazzato. E finalmente anche l’isola che ne era vittima. Il giorno dopo una nave della Marina è venuta a prelevarlo e penso che marcirà nelle segrete del carcere che merita, quindi penso che fra qualche giorno arriverà il suo sostituto» Ayako fu satura di soddisfazione riguardo il resoconto impeccabile dei fatti di Deuce, ma sentiva che c’era ancora un buco mentale che gli appariva incomprensibilmente sfocato. Era come se fosse qualcosa di vitale importanza da dover ricordare con ogni grammo di ostinazione racimolata. E più si sforzava, più quel qualcosa, rischiava di sbiadirsi fino a cancellarsi dalla sua memoria, quindi essere irrecuperabile.
«Cos’è? Ricorda, Ayako. Sforzati di ricordare» ma l’unica cosa che riuscì a ricavarne fu un gravissimo mal di testa.
Fino a che Deuce.
«Adesso posso farti una domanda io?» si permise a interrogarla perché sopra ogni cosa c'era un secondo mistero che la sua curiosità bramava di scoprire.
«Certo» Ayako deglutì a vuoto, agitandosi sotto la pelle.
«Durante il tuo stato di incoscienza hai delirato più volte, ma una frase ci ha colpito più di tutte. “Ace io posso guarirti”» ripeté la testuale frase pronunciata da lei in quel inaspettato momento.
«Quella frase ci ha spiazzato per una serie di motivi e come capirai ci risulta parecchio incomprensibile. A cosa si riferiva, Ayako?»
«Io….» Ayako, si sentì messa sotto pressione e violata nell'orgoglio.
Molto probabilmente, durante la settimana di febbre alta, la sua guardia si era abbassata talmente tanto da fargli confessare i suoi sentimenti e pensieri più intimi. Però fornirgli una spiegazione era di suo obbligo.
Non solo perché lui la trattava da sua pari con sincerità, ma anche perché gli avevano salvato la vita già due volte.
«Io non so esattamente cosa sia, ma è una specie di potere con il quale sono nata»
«Che genere di potere?» le domandò Deuce terribilmente affascinato dalla cosa. Ayako spiegò sulla bocca un mezzo sorriso sbilenco e allungò la mano verso di lui.
«Lascia che te lo mostri» gli disse poggiandola sul suo polso. Così la ragazza ripeté l’azione precedentemente compiuta nel salotto del tenente, con la sola differenza che chiuse le palpebre, esercitò una stretta delicata e si vietò di usare un tono iracondo.

“Felicità, passione, amore. Vergogna, rabbia, Risentimento, speranza, ambizione, rifiuto, paura, gioia e preoccupazione“ enumerò con voce addolcita.
In mezzo a quelle fantastiliardi emozioni, focalizzò ancora “eccitazione, desiderio, attrazione” ma evitò di esporli per non mettere in uno strano imbarazzo entrambi.

«Come? Cosa hai fatto?» le chiese il ragazzo a occhi sbarrati.
«Io posso leggere l’anima delle persone. Percepire ogni emozione e sentimento che questa ha immagazzinato dal momento della nascita fino a quello in cui la tocco. Ma posso anche eseguire una sostituzione. Assorbire un loro sentimento dannoso e donargliene uno benevolo»
«E l’anima di Ace, è messa così male?» Deuce sapeva che Ace nascondeva un dolore considerevole all’ombra di quei suoi sorrisi pieni di vita, però non immaginava fosse nocivo a tal punto da spingere qualcuno con un potere simile a condividerne una gravosa parte.
«Al contrario. È la più luminosa e gentile che io abbia mai letto, ma c'è un ombra tenue di dolore tossico che tende ad oscurarne un parziale frammento» Ayako usò la metafora dell’eclissi solare per fargli comprendere il complesso esempio: durante il processo di eclissi solare, la luna compiva uno spostamento parallelo alla terra e la luminosa stella di fuoco, oscurandone un sostanzioso spicchio, ma non per questo il sole smetteva di emanare la sua abbagliante luce. Anzi la contornava con l’eguale intensità, rendendo quel fenomeno astronomico ancor più suggestivo davanti agli occhi di chi lo stava ad ammirare.
Lo stesso procedimento avveniva con l’anima e il dolore tossico di Ace.
Quella spiegazione fu sufficiente a far comprendere a Deuce in che stato perenne e reale fosse l’animo del suo capitano, ma quello che attualmente si stava chiedendo era «Ayako, sarebbe davvero disposta a compiere un gesto tanto nobile per lui?» il ragazzo avrebbe voluto tanto chiederglielo, ma non se la sentiva di metterla concretamente a disagio.
E poi la risposta si era già formata tramite il suo stesso arguto sorriso.
«Questa ragazza non smetterà mai di sorprendermi. È proprio come lui. Straordinaria e imprevedibile»
Dopo aver riposto il suo equipaggio medico, il ragazzo fu quindi per concedere ad Ayako un altro po’ di riposo, tuttavia non prima di sentirsi dire da Ayako che di non riferire niente ad Ace riguardo il suo potere e che se proprio avesse dovuto, se ne sarebbe incaricata lei stessa di parlargliene.
La sera si festeggiò la cacciata del viscido essere fino all’alba.
Benché Ayako fosse stato consentito di fare il minimo indispensabile – no alcolici o movimenti azzardati - trovo il suo bel angolo di divertimento tra risate argentine e siparietti di umoristi ubriachi.
Il giorno dopo, la prima cosa che Ayako fece fu di aprire il suo famoso cassetto in cui teneva nascoste sotto a due voluminosi tomi le taglie dei pirati più famigerati, ma anche, tra l’altro, una chiave nascosta dentro uno dei due insospettati tomi.
Il dover scavare un vano segreto dalla forma rettangolare all’interno delle sue pagine, le aveva spezzato il cuore, eppure si era rivelato un nascondiglio impeccabile.
Eccetto i lettori accaniti, i libri venivano calcolati di striscio dalla maggior parte delle persone e di conseguenza, ancora più in estinzione ne era quindi diventata l’azione di afferrarli per sfogliarli. La chiave infatti era stata al sicuro in tutti quegli anni come se fosse in una cassaforte di ferro cifrata.
«Ormai è giunto il momento. Devo disseppellirlo e fare ciò che Akira mi ha chiesto» ragionò sollevando la chiave argentata all’altezza delle pupille.
Quando Ayako raggiunse gli altri, li ringraziò pressapoco per una ventina di volte e informò cosa avesse in mente di fare quel pomeriggio, i pirati la guardarono con dissenso, tuttavia non declinarono i suoi programmi.
Solo su una cosa Deuce fu irremovibile: non avrebbe dovuto fare sforzi fisici inutili, e vuoi che per raggiungere il dirupo della memoria doveva stremare il corpo a prescindere, la ragazza avrebbe dovuto scendere al compromesso di essere portata in braccio da uno degli erculei maschioni della ciurma.
A candidarsi fu Ace, che se la caricò in spalla non subito dopo senza alcuna difficoltà.
In groppa alle spalle scottanti quanto piacevoli di Ace, Ayako si sentiva tremendamente a disagio, ma il ragazzo si pianto sulle labbra una dei suoi mega calorosi sorrisoni dicendogli che per lui era roba da niente.
La comitiva quindi ripercorse tutto l’itinerario fatto in precedenza, senza soste, né novelle al riguardo. E con un membro in meno del gruppo.
La sorellina – principessina – non aveva potuto unirsi a loro causa intoppo divieto dei genitori.
Una volta giunti nuovamente in cima al dirupo della memoria, quindi dinanzi alla tomba del tanto amato amico della ragazza, Ace le fece ritoccare terra con i piedi per lasciargliela raggiungere.
Il silenzio che compose quei minuti fu indefinibile.
Ayako, stava davanti alla tomba di Akira senza mostrare l’iniziativa di voler aprire un discorso.
Reduce di quella faticosa e terribile settimana, si godeva la libertà filantropica di non essere più braccata da un nemico potente.
Adesso poteva concedersi il lusso di condurre dei noiosissimi e caratteristici superflui giorni come quelli di una ragazza dozzinale. 
Adesso poteva concentrarsi sui suoi progetti futuri, lasciati in sospeso da ormai troppo tempo.
Adesso era arrivato il momento di affrontare un altro tema delicato della sua vita verso il quale nessuna volontà e parola di addio sarebbe stata bastante per separarsene.
E proprio allora, si decise a narrare i completi fatti riconducenti a sei anni fa.
La ragazza raccontò loro a era iniziato tutto come un sollazzo utopistico tra ragazzi, che li faceva sentire invincibili ed emancipati allo stesso modo di una ciurma di pirati navigata, ma che poco alla volta, tentativo dopo tentativo, si erano inimmaginabilmente avvicinati alla probabilità di un disseppellimento del tesoro che neanche loro avevano pronosticato.
E se pur la paura gli aveva divorato il respiro, il bisogno di proseguire verso il sentiero mentale prestabilito dalla lapalissiana deduzione dei ragazzi, era riuscita a sopprimerla.
Poi si arenò all’istante tanto sofferto e infine approdò al mistero che ancora oggi stregava e stuzzicava l’interesse sia degli abitanti, che i cercatori o pirati in visita all’isola.
Ayako, fece un’altra pausa.
Il venticello innocuo scostava le chiome dei ragazzi facendolo sembrare un funerale commemorativo a un uomo d’onere.
Quel momento silenziosa agiatezza, fu trinciato dalla voce placida di Deuce.
«Ayako» la chiamò perciò questo.
«Devo proprio chiedertelo» si dilungò  interpellandola con incertezza.
«Il tesoro è stato davvero sepolto in quest’isola da quel famoso pirata fuggiasco?»
«Si» sillabò lei asettica.
«E tu ed Akira l’avete trovato?»
«Si» rispose tracciandosi un sorriso nostalgico sulle labbra come tutte le volte che sentiva il nome dell’amico.
«E dove si trova adesso?»
«Dove l’avete nascosto tu e Akira?» riformulò la frase per renderla meno equivocabile.
«E’ qui, proprio davanti a noi, vero?» disse Ace improvvisamente, scioccando i presenti, tranne Ayako.
Il modo competente e risoluto con cui lo affermò, fece sembrare quell’enigma irrisolto, un qualcosa di puerile cognizione.
«Come? Come fai a saperlo, Ace?» lo interrogò Deuce sconvolto non solo dal che il frutto fosse stato sempre davanti ai loro occhi, ma che Ace fosse riuscito a capirlo con una naturalezza impareggiabile.
«Ho solo pensato che ci fosse un’altra ragione più vincolante che la portava a venire qui ogni giorno. E poteva essere solo una»
«Veniva qui per assicurarsi che il tesoro si trovasse ancora dove l’aveva nascosto» seguendo filo logico e accurato dei suoi pensieri.
«Si, il vostro capitano ha ragione» Ayako confermò la teoria di Ace con le pupille mestamente vacue.
«Il frutto è sempre stato custodito nell’unico posto in cui nessuno l’avrebbe mai cercato.
Quello più scontano, ma impensabile e perciò sicuro di tutti. Per tutto questo tempo, il tesoro è sempre rimasto con il suo secondo legittimo proprietario che l’ha ritrovato» confessò, emozionandosi al dover svelare quel suo peculiare segreto che per tutti quegli anni aveva gelosamente protetto.
Detto quello Ayako si inginocchio sul terreno roccioso, pronta a disseppellirlo.
Ma non potendo sforzarsi fisicamente, fece scavare una precisa porzione di terra vicino alla tomba e dopo dodici forzute vangate, Rey toccò qualcosa di duro.
Già inginocchiata lì davanti alla fossa, la ragazza raccolse l'oggetto legnoso e bombato nella sua parte superiore.
Nel rivederlo Ayako provò emozioni contrastanti come il risentimento, ma anche un’immensa tristezza e del benefico sollievo che quasi la fece ritrovare in lacrime.
Senza rendersene neanche conto, la ragazza si ritrovò a stringerlo sul suo seno, sentendo montare un groppo in gola.
«Akira» disse nostalgicamente, provando un sapore insipido sulla lingua. Poi si ricompose immediatamente, prendendo la chiave dalla borsa per girarla due volte nella serratura dello scrigno e quindi voltandosi verso gli altri.
«Ciurma» gli disse facendo emergere sulle labbra un sorriso più accecante della stella infuocata in cielo.
«Vi presento il frutto. Questo è il famigerato “Chiostro, Chiostro”» esponendo il frutto agli occhi smaniosamente eccitati dei pirati, ora tutti ammassati davanti alla ragazza in un unica bobina di braccia e gambe umane.
Il frutto aveva una forma parzialmente arrotondata che lo faceva somigliare ad una mela e la tipica fantasia a chiocciola dei frutti del mare, ma a differenziarlo dal succoso frutto - come il resto degli altri - erano l’evidente colore ardesia e le strisce orizzontali che ricordavano quelle di un foglio di quaderno a righe.
«E’ pazzesco» commentò Skull con per occhi due stelle.
«Devo dire che dal vivo rende meglio che su una pagina di libro» Mihar fece diede un parere più professionale.
«Perché non l’hai mangiato?» mentre Deuce si affidò al pratico.
«Io e Akira abbiamo fatto una promessa. Il frutto è di mia legittima proprietà perché l’ho trovato, ma se mai qualcuno lo reclamerà prima che io ne assuma i poteri, allora dovrà sfidarmi e vincere in un duello contro di me»
«E’ un compromesso intrigante» la cosa stimolò Deuce come se ci stesse pensando seriamente. E forse lo stava già programmando di fare a sedi opportune.
Ayako gli sorrise con una curva tremolante ed entusiasta.
Fu per mettersi in piedi da sola, ma Ace gli offri la mano per aiutarla ad alzarsi e quando lei la prese per issarsi, il ricordo di tutte le volte che Akira aveva compiuto lo stesso galante gesto, le investì la mente. Ma non fu tanto quello a scioccarla, quanto ciò che uscì in seguito dalla bocca mega sorridente del ragazzo.
«Unisciti a noi. Diventa un membro ufficiale della mia ciurma e solca i mari sotto la bandiera dei pirati di Picche» le propose a bruciapelo, senza interrompere il contatto saldo delle loro mani, quasi a dirgli che la reputava straordinaria a tal punto, da reclamarla fermamente nella sua ciurma di pirati.
«Siii! Miss! Vieni con noi» tripudiò con un grosso coro il resto dei pirati.
«Anche perché ormai, per quanto vale per me, io ti reputo un membro effettivo della nostra ciurma già da un pezzo» la esaltò intrepido Deuce.
A quella inaspettata richiesta, un monito di angoscia impedì alla ragazza di rispondere adeguatamente.
«Io...io...» incespicò per ritrovare il respiro smarrito.
«Io, non lo so» e dicendolo chiuse bruscamente lo scrigno come il discorso sottostante.



NOTE AUTRICE: Ma guardate un po' sono tornata con il quinto Capitolo dopo secoli? Ere? Comunque sorvolando su questo siete felici di poter leggere un nuovo capitolo della FF?
So che non si è visto lo scontro tra Ace e il tenente, ma volevo che fosse così il capitolo. E non preoccupatevi perché ci saranno tantissimi scontri già preveduti dalla mia mente a passo con le avventure dei pirati di Picche.
Che ne pensate di Ayako? Vi piace sempre di più o di meno? E del suo potere? Ora è chiaro che tipo di Haki sia no? Certo non ho inventato chissà che, ma l’idea che possa percepire le emozioni degli altri mi sembra una cosa figa.
Beh, pensate che accetterà la proposta di Ace? E Deuce la sfiderà a duello? Se e si chi vincerà?
Io sto amando molto scrivere questa FF e spero che sia di vostro gradimento in egual modo.
Beh, alla prossima, e ringrazio chi mi ha aggiunto alle varie opzioni di scelta, chi lo farà e chi legge silenziosamente.
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Alla prossima. Ciao, ciao.

 

 

 

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