Incantesimi d'amore e di morte

di shilyss
(/viewuser.php?uid=21848)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La prigioniera ***
Capitolo 2: *** La maga ***
Capitolo 3: *** Sotto il velo ***



Capitolo 1
*** La prigioniera ***


 

 

Incantesimi d’amore e di morte

 

 

Salutò il suo amore

Lui s’imbarcò su una nave dal molo di San Blas

giurò che sarebbe tornato

E, bagnata di pianto, lei giurò che lo avrebbe aspettato.

Mille lune passarono e lei rimase al molo

Aspettando

Molti pomeriggi si annidarono

Si annidarono nei suoi capelli, sulle sue labbra.

(En Muelle de San Blas, Manà, libera traduzione italiana: Shilyss)

 

 

 

 

Capitolo 1

La prigioniera

 

Aveva le mani macchiate di sangue. Sangue suo. Colava dal naso, scivolava sulle labbra, contrastava con la mano che teneva, aperta, davanti a sé. Una volta, al Titano che, furioso, lo aveva accusato di aver perso un’armata e ben due gemme, aveva raccontato che i fallimenti non esistevano: era tutta una questione di prospettive, di punti di vista. Se guardata nel giusto modo, una sconfitta non rappresentava altro che l’opportunità di testare un potere diverso e oscuro, per poi vincerlo e schiacciarlo sotto i propri stivali. Quella sicurezza c’era ancora, da qualche parte nel suo petto, lo sentiva. Esisteva e raschiava per poter uscire, ma ora c’era il resto. La lucida consapevolezza che il passato non si poteva cambiare o, perlomeno, non quella parte che lui aveva cercato in tutti i modi di modificare e, così, l’amaro presente, suo figlio diretto. Le sconfitte potevano essere lette come opportunità, ma bruciavano più delle ustioni, infettando lo spirito, scalzando via la speranza.

Era ragionevole che avrebbe fallito, ancora e ancora.

Non esisteva alcun trucco in grado di ribaltare la sorte, perché ogni variabile mutata portava allo stesso, inevitabile, punto, anzi, peggio. La perdeva ogni volta di più.

 

“È successo un’altra volta, non è vero?”

La voce di Thor aveva il suono aspro della delusione ed era gonfia del rimprovero tipico del fratello maggiore, giusto e saggio, nei confronti dello scapestrato cadetto di famiglia. L’aveva sentito arrivare, ma non per questo si voltò verso di lui o gli rispose, né l’altro si sarebbe aspettato diversamente, del resto. Erano cresciuti insieme dividendo ogni cosa: avevano combattuto mille battaglie schiena contro schiena, con gli stivali affondati nel sangue dei nemici sconfitti, le armi sguainate in pugno. Nessuno dei due era mai stato capace di arrendersi. Thor di questo era evidentemente cosciente, così come sapeva che Loki non poteva accontentarsi: non era nella sua natura, del resto. Ecco perché il filo tessuto dalle Norne doveva essere mutato a ogni costo.

 

Il dio dell’inganno barcollò fino al tavolo più vicino, prese un fazzoletto, si pulì il sangue. Sentiva il seiðr scorrergli nelle vene, bruciandole. Era un mago potente, un maestro di magia come non se ne conoscevano di migliori in tutti i Nove Regni, ma l’incantesimo cui si era ripetutamente sottoposto negli ultimi tempi era così corrosivo da debilitare persino il suo fisico di Jotunn, altrimenti agile e robusto.

Thor gli porse dell’idromele e lui ne bevve un lungo sorso. “Ti sei costruito una prigione terribile, fratello,” notò amaro.

Loki serrò la mascella. Il paragone era drammaticamente calzante, ma non gli avrebbe mai concesso la soddisfazione di un’ammissione aperta. Il potere logora, rosicchia incastra, distrugge e, allo stesso tempo, dona.

“Rivivi sempre lo stesso momento e, ogni volta, lasci indietro qualcosa. È un’illusione. Non cambierai ciò che è stato, ciò che è.”

 

Dopo aver staccato con un colpo netto la testa a Thanos ed essersi reso conto di quanto, in fondo, fosse stato inutile e tardivo il suo gesto, Thor Odinson aveva perso buona parte della retorica che gli aveva sempre gonfiato il petto. Era il re di un popolo di esuli venuti a vivere altrove, ma il peso di quel ruolo lo schiacciava, non lo rappresentava; così, Loki, che per tutta la vita aveva creduto di meritare il trono, governava di fatto al posto suo, prendendo decisioni ed emanando leggi, ma finendo inevitabilmente per bramare sempre ciò che aveva avuto e, senza una spiegazione plausibile, si era ritrovato a smarrire.

Il tonante era consapevole di ciò che stava facendo: aveva contezza sia del bene compiuto verso la nuova Asgard, che del dannoso tentativo di modificare ancora il passato. Non poteva resistere alla tentazione di provare a fermarlo. Non c’era mai riuscito, così come non era in grado di guidare il gruppo di esuli Æsir che aveva avuto la disgrazia di sopravvivere alla distruzione perpetrata da Hela prima, da Surtur poi.

“Ti distruggerai, Loki. A che serve, saperlo? Perché non provi a ricostruire la tua vita, a ricominciare daccapo?”

Aprì le braccia e indicò il fiordo che si stendeva, magnifico e immenso, di fronte a loro. Aveva compreso di essere stato ingiusto e avventato. Tentò di rimediare. “Quando sei tornato, era un villaggio di pescatori. Ora è Asgard.”

 

Loki gettò un’occhiata rapida e breve a quella cosa in divenire, precaria e ben lontana dai fasti della perduta, meravigliosa, Ásaheimr[1]. Aveva evocato lui Surtur affinché distruggesse ogni cosa, avverando una profezia antica e spaventosa in maniera imprevista. Ricordò il fuoco, la fuga, il brivido provato quando l’ombra dell’ammiraglia di Thanos aveva oscurato la loro lancia rapida e carica di fuggiaschi[2]. Con un gesto istintivo, si massaggiò il collo, dove, sotto il colletto della corazza di pelle intrecciata, spiccava una cicatrice antica, ormai bianca: il segno che il Titano gli aveva lasciato nel tentativo di rompergli il collo, spezzargli il respiro.

 

 

Passò il tempo. Passò così tanto tempo che si dimenticarono di contarlo.

Loki fingeva di essersi adattato alla sua nuova vita. Mentiva, sostenendo che Asgard fosse stata replicata quasi alla perfezione, ma, soprattutto, s’illudeva che nessun tarlo gli rodesse il petto, scavandogli dentro. La soddisfazione non era nella sua natura, del resto. Doveva sapere, capire cos’era successo e quando e perché, in quale luogo o tempo. Eccola, la sua maledizione: da sempre era stato capace di adeguarsi a ogni contesto, a qualsiasi situazione, ma la conoscenza, no, non poteva difettargli.

“Se la liberassi?”

Fu così che la voce del dio degli inganni spezzò il silenzio di una notte vuota e cupa.

Thor volse il capo verso il fratello che, chino di fronte a un camino, ravvivava con l’attizzatoio le fiamme del fuoco tremante. Aprì la bocca per parlare, ma l’altro riprese quella cosa a metà strada tra la confessione, lo sfogo e il ragionamento ad alta voce.

Il tonante capì che aveva ceduto un’altra volta al bisogno di andarla a trovare nella sua torre solitaria; ecco perché ora voleva tentare nuovamente quell’incantesimo pericoloso e crudele, capace di scardinare il tempo e rovinare quello che sarebbe dovuto rimanere un ricordo perfetto, nient’altro.

 

“È un ciclo senza fine, che mi consumerà,” riprese Loki con improvvisa lucidità. “A volte, torno indietro e lei poi ricorda, ma troppo tardi; altre, non lo fa, ed è come perderla ancora e ancora. In ogni caso, sfugge. Andrà sempre così,” concluse, “a meno che io non scopra quel maledetto nome. Allora, Hela sarebbe obbligata a dirmelo, ma scoprirlo pare impossibile.”

Thor avrebbe voluto dirglielo: afferrarlo per le spalle, scuoterlo e gridargli di andare avanti, di smettere d’ingannare il fato o di tentare di mutarlo. Lei a suo tempo aveva scelto e l’ingannatore si era incastrato nella perenne ricerca di un modo per mutare un risultato destinato ogni volta a peggiorare inevitabilmente, sottilmente, ineluttabilmente.

“Che vuoi fare?” gli chiese invece.

Alla luce fioca delle fiamme, gli occhi di Loki scintillavano nella loro trasparenza, cercando una soluzione che meditava da chissà quanto. Gli Æsir possedevano una forza invidiabile, un’intelligenza spiccata, ma nella longevità quasi ultraterrena di cui beneficavano era racchiusa la loro infelicità: al contrario dei midgardiani, loro non dimenticavano. Il tempo e la memoria non riuscivano a cancellare né il dolore né l’ira né, tanto meno, il risentimento o l’amore. La nostalgia non velava il ricordo con l’oblio, non ottundeva i moti dello spirito: i figli degli Æsir vivevano migliaia di anni, ma non smettevano di soffrire nemmeno per un giorno. Thor pensò che, forse, la mente analitica e tagliente di suo fratello era riuscita a recuperare quella lucidità spietata che l’aveva reso inviso a molti, riconoscendo quest’ovvietà dolorosa. Pregò le Norne affinché fosse così, ma invano.

 

L’ingannatore fissava le fiamme seguendo pensieri tortuosi: era ora di cambiare piani e strategie, certamente. Hela non l’aveva ingannato, forse, ma gli aveva proposto un patto che si era rivelato inutile, stancante, improduttivo. Strinse i pugni, serrò la mascella. Sul viso affilato campeggiava un’espressione tirata e seria. Non si arrendeva facilmente. Era testardo, orgoglioso, fiero e, in quel momento, stava lottando contro se stesso per giungere a una conclusione che lo liberasse da quel ciclo senza fine di strazio e di rimpianto una volta per tutte.

“Porrò fine all’accordo con Hela,” annunciò a un tratto, senza guardarlo.

A Thor parve che la sua richiesta fosse stata esaudita. Forse, dato che nulla era stato davvero scardinato nell’ordine delle cose, gli Antichi Dèi[3] li avrebbero perdonati e, dall’alto della loro ieratica grandezza, sarebbero giunti a riconoscere le attenuanti di Loki, affibbiandogli una punizione blanda e misericordiosa. Eppure, il biondo Ase scoprì di non essere affatto felice della decisione sofferta e sputata dal fratello a denti stretti.

L’amava, l’avrebbe amata per sempre: quella ricerca logorante aveva reso ancora meno fattibile qualsiasi accettazione, distacco, riflessione. E lui non l’avrebbe ammesso mai. Soffocava sotto una gelida indifferenza un dolore nero e corrosivo, che gli sbranava l’anima e faceva avvicinare sempre di più le ombre oscure di un tempo. E allora glielo chiese, perché, pure se era ammantato di tormento, Loki restava sempre suo fratello e lui, Thor, ne conosceva il cuore e lo spirito come nessuno, nei Nove Regni.

“Rinuncerai? Davvero?” domandò.

Lingua d’Argento pensò a lungo, prima di rispondere. Poi smosse la cenere spingendola, con la punta dell’attizzatoio, tra le fiamme che avevano ripreso a guizzare.

“Ha scelto il suo destino, in fondo. So solo questo.”

Lo disse col tono distaccato e freddo che avrebbe usato per illustrare una nozione banale ed enciclopedica, come se non gli importasse poi molto, ma nei suoi occhi Thor lesse una disperazione infinita, atroce, terribile.

“È sempre Sigyn, fratello. Qualsiasi incantesimo o patto abbia pronunciato, deve averlo fatto anche per te,” gli ricordò di getto, all’improvviso, pentendosi subito dopo per quell’irruenza che, lo sapeva, Loki non avrebbe tollerato. L’Ase dagli occhi verdi, difatti, piegò le labbra sottili in una smorfia. Gli aveva già concesso abbastanza.

“Qualsiasi cosa sia stata così sciocca da tentare, l’ha distrutta, l’ha resa un’altra persona, Thor.” La voce dell’ingannatore si era fatta più bassa, distante. “Ha il suo viso, le sue mani, i suoi occhi: tutto qui. Forse ti sembra, guardandola, che sia dannatamente lei – si muove come lei, persino, ma in realtà non lo è più, non lo è mai.”

Lo sguardo di Loki era perso tra le fiamme. Con le dita, sfiorava le lingue di fuoco, in un gesto lento e distratto che, forse, aveva il solo scopo di distogliere gli occhi di Thor dal suo viso pallido e tirato, dalle pupille che parevano quasi luminose e lucide.

“Ma tenterai un’altra volta ancora, non è vero? Così avreste più tempo,” insistette il biondo Ase.

Il dio degli inganni continuò a fissare il fuoco.

 

 

 

 

Gli occhi grigi di Sigyn erano sottolineati da una riga sfumata di bistro che ne esaltava la profondità. Sedeva alla finestra, ma non si alzò, sentendolo arrivare. La luce del pomeriggio morente dava alla sua chioma bionda riflessi color miele e Loki pensò con rancore a tutte le volte in cui aveva affondato le dita in quelle ciocche chiare, subito dopo averla avuta, quando, ancora ansanti e scossi dal desiderio che li aveva catturati, si crogiolavano in lente carezze tra le coperte sfatte – seta e pelliccia contro la pelle, baci avidi e lenti che sapevano già di nostalgia e brama. A quel tempo, lei si abbandonava sul suo petto, stringeva il corpo snello e flessuoso contro il suo, invitandolo a restare anche se sapeva che non lo avrebbe fatto.

Niente era mai stato semplice, tra loro. Le si avvicinò e Sigyn gli rivolse uno sguardo appena sorpreso, inarcando un sopracciglio.

“Mio signore, non vi aspettavo,” lo salutò, ma il tono della sua voce era lievemente ironico, senz’altro freddo. Non gli riconosceva alcun titolo né potere. Non su di lei, almeno. L’ultima volta che aveva tentato di baciarla, memore di quel passato perduto in cui Sigyn era stata la sua amante, lei gli aveva morso un labbro, dicendogli con voce secca che la fedeltà non si strappava né si poteva ottenere con l’inganno.

Loki si sfiorò il collo, lì dove la stretta mortale di Thanos gli aveva lasciato un segno ormai appena visibile.

Il fatto era che la dea della fedeltà non ricordava nulla, di quel tempo in cui si inarcava contro di lui e invocava il suo nome, gli cercava le labbra. Il passato aveva una stortura che andava corretta, raddrizzata. Era successo qualcosa e Sigyn aveva dimenticato non lui, ma se stessa e di averlo amato.

 

L’ingannatore si guardò attorno, finché non abbassò gli occhi su un disegno che lei stava abbozzando. Nella stanza c’erano numerosi altri schizzi, libri e appunti, perché Sigyn doveva trovare un modo per trascorrere i giorni della sua prigionia, lenti e sempre uguali. Così, sfogava la sua sete di vivere scrivendo, leggendo, intrecciando collane di fiori, oppure disegnando, a seconda dell’umore incerto e ballerino. Quest’ultima passione veniva fuori di rado, il dio dell’inganno lo sapeva bene. Era stato vedendo un suo ritratto riprodotto da lei che, anni e anni prima, aveva compreso quanto Sigyn lo amasse. Ricordò di aver preso in mano il foglio per osservare, stupito e ammirato, il sentimento svelato nell’attenzione con cui la ragazza aveva tracciato il suo profilo affilato, si era soffermata sul dettaglio del sorriso spesso sbieco, colto la nota di tristezza che velava i suoi occhi chiari, avidi, penetranti. Loki le aveva chiesto il conto di quel disegno che valeva più di mille dichiarazioni e lei, fiera e magnifica, non si era vergognata di ammettere che sì, era innamorata: per questo lasciava che la cercasse e s’infilasse nel suo letto, tollerando la sua natura scostante, spesso volubile e fin troppo crudele. Era stata capace di vedere che, in lui, la propensione a ingannare e a mentire per piegare la realtà al suo volere si accostava anche ad altro: a una fierezza spiccata, a un’intelligenza arguta, a uno spirito orgoglioso e sempre nobilissimo.

Non le raccontò del ritratto delineato con infinita cura e amore, bruciato assieme alla bella Asgard dalle torri d’oro; non avrebbe avuto senso.

“Era tanto tempo. Senz’altro troppo, mia signora.”

In momenti come quelli, la recita cui entrambi sottostavano si trasformava in qualcosa di ancora più crudele. Intrecciò le mani dietro la schiena. “Ti ho portato un dono,” esordì, fissandola di sottecchi. “Lo avevi chiesto la scorsa volta.”

Lei scosse la testa e sospirò stancamente. “Cosa mi hai regalato, oggi? Una collana, un anello? Desidero solo una cosa, Loki: la libertà.”

Avrebbe voluto risponderle anch’io e smettere di guardarla e pensare che fosse bella. Serrò la mascella, sollevò appena il mento, raddrizzò la schiena già altera. Assomigliava maledettamente a quella che era stata, ma si trattava di un’illusione, nient’altro. Lo sapeva; era il dio degli inganni, dopotutto.

Cambiò discorso, ignorando la sua richiesta. Le porse una rosa, fatta apparire con uno schiocco di dita. Una sola, semplicissima rosa dai petali bianchi.

 

Lei allungò la mano, esitante, perché era il suo fiore preferito e lo sapevano entrambi. Giocò con lo stelo puntellato di spine, sfiorò i morbidi petali chiari con delicatezza estrema. Forse il regalo le rammentò, effettivamente, qualcosa. Il lago, per esempio, quello che si affacciava sul fiordo.

“Un dono semplice. Loki Laufeyson è anche capace di questo,” osservò inclinando il capo.

“Mi conoscevi abbastanza da non stupirtene, un tempo.”

Sigyn si riscosse. “So quanto il tuo spirito sia inquieto, ma non puoi avere ogni cosa, principe di Asgard. Liberami!”

Sarebbe stato meglio ritrovarla come l’ultima volta, scalza e persa nei suoi vagheggiamenti a raccontare alle bambole storie inesistenti.

“Liberarti,” soffiò l’Ase spostando di nuovo l’attenzione sui disegni: alcuni rappresentavano luoghi fantastici e mai visti, altri posti fin troppo noti.

“Riportami ad Asgard. Avrai il mio perdono per… per tutto questo,” insistette Sigyn, indicando la stanza ingombra di schizzi, libri, abiti e dei più disparati oggetti.

“Non esiste più, Asgard.”

La notizia fece ammutolire la dea della fedeltà, ma forse non quanto avrebbe dovuto. “Cosa vuoi da me?” chiese. La sua voce aveva una nota d’urgenza.

“Perché pensi di essere qui, Sigyn? In fondo tu…” Loki s’inumidì le labbra sottili, in cerca delle parole adatte, del concetto più giusto da dirle. “Mi hai sempre accordato la tua benevolenza, mia signora.”

La giovane donna s’adombrò. “Ma poi hai tradito tuo padre, tuo fratello, Asgard. A Vanheim si sono combattute guerre feroci dovute alle tue azioni sconsiderate,” concluse, fiera e puntuale.

“Odino mi mentì. Mi ha condannato a giocare una partita truccata, dicendomi che avrei potuto essere degno di un trono che, in realtà, è sempre spettato a un altro – al mio tronfio e arrogante fratello, graziato da un provvidenziale esilio. Asgard stessa mi tradì: ha riconosciuto troppo tardi gli inganni e le manovre che ho compiuto al solo scopo di renderla più grande.”

Loki aveva lasciato che lo sdegno per quello che considerava un affronto impossibile da perdonare gli infiammasse nuovamente il petto, spingendolo a guardare una ferita che si era cicatrizzata col tempo, forse sì, ma che avrebbe continuato a prudere, a tirare, a deturpargli la pelle per sempre, poiché era il segno indelebile dell’inganno che aveva dominato la sua intera esistenza di principe cadetto, di inconsapevole erede di un trono di mostri. Solo che dirlo a lei era inutile, sciocco, controproducente, persino.

“Eppure, alla fine, li hai salvati tutti,” mormorò Sigyn, acuta e consolante. “Ma questo non ti basta; devi avere di più, hai bisogno di possedere ogni cosa,” soffiò, avvicinandoglisi con la grazia delicata di un tempo. Un fruscio leggero della bella e ampia gonna di seta e gli posò le dita sul petto coperto dalla corazza di pelle intrecciata, come aveva fatto in un passato lontano.

“Potresti essere migliore di così. Guardati attorno, Loki. Tutto questo non serve e non ti aiuterà,” disse, facendo scorrere i polpastrelli delicati fin sulla mascella virile e sbarbata, diritta e decisa.

L’ingannatore sorrise a quella lusinga, resa più carezzevole dalla voce dolce di lei, dal suo tocco gentile e lieve, ma non privo di un’insidia celata, anzi, di molte. Gli aveva sfilato un pugnale dalla bandoliera e ora tentava di trafiggerlo, di colpirlo al fianco.

La disarmò con un gesto rapido e fulmineo, afferrandola per i polsi sottili. “Non sei mia prigioniera. Sei pazza. Totalmente. Sei rinchiusa qui perché è l’unico modo per controllare che tu non ti faccia del male. Non sono io la causa della tua condizione, ma quello che ti sei fatta.”

Sigyn, pallida in volto, tentò di fuggire, di indietreggiare, di non ascoltare.

Le tremarono le labbra, distolse lo sguardo. “Tu menti.”

Loki sapeva che le avrebbe risposto in quel modo. Le aveva fatto quello stesso discorso così tante volte da perdere il conto, da convincersi che fosse inutile raccontarle ancora ciò che era stato e quello che lei era diventata.

Un giorno entrava nella torre e si trovava di fronte una bambina svagata che gli offriva una tazza vuota di tè, quello dopo era una donna che lo fissava impaurita e non riconosceva né lui né se stessa, un altro ancora era la sua Sigyn, innamorata e divertente, ma durava sempre troppo poco – un pomeriggio o un’ora.

Allora non lo accusava di essere sua prigioniera, ma gli buttava le braccia al collo e si metteva in punta di piedi per cercargli le labbra e donargli un bacio intenso o leggero. Poi, gli accarezzava la corazza di pelle intrecciata, gli sfilava la bandoliera con la sicurezza di quand’era ancora la sua amante. Solo che dopo non facevano l’amore come in passato, perché quella Sigyn non era che un’ombra di ciò che era stata e non era in sé. Il giorno dopo – un’ora dopo, nello stesso momento in cui era dentro di lei – avrebbe potuto precipitare nell’ennesima voragine di follia e accusarlo di usarle violenza.

L’unica certezza era che più assomigliava alla perduta dea della fedeltà, più non riusciva a starle accanto.

“La cosa peggiore è quando sei così; simile a quello che eri,” concluse con voce fredda, liberandole finalmente i polsi che tante volte aveva intrappolato nei momenti dell’amore, quando la bloccava per sentirla inarcarsi sotto le sue spinte o a causa delle carezze sfacciate con cui le tormentava i seni – labbra sulle punte sensibili, sulla pelle morbida e delicata.

 

Fece per voltarsi e uscire una volta per tutte da quella stanza, ma si bloccò.

“Loki, aspetta.”

La vide mettere in un vaso di peltro la bella rosa bianca, lisciarsi la gonna. Riconobbe che era tesa e stava cercando di dirgli qualcosa. La osservò sfiorarsi una tempia, disorientata. Pregò le Norne affinché non tornasse.

“A volte mi sembra, effettivamente, di non essere me stessa. Di non ricordare il passato. Sono successe delle cose, ma non riesco ad afferrarle,” mormorò, avvicinandosi. “Forse hai ragione, forse stai cercando di proteggermi, in qualche maniera.” Assottigliò gli occhi, cercando di recuperare ciò che le sfuggiva. “Noi due eravamo più che amici, dico bene? Tu non mi faresti mai del male.”

 

A volte, si chiedeva se Sigyn soffrisse. Dove fosse la vera lei, se avesse coscienza dell’infinito tormento in cui era precipitata, probabilmente, per colpa sua. Freya lo accusava di non essere pietoso. Di non saper rinunciare a niente, di non voler accettare che la mente della sfortunata ragazza si era persa irrimediabilmente. Aveva senz’altro ragione in tutto, il dio dell’inganno ne era cosciente, ma un pomeriggio in cui era rimasta se stessa più a lungo del previsto, Sigyn aveva ricordato ed era stata quasi sul punto di raccontargli come fosse giunta fino a lì, cosa l’avesse spezzata, ma poi aveva scosso la testa e si era coperta la bocca con le mani, confessandogli con voce rotta che lo avrebbe amato per sempre, ma non si pentiva di nulla, di niente. Un battito di ciglia più tardi, raccontava filastrocche e serviva il tè a un animale di pezza.

Lo sguardo smarrito e le lacrime che le avevano bagnato gli occhi fino a un momento prima, avevano convinto l’Ase che fosse successo davvero qualcosa terribile, che andava corretto, raddrizzato, cambiato. Per questo si era rivolto a Hela. Eppure, ogni tentativo di tornare indietro nel tempo e capire cosa avesse determinato la follia di Sigyn si era rivelato nient’altro che un buco nell’acqua che aggiungeva solo dolore a dolore.

 

La dea della fedeltà avrebbe saputo cosa fare, in una simile situazione. L’aveva raccolto quando, ammaccato e ferito, col petto gonfio d’ira e di tormento, aveva giurato vendetta contro Odino e Asgard, ma l’ingannatore non era un uomo in grado di prendersi cura di una donna in una simile condizione. Non aveva la pazienza, la capacità, la tenacia di starle accanto. Non riusciva a essere gentile e a parlarle di un passato che lei, a ogni buon conto, ricordava, distorceva, non capiva o rifiutava in toto[4]. Loki era uno stratega, un politico, un mago, un guerriero. Era nato per essere re e per mutare la sorte a suo piacimento, non per prendere le mani di una ragazza senza senno e insegnarle a essere di nuovo se stessa.

Era successo qualcosa e la dea della fedeltà aveva dimenticato non lui, ma di averlo amato. Avrebbe dovuto lasciare che trascorresse il resto della sua misera esistenza in quella torre, a cantare e a farsi le trecce, a tentare d’uscire quando pensava di essere trattenuta ingiustamente, ad aspettarlo quando ricordava il suo nome. Se lo riprometteva ogni volta – in fondo, era un principe spietato e crudele, ma, di tanto in tanto, tornava da lei, perché dentro di sé, pur non avendone alcuna reale conferma, era consapevole di essere responsabile della sua triste sorte. E doveva aggiustare le cose.

I re, in fondo, questo fanno: si assumono la responsabilità delle loro scelte e non solo.

 

L’aveva maledetta mille volte, per la sua avventatezza. L’aveva maledetta quando sfogava con altre donne il bisogno di sentirsi vivo, portandosele a letto nel vano tentativo di non desiderarla più, ma l’illusione non reggeva, sgretolandosi sotto le sue dita. Le cacciava via subito dopo averle avute, incapace di sostenere il loro sguardo oltre il dovuto, nauseato. Abitudine che, in fondo, aveva sempre avuto – detestava le smancerie – ma che, pure, aveva ricusato per la sola con cui si era trattenuto fino all’alba, che aveva lasciato a crogiolarsi tra le coperte, nuda e sua. Cos’aveva di speciale, lei? Perché era arrivato al punto da concederle così tanto, per quale ragione ne aveva fatto la sua amante lasciandole, suo malgrado, la vittoria di essere, in qualche modo disturbante e doloroso assieme, l’unica?

Ti odio, Sigyn. Più di ogni altra cosa al mondo.

Cos’aveva lei? Era intelligente, vivace, dolce. Soprattutto dolce; un balsamo sulle proprie ferite che rideva alle sue battute, lo rimproverava quando gli scherzi in cui si dilettava erano troppo crudeli, accettava la sua natura contorta, ambigua, doppia fino allo stremo. Sapeva chi era e, nonostante tutto, lo amava fieramente. Loki lo sapeva – ne aveva avuto contezza con quel ritratto antico e con molte altre cose, ma, nondimeno, aveva scelto di darla per scontata, profittando del suo amore, cercandola ogni volta che la desiderava, illudendosi di avere il suo cuore. Era sua e gli bastava, ma, ora che l’aveva persa, la inseguiva, la rivoleva accanto a sé.

 

 

“Questa è l’ultima volta che ci vedremo. O meglio, tornerò indietro e tenterò di impedire che tu ti riduca così.”

Lei era a terra, seduta a gambe incrociate sul tappeto, i bei capelli sciolti sulle spalle.

“Un’avventura?”

“Un’avventura, sì.” Si sedette stancamente sul letto ordinato, diede la consueta occhiata in giro soffermandosi su ogni oggetto che raccontasse le giornate sempre uguali della sua prigioniera. Non c’era niente di acuminato con cui potesse ferirsi o tentare di scappare. Una preoccupazione in meno per lui, che non avrebbe più dovuto ammazzare chi pensava di poterla usare come una bambola solo perché era totalmente pazza. Una notte lontana, ansante e con la spada ancora sguainata e macchiata di rosso tra le mani, era entrato nella torre e aveva pensato di porre fine a quella maledizione liberando lei e se stesso. L’aveva trovata placidamente addormentata, ignara di tutto, con le gambe al petto e la bocca schiusa e si era messo a pensare che non c’era bisogno di usare su di lei la lama di un pugnale: sarebbe bastato un cuscino e se ne sarebbe andata nel sonno – se n’era già andata da tempo, in verità, Loki lo sapeva. Non riusciva ad accettarlo e si illudeva di poter inventare una menzogna abbastanza grande da ignorare un simile dettaglio, ma, nel suo petto, nella parte più profonda della sua anima, sapeva già di averla persa. Non c’era riuscito, ovviamente. Si era sentito indegno di un pensiero tanto meschino e disgustoso, perché spaccare la testa a un uomo che pesava quanto lui e si era comportato come un vigliacco bastardo o uccidere con un solo colpo un nemico in battaglia, non era uguale a soffocare nel sonno la donna che non riusciva a dimenticare.

“Sei bello. Hai degli occhi bellissimi,” disse Sigyn. “Mi piaci,” decise. Gli rivolse un sorriso che apparteneva a una ragazza che non c’era più e si avvicinò per sfiorargli dolcemente la guancia. L’Ase sussultò, perché quel tocco era come fuoco e svegliava desideri sopiti, alimentava il caos soffocato dalla lucida razionalità che lo animava.

“Ti detesto e ti maledico,” le disse tra i denti. “Non dovevi ridurti così. È stato un prezzo troppo alto, da pagare.” Le bloccò la mano sottile, tenne tra le sue dita quelle delicate di lei. Le strinse.

La ragazza sbatté le palpebre, interdetta dalla freddezza delle sue parole, così in contrasto col suo tocco. “Sei triste. Ho fatto qualcosa che non va? Non mi vuoi più bene, per questo?”

Loki scosse la testa in segno di diniego.

“È l’ultima volta, Sigyn.”

Ti odio perché te ne sei andata, non sei più tu. È rimasto un guscio vuoto e poco altro – bugia, ci sei ancora, da qualche parte.



[1] Nome del regno degli Aesir. La storia è un post Endgame what if e la Asgard di cui parlano è quella che si vede nel film.

[2] La lancia qui è da intendersi nella sua accezione di imbarcazione veloce/scialuppa.

[3] In Infinity War è a questi che Heimdall si affida nel momento in cui apre il portale.

[4] Perché Sigyn a volte ricorda, altre no, altre ancora non capisce! Non è un errore ^^.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** La maga ***


Capitolo 2

La maga

 

Then I open up and see
The person falling here is me
A different way to be

I want more
Impossible to ignore
Impossible to ignore

They'll come true
Impossible not to do
Impossible not to do

(Dreams, The Cranberries)

 

 

Loki aveva rivissuto la sera in cui si era festeggiata la battaglia di Nornheim così tante volte da perderne il conto. Conosceva a memoria ogni battuta, discorso o insignificante evento di quel banchetto che si distingueva dagli altri per il fatto che lì, solo in quel punto della sua storia, si nascondeva la motivazione, il segreto che aveva spinto Sigyn a essere così sciocca e avventata da sacrificare se stessa. In verità, non avrebbe dovuto stupirsi più di tanto. Era la dea della fedeltà come lui lo era dell’inganno. Aveva scelto di seguire la propria natura in virtù di quel suo delicato e dolce orgoglio che gliel’aveva fatta preferire tra tutte.

Qualsiasi cosa facesse, in qualunque modo tentasse di fermarla, Sigyn, quella notte, s’innamorava di lui, anzi, di più: capiva di amarlo e lo accettava. Ecco il punto, il disastroso momento in cui il destino prendeva la piega che, ormai, l’Ase conosceva fin troppo a fondo. Lei diventava la sua donna, nonostante il biasimo di due interi regni. Poi, certo, lo avrebbe lasciato, esasperata dall’ambizione, profonda come una voragine nera, che lo abitava, per poi piangerlo fino a consumarsi gli occhi quando lui si sarebbe fatto inghiottire dal buio siderale oltre il Bifrost, ma quella sera, guardandosi allo specchio, Sigyn avrebbe riconosciuto il viso e lo sguardo brillante di una donna inevitabilmente innamorata.

Non c’era variante che Loki non avesse mutato, ma ora, nell’ultimo viaggio attraverso il tempo che aveva scelto di intraprendere, coperto da un mantello con il cappuccio che gli copriva il volto, si limitò a fare da spettatore muto, osservando, per l’ennesima volta, ogni dettaglio di quel preciso momento: un privilegio che, più tardi, avrebbe pagato a caro prezzo, ma per tornare nella Asgard che aveva ricostruito e cancellare, definitivamente, il retaggio del passato, avrebbe fatto qualsiasi cosa. Una goccia gli cadde sulla punta degli stivali immacolati, un’altra sul pavimento di legno della sala. Si sfiorò la punta del naso accorgendosi di avere le dita macchiate di sangue scarlatto. Ogni volta che recitava le rune proibite che gli permettevano di sfidare il tempo, il suo corpo soffriva, corroso dal seiðr e dal potere sfibrante.

Thor aveva ragione. Si era scelto una prigione terribile, sottostava a torture spaventose.

 

Sigyn – quella di un tempo, perduta, probabilmente, per sempre – gli passò accanto senza vederlo, sorridente e allegra: una nuvola di seta chiara e bracciali tintinnanti che rivolgeva un ultimo sguardo a lui, per le Norne, al Loki sprezzante e fiero di quel tempo che, nello stesso momento, buttava il capo all’indietro per ingollare l’ultimo sorso del pregiato idromele regalato dai Nani a Odino in persona.

Il dio dell’inganno si fissò nella mente ogni particolare della scena, riflettendo su quanto pesasse sulle sue spalle la conoscenza del futuro, su quanto fosse ingiusto cogliere i semi del dolore che li avrebbe attesi.

Lei, che sarebbe arrivata persino a inginocchiarsi al cospetto di Odino sfiorando con la fronte il pavimento, per avere la possibilità di poter scendere, anche solo per un’ora, nelle buie celle di Asgard dove lui era stato rinchiuso, sorrideva innamorata e soddisfatta, inconsapevole della follia che, di lì a non molto, l’avrebbe resa pazza.

Quante ore era rimasta, immobile, in attesa che Padre Tutto, irato e crudele come il re spietato che era stato, acconsentisse ad ascoltarla, di più, ad accordarle il permesso di vederlo?

Lui e Sigyn non avevano fatto altro che rimanere rinchiusi in una trappola, un cerchio perenne che li portava sempre allo stesso, terribile, risultato: lei pronunciava un terribile quanto ignoto incantesimo e perdeva per sempre la ragione, lui non riusciva a impedirglielo.

 

Hela, ritrosa e infinitamente sapiente, gli aveva mostrato il lato infantile del suo volto spaventoso, quando si era decisa a spiegare perché il fato tessuto dalle Norne fosse un insieme di bivi differenti che conducevano, però, alla medesima fine. Solo che Loki non l’aveva accettato. Si era rifiutato di sottostare all’idea che non esistessero scappatoie né sotterfugi, che il destino non potesse essere mutato anche lì, nell’inevitabile fine. Occorreva solo trovare il sentiero adatto e avere pazienza, la stessa dimostrata quando, poco più che ragazzo, aveva scoperto i sentieri che partivano da Asgard e portavano ad altri mondi, sostituti del Bifrost ignoti a tutti, portali che era possibile attraversare senza farsi intercettare dallo sguardo color oro di Heimdall. Era stato attraverso uno di quelli che i Giganti di Ghiaccio erano penetrati nella Casa di Odino, rovinando l’incoronazione di Thor e segnando, per sempre, il futuro degli Æsir e il suo. Facendosi forza, si decise a visitare, di nuovo, un altro momento del proprio passato, uno che, forse, celava in sé anche un altro segreto.

.

 

 

 

 

La prigionia sfiancava Loki. Gli toglieva la ragione, il sonno, il respiro, persino. Non c’era nemmeno abbastanza spazio per pensare. Godeva dell’assurdo e ironico privilegio di una cella regale, a misura della sua persona, abbellita con mobili e libri: tutta una serie di ipocrite comodità che accettava, ma verso cui provava uno sprezzo senza pari. Stavolta, però, aveva deciso di intervenire. Di parlarle, di estorcere dalle labbra morbide di lei il segreto che, nel presente, era intrappolato nella sua testa svagata, nella memoria ormai fallace. Ecco perché acconsentì a entrare nel perimetro sorvegliato e arredato con attenzione. L’attese fin quando non la vide avanzare verso il vetro della cella. Reggeva un vassoio.

“Tua madre mi ha chiesto di portarti una zuppa[1].”

“E tu le sei molto devota, vedo.”

“È preoccupata, lo siamo tutti.”

Loki inclinò il capo di lato. “Anche tu? Eri in pena per me?” le chiese, mellifluo e crudele.

Sapeva già cosa gli avrebbe risposto Sigyn. Abbassando le ciglia scure, si sarebbe fatta coraggio, ammettendo che il tempo e i racconti delle sue gesta sconsiderate e spietate l’avevano rattristata profondamente, ma che non erano riuscite a mutare in alcun modo i suoi sentimenti.

Gli avrebbe detto che lo amava, Loki lo sapeva, come ricordava perfettamente di averla derisa per la sua granitica fermezza. Colpa del rancore che gli anneriva lo spirito, della necessità di non avere legami né di rimpiangere una relazione in cui era rimasto invischiato suo malgrado, senza quasi rendersene conto. Iniziata perché Sigyn gli aveva chiesto, un pomeriggio lontano, di aiutarla a tradurre un passo di un poema antico che lei amava e su cui si lambiccava da settimane.

“Che mi darai in cambio, mia signora?” le aveva domandato beffardo e lei, seria e altera, non si era scomposta a tale richiesta, reputando che la conoscenza valeva una concessione. Incuriosito e ammirato da quella sete di sapere ben nota, Loki le aveva chiesto di trascorrere un’ora insieme, da soli.

Sigyn aveva accettato, a patto, però, di scegliere il posto: le rive del lago, che, anticamente, erano parte del fiordo immenso su cui si affacciava Asgard. L’Ase l’aveva trovata una scelta interessante, sebbene non originale.

“Qui vengono le coppie d’innamorati a baciarsi sotto la luna; c’è una grotta, poco più avanti, dove Bor, mio nonno, fece scolpire nella roccia una scala che conduce a un’enorme caverna: lì, una lastra trasparente, illuminata da torce impossibili da spegnere, mostra cosa si nasconde sotto la superficie dell’acqua.”

“Lo so, la conosco,” aveva ribattuto lei con un sorriso appena accennato sulle labbra morbide e dolci. “Viene usata per impressionare le ragazze.”

“E tu vuoi essere impressionata, Sigyn? O sedotta?”

Lei si era voltata verso le acque placide del lago. “Voglio approfittare di una serata tiepida mite e bella e chiacchierare in compagnia.” Teneva i capelli sciolti sulle spalle e un mantello di lana leggera le copriva la figura sottile e ben fatta.

Loki aveva ammirato la massa dorata e spettinata dei suoi capelli. “Domani diranno che abbiamo una storia.”

Sigyn si era girata verso di lui ridendo. “E noi li lasceremo parlare, non è vero Lingua d’Argento?”

Si erano baciati contro la parete umida di roccia fiocamente rischiarata dalle lampade eterne, cercandosi con impazienza le labbra, stretti in un abbraccio convulso e nervoso, che saziava appena la voglia di toccarsi e scoprirsi. Allo scadere di quell’ora pattuita e concessa, si erano appartati ridendo in quel luogo banale e scontato, ritrovandosi a scambiare effusioni frettolose e intense, cariche di tutto lo strazio di un incontro negato, desiderato, cercato, ma non soddisfatto, nonostante Sigyn gli avesse piantato le unghie nelle spalle e si fosse inarcata contro il suo corpo. Non sarebbero diventati amanti quella notte, nonostante il desiderio accecante. Lei avrebbe preso a negarsi a lungo, anteponendo ai loro incontri lo studio intenso delle rune e certi impegni diplomatici. Si sarebbe trasformata in una preda incantevole e ambita, ma difficile da catturare.

Di fronte allo spettacolo sotterraneo e onirico di quel frammento di lago visibile da sottoterra, con le labbra ancora gonfie a causa dei baci che si erano scambiati, aveva sorriso facendogli una promessa strana ed eccitante al tempo stesso, capace di acuire i suoi sensi di cacciatore, di guerriero, di orgoglioso principe dei fieri Æsir.

“Non cadrò ai tuoi piedi,” gli aveva detto.

 

Si trattava di un ricordo lontano, molto più distante, nel tempo, di quanto Sigyn potesse immaginare. Loki Laufeyson vi si soffermò assaporando in bocca il sapore di fiele delle cose smarrite. Il se stesso cui si era sostituito aveva provato una fitta d’ira e di gelosia, all’idea di averla persa. Ma quella Sigyn era ancora riconquistabile, in qualche modo. Lo suggeriva lo sguardo grigio e umido, l’esitazione con cui aveva posato le dita delicate sulle sue. Riconobbe che si era trattato di un tocco leggero e carico di significati, si chiese se il giorno lontano dell’appuntamento al lago lei, con ancora il sapore della sua bocca sulle labbra, avesse preso un foglio per disegnare a memoria il suo volto, replicando con attenzione ogni particolare, caratteristica, aspetto.

 

Il dio dell’inganno pensò a tutto queste cose e ripeté la frase. “Eri in pena per me.”

Nessuna domanda, stavolta, ma solo una constatazione. Lei batté le palpebre, distogliendo solo per qualche momento lo sguardo da lui.

“Sono sempre innamorata di te, Loki.”

L’Ase sollevò il mento fiero, incrociò le mani dietro la schiena diritta. Le avrebbe risposto diversamente, stavolta. Se non poteva mutare il destino, sarebbe riuscito a scoprire l’incantesimo segreto che l’aveva distrutta. La cicatrice che gli segnava il collo prudeva, forse per il contatto tra la pelle rimarginata e il collo della casacca.

“Cos’hai fatto alla mano, Sigyn?”

 

La ragazza si allontanò di scatto, nascondendo rapida le dita sotto una piega del mantello scuro che indossava. Era una domanda retorica, quella del dio degli inganni; era perfettamente a conoscenza di cosa le fosse successo e perché, ma desiderava sapere se lei gli avrebbe raccontato la verità o una menzogna.

“Non chiedermelo,” soffiò. “È passato.”

Loki scosse la testa, senza camuffare il ghigno sardonico che avevano assunto le sue labbra furbe. Non era una questione archiviata, nient’affatto. Avrebbe avuto ripercussioni sul futuro, perché quella mano stretta da una fasciatura candida nascondeva il segreto di un incantesimo terribile, uno che Sigyn aveva pronunciato per lui. Per trovarlo. Per rintracciare la sua firma dopo che lo avevano creduto morto, dando così modo a Odino di liberare tanta parte di materia oscura da mandare Thor su Midgard[2]. Rinchiuso in quella stessa cella, si era ripromesso che non l’avrebbe mai perdonata per una simile leggerezza, salvo poi ricredersi quando, dopo Thanos, gli era venuto il ragionevole sospetto che lei avesse sacrificato la ragione per lui. Per tentare di rintracciarlo di nuovo, magari.

“Com’è andata, mia dolcissima dea della fedeltà?”

Sigyn non rispose. Non era tenuta a farlo, del resto. A entrambi tornarono in mente alcuni lunghi e bui pomeriggi d’inverno, certe serate fredde passate insieme a rotolarsi nel letto. La voce arrochita di Loki era stata volutamente suadente.

“Sei un’abile strega,” ricordò. “Ma che prezzo hai pagato, per trovarmi?”

“Devo andare.” La donna si voltò verso l’uscita della cella, ma Loki l’intrappolò, bloccandole con un braccio il varco. Le due guardie che sorvegliavano pigramente le segrete di Asgard scattarono verso il vetro della prigione, terrorizzate all’idea che l’ingannatore potesse prendere in ostaggio Sigyn o approfittare del momento per fuggire.

“So cos’hai fatto stavolta,” le rivelò rapido, a denti stretti. “Hai recitato una formula pericolosissima e hai posato la mano sul braciere, lasciando che bruciasse, perché il prezzo da pagare per ritrovarmi era quello – le tue lacrime mute per una posizione rivelata.” Scoprì i denti, soddisfatto dalle guance di Sigyn che perdevano colore, dalle sue spalle scosse da un tremito a stento trattenuto, ma riprese a parlare. Era un uomo spietato, del resto. “Perché lo hai fatto? Come hai potuto?” le soffiò contro.

I secondini avevano ormai varcato l’ingresso della gabbia e gli puntavano incerte le lance contro.

 

Sigyn uscì dalla prigione, la mano ancora nascosta sotto le pieghe del mantello, ma si voltò di nuovo verso di lui. L’ultima domanda del dio dell’inganno l’aveva colpita. C’era qualcosa di stonato, nella rabbia di Loki. Parlava come se avesse il cuore avvelenato dal rimpianto, dalla nostalgia, dalla disperazione. La guardava come si osserva un fantasma, ma il principe degli Æsir non era un uomo che si arrendeva facilmente. Dal suo analitico e tagliente punto di vista, persino la prigionia poteva rappresentare un’opportunità interessante. Quando era stato riportato in catene ad Asgard, da Thor, sotto il bavaglio di ferro che doveva tenere a freno la sua lingua sardonica c’era dipinto un sorriso. Quel ghigno lei lo aveva visto, Loki lo sapeva. Niente poteva essere perso davvero, se si era dotati della mente svelta del migliore mago di Asgard, del più brillante stratega dei Nove Regni. I fallimenti erano opportunità, per chi sapeva fare tesoro della mole di informazioni che racchiudevano.

“Indossavi abiti chiari, una volta,” notò Loki oltre il vetro, con voce distante, ma carica di rammarico. Circondata dalle guardie, Sigyn abbassò lo sguardo sul corsetto nero e aderente, sulla gonna ampia e leggera, del medesimo colore, che le scivolava sulle gambe. Lei lo ricordava. Ma un giorno più triste degli altri, di fronte ad uno specchio, si era accorta che il mondo non aveva più colori, e allora aveva strappato i suoi capelli e si era stretta in un lutto serrato.

“Questi toni mi si addicono di più, adesso.”

“Eri in lutto per me?”

“Non m’importa averti accanto o saperti al mio fianco. Non sei il tipo d’uomo che può accontentarsi di vivere con una donna e avere una famiglia,” spiegò la dea della fedeltà arcuando appena le labbra in un sorriso triste – forse, dopotutto, era esattamente questo che lei avrebbe voluto, da lui. Lo amava, in fondo, anche se erano state proprio la sete di libertà e la crudele spavalderia che non le aveva mai nascosto, a stregarla. “Posso vivere sapendoti lontano, amore mio, ma devo avere la certezza che tu stia bene. Da te, non desidero altro.”

Aveva lasciato che la sua pelle bruciasse, per lui.

Era una dichiarazione d’amore generosa, spiazzante, totale. Che non chiedeva niente, anzi, donava e, per questo, era più difficile da accettare.

Loki si avvicinò al vetro della cella arrivando quasi a sfiorarlo con il naso.

“Cosa saresti disposta a fare, qual è l’incantesimo peggiore, il più spaventoso che riusciresti a recitare, per me?”

 



[1] Come vediamo ordinare da Frigga a un’ancella in Avengers: Endgame.

[2] Come dice Loki a Odino in Avengers. Nonostante Odino sia potentissimo, spesso nei comics ha chiesto aiuto ad altri dèi.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Sotto il velo ***


Capitolo 3

Sotto il velo

 

 

If it takes forever I will wait for you
For a thousand summers I will wait for you
Till you're back beside me, till I'm holding you
Till I hear you sigh here in my arms

Anywhere you wander, anywhere you go
Every day remember how I love you so
In your heart believe what in my heart I know
That forevermore I'll wait for you

 

The clock will tick away the hours one by one
Then the time will come when all the waiting's done
The time when you return and find me here and run
Straight to my waiting arms

(Connie Francis, I will wait for you)

 

 

Il dio dell’inganno era tornato indietro nel tempo così tante volte da perderne il conto. Aveva studiato ogni possibile variante, ipotesi, coincidenza, per poi mutarla e osservarne gli effetti, scoprendo, così, gli inganni nascosti nelle varie linee del tempo. Da qualche parte, le Norne, ironiche e impietose, dovevano aver sorriso, osservando i suoi tentativi di rintracciare col seiðr il nodo giusto. Alla fine, però, era riuscito a scoprire quel segreto che lo tormentava.

Finalmente aveva il nome dell’incantesimo recitato da Sigyn sulle labbra. Eppure il suo trionfo era amaro, sapeva di fiele: si ritrovò a pensare a una triste coincidenza. Lui, il dio dell’inganno, doveva pagare sempre sulla propria pelle il peso atroce e terribile della verità nella sua forma più cruda e spietata, come quando le sue origini erano saltate brutalmente fuori, incrinando per sempre ogni certezza, infiammando fino all’esasperazione il suo innato cinismo. In fondo, la menzogna, alle volte, non è altro che un dolce velo che copre gli orrori e le brutture di una realtà amara, sporca, ignobile.

Questo è l’ultimo viaggio che intraprenderò per ritrovarti, perché sfidare il tempo è rischioso, debilitante, doloroso, persino.

Chiuse un momento le palpebre, tentando di scacciare via i pensieri cupi che gli serravano la testa. Non era più così sicuro che sarebbe riuscito a portare a termine la sua missione disperata. Una parte di Loki, quella di mago, era ammirata dal talento dimostrato da Sigyn nell’uso del seiðr, ma un’altra valutava con occhio critico gli effetti che una magia troppo potente aveva avuto sul fisico esile e sulla mente sveglia della giovane strega. Gli rimaneva una sola domanda a cui dare una risposta plausibile e soddisfacente: perché.

La conoscenza era una fonte di liberazione, ma il suo peso era gravoso. Apriva lo spiraglio su altre considerazioni che la mente lucida dell’ingannatore non poteva ignorare o far finta di non considerare. Con la testa febbrilmente immersa in un mare di sospetti e illazioni, decise di porre fine a quella ricerca sfiancante e senza fine, domandandolo all’unica creatura a conoscenza di tutto, la sola che si era detta disposta a stringere con lui un patto, un accordo: Hela, la signora dei morti. Deglutendo e senza conoscere ancora quale fosse il tassello mancante più importante di tutti, si domandò se l’avrebbe convinta un’ultima volta.

 

 

 

I ricordi, a volte, sono una tortura dolorosa, specie se dolci. Per gli Æsir, incapaci di dimenticare – di perdonare – questo era ancora più vero. Ecco perché, avvolto nel suo mantello color notte, Loki si ritrovò a pensare con risentimento a una delle innumerevoli sere passate con lei, ormai lontane nel tempo e nello spazio, introvabili se non nella propria memoria.

Sigyn era sdraiata sul suo letto, nuda, con i capelli biondi sciolti sulla schiena. La luce calda delle fiamme che crepitavano nel caminetto le illuminava la pelle dorata, esaltando le forme delicate e sinuose dei fianchi e della schiena. Si puntellava sui gomiti, tormentandosi con i polpastrelli un labbro – lo stesso che Loki, pochi minuti prima, aveva assaporato con una serie di lunghi baci ora lenti e perfidi, ora avidi e sfrontati. Davanti a lei, giaceva aperto lo scopo della sua visita notturna, tramutatasi invariabilmente in altro: un tomo che il dio degli inganni aveva opportunamente sottratto alla biblioteca di Odino e che ancora non aveva intenzione di rendere. Si era messa a sfogliare le pagine in cerca di chissà che formula, porgendogli domande, facendo considerazioni argute, discutendo con lui di teorie e congetture. Era un’interlocutrice acuta e brillante, del resto.

Loki, steso accanto a lei, si deliziava per il modo inconsapevolmente sensuale con cui Sigyn arricciava leggermente la bocca quando rifletteva su qualche concetto astruso, ammirando la grazia delicata con cui piegava le gambe e le incrociava. L’ingannatore spiegava, annuiva, concordava, correggeva, ascoltava e, nel far questo, finiva inevitabilmente per carezzarle distrattamente la pelle levigata e morbida finché, fintamente offeso del fatto che lei concentrasse le sue attenzioni principalmente sul libro e non su di lui, non aveva iniziato la sua spietata rappresaglia, posando la bocca ironica e beffarda sulle curve dolci e rotonde di cui non si era ancora saziato. Sigyn aveva riso, quando lui si era avventato sui suoi fianchi, non aveva potuto fare a meno di lasciarsi sfuggire un sospiro basso, mentre la lingua bugiarda dell’Ase giungeva a sfiorarle la schiena sensibile ed esposta, aveva smesso totalmente di dedicarsi al libro, nel momento in cui Loki era riuscito a raggiungere i seni piccoli e sodi e il collo. L’Ase l’aveva sentita vibrare e tendersi, nonostante fosse intrappolata sotto di lui e, di nuovo, l’aveva desiderata con forza nonostante fino a pochi istanti prima parlassero di tutt’altro. Certo, già allora il loro rapporto era stato guastato da incomprensioni e litigi, ma la strega era sempre stata una conquista troppo difficile e ambita per lasciarsela scappare a causa di un inutile fraintendimento circa il suo non rapporto con Sif o con altre. L’aveva voltata con un gesto deciso per ammirarne ancora il corpo snello e ben fatto, sfiorare e saggiare le labbra dolci e morbide, che rispondevano ai suoi baci tentando e concedendo, negando e offrendo. Sigyn.

Lei gli aveva sfiorato il volto con le mani delicate, era arrivata a cingergli il collo attirandolo ancora più vicino a sé e il libro era stato presto dimenticato, rimanendo l’unico testimone dei loro sospiri rotti, frenetici, mescolati.

Avrebbe dovuto rintracciare in quelle antiche notti di passione trascorse a rotolarsi nel letto con lei, il seme della tragica sete di sapere che sarebbe stata capace di condurla alla follia? O individuare allora la misura di ciò che Sigyn avrebbe, un giorno, immolato in nome di una relazione sconsiderata, criticata da tutta Asgard?

Scoprire la verità in ogni sua forma richiedeva il pagamento di un prezzo esoso. Sigyn aveva recitato un incantesimo proibito, mentre lui era impegnato a combattere Thanos. Lo aveva fatto per tutelarlo, vinta dal timore di perderlo. Si trattava di un baratto nero, oscuro, difficile da stipulare, ma la dea della fedeltà era una maga abile e perseverante: aveva sopperito alla forza con l’abilità e la pazienza. Tra gli effetti collaterali connessi a quella particolare formula, c’era l’insorgere di una possibile demenza, sebbene non nelle forme imprevedibili e schizoidi manifestate da Sigyn. Si era trattato di un sacrificio dettato da un eccesso di zelo, dalla paura annichilente che il Titano incuteva in ogni creatura dell’universo, lei compresa. In poche parole, aveva cercato inutilmente di proteggerlo.

Sì, doveva essere andata così.

La ragazza aveva saputo della vendetta di cui Thanos era in cerca; probabilmente, non gli era servito altro per agire. Loki emise dei lunghi respiri, lenti e profondi: era stato torturato a lungo dal folle conquistatore. Per giorni, anzi, settimane intere. Un incubo da cui era riuscito a fuggire a stento: lo avevano ritrovato a vagare per le spiagge che circondavano la nuova Asgard ricostruita in preda al delirio, febbricitante, ferito. Aveva impiegato mesi a riprendersi completamente. Le sofferenze patite durante la prigionia erano state tante e tali che la sua mente si era incastrata, rammentando dettagli sparsi, niente di più. Particolari agghiaccianti che lo sorprendevano nel cuore della notte, facendogli sbarrare gli occhi nel buio, dolorosi come lame affondate nella carne e poi girate. Un senso d’oppressione lo avvolse, ma lo ignorò.

 

 

Il regno di Hela era oltre un fiume dalle acque scure e torbide: in esse si potevano vedere gli spiriti dei dannati che gemevano disperati, trasportati dai flutti; Loki attraversò il ponte di pietra che univa le due rive e gettò un’occhiata sprezzante alle anime perse nel loro annaspare. Lamentandosi, esse tendevano le loro braccia bianche verso la superficie, mentre mulinelli arcani le trascinavano nel fondo. Il dio degli inganni pensò che l’angosciante scena gli ricordava Sigyn: esattamente come i resti incorporei trascinati dalle onde, soffriva persa in un gorgo da cui lui, che pure era il potente dio degli inganni, non riusciva a trarla fuori. Quante notti insonni aveva passato consultando i libri faticosamente racimolati in lungo e in largo per i Nove Regni dopo la distruzione di Asgard? L’antica sapienza degli Æsir era andata irrimediabilmente perduta nel rogo immenso generato da Surtur e Loki aveva tentato di recuperarla con tutte le sue forze, in cerca com’era di un modo per annullare o mitigare gli effetti di quell’incantesimo. Aveva sempre creduto di essere uno dei più potenti maestri di magia di tutti i Nove Regni – dell’universo intero – ma, alla fine, non gli era rimasto altro da fare che scendere in Helheim[1], per avere una possibilità, una soltanto, di riavere al suo fianco la sfrontata e curiosa strega che gli aveva promesso una fedeltà eterna senza pretendere nulla in cambio. A lui, Loki di Asgard, che a quel tipo di amore non aveva mai creduto, pur ritrovandosi, suo malgrado, ad attraversare il tempo e a visitare il regno dei morti, per lei.

Si disse che la soddisfazione non era nella sua natura; non poteva accettare di aver fallito e di non essere in grado di salvarla dall’abisso in cui si era volutamente gettata. Convincendosi di questo serrò la mascella e proseguì diritto oltre il ponte, augurandosi che Hela gli mostrasse la metà rosea del suo volto[2].

 

Il Regno dei Morti era avvolto da una coltre fitta e pesante di nebbia. Con passi alteri e uno sguardo particolarmente guardingo, Loki Odinson s’incamminò attraverso quel velo denso, oltre cui intravide le anime dei dannati scrutarlo con i loro occhi ciechi e forse maligni. Gli parve che tra le orbite vuote e nere ci fosse persino qualcuna delle sue numerose vittime, ma lui era il dio degli inganni, il principe di Jotunheim e di Asgard; qualunque morte avesse inflitto nel corso della sua giovane vita di Ase, non provava alcun rimpianto. Gli inorgogliva il petto, anzi, che quegli sguardi senza tempo si posassero su di lui. Le ombre non intravidero nulla del sottile compiacimento del fiero guerriero, perché Loki volle arrivare al cospetto di Hela con la sua faccia più impassibile. Era furba, lei. E, sebbene lo adorasse, non avrebbe concesso invano i suoi favori. Era per la sua mente brillante e la scaltrezza che Odino l’aveva resa signora assoluta di quel posto.

Il castello di Helheim sbucò dal nulla, all’improvviso: la soglia era vastissima, affinché le anime potessero entrarvi in gran numero; le torri bronzee, innaturalmente alte, svettavano su un cielo plumbeo e perennemente coperto. L’ingannatore rivolse un’occhiata alle guglie decorate con cupi mostri alati e poi, con passo elegante, varcò il pesante portone.

 

Hela l’aspettava. Glielo lesse nei suoi occhi, verdi come i propri. Assisa sul suo trono ricoperto di drappi neri, con le ciocche corvine che le coprivano parzialmente il viso, tamburellava con le dita sottili sul bracciolo del suo scranno color pece.

“Loki di Asgard, ti aspettavo già da molte ore” disse, rivolgendogli il suo lato di ragazza.

“Allora perdona il mio ritardo, nobile signora. Ho viaggiato attraverso il tempo troppo a lungo, ma non invano,” spiegò con un sorriso tirato, memore del loro primo incontro. “Ho il nome, finalmente. E tu sai cosa ti chiederò, adesso.”

Hela inclinò leggermente il capo, rivelando ancora più del viso bellissimo. “Hai viaggiato molto, dio degli inganni, lo so. Così tanto da sapere che la trama filata dalle Norne non sempre si può disfare. In qualunque linea temporale esistente, lei pronuncerà l’incantesimo e perderà la sua mente,” sentenziò. “Ora lo sai.”

“L’ho scoperto a mie spese, sì,” ammise Loki, avvicinandosi a passi lenti al trono. “Grazie al tuo suggerimento l’ho sperimentato in tutte le sue varianti.”

Si rese lucidamente conto che, nonostante il segreto non fosse più tale, con tutta probabilità, nemmeno lui sarebbe riuscito a mutare il passato aggiustando, così, il proprio presente, risanando la dea della fedeltà. Quello era, evidentemente, un male immutabile – ineluttabile. La parola gli provocò una fitta dolorosa.

La regina di Helheim gli mostrò la parte del volto marcia e consumata. “L’onniscienza non mi appartiene, figlio di Laufey, bada a ciò che dici. Non potevo sapere. Dovevi tentare. Io ti ho indicato l’unica via percorribile.”

Loki rise tra sé e sé e annuì. Le parole della signora dei morti parevano non averlo convinto del tutto.

“Hai ragione, saggia signora. Col nome del maleficio in mano, però, so a chi si è rivolta Sigyn. So a chi chiedere il favore di annullarne gli effetti,” ragionò. “Liberala dalla follia in cui è precipitata. Sciogli le rune che ha pronunciato. Ha invocato te, ora lo so e posso chiedertelo. Sono disposto a stringere un accordo,” decise, allargando le braccia con fare sicuro.

Hela sorrise debolmente, mostrandogli, allo stesso tempo, entrambi i volti. “Non voglio né posso accontentarti, Loki di Asgard. Se lo facessi, la dea della fedeltà precipiterebbe in un incubo decisamente peggiore di quello in cui è intrappolata adesso.”

Il dio degli inganni impallidì visibilmente e poi sparì, rivelandosi nient’altro che un’illusione perfetta.

Prima che potesse anche solo pensare, Hela si ritrovò una delle lame sulla carotide. L’Ase, quello vero, era alle sue spalle. Non poteva morire, ma soffrire sì e lui lo sapeva. “Cosa dici? Come lo sai?” sibilò furioso.

“Oh, Loki,” sospirò quella tristemente, nonostante l’arma che le premeva sul collo. “Tu non ricordi più nulla, ma, a questo punto, dovresti sapere.”

Un brivido corse lungo la schiena dell’ingannatore; i suoi sensi di lupo captarono il pericolo imminente, legato, una volta di più, alla conoscenza.

“Thanos ti ha torturato a lungo prima di ucciderti.”

La stretta che Lingua d’Argento esercitava sull’elsa del pugnale vacillò appena.

“Non è possibile,” rispose di getto, ma la cicatrice che aveva sul collo iniziò a tirare più del solito. Era il dio degli inganni, del resto: sapeva distinguere fin troppo bene il vero dal falso. Conosceva le leggere pause o le incrinature nella voce legate alle menzogne e, in quel preciso frangente, Hela non mentiva, affatto.

“Tuo fratello ti trovò delirante e scosso dalla febbre; credette che i racconti tremendi circa la tua morte fossero falsi, nient’altro che un depistaggio messo a punto dai tirapiedi del Titano. Asgard era stata distrutta, lo schiocco aveva dimezzato metà dell’universo e lui era preda delle sue ombre e dell’idromele… non poteva sopportare anche il tuo fantasma. Non indagò oltre.”

La voce di Hela era un sussurro gentile, pietoso. Loki abbassò la lama del pugnale.

“Non si chiese come avessi fatto a fuggire. Non te lo sei mai chiesto davvero nemmeno tu,” proseguì con una certa benevola stanchezza nella voce. “La verità, dio degli inganni, è che non lo hai fatto: Thanos ti ha ucciso e Sigyn… ha preso una decisione drastica. Ecco qual era il segreto che dovevi scoprire da solo.”

 

 

Era un dolore lacerante, che la divorava seccando tutto quello che c’era in lei. Persino le lacrime. Sigyn aveva smarrito la speranza: le era rimasta addosso solo una veste logora e strappata – la fedeltà donata a un uomo che non l’aveva ascoltata e, crudele, tronfio, fiero, era andato a farsi torturare e ammazzare da un Titano Folle.

Non era morta quel giorno, ma dopo, quando aveva scoperto come. La sofferenza le si era congelata nell’anima.

A volte, chiudeva gli occhi e ricordava com’era fare l’amore con lui: labbra che si sfioravano, lambendosi ora lente e leggere, ora ansiose e disperate, dita che si cercavano intrecciandosi in strette spasmodiche, urgenti, frenetiche. Così si erano avuti senza remore sui letti sfatti in cui rimaneva impresso l’odore della loro pelle, nelle radure dei boschi dove si stendevano dopo aver spinto i loro cavalli in una folle gara di velocità. Si erano catturati a vicenda, per poi fondersi e diventare una sola cosa, unendo bocche, sospiri, corpi, anime e battiti del cuore. Solo che l’infinita dolcezza di un ricordo baciato da una passione eterna e struggente, che spezzava le vene, era stato spazzato via dalle immagini, impossibili da cancellare, di Loki e di quello che gli avevano fatto.

Ecco perché Sigyn non riusciva a trovare consolazione. Il suo cuore si era svuotato totalmente, riempiendosi con i resti martoriati del suo unico ed eterno amore dagli occhi brillanti e il sorriso furbo.

E dimenticare era impossibile. La ragazza serrava le palpebre e continuava a vedere il suo corpo massacrato e senza vita, torturandosi con domande perfide che non avrebbero mai avuto risposta rimanendo lì, nella sua testa, a pungerla per sempre: aveva sofferto?

Il suo cuore si congelava nel dubbio, pregando inutilmente le Norne che la morte fosse sopraggiunta prima del resto, corrosa dal dubbio che, invece, la sua tempra robusta di principe di Asgard e di Jotunheim l’avesse, invece, tradito, concedendogli la morte solo al termine di una spaventosa, lenta, tragica agonia. E ogni volta che ci pensava, il respiro le moriva in gola, il cuore perdeva un battito, lo stomaco si contraeva in uno spasmo doloroso. Così si ritrovava a sfiorare il ventre vuoto, condannato a rimanere freddo, a non ospitare mai i figli che avrebbe voluto dargli.

Come si può sfidare il Titano dopo aver perso due gemme e un’armata proponendogli un altro, palese, inganno, puntandogli un secondo dopo una lama affilata al collo? Odiava Loki e lo amava al tempo stesso, perché era stato arrogante, troppo sicuro di sé, impavido, ironico, magnifico e non l’aveva ascoltata e, forse, nemmeno mai amata. Desiderata sì, persino troppo, con una foga da conquistatore di cui erano stati testimoni muti i loro letti ormai gelidi, dimentichi di quando la ghermiva e faceva scorrere la lingua e le labbra sulla sua pelle tremante, sensibile, smarrendola e perdendosi in lei.

 

A Hela, che le chiese perché fosse giunta al suo cospetto, Sigyn rivolse un sorriso debole e sicuro. “Sono morta, mia signora. Sono morta, ma cammino ancora sulla terra. Liberami da questa pena.”

Le spiegò che era il dolore, a tormentarla, più di tutto il resto. Si era innamorata di un principe degli Æsir; aveva messo in conto, fin dal primo momento, che sarebbe finito macellato su un campo di battaglia, col corpo steso a terra, le braccia abbandonate spalancate in un abbraccio gelido, ma il resto no, e proprio quello era l’inaccettabile quadro che vedeva davanti agli occhi da quando si alzava al mattino al momento di coricarsi e anche oltre. E allora, nelle notti insonni in cui persino le lacrime si sarebbero trasformate in una benedizione, s’immaginava la morte solitaria che l’aveva ghermito al termine delle spaventose sofferenze, perché era troppo facile pensare che Thanos non avesse infierito su di lui quand’era ancora vivo.

Con Thor non aveva mai parlato di tutto questo. I dettagli li aveva scoperti per caso, quando i suoi occhi erano ancora capaci di inumidirsi e il pianto rigava le sue guance ogni sera. Il figlio di Odino aveva scelto di chiudersi nel silenzio e di stordirsi col sapore speziato dell’idromele e del vino più robusto, consolandosi dalla sconfitta più amara con una vendetta che aveva dimostrato tutta la sua vacuità nel momento stesso in cui si era compiuta, senza lasciargli nessun appagamento.

La vita si era interrotta sul filo che aveva cucito le labbra di Loki impedendogli di gridare, ponendo fine a una vita d’inganni e di bugie, nella pelle segata dalle catene e bruciata dal veleno urticante di una bestia immonda e spietata, dotata di una pazienza infinita.

Sigyn non aveva potuto fare nulla per salvarlo o alleviare il suo dolore, nessuna cosa. Lui era morto e a lei avevano tolto via il cuore, costringendola a vivere ogni giorno nella sua testa il supplizio toccato al traditore che aveva amato più di ogni altra cosa.

 Leggeva, ricamava, parlava e, a un tratto, pensava alle sue labbra sottili e beffarde, increspate in un sorriso ironico e perfetto; le stesse che l’avevano baciata e amata così tante volte da perderne il conto ed erano state cucite dal Titano.

“Sono morta,” disse a Hela, perché, col cuore congelato e l’anima svuotata, non riusciva nemmeno a raccontare, a spiegare, la desolazione in cui si trascinavano i suoi giorni da fantasma che respirava.

La signora dell’Oltretomba inclinò il capo, scrutandola attentamente, ascoltando il dolore del suo spirito tormentato, annichilito, seccato. Le Norne avevano tessuto insieme i fili del destino del dio dell’inganno e della fedeltà, unendo i loro spiriti diversi eppure complementari, stabilendo, per loro, l’esistenza di un legame capace di resistere persino alla sua falce, meraviglioso e allo stesso tempo terribile: uno non poteva sopravvivere all’altra, semplicemente.

Non le disse – e Sigyn, per parte sua, non chiese – nulla delle ultime ore di Loki, se fossero state spaventose o meno. C’era un riserbo particolare sulle anime trapassate, in Hel. Parlò d’altro: dell’incantesimo che avrebbe potuto cancellare il nome del dio dell’inganno dal libro dei morti se l’universo, nel frattempo, fosse stato scosso da un sussulto particolare, del prezzo che ogni desiderio o incantesimo portava immediatamente con sé.

Sigyn, incapace persino di provare freddo al suo cospetto, ascoltò ogni parola. Il suo destino era alleviare le sofferenze del dio dell’inganno, come tante volte aveva fatto nella perduta Asgard che non c’era più, quando lo cercava al termine di una battaglia per sanare, con unguenti e attenzioni, il suo corpo ferito, per ascoltare le magnifiche storie, né false né vere, che lui le raccontava per incantarla, le labbra astute piegate in un sorriso furbo, perenne.

Hela si sporse appena verso di lei, mostrandole la sua parte di volto benigna, di ragazza.

“Accetti?”

Ecco cos’era successo.

 

 

Loki deglutì a vuoto. La dea della fedeltà aveva deciso di pronunciare un incantesimo proibito e terribile, che le aveva devastato irrimediabilmente la mente, al solo scopo di saperlo vivo. Cercò la cicatrice parzialmente nascosta sotto il colletto della corazza di pelle intrecciata, sfiorandola. Credeva di essere sfuggito alla furia del Titano, ma non era vero.

Non era sopravvissuto grazie alla sua astuzia, no. Era stato qualcos’altro a liberarlo dalle grinfie di Thanos, così potente da sopravvivere persino alla morte e infrangere il vincolo che legava le anime a Hel. Non ne pronunciò il nome – le parole gli rimasero incollate al palato.

Capì di avere le mani legate, strette in ceppi impossibili da spezzare: salvandola dal destino misero in cui era precipitata, l’avrebbe condannata a un dolore capace di risucchiarle il cuore, che lei non aveva potuto sostenere. L’aveva persa – si erano persi – e l’unica cosa che gli rimaneva da fare era accettare i suoi sorrisi di bambina, l’astio di cui lo faceva oggetto, lo slancio d’amore che durava sempre troppo poco, ricordando che quello era stato il prezzo pagato da Sigyn per cancellare l’orrore di una tortura tremenda, forse meritata, ma che lei non era riuscita a tollerare.

Pur di proteggerlo, si era condannata lei stessa. Il segreto sarebbe dovuto rimanere tale.

Chiuse gli occhi, serrando le palpebre di fronte a quella che gli sembrava un’oscena ingiustizia. Sarebbe stato meglio tornare e sapere che l’aveva dimenticato e la sua vita era andata avanti. Vederla crescere i figli di un altro, com’era nella natura delle cose accadesse, era più sopportabile che avere contezza dell’annichilente dolore capace di prosciugare Sigyn e di spingerla ad alleviare a ogni costo il suo, di dolore. Maledisse le Norne, che l’avevano costretta a reggere in eterno un bacile colmo del veleno capace di corroderlo, versato sulla sua carne per punirlo delle sue molte malefatte – inganni e trame perpetrati con astuzia e coscienza, che non era capace di rinnegare nemmeno in quel momento – e maledisse lei, sua anima affine, sua devota sposa in eterno, sebbene nessun vincolo ufficiale li legasse. 

Hela aveva descritto il dolore di Sigyn con poche, semplici, parole, ma l’Ase aveva immaginato ugualmente ogni sussulto del cuore della strega dai capelli d’oro.

Era morto e lei aveva sacrificato ogni cosa per riportarlo indietro. Non l’avrebbe mai perdonata, per questo.

“Non avremmo dovuto mai incontrarci,” constatò con amarezza. “Lei avrebbe avuto una vita più felice.”

L’altra scosse il capo. “Avrebbe avuto una vita grigia, senza amore.”

“Dicevi di non essere una veggente.”

“E non lo sono. Ma qui, seduta sul mio trono, ascolto – ho ascoltato ogni cosa fin dall’alba dei tempi. Vuoi tornare indietro ancora e cancellarla dal tuo passato?” Hela sorrise. “Non ne hai più la forza e poi, in fondo, non sarebbe nella tua natura fare una cosa del genere. Dico bene? Tu non sai rinunciare a niente, dio degli inganni.[3]

Loki ragionò in fretta, tentando di elaborare una strategia. “Ti propongo un altro patto, mia signora. Un accordo,” disse con voce il più possibile incolore, posizionandosi nuovamente di fronte a Hela.

La regina increspò le labbra in una smorfia scuotendo la testa, volgendosi verso Loki con la parte di viso scheletrica, mangiata dai vermi. “Se annullassi l’incantesimo, tu moriresti e Sigyn soffrirebbe, ancora e di nuovo. Quindi cosa vuoi da lei, Loki?”

“Guarirla.”

“Il prezzo per l’incantesimo che ti ha strappato alla morte è stato la sua mente. È riuscita a recitarlo, a invocarmi in modo abbastanza potente da sciogliermi il cuore, perché ti amava. Ecco il motivo per cui Sigyn non ricorderà mai più cos’ha fatto per te, cosa sei stato per lei.”

Il passato che tante volte aveva visitato e ricordato, per lei, non sarebbe esistito più, anzi, era già svanito.

“A meno che…” esordì l’Ase. Un ghigno furbo gli increspò le labbra sottili. “Mi correggo: ti propongo una scommessa, Hela. Ci sei stata amica, fino a questo momento.”

“Ho accontentato un’anima infelice. Credevo che sarebbe morta, invocando una magia tanto oscura; in quel caso, le avrei concesso il sereno oblio di chi dorme in eterno. Invece è sopravvissuta – è più forte di quanto pensassimo entrambi, credo.”

“Ora che so cos’è successo e perché, non ti chiederò di cancellare ciò che è stato, né di ridarle quello che ha sacrificato,” spiegò Loki sicuro. “Non ricorderà nulla, ma potrebbe essere di nuovo lei,” spiegò. “Donale un futuro libero dalla follia, tieniti ciò che già ti immolò. Otterrò di nuovo quello che mi concesse una volta. Ne sono certo.”

La regina gli mostrò la parte del volto bellissima, di ragazza.

“Come sei sfrontato e sicuro di te! Allora, che cosa mi offri in cambio, Loki di Asgard?”

 

 

 

Il fiordo, al tramonto, era una distesa placida, incantevole. Le montagne, nascendo dalla spuma del mare, si fondevano con l’acqua. Sigyn sedeva sulla riva, con una cartella di cuoio piena zeppa di fogli sulle ginocchia. Da quando si era ripresa dalla lunga e tremenda febbre che l’aveva costretta a letto per settimane, sentiva sempre più spesso il bisogno di disegnare, di mettere su carta impressioni, volti, paesaggi. Prendeva in mano una matita e, semplicemente, la sua mano iniziava a tratteggiare forme fantastiche, spazi reali, bozze di particolari, studi anatomici di varia natura. A volte replicava la meravigliosa natura che la circondava, soffermandosi sull’eterea bellezza di un fiore, sulla maestosità di un albero o sullo splendido panorama su cui si affacciava la nuova Asgard. Altre, si divertiva a fissare sul foglio alcuni semplici frammenti di vita quotidiana. C’erano dei momenti, però, in cui disegnava palazzi e castelli di un mondo che, le dicevano, non esisteva più. In mezzo a tutti i suoi schizzi, un volto in particolare emergeva fin troppo di frequente. Sigyn lo replicava con incredibile precisione anche quando il soggetto ritratto non era presente. E questo, la confondeva.

 

Loki la trovò così, persa in quel passatempo antico che, per lui, era carico di ricordi, ma alla ragazza, ormai, non evocava niente. Era accaduto e basta: una mattina la dea della fedeltà si era risvegliata in un mondo di sconosciuti.

Le si sedette accanto e lei lo lasciò fare, nascondendo però, con cura, il disegno che stava tratteggiando.

Era la sua Sigyn, ma in qualche modo era diversa. Nei suoi occhi grigi e rotondi non c’era più l’antica dolcezza con cui lo guardava, ma una diffidenza ben nota, che l’ingannatore aveva conosciuto quando lei, nel delirio, credeva di essere sua prigioniera. Forse, una parte della donna lo pensava ancora, nonostante lui le avesse offerto più volte la possibilità di andarsene. Allo stesso modo, non sapeva dire per quale ragione un segno bianco le macchiasse la pelle candida della mano: anche quel sacrificio era stato dimenticato, così come le notti trascorse insieme, i lunghi baci, le lacrime. Ogni cosa era svanita per sempre e lei era lì, intoccabile e ignara degli incantesimi d’amore di morte che entrambi avevano recitato una per l’altro e viceversa.

Il passato, per lei, era un racconto privo di significato, la storia di un’altra persona in cui non riusciva a riconoscersi. Non era quella di un tempo, non lo sarebbe stata mai più. Loki aveva consegnato a Hela le sue insegne e promesso cospicui doni – tra cui la bandoliera carica di pugnali affilati – e questo era stato il guiderdone necessario non per riavere accanto a sé la dea della fedeltà, ma per liberarla dalla pazzia. Del suo passato, Sigyn non ricordava nulla e qualunque riferimento agli anni trascorsi e dimenticati le provocava crudeli emicranie.

La ragazza si chinò per accarezzare un gattino che aveva preso a girarle attorno e miagolava in cerca di cibo, tentando di conquistare le sue attenzioni. Guadagnò un paio di carezze sulla testa e tra le orecchie, che ricambiò sfregandosi sulla sua gonna. Consapevole, forse, della necessità di ammaliare anche lui, l’animale s’azzardò a strusciarsi contro i suoi stivali. Loki tollerò con un certo qual distacco le accattivanti attenzioni feline.

“Puoi tenerlo,” le concesse. “Sei libera di fare ciò che vuoi.”

Lei gli rivolse un’occhiata lunga e attenta, come se potesse cogliere la reale portata di quell’affermazione.

“Ti andrebbe di raccontarmi alcune delle tue storie?” gli domandò.

Il dio degli inganni si morse le labbra. Si chiese se tutto quello che stavano vivendo non fosse che un ciclo, uno di molti, che si sarebbe avvicendato ad un altro e poi ad un altro ancora, destinato a finire sempre nel medesimo modo.

“Molte delle cose che si dicono su di me sono false o sbagliate,” rise.

Lei si fece ancora più seria di quanto già non fosse. “L’altro giorno sono andata alle rovine giù alla collina. Ho sentito dei discorsi strani. Mi hanno detto che hai viaggiato fino a Helheim, portando indietro con te un grande tesoro. Mi sembrava di ascoltare una fiaba.”

Gli occhi verdi di Loki brillarono. “L’ho sentita raccontare anche io, una volta.”

“È falsa? Sembra che la conoscano tutti,” replicò lei. “Ma ogni versione pare sia diversa dall’altra. Tu quale conosci? Raccontamela, per favore.”

“Perché?” domandò aggrottando le sopracciglia.

Gli occhi di Sigyn si fissarono su un punto indefinito del vecchio muro di pietra antica. “La trovo bella. E poi, nessuno ha saputo dirmi come finisce.”

Loki sospirò e scostò lo sguardo da lei. “Perché non ha una fine. Dicono che ho attraversato cento ponti e cento fiumi, cento montagne e cento valli, per giungere, infine al cospetto della regina degli inferi. Le dissi ti donerò le armi magiche degli Æsir, ti svelerò i loro segreti, ti porterò tutte le reliquie di tutti i Nove Regni, perché tu possa diventare la più potente tra i Sovrani. Ma lei non si impietosì e allora insistetti. Dissi risanerò il tuo corpo, affinché sia fresco come una rosa in entrambi i lati; accrescerò il tuo potere conducendo a te eserciti e popoli, finché sarai più potente di quanto non sia stato Odino; ti consegnerò la spada con cui Sigurd uccise il drago, ti porterò il corno da cui beve Utgardha Loki; viaggerò per te attraverso tutti i Nove Mondi, e cercherò ogni reliquia, ogni tesoro, ogni incantesimo, e tutto questo sarà tuo; e continuai, offrendo tutto quanto c’era di bello e prezioso nell’Universo intero. Ma nessuna cosa sembrava convincere la dea degli inferi a restituirmi ciò che avevo perso[4].”

Sigyn fu scossa da un brivido intenso e profondo, che le sembrò essere l’eco di qualcosa di antico. Un dolore sordo, annichilente, disperato, che le fece scivolare una lacrima calda e muta sulla guancia. “È molto triste. Cosa volevi che ti restituisse?”

Loki la soppesò a lungo, prima di rispondere.

“È solo una storia, forse.”

 

Il dio dell’inganno non l’avrebbe saputo mai, ma il disegno che Sigyn aveva nascosto con cura era un suo ritratto. L’ennesimo che si era ritrovata a fargli quasi per caso, mentre era sovrappensiero, spinta da un bisogno senza nome né spiegazione. Il volto affilato di Lingua d’Argento, replicato con incredibile precisione, emergeva dall’insieme dei tratti morbidi carico di una vividezza incredibile.

Certi incantesimi d’amore e di morte sopravvivono al tempo, al destino, alle menzogne, a ogni cosa. Rimangono attaccati alle anime e urlano prepotenti anche quando vengono nascosti. Sigyn strinse con forza la cartella di cuoio che conteneva i suoi disegni e, da sotto le ciglia nere, gli rivolse un’occhiata incredibilmente seria. “Noi ci conoscevamo già? C’è mai stato qualcosa, tra di noi?”

Il dio dell’inganno stirò le labbra in un sorriso e le sfiorò una ciocca di capelli, pensando a come lei lo baciava nelle fredde notti d’inverno della perduta Asgard, gettando il capo leggermente all’indietro e infilandogli le dita tra i capelli scuri. Le lambì le labbra stupite e incerte che, più memori di lei, risposero al contatto con la delicatezza che l’Ase aveva quasi dimenticato e stava ritrovando ora. Vivevano in un luogo davvero crudele, in un mondo spietato, in un universo devastato, ma, nonostante ciò, il dio dell’inganno scese sul collo, inspirò il suo odore e tornò sulla bocca già carica di domande. Rispose al bacio dolce di Sigyn, che non sapeva e non ricordava, ma, in qualche modo, percepiva e sentiva cosa c’era stato, tra loro. Indugiò e temporeggiò, perché per lui il tempo non aveva più significato, in fondo, e voleva gustarsi quell’istante per cancellare tutte le attese e le ricerche che gli avevano sfibrato l’animo inquieto. E allora prolungò con sottile perfidia quel momento, fino a che il sole non s’inabissò nel fiordo.

Gli incantesimi d’amore e di morte non possono cancellare il passato e, nemmeno, celarlo per sempre.

 

 

 

Fine

 

 

Note autore:

Questa minilong ha una genesi travagliata per molte, tante ragioni. L’idea di Loki che cerca di recuperare Sigyn a qualsiasi prezzo mi è sempre piaciuta tantissimo; se vi dovessi dire tutte le opere che hanno ispirato in qualche modo la minilong finirei l’anno prossimo, dato che questa idea mi gironzolava in testa dal… 2015, ebbene sì. L’occasione per scriverla e definirla è dovuta al contest “Elisir, pozioni e distillati” indetto da wurags sul forum di Efp. Il pacchetto che ho usato è il Veritaserum (eh eh eh, con Loki, che ironia!): secondo le direttive, la storia doveva basarsi su un segreto nascosto con cura che poi viene rivelato. A tenerlo, ovviamente, qui è Sigyn: recita un incantesimo proibito per far tornare Loki dal regno dei morti e, come conseguenza, perde la ragione. Ovviamente, il peso del sacrificio di Sigyn è il motivo stesso per cui Loki non avrebbe dovuto sapere di essere morto.

Il viaggio attraverso il tempo del dio dell’inganno è volto a scoprire quale incantesimo ella abbia recitato per poi tentare di annullarlo o, come è stato, mitigarlo, offrendo un dono a Hela.

I prompt utilizzati sono disegno (i ritratti che Loki fa a Sigyn) l’acquario/lago/fiordo (dove si vedono in più di un’occasione) e i concetti di rancore e perdono, ricorrenti soprattutto nella rabbia di Loki verso il sacrificio di Sigyn e nell’incapacità di perdonarla.

Se la storia vi è piaciuta, inseritela nelle liste di Efp, in alto a destra(farete felice un’Autrice) o fatemi sapere che ne pensate con una recensione (ogni pensiero è importante e non dovete scrivere un testo critico. ^^).

Sperando vi sia piaciuta, vi ringrazio infinitamente per essere arrivati fin qui,

Shilyss



[1] Il regno di Hel.

[2] Nell’iconografia norrena Hela è caratterizzata da un corpo per metà decomposto e per metà di fanciulla. Loki si sta augurando che sia benevola nei suoi riguardi e gli mostri “il volto di ragazza.” Ovviamente, per esigenze di copione, questa Hela non è sua figlia, come nel canone, né la versione discutibile dell’MCU.

[3] Come detto negli scorsi capitoli, Loki non può, in questa storia, viaggiare nel tempo. La sua salute ne risente (soprattutto quella fisica)

[4] Alcune di queste imprese sono state effettivamente compiute dal Loki mitologico.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3854288