La cattedrale nel deserto

di Diana LaFenice
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incipit ***
Capitolo 2: *** Settembre ***
Capitolo 3: *** Ottobre ***
Capitolo 4: *** Novembre ***
Capitolo 5: *** Dicembre ***



Capitolo 1
*** Incipit ***


La Cattedrale nel Deserto
La differenza tra bello e sublime è che il sublime ti affascina e inquieta al tempo stesso.



Incipit
Si dice che le leggende sopravvivano allo scorrere del tempo continuando a vivere nella memoria di ognuno di noi; frutto di un ancestrale passato ormai perduto tra le nebbie o un ricordo sbiadito. Ogni tanto, come delfini, rispuntano in superficie, mostrando tutta la realtà trasformatasi in mito. L’ultima volta che una leggenda divenne reale, accadde a Hay River nel lontano Duemilanove. Chissà se anche questa storia farà lo stesso?

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Capitolo 2
*** Settembre ***


Settembre

Un pericoloso assassino era appena evaso dal carcere locale. Il suo nome era Terrence Himelich.

Il suo destino era di andare incontro alla sedia elettrica se non fosse diventato, una settimana prima, uccellin di bosco. Era stato condannato a morte dalla corte suprema ed era stato trasferito perché il carcere non aveva gli strumenti necessari per stroncare la sua miserevole vita. Nonostante il suo aspetto dimesso e anonimo impresso sulle foto segnaletiche, era un pazzo che amava appostarsi nei boschi e ammazzare ignari escursionisti, i cui corpi poi erano lasciati alla mercé dei predatori della foresta. Sembrava che uccidesse per il puro e semplice gusto di uccidere e apparteneva alla categoria degli assassini organizzati. C’era un certo metodo nelle sue azioni, ravvisabile anche dal modo in cui cancellava le proprie tracce.

Il primo omicidio era avvenuto nel Settantanove e da allora erano stati trovati circa centoventotto corpi, tra bambini, famiglie, anziani, coppiette e turisti. All’inizio pensavano che fosse un ex Berretto Verde impazzito come quello cinematografico. Tuttavia notando l’incostanza e la completa casualità con la quale sceglieva le sue vittime, i poliziotti si erano ricreduti e avevano preso il caso con la dovuta serietà.

Un conto è avere a che fare con un omicida, un altro è avere a che fare con un serial killer. Che razza di mostro può compiere azioni del genere? Il dato più inquietante, una volta osservato e studiato il suo modus operandi, era che era inafferrabile. Quasi come fosse un’entità incorporea delle leggende e delle storie dell’orrore.

All’inizio le autorità competenti non avevano allertato la popolazione sia perché non volevano sollevare il panico sia perché credevano di acciuffarlo a breve. Si sbagliavano. Terrence divenne il killer più famoso della regione e molti, tra investigatori, psicologi e, mindhunters, cacciatori di taglie, si misero sulle sue tracce. I mindhunters sono profiler che tracciano il profilo psicologico di un assassino.

Furono proprio questi ultimi a stabilirne il profilo psicologico. E si era venuti a fronte di una scoperta ancora più inquietante. Una rivelazione che molti, nella squadra, preferivano non nominare per il terrore. Un terrore che aleggiava su di loro come un’ombra pronta a calare su tutti quanti, con la stessa pesantezza di una cappa. E, che faceva voltare la testa verso le cime degli alberi delle foreste adiacenti, baciate dal sole.
Ma anche i più spietati assassini prima o poi commettono un errore. E Terrence lo commise; fu visto rubacchiare della frutta e della verdura di un orticello. L’eroe della situazione fu il proprietario, il quale in quel momento si era affacciato alla finestra. Avendolo riconosciuto, richiuse immediatamente la tenda e chiamò la polizia.  
Fu così che il tredici dicembre del Duemilasette riuscirono a catturarlo. Quando iniziarono i processi quale fu l’enorme sorpresa della procura e dei giurati nel vederselo davanti. Cioè, quello era l’assassino? Nessuno avrebbe mai indovinato la sua vera statura dalle foto trasmesse finora. Si aspettavano tutti un omino, non una stanga di un metro e novanta dalle mani rovinate e con cicatrici da taglio su polsi e braccia, che nuotava nell’ampia divisa arancione da carcerato!
E che adesso se ne stava seduto sul suo letto in cella. I gomiti sulle ginocchia. Molti avevano avvisato di stargli lontano, soprattutto perché il fisico allenato dagli anni passati nella boscaglia tradiva la sua reale forza. Forza che non traspariva di certo dal viso e dagli altrettanto anonimi spenti occhi acquosi che ogni tanto s’illuminavano di uno sguardo selvaggio e folle. Come se pensasse a qualcosa che lo mandasse su tutte le furie.
Quello sguardo era talmente simile a quello di una fiera che pareva quasi annunciare una trasformazione imminente di una qualche creatura rabbiosa. Per questo fu ribattezzato la Belva Umana.

 

A vederlo non poteva avere più di una trentina d’anni, anche se sapevano tutti che era nato nel Cinquantadue. Inizialmente le guardie pensarono fosse uno scherzo, ma poi, comparando il modus operandi con le armi che trovarono nel suo covo nella foresta, grazie ai segugi, si ricredettero. L’assassino di Hay River era lui.
Eppure, neanche i mindhunters riuscirono a carpirgli il vero motivo per cui uccideva. Neanche i poliziotti più violenti riuscirono a estorcergli niente.
L’unica persona che volle parlare e ottenne risposte dalla Belva Umana fu l’avvocato d’ufficio che fu assegnato a Terrence. E, tutto quello su cui concordarono fu la linea di difesa da seguire per ottenere, se non altro, l’ergastolo.
Più di questo non si ottenne. Neanche la psicologa forense ci riuscì. Con lei Terrence aprì bocca - gli occhi brillanti e le mani intrecciate sul tavolo, il busto sporto verso di lei -  e sorrise sinistro: «Psicoanalizzatemi pure, sottoponetemi a tutte le torture che volete, ma sappiate che ogni cosa che carpirete, non sarà mai la verità che tanto agognate».  
Quell’uomo - ammesso che si potesse ancora definire così - era un enigma. Ma se  pensava di appellarsi all’infermità mentale, gli psicologi e psichiatri glielo impedirono, in quanto concordanti tutti sulla sua lucidità mentale.
Le informazioni che avevano, erano voci di persone che lo avevano conosciuto. Lo descrivevano come un bambino solitario, triste, taciturno, vessato dai bulli a causa della allora bassa statura e del peso. Si era dovuto sobbarcare la famiglia alla tenera età di dieci anni a causa dei debiti di gioco della madre alcolizzata.
Spesso non avevano di che mangiare, per questo spesso cacciava e raccoglieva cibo nella foresta rischiando più volte di essere denunciato per bracconaggio. Ogni volta allontanandosi sempre più e soggiornandoci sempre più. Soprattutto quando la donna portava degli uomini a casa.
I genitori erano divorziati e troppo poveri perché gli comprassero un fucile e veri bossoli da cacciatore. Fondamentalmente era lui che provvedeva al fabbisogno famigliare perciò si era trovato qualche lavoretto e aveva studiato di notte finché non era riuscito nel suo intento. Riuscì a comprarsi un fucile con tanto di licenza e porto d’armi, s’intende. Ma non solo, con i soldi che mise da parte, riuscì a comprarsi una macchina e un fucile da caccia. Però non volle mai dire dove li avesse trovati, perciò le autorità sospettarono anche di furto, prostituzione e spaccio di sostanze illecite.
Ma di questa accusa non saltarono mai fuori delle prove. Perché la sua storia era analoga a molte altre che si potevano ravvisare nel suo paese natio. Cosa che gettò un’ulteriore ombra su quella cittadina all’apparenza così tranquilla.
Tutti i testimoni concordarono sul fatto che le sue uniche passioni erano la caccia e, che amasse il bosco che conosceva così bene. E, che, improvvisamente qualcosa dentro di lui era scattato e aveva iniziato ad appostarsi lungo i sentieri. Poco importava che fossero vecchi amici, fiamme, conoscenze o turisti, li uccideva tutti indiscriminatamente nei modi più creativi e organizzati. La sua arma preferita erano l’arco e le frecce. Nessuno seppe mai dove avesse imparato e da chi o perché le prediligesse sempre per il solito silenzio ostinato con cui rispondeva alle domande dell’accusa e della difesa, complicando il lavoro del suo stesso avvocato.  
A fronte di tutto ciò, Terrence Himelich, di anni quarantadue, fu condannato a morte. Ma anche così la sua nomea continuava a precederlo e a riempire di angoscia l’animo di ogni persona e a scatenare le più terribili fantasie che l’essere umano è in grado di concepire. Qualcosa faceva rizzare i peli sulla nuca e sulle braccia. L’istinto sussurrava di stare in guardia, che avrebbe cercato di fare qualcosa. Qualsiasi cosa, anche se non aveva complici e non era Arsenio Lupin. 

E quest’impressione non migliorava neanche se, a separarli c’era una solida parete di metallo e agenti armati fino ai denti seduti insieme a lui nel cellulare.

Ma anche così i due uomini alla guida e sul sedile del passeggero, sentivano il suo respiro sul collo e non vedevano l’ora che questo viaggio interminabile finisse.
Molto spesso gettavano delle occhiate oltre la grata alle loro spalle, ma vedevano soltanto il buio. Però lo sentivano: anche se ammanettato e seduto, sapevano che era desto e attento. In quel momento cominciò a piovere a dirotto e il poliziotto alla guida attivò i tergicristalli e accese gli abbaglianti: l’acqua era così fitta che la strada si vedeva a malapena. Sembrava che quella tempesta stesse aspettando loro per scatenarsi.
Nessuno dei due disse niente per un po’, poi, il conducente domandò al collega teso e seduto accanto a lui: «Perché non lo posi?» Riferendosi al fucile che quest’ultimo continuava a imbracciare.
«Ti dà fastidio?» Domandò l’altro guardandolo con l’aria di chio cade dalle nubi.

«Un po’, metti caso partisse un colpo.» la canna era rivolta verso di lui, tra le altre cose, però non gli mostrò i propri timori. Era più che sicuro che il loro detenuto avrebbe potuto approfittarsene. «Non partirà, tranquillo.» lo rassicurò l’altro battendo una mano sul fucile: aveva messo la sicura, ma in realtà non si ricordava neanche se l’aveva fatto o no. «È solo che non mi sento calmo a portare…Lui. Mi rasserena avere tra le mani un’arma.» Disse poi a mo’di spiegazione accennando con il capo alla piccola grata divisoria.

«Ti capisco. Nemmeno io mi sento a mio agio.» Rivelò il primo.

«Nessuno ci si sente. Che tempaccio, vero?» Domandò il secondo osservando l’acqua che cadeva sempre più velocemente e i fulmini che lampeggiavano qui e là col loro reboante scoppio che tante volte li terrorizzarono da bambini.

Il guidatore aumentò la velocità del tergicristallo e accese il riscaldamento: cominciava a fare freddo. E poi non gli dispiaceva fare un po’ di conversazione, avrebbe aiutato. «Sì, è davvero un brutto tempo». Anche perché avevano un brutto presentimento da quando avevano lasciato il carcere, ma a forza di ciarlare a vuoto degli ultimi risultati di football, si dimenticarono di tutto. A riportarli bruscamente alla realtà ci pensò qualcos’altro. Nessuno seppe mai se fu colpa di un animale, un fulmine, un sasso, uno scivolamento o uno strano gioco di luci. Fatto sta che sulla strada che avevano preso - una scorciatoia perché la via principale che costeggiava il fiume era stata chiusa causa possibile allagamento - accadde qualcosa. .

I sopravvissuti all’incidente ricordarono di aver sentito i due davanti urlare: «Ehi! E quello cos’è?»,  «Sterza! Sterza! Sterza!» Poi lo sbando.

 

Quella notte Hay River si destò per vedere il disastro: il fumo e il fuoco sovrastavano le cime degli alberi, e furono visti da tutti. Ma a causa del maltempo che andava peggiorando, i soccorsi non si mossero che dopo ore. Quando questi ultimi giunsero in prossimità del luogo dell’incidente, furono assaliti dalla puzza di carne umana bruciata e feriti e poi trovarono le macerie ancora incandescenti ma non più fiammeggianti, spente dalla pioggia, e i cadaveri ormai carbonizzati. La scientifica in seguito avrebbe rivelato la dinamica dell’incidente, mentre l’autopsia quel poco che restò dei cadaveri carbonizzati. L’autista aveva cercato di sterzare per evitare qualcosa, probabilmente un animale, ed erano finiti contro le rocce ed erano morti sul colpo; accartocciati tra le lamiere fiammeggianti dell’abitacolo. Inoltre si sarebbe scoperto che, poco prima dell’impatto, un colpo di fucile era partito accidentalmente e la pallottola si era conficcata nel cranio del conducente. L’altro invece era morto perché, non avendo allacciato la cintura di sicurezza, era decollato dal suo posto, aveva fracassato il parabrezza e si era schiantato la testa contro le rocce, spaccandosela come un’anguria. Per loro non ci fu più niente da fare.  

Quando ispezionarono il cellulare fracassato, nella speranza di riuscire a trovare anche il cadavere di Terrence, ebbero una malaugurata sorpresa. Le porte si erano spalancate nel momento stesso dell’impatto e il detenuto, sicuramente mezzo intontito e ferito dalla botta, ne aveva approfittato per darsela a gambe e rifugiarsi nel bosco. La caccia al mostro era ricominciata. I poliziotti, i rangers e le autorità competenti, per tutta quell’estate e quei mesi a venire, pattugliarono incessantemente e con ogni mezzo ogni immenso meandro e anfratto, aiutati dai turbolenti e insofferenti cittadini che si offrirono volontari. Nonostante lo zelo impiegato non trovarono nessuno, era come se fosse sparito nel nulla, o peggio, come se non fosse mai esistito.

Perciò fu proibito ai civili di inoltrarsi nella foresta oltre le montagne, ma poiché alcune uccisioni avvennero anche in città, furono istituiti una pattuglia di ronda notturna e un coprifuoco che, i giovani e anche i meno giovani - un po’selvatici e rudi - non esitavano a violare.  

 

***

 

Sean Lestrange amava la sua città natale più di ogni altra cosa al mondo, per questo lasciarla non gli piaceva. Suo padre, il tenente Dean Lestrange, era stato promosso ispettore e appena trasferito nella piovosa, umida, sperduta, cittadina di Hay River. Perché sì, la famiglia Lestrange, fiera discendente d’immigrati francesi, affondava le sue radici in quella terra. E finché erano piccoli, i genitori li portavano in vacanza ai Grandi Laghi.
L’Hay River da cui provenivano non era quella situata nella regione Yukon, bensì, un’omonima situata sulle sponde orientali dei Grandi Laghi Canadesi. Fin qui non ci sarebbe stato niente di male, a parer suo, se non fosse stato che avrebbe dovuto spostare l’orologio di cinque ore, comprare un sacco di vestiti invernali, adattarsi a un clima subpolare e all’idea che il paesino dove avrebbero vissuto era piuttosto lontano dai centri urbani. Che avrebbe potuto raggiungere solo prendendo il treno o altri mezzi a motore. Fortunatamente non era troppo distante da dei paesini più grandi attrezzati.

«Ma», aveva rilevato la madre, «lì ci sono la neve migliore e le migliori piste da sci.» Come se loro sapessero sciare. E come se importasse chissà quanto col caldo che faceva.  

Quando il capofamiglia aveva comunicato la notizia, i restanti membri avevano reagito in diversi modi. La madre con stupore e uno strano lucore accese il suo sguardo, i figli rispettivamente con scontento e indifferenza. Il maggiore, Erol, era scontento perché avrebbe dovuto lasciare le sue numerose spasimanti e la sua attuale, ignara fidanzata. Poco male, anche se le immaginava agli antipodi rispetto a quelle della Florida, probabilmente c’erano anche laggiù, quindi le mandò un sms per avvisarla che partiva e la lasciava. Digitò in fretta il messaggino sul suo Iphone di nuovissima generazione e poi, una volta inviato, sorrise come se si fosse tolto un gran peso dalle spalle. Dopodiché andò a preparare i bagagli al suono di: «Ragazze, aspettatemi che arrivo!»

Frenato solo dalla madre che sorridendo sotto i baffi gli ricordò che sarebbero dovuti andare a comprare i vestiti necessari.

Sean odiò la scelta del fratello che scomparve nella sua stanza. Secondo lui non doveva comportarsi così. Lui, al contrario di Erol, aveva reagito simulando indifferenza. In realtà gli dispiaceva moltissimo lasciare Miami. Era pur sempre la città in cui era nato e vissuto per sedici anni della sua

vita. Una parte di sè fu anche felice, perché avrebbe potuto conoscere della gente nuova, e magari, anche fare amicizia, poiché lì non ne aveva nemmeno una. Chissà, poteva essere stata una buona occasione per ricominciare daccapo in un posto isolato dove nessuno, o quasi, lo conosceva. Caso voleva, infatti, che avesse un’amica di chat proprio in quel paesino. Grazie a lei aveva potuto farsi un’idea più generale del posto. Certamente diverso rispetto a Miami, dove tutto non era così ostentato e appariscente. Dove le serie TV si occupavano soltanto di filmare il peggio della vita che si poteva condurre lì. A dirla tutta era nauseato, per questo si convinse che poteva essere l’occasione della sua vita.

Passò quell’inoperoso mese a casa tra shopping - i genitori, ritenendo che un mese di scuola non sarebbe servito a niente, dato l’imminente trasferimento, li avevano ritirati - e allenamenti a sorridere e a tenere una conversazione di fronte allo specchio, suscitando le risate di Erol che cercava di riprenderlo con il telefono ogni volta che passava dinanzi a camera sua. Così prese a esercitarsi sottovoce e a porta chiusa. Lui non ci trovava niente da ridere. A differenza del fratello maggiore - i cui amici gli avevano organizzato anche un party d’addio - Sean aveva soltanto la pittura, l’arte e qualche conoscente occasionale cui non era particolarmente legato. Eppure quando li avvisò che se ne andava, anche loro si mostrarono dispiaciuti e si raccomandarono di farsi sentire. Sean promise che l’avrebbe fatto, ma in cuor suo sapeva che quelle parole in realtà non significavano niente.

La notizia era arrivata solo venticinque giorni prima, inaspettata come una mazzata tra capo e collo. Eppure solo adesso che vedeva quanto la casa andava progressivamente trasferendosi negli scatoloni della ditta di traslochi, realizzava quanto poco fossero state importanti la sua permanenza e la sua vita. Per un attimo pensò che fosse ironico: si nasceva tutti da niente di meno che un’unica cellula e si finiva per stare in posti anche più piccoli che quelle scatole che stava aiutando a caricare. Eppure più che starci male si sentiva animato da una strana, nuova speranza che lo portò a ritrovarsi a pensare a quanto poco gli importasse di quella gente e di quel posto.

La mattina del trasloco, salì a bordo della macchina dei genitori e gettò un’ultima occhiata alla casa e alla città che conosceva così bene e che odiava. Adesso che sapeva che finalmente poteva abbandonare quel posto infernale, non gli sarebbe mancato per niente. Presero l’aereo per loYukon che li portò all’aeroporto più vicino al paesino e, una volta lì, noleggiarono un fuoristrada che li condusse ad Hay River. Che enorme cambiamento. Non c’era più quel clima afoso e umido cui erano avvezzi dalla Florida, non c’erano più le spiagge assolate e piene di turisti più o meno bronzei. E non c’erano più gli immensi palazzi di vetro che risplendevano come gemme al sole. Al loro posto c’era il freddo del clima subartico, con le montagne dalle cime innevate sebbene fosse ancora settembre, e le casette di legno dal tetto spiovente che ricordavano i paesi trentini e al contempo quelle vecchie città fantasma, risalenti ai tempi della corsa all’oro, di cui l’America era ricca.

I quattro Lestrange si erano fermati in un bar vicino l’aeroporto e si erano cambiati d’abito, a favore di quelli invernali e degli scarponi che avevano comprato in un negozio vicino, solo per essere sbeffeggiati dalla signora Lestrange. La quale cercava di trattenere le risate a stento. Divenne tutta rossa prima che il consorte decidesse, cercando di essere quieto, di chiedere spiegazioni. «Gli abiti che avete comprato, per le temperature di Hay River», disse «sono praticamente estivi.» Poi batté la mano sul tavolo a ripetizione, scuotendo il capo. Facendo così impallidire i tre, che parevano avessero sperato che il riscaldamento globale avesse reso lo Yukon un posto non troppo diverso dalle Bahamas. Quando il padre ci arrivò, s’irrigidì trattenendo il fiato. I due figli lo guardarono in cerca di spiegazioni ma l’uomo terminò il discorso con un: «Non fa niente, li compreremo laggiù».  

Il sedicenne lanciò parecchie occhiate apprensive alla madre Sarah. Quest’ultima aveva i capelli rossi, e gli occhi color cioccolato al latte, che lui stesso aveva ereditato, ed era cagionevole di salute. Forse temeva che il cambiamento di temperatura potesse averne compromesso la vitalità, ma fortunatamente, scoprì, non era stato così. Anzi, pareva rinata. E non era solo perché in quella cittadina c’era nata e cresciuta. 

Attraversarono la cittadina.

C’era un’unica arteria principale che proseguiva in linea retta, dalla quale si diramavano le altre viuzze labirintiche. Per di più sembrava anche abbastanza affollata per un paesino di boscaioli che diventava meta turistica solo d’estate e in pieno inverno ed era famosa per le piste da sci, gli hotel e i meravigliosi sentieri. Sean gettò un’occhiata al fratello e vide la sua smorfia comunicare la sua delusione di fronte allo squallore in cui erano piombati. Come diavolo faceva quel posto a essere vivo? A lui sembrava bell’e morto, eppure a Sean piacque subito. Non aveva mai disegnato un bosco. Chissà, avrebbe potuto trovare tanti altri nuovissimi soggetti per i suoi dipinti e disegni. E la cosa lo entusiasmava parecchio, al punto che non vedeva l’ora di cominciare.  Purtroppo però, avrebbe dovuto aspettare.

Non erano ancora giunti alla loro nuova casa e pioveva anche a dirotto. Guardò fuori del finestrino, oltre le gocce di pioggia che cadevano diagonali, cercando di indovinare dove si sarebbero fermati.

Non poteva indovinare che la casa dove avrebbero abitato di lì in poi, oltre che a confinare con la foresta, era anche la più grande, la più vecchia, e la più isolata del paesino di sessantamila persone scarse. Risaliva all’Ottocento, quello inglese, a giudicare dall’architettura ed era adorna di ringhiere superflue sui tetti che sicuramente i genitori avrebbero fatto togliere.

Erol - che aveva imprecato tra sé e sé tutto il tempo - batté due dita sul braccio del fratello e, con un gesto del capo si scostò la lunga falda dagli occhi grigi: «Ehi, secondo te se aspettiamo ancora un po’, pensi che Mary Poppins uscirà da quella porta?» La scatola e la valigia sottobraccio.

In effetti, sembrava saltata fuori dal film omonimo. O quantomeno pareva essere stata costruita in quel periodo. In quel momento una tegola cadde dal tetto e toccò terra con un tonfo che fece sobbalzare i Lestrange. «Cosa è stato?» Presero a dire i genitori, allarmati.

Erol andò a controllare e tornò dicendo: «Niente, solo una tegola».

«Una tegola? Oddio, vieni via da lì. Non sia mai che ti caschi la casa in testa.» Fece l’ispettore allarmato agitando un braccio per invitarlo a raggiungerlo. Il diciannovenne sbuffò roteando gli occhi per il suo atteggiamento, ma eseguì. Mentre la signora Lestrange rise e si fece coraggiosamente avanti verso la porta di casa: «Non essere sciocco, Dean. Non è così messa male in arnese». 

Nel frattempo Erol si era avvicinato al fratello, che ora sembrava guardare la casa per la catapecchia in rovina che realmente era, e gli aveva detto: «Allora, che ne pensi?»

«Che più che Mary Poppins mi ricorda un film horror».  

Poi la madre, sotto il portico, dove era stata coraggiosamente seguita dal marito, li chiamò. E i due si riscossero e li seguirono. Contrariamente alle rosee speranze della genitrice, la situazione era pure peggiore.

Sembrava che sarebbe stato necessario chiamare l’impresa di ristrutturazione, poiché, non aveva un’aria molto stabile come la facciata cercava di promettere. Il camion dei traslochi sarebbe arrivato tra pochi giorni, intanto la famigliola cominciò a scaricare la macchina.

 

***

 

Sarah si prese qualche minuto per osservare la vecchia villa e un sorriso pieno di nostalgia le curvò le labbra e gli inumidì gli occhi. Era a casa. Guardò il portico malandato e abbandonato e lo vide come vent’anni fa. Il prato curato dove una ragazzina con i capelli rossi tutta gomiti e ginocchi che riconobbe come sé stessa, e un ragazzo muscoloso giocavano come due bambini a rincorrersi sotto il sole estivo. «Ora ti prendo».

«Non ci riuscirai mai.» Il ragazzo curvò le labbra in un sorriso felino. Gliela lasciò vinta per un po’, ma poi accelerò il passo e al momento giusto allungò il braccio. La strinse a sé facendola ridere, poi le baciò il collo ripetutamente e raggiunto il suo orecchio, le disse: «Ti ho presa.» Mentre lei, ridendo, cercava fiaccamente di liberarsi.

Forse per l’intensità del ricordo, ma si domandò se la sua sé passata avesse potuto vederla in quel momento. Se avesse potuto prevedere cosa sarebbe successo di lì a poco. Eppure era proprio lì, in quello che lei aveva sempre chiamato il Giardino dei Cristalli, che tutto era cambiato. L’erba, gli alberi, le tegole, tutto, pareva avere una lucentezza cristallina ed era avvolto in quell’alone che soltanto il passato è in grado di donare agli eventi più belli. 

Il marito le cinse le spalle con un braccio e le stampò un bacio sulla tempia: «Contenta di essere tornata?» Le domandò, riportandola al presente. Lei batté le palpebre per liberarle dalle lacrime rimaste incastrate tra le sue ciglia e rispose, con voce commossa «Moltissimo.» Lo guardò e gli parve di vedere affiorare sotto il volto del suo uomo, il ragazzo del quale si era innamorata anni addietro.

Intanto che i due figli scaricavano la macchina dalle loro valigie. Nell’udire la madre parlare così, Erol inarcò un sopracciglio con fare ironico ma la donna non ci fece caso. Poi udirono la tegola cadere e Dean tornò a essere il solito apprensivo di sempre.   

I due ragazzi raggiunsero i due coniugi sotto il portico sgangherato e aprirono la porta su un ambiente dai mobili tarmati che puzzava di muffa e a tratti pericolante. La famigliola non si fece intimorire e prese possesso della casa. I due ragazzi cominciarono l’esplorazione dei piani superiori. La donna li lasciò scoprire l’esistenza delle quattro camere e impedì al marito di rovinare loro l’esplorazione. Mentre passato e presente danzavano assieme a lei. Ogni angolo, ogni trave, era intriso di un ricordo che sembrava aspettarla solo per avvicinarsi e darle il benvenuto, un’esplosione di colori non dissimile da un sogno. 

«Vieni, vieni!» Esclamò tutta contenta, animata da nuova energia, al marito prendendolo per mano come la ragazzina che fu. Lui alzò gli occhi dalle loro mani intrecciate ai suoi, stupito da quella vitalità. Si lasciò trascinare dentro mentre la mente della donna li riportava indietro nel tempo, quando erano solo due timidi adolescenti che si scambiarono il primo bacio. Riuscì a sentire il profumo della legna nel caminetto e della cera per pavimenti, l’odore delle scale, il colore lucido delle rifiniture in legno. Le piastrelle sempre pulite dalla cara Bessy, la domestica della nonna. Vedeva i quadri appesi ai loro sostegni.

Nonostante fosse passato un ventennio dalla morte della sua adorata nonna, non avrebbe mai pensato che il buon Dio avesse udito le sue preghiere. Era tornata a casa. Nel posto cui sentiva di appartenere.  

 

***

 

Erol osservò schifato la propria stanza. Era vecchia, polverosa e puzzolente. Inoltre alcune travi del soffitto erano mangiate dai tarli e la muffa aveva inglobato il muro. Si consolò pensando che sicuramente a Sean sarebbe andata peggio, e invece scoprì di avergli solo fatto un favore.

Perché nell’altra la luce entrava che era una meraviglia, e sarebbe stata anche migliore, una volta ripulita. Oh se avrebbe adorato quella camera. Come nelle altre stanze c’era già il letto con la testiera di ferro battuto, avrebbe soltanto dovuto rifarlo. E, dopo aver posato la valigia, essersi preso la briga di pulire, andò al ristorante più vicino col resto dei suoi parenti che si lagnarono delle loro sistemazioni tutto il tempo. Poi, verso le dieci di sera, se ne andò a dormire e il sogno che fece fu uno dei più belli che avesse mai fatto. Era immerso nel verde della foresta e camminava con sottobraccio una tela bianca e una scatola con i suoi attrezzi di pittore. Stava ritraendo una cinciallegra quando udì la voce femminile ridente che lo fece destare di scatto e percepì un profumo di fiori che lo lasciò interdetto, ma rendendosi conto che era solo un sogno, si riaddormentò.

La nuvolosa mattina seguente, i due ragazzi si svegliarono, si vestirono e fecero colazione a un bar coi loro genitori. Il bar in questione era fatto di legno e rassomigliava a un saloon dove i moderni cowboy armati di asce, motoseghe e cartelle piene di libri e quaderni si affollavano scambiandosi le ultime novità, usare il bagno, guardare la TV o bere un caffè.

Mamma si guardava costantemente intorno alla ricerca di vecchie conoscenze, e papà la guardava di sottecchi e ridacchiava: ai suoi occhi doveva appena essere ritornata ragazzina. Anche Erol si guardava attorno, ma più per setacciare il luogo, come un cacciatore alla ricerca di nuove prede, che altro. D’altro canto lui era fatto così; dategli un bar o un qualsiasi altro punto di riferimento, e lui ti saprà tracciare un percorso che si dirama per tutta la città, fino alle ragazze più belle del posto. Ma se la genitrice non trovò nessuna delle sue vecchie conoscenze, Erol ebbe più fortuna. Quella mattina che i due fratelli rimasero a casa a pulire assieme alla madre, ne approfittarono per completare il giro d’esplorazione. A Sean fece piacere aiutarla con le faccende di casa. E anche Erol si mostrò molto paziente e docile con lei. Le volevano entrambi un bene sincero.

In poche ore e una pausa per rifocillarsi, i tre Lestrange riuscirono a disfarsi dei mobili tarmati e marciti e della fastidiosa carta da parati. Ma per il resto, dovettero chiamare un’impresa di ristrutturazioni perché per l’impianto elettrico, le travi marce e tutte quelle zone pericolanti della casa, non c’era niente da fare. L’impianto idraulico andava miracolosamente bene, ma tutto il resto andava rifatto. Tempo poche ore che gli operai giunsero e cominciarono a lavorare, così i tre poterono riposarsi.  Anche Dean quando tornò verso le sette di sera la trovò una buona idea, anche se dispendiosa. Ma almeno, avrebbero potuto vivere in una casa decente. Anche se, come scoprirono in seguito, avrebbero dovuto fare i conti anche con i ratti che avevano preso possesso della cantina e della soffitta: perfetto, altri dollari buttati via nella derattizzazione. 

Per il momento avrebbero vissuto in un motel, anche se avevano lasciato i loro bagagli alla casa.

E così Dean vi fece un salto per recuperare le loro cose.

Mentre cenavano, Erol si accorse che Sean guardò con una punta di rammarico il paesaggio cittadino che si apriva oltre la finestra: avrebbe dovuto attendere un bel po’ prima di poter riprendere a disegnare. Il diciannovenne roteò gli occhi, infastidito. Ecco, adesso avrebbe cominciato una tirata perché papà non gli aveva portato i suoi attrezzi da pittore. Come se non bastasse, avrebbero dovuto attendere un po’ prima che la casa divenisse agevole. Il padre, notando l’angoscia del secondogenito, gli batté una mano sulla spalla e gli disse: «Non preoccuparti Sean, vedrai che presto potrai di nuovo scorrazzare con la tua moto.» E questo, inaspettatamente, riuscì a lenire parte della tensione del minore dei Lestrange.

Il ragazzo era attratto dalla velocità e si eccitava nell’udire il rombo del motore di una macchina o una moto da corsa; quindi una volta presa la patente suo padre l’aveva iscritto a un corso per imparare a guidare i motorini e, una volta superato anche l’ultimo esame, gli aveva regalato una bella moto nera e lucente, con la quale era solito spostarsi nella loro vecchia città. La sua moto gli mancava quasi allo stesso modo delle matite, dei pennelli e dei suoi fogli da disegno. Ma si consolò pensando che presto sarebbe arrivata anche quella, assieme ai loro mobili Ikea, ma forse, considerando le dimensioni della casa, avrebbero dovuto comprarne di nuovi.

«Non vedo l’ora.» Rispose al ricordo delle sue cavalcate per la città. Se il loro padre non fosse stato poliziotto, quasi sicuramente avrebbe violato con molto piacere le norme sulla velocità. Una volta l’aveva fatto, una sera d’estate di un anno fa, e si era divertito, eccome se si era divertito. E il maggiore lo sapeva bene dal momento che gli era sfrecciato davanti, non riconoscendolo e rischiando quasi di tamponarlo. Quasi poteva immaginare ciò che gli frullava nella testa in quel momento al riguardo. Chissà se la statale si prestava bene per le sue scorrazzate? E con questo, notò, che il ragazzo si era dimenticato i suoi crucci.

Chissà se anche a lui sarebbe bastato così poco per scordarsi di Miami?

Il peggio arrivò dopo la cena. Era disgustato. Quando aveva detto addio alla sua trombamica - povera ingenua cornuta, che tutti scambiavano per la sua ragazza - e ai suoi amici per Hay River, non si aspettava di certo di barattare la sua città natia per un posto così squallido. Cioè, credeva che Hay River fosse tipo le Hawaii, non la desolazione fatta paese. Nonostante che si trovasse proprio a due passi dal Parco Nazionale e riserva di Kluane e a qualche ora di macchina dalla catena montuosa del Saint Elias e dei Denali. Anche se per vedere quest’ultimo, avrebbero dovuto passare i confini con l’Alaska.

Nonostante il padre ripetesse da ore la storia di come quei falliti dei cercatori d’oro sbagliarono strada e si ritrovarono sulle sue rive con pochissimo oro ma mille altre risorse che si decisero a sfruttare. Infatti, sul territorio c’era una minima quantità di fossili - non roba famosa come nel Wyoming ma reperti risalenti all’Era Fanerozoica - apposta per aprire un piccolo museo e le montagne con le alture perfette per inaugurare piste da sci e sentieri. Che trasformarono la cittadina della vallata ormai quasi abbandonata, in un paradiso per le vacanze estive e invernali. Erol sbuffò e incrociò gli occhi. Poi mimò il gesto di portarsi una pistola alla tempia e premere il grilletto, strappando un risolino a Sean e alla madre, che curvò le labbra in un sorrisetto mentre li osservava dallo specchietto retrovisore. 

Interruppe il paterno soliloquio da guida turistica per domandargli se ci fosse un centro commerciale o qualche traccia di civiltà. Perché a sentire lui, sembrava di essere tornati indietro nel tempo fino al Far West. Non si sarebbe stupito se la gente se ne andava ancora in giro con gli speroni e se la facesse con le prostitute in qualche saloon infestato.

Il genitore sogghignò sotto i baffi «Mi dispiace deluderti ma…» non c’erano né il centro commerciale, né uno straccio di discoteca. Solo un patetico accenno di fast food a penosa emulazione di Mc Donald e Burger King cui era abituato e il benzinaio. Neanche una profumeria, al massimo un’erborista che vendeva prodotti naturali di tutti i tipi e un negozio di sassi dipinti. C’erano dei pub e dei caffè, un teatrino e degli alberghi, ma in architettura da corsa all’oro anche se alcuni poi erano stati rifatti in muratura in stile Art Nouveau. E come diavolo si divertiva la gente lì? Con le risse del sabato sera? Per non parlare del freddo. «Ma che diavolo.» Sibilò ficcandosi le mani sotto le ascelle e saltellando sul posto quando scesero dalla macchina.  

Aveva diciannove anni. Che cosa gliel’aveva fatto fare di abbandonare la calda e soleggiata Miami per quel posto freddo, tetro e deserto? E poi lui era un animale estivo oltre che un playboy. Ed era bello. A cosa era servita tutta quella cura di sé, quel perfezionamento delle sue arti da conquistatore, dello charme, se poi si ritrovava lì? Chi poteva rimorchiare lì? Le vecchie? Che schifo! La sola idea di baciare un’anziana signora gli faceva un ribrezzo senza precedenti. Cioè, ok che era di bocca buona, ma non si sarebbe mai azzardato ad andare con una dell’età di sua madre o di sua nonna!

A parte questo era maggiorenne, che diavolo. Avrebbe potuto restarsene là, ma anche se ci fosse rimasto come avrebbe potuto mantenersi? Avrebbe chiesto ospitalità ai suoi amici? Nah…Non sarebbe caduto così in basso. E poi non aveva nemmeno un lavoro. Oramai era lì e il danno era fatto, quindi non aveva altra scelta che trovarsi dei soldi, finire la scuola e mandare tutti in culo. E l’avrebbe fatto, oh sì che l’avrebbe fatto.

Già; la scuola. Forse aveva ancora una possibilità di divertirsi e diventare il numero uno.

 

***

 

Se i suoi figli erano amareggiati, lo stesso non si poteva dire di Dean. Aveva appena scoperto che la polizia locale collaborava a spalla a spalla con sceriffi un po’pazzi che, per far rispettare la legge, dovevano infrangerla. Un po’come in certi telefilm. Ma quella era Hay River: la giustizia erano abituati a farsela per conto suo. Per questo non gli andava giù che Terrence Himelich li menasse così per il naso.

Appena Dean lo seppe, rimase sconcertato. Quella centrale di polizia era un luogo in cui il lavoro era pieno di arretrati e che quella cittadina, non aveva nemmeno uno straccio di criminalità. Neanche un borseggiatore, al massimo qualche tarocco al mercatino locale. Gli omicidi erano già stati arrestati a suo tempo.

Solo allora comprese perché l’avessero spostato lì; era una testa calda che rompeva le scatole ai dirigenti e ai superiori. Accidenti, avrebbe dovuto pensarci prima, ma l’entusiasmo e le opportunità di vedere sua moglie migliorare, e suo figlio più piccolo farsi una vita sociale vera e smetterla di fare l’autistico l’avevano accecato. In realtà non lo era ma l’avevano portato tante volte in terapia per capire cosa lo bloccasse così tanto e perché alcune persone le evitasse come la peste. La risposta della dottoressa era stata che Sean era un bambino normalissimo e che amava osservare prima di fare qualcosa. Il ragazzino, già dalla tenera età dei cinque anni aveva imparato a osservare i gesti e i comportamenti delle persone. Come se leggesse i loro sentimenti e le vere intenzioni in anticipo e avesse deciso che buona parte di coloro che lo circondava fossero dei falsi che non meritavano neanche una briciola della sua attenzione.

«Allora perché non parla?»

Lo psicoterapeuta aveva risposto, dopo numerose, costose sedute: «Oh, parla. Eccome se parla. Solo che non lo fa con i segni convenzionali.» il poliziotto aveva fatto una faccia come a dire che non ci aveva capito un’acca. Allora l’analista gli aveva mostrato i disegni del piccolo. Sembrava di vedere uno stile picassiano ma i messaggi che lasciavano erano chiarissimi. Eppure Dean, uomo tutto di un pezzo, non li aveva compresi. Per lui erano solo i disegnini di un bambino. Perciò cercò ulteriori conferme con una domanda: «Non mi sta dicendo che ha qualche malattia mentale, vero?»

«Oh, no, stia tranquillo».

«Ma parla, con le parole, intendo?»

«Certo». 

«Allora perché non lo sento? È forse sordo?» Disse accennando al bambino chino sul basso tavolino intento a disegnare. Apparentemente scollegato dal resto del mondo.

«No, certo che no. Altrimenti gliel’avrebbero diagnosticato alla nascita o gliel’avrei detto subito dalla prima seduta.» rispose la dottoressa. Dean aveva emesso un lungo sospiro di sollievo ma ammise almeno a sé stesso che non stava capendo niente di ciò che gli veniva detto. Addirittura pensò da come lo guardava, di non esserle molto simpatico. Non ci poteva fare niente, lui non era simpatico quasi a nessuno. 

«Allora è colpa mia?» Aveva domandato. Perché a volte il bambino si ritraeva come se Dean gli avesse fatto del male e allora si rifugiava tra le braccia della mamma da dove continuava a guardarlo con quegli occhioni spaventati. La sua interlocutrice aveva asserito che era normale, che era solo una fase e sarebbe passata presto. Certo, ma allora perché lui non parlava? La povera donna fu costretta a spiegarglielo in soldoni: «Forse crede di avere di meglio da fare».

«E cosa? Disegnare?» I due si voltarono verso il bambino, ancora intento nella realizzazione della sua opera: «Così parrebbe».

Solo dopo saltò fuori che il piccolo non parlava con lui perché gli metteva paura. Paura... ma paura di che? Si domandò Dean. Eppure non era come quei genitori violenti che a volte capitavano in centrale. Aveva sempre fatto in modo di non spaventare suo figlio, e di evitare che giocasse con la sua pistola.          

Stava cominciando a prendere confidenza con il suo nuovo ruolo e il suo nuovo ufficio, quando venne a sapere di Terrence Himelich e che questi era ancora in libertà. Allora non aveva la più pallida idea di chi fossero finché non udì queste nuove e cristalline parole: «Il suo nuovo caso». Ascoltò tutto quello che poté su quel nome dai suoi colleghi. E a racconto finito pensò che in fondo in fondo, ritornare in quella cittadina non sarebbe stato così noioso.
Aveva fatto di tutto per uscire da lì e ora eccolo che doveva tornarci. Era rimasto scioccato. Hay River? Quella Hay River? Quella cittadina dove era nato e cresciuto che aveva lasciato vent’anni prima per non tornare mai più?

Meno male che sarebbero rimasti soltanto finché non avrebbero acciuffato quel malvivente.   

Quella notte, dopo che i ragazzi furono andati a dormire, decise di parlarne con Sarah, ma poi, quando incontrò i suoi felici occhi stanchi e sentì il suo ennesimo colpo di tosse, decise di tenere per sé le ultime scoperte, ripromettendosi di parlarne il giorno dopo a quattrocchi con Erol e Sean.

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Capitolo 3
*** Ottobre ***


Ottobre

Le fronde degli alberi cominciavano a colorarsi dei caldi colori autunnali, e l’aria si era fatta ancora più fredda e pungente, mentre le foglie secche cadevano ancora più velocemente dagli alberi, i cui tronchi andavano già ghiacciandosi. E le prime nevicate che si scioglievano quasi subito una volta toccato il suolo risplendente delle prime brine. Quando i due fratelli uscirono dal motel e si ritrovarono quella distesa ghiacciata di fronte, sgranarono gli occhi. Come già avevano fatto quando avevano scoperto che quel posto non era così brutto. Non si aspettavano di certo uno spettacolo come quello! Cioè, a Miami non nevicava mai. I ragazzi osservavano stupefatti la brina e il ghiaccio che gocciolava ancora.

Poi anche Dean uscì e li vide impietriti accanto alla macchina che si guardavano attorno e sorrise divertito, scuotendo il capo. Poi li riportò alla realtà chiamandoli per andare a scuola. Non prima di essersi fermati al bar che avevano trovato pochi giorni prima e col quale stavano imparando a prendere confidenza. Il signor Lestrange era rimasto sconcertato al momento dell’iscrizione dei figli, quando aveva saputo che il liceo era stato trasferito in una città distante pochi chilometri da Hay River. Ai suoi tempi il liceo era ancora in città, ma era stato demolito pressappoco quando i nei sposi Lestrange se ne andarono, a seguito di un terremoto che intaccò gravemente la struttura. Il lato positivo era che accoglieva dentro le nuove mura molti più studenti di vari paesini vicini. Meditò a lungo su come i figli avrebbero potuto raggiungerlo quelle volte che non avrebbe potuto accompagnarli. Giacché quello scapestrato del maggiore si era giocato la patente, un’altra volta per guida in stato di ebbrezza a Miami, aveva deciso che così. Forse non sempre sarebbe riuscito a portarceli in macchina ma sicuramente alla fermata dell’autobus. Oppure gli avrebbe comprato una bicicletta. Invece Sean, che non aveva mai voluto prendere la patente al posto del patentino, poteva andarci tranquillamente con la sua Kawasaki nera. Almeno nei mesi caldi. Il resto dell’anno avrebbe dovuto arrangiarsi come il fratello. Aveva valutato nella sua testa le reazioni alla notizia ed era piuttosto tranquillo. Sapeva che il più giovane dei suoi figli non si sarebbe scomposto per così tanto. A volte anche lui riusciva a intuire qualcosa da quel Cubo di Rubik vivente. Anzi, a volte, si domandava persino se fosse un maschio.

Era strano, alla sua età si perdeva la testa dietro alle ragazze. E si era completamente scassati per via delle tempeste ormonali. Però lui era così tranquillo che lo preoccupava. Una volta aveva avuto la tentazione di parlarne con la moglie. Pensò addirittura che Sean fosse dell’altra sponda ma osservandolo attentamente non aveva riscontrato niente di tutto ciò in lui. Allora era semplicemente… Addormentato? A volte si concedeva anche di monitorare i social dei figli e il profilo di Erol ormai gli faceva roteare gli occhi per la banalità, ma quello di Sean gli faceva pensare di visitare un museo. Foto e condivisioni di opere d’arte più o meno famose, che riconosceva vagamente e altre che non conosceva proprio. Non capiva il senso di tutto ciò: cosa stava cercando di fare? Che fosse asessuale? A volte poteva capitare, non c’era niente di male. Si disse. Si convinse che era così e si mise l’animo in pace dopo una lunga lotta interiore con sé stesso.       

 

***

 

L’edificio dinanzi al quale furono scaricati era grande, e rivestito di mattoni rossi con impalcature da ristrutturazione però non sembrava messo male in arnese.

Erol e Sean si erano vestiti di maniera simile: giacca e maglioni con pantaloni pesanti e scarponi da trekking. Però Sean, a differenza del fratello, si era messo anche una sciarpa e i suoi abiti erano più scuri. I due fratelli avevano i capelli di un castano scuro e così intenso da sembrare nero, ed erano mossi, lunghi, ma soltanto il minore lasciava cadere la frangia su un occhio. Lui aveva gli occhi della madre ed era pallido e stava per perdere i tratti infantili. Suo fratello era di due teste più alto e aveva luminosi occhi grigi azzurri, la pelle bronzea che metteva in risalto i capelli scuri e sembrava molto più grande dei suoi diciannove anni. Era bocciato il primo anno ma questo non aveva cancellato la sua disinvoltura che presto faceva dimenticare i suoi trascorsi.

Sean, sebbene gli somigliasse molto, lo invidiava moltissimo. A volte avrebbe dato il suo talento artistico pur di riuscire a farsi degli amici e a rimorchiare con la stessa facilità di Erol. Il quale - come se avesse percepito i suoi pensieri - gli batté una mano sulla spalla e gli sorrise, intanto che si addentravano nella rumorosa folla di studenti.

«Come ti senti?»
Il sedicenne ci pensò un po’. Adesso che erano nel bel mezzo della folla si sentiva come se il suo allenamento non fosse servito a niente. Era agitato e sorpreso: erano passati da un bel pezzo i tempi in cui suo fratello si preoccupava per lui. Si domandò perché e al contempo rispose, con uno slancio di gratitudine: «Nervoso.» Solo successivamente realizzò che gli si era rivolto a quel modo per usarlo come esca per le ragazze, della serie dimostriamo a tutte che sono un ragazzo premuroso, così non si renderanno conto di quanto sia stronzo in realtà. Ma per il momento, si godette la sensazione. «Non ti preoccupare, capita a tutti la prima volta che si mette piede in una nuova scuola.» Lo rassicurò.
«Anche a te?»

«A me no, buona fortuna, Sean.» Poi lo lasciò da solo per avviarsi da una parte imprecisata.

Il sedicenne sospirò: avrebbe dovuto immaginarlo. Si avviò all’interno dell’edificio e consegnò i moduli d’iscrizione in segreteria, dove gli stamparono l’elenco delle sue lezioni e la combinazione del suo armadietto, e lo spedirono nella sua classe proprio mentre stava suonando la campanella. Si guardò attorno alla ricerca del fratello; sicuramente doveva aver marinato il primo giorno: tipico. Lui si presentava sempre il secondo giorno di scuola, mai il primo, da quando aveva quindici anni.   

Mentre cambiava i libri ebbe modo di attirare su di sè tutti gli sguardi incuriositi, al poveretto sembrò di stare in bacheca. Era così che si sentivano gli animali allo zoo?

Mosse qualche passo incerto al centro della marmaglia e poi benedisse gli dèi della scuola per aver inventato la campanella. Tutte quelle occhiate gli stavano soltanto facendo desiderare di scomparire dieci metri sotto terra. Entrò assieme a tutti gli altri con i piedi che gli scarponi rendevano pesanti come il piombo. Sembrava il vigile urbano che dirigeva il traffico. Stava riprendendosi dal primo impatto quando una sagoma sfocata di vari colori lo sorpassò e gli si piazzò davanti. Gli ci volle un secondo per metterla a fuoco. E sentì uno squittio femminile «Ciao, Sean!» tutto contento dalla ragazza che lo abbracciò saltandogli al collo, piegandolo quasi in due. «Finalmente ci si vede di persona! Accidenti, sei più alto dal vivo. Oh, avrei dovuto mettere i tacchi alti, ti ho fatto male?» Continuò balzando via da lui, veloce come una saetta.

«Ciao, Jaqueline.» Rispose lui mettendo su un sorriso impacciato. Si aspettava che le sue guance s’imporporassero però non accadde niente di tutto ciò perché rimasero fredde e nivee. Jaqueline era una sua amica sui social. Forse l’unica che avesse in generale. Si erano conosciuti su Internet, ma lui non l’aveva mai considerata un’amica vera a propria. Però, qualche tempo prima, l’aveva avvisata che sarebbe arrivato ad Hay River, la cittadina dove viveva lei. E ora, finalmente si erano incontrati. Onestamente il giovane artista non sapeva che cosa avrebbe dovuto aspettarsi. Anzi, non si aspettava proprio niente da lei. Non se l’era nemmeno immaginata perché la cosa non lo interessava. Semmai era pronto ad aspettarsi il peggio. La ragazza somigliava all’attrice che impersonava Alice Cullen nel primo film della saga Twilight. Aveva persino gli stessi capelli corti e spettinati, ma erano di un colore più scuro e il suo viso era più paffuto. Anche il taglio degli occhi era diverso, più tondo. Forse doveva essere una fan. Le uniche differenze erano la pelle, più scura di quella diafana di Sean e gli occhi dell’identico colore della chioma mora. «Sei cattivo! Quando sei arrivato? Perché non mi hai detto niente? Sarei venuta a trovarti volentieri!»
«Qualche settimana fa, ormai. Scusa se non te l’ho detto, dovevo ambientarmi un po’.» Le sorrise l’amico. Si erano pure scambiati i numeri di telefono.

«Non fa niente, è davvero un piacere conoscerti di persona!» Rispose lei, gli occhi grandi. «Posso aiutarti?» Fece poi intuendo lo smarrimento del nuovo arrivato.

«Diamine, sì.» Rispose l’altro con sgravio nella voce. E le mostrò il modulo. Lei disse di seguirla che l’avrebbe accompagnato e lui obbedì. La scuola non era poi così diversa da quella che aveva frequentato fino a quel momento. Era come se tutte le scuole d’America fossero fatte in serie. Magari era solo un po’più piccola.  

La prima lezione del suo modulo era Storia Mondiale, così, congedando con gentilezza la sua logorroica amica che sapeva esclamare e basta, trovò posto nella sua nuova classe. Esattamente vicino alla finestra come piaceva a lui. Sapeva che in molte scuole dello Stato i presidi - o quantomeno gli insegnanti - facevano la presentazione degli allievi, alle volte persino accompagnandoli alla loro prima lezione. Pure lui aveva visto dei suoi ex compagni di scuola subire lo stesso trattamento. Ma lì no. Si vede che da quelle parti non si usava e la cosa gli fece un segreto piacere. Inoltre gli fece un po’ strano notare che i banchi erano disposti a coppie di due. E gli venne da domandarsi chi sarebbe stato il suo vicino. Entrarono alcuni ragazzi che si limitarono a lanciargli delle occhiate a sedersi altrove. Sean pensò che forse nessuno si sarebbe seduto vicino a lui finché non entrò un ragazzo dai capelli più scuri dei suoi ma corti accompagnati da due occhi cascanti che facevano pendant con il viso un po’ smunto ma nel complesso gradevole. In quello stesso momento entrò il prof che lo redarguì per il suo ritardo e il ragazzo se ne uscì che era stato trattenuto dagli alieni, suscitando le risate della classe e la risposta pronta del prof: «Peccato che non ti abbiano tenuto. Bene, adesso…» Altra novità del posto: i professori davano del tu agli studenti.

Sean seguì con gli occhi lo spiritoso che si accomodò vicino a sé e lo osservò. Il nuovo arrivato si accorse di lui e sorrise, mettendo in mostra un incisivo storto: «Ciao, non fare caso a queste scenette, tutte le mattine io e il signor Cook ne inventiamo di peggiori. Ehi prof, dopo le mostro dove è accaduto.» disse poi rivolgendosi al professore, che rispose, senza guardarlo e senza entusiasmo: «Splendido, se hanno lasciato il numero gli telefono e dico di riprenderti».

E con un’altra occhiata fece tacere la classe, che pareva ormai avvezza a quel botta e risposta.

Il buontempone sorrise prima di rivolgersi al suo nuovo vicino, mentre sistemava il quaderno e l’astuccio sul banco: «Sei nuovo?»

«Sì, mi chiamo Sean Lestrange.» Si presentò con la g morbida che nessuno usava benché lo sapessero tutti. Il suo nuovo conoscente gli fece il verso: «Ah, i Lestrange, sì, abbiamo sentito molto parlare di voi ultimamente. Piacere, io sono Mattias Daltòn e non sguazzo come un tonnò. Benvenuto a Hay River. Per la cronaca è solo Dalton, come daltonico.» Ci tenne a specificare con aria seria, come se gli avesse fatto chissà quale confidenza. E si strinsero la mano. «Molto lieto».

Sean decise subito che gli era simpatico. Di poche parole e spiritoso. Tutto il contrario di Jaqueline, che li raggiunse a mensa. Il giovane artista non immaginava che i due si conoscessero. Jaqueline, detta Jackie, era del loro anno e lavorava come redattrice del giornalino scolastico. Lo guardò un po’ stranito per la sua scelta: la lattuga, che quasi tutti evitavano come la peste. «Come fai a mangiare quella roba?» Lo interpellò la ragazza, che non riusciva a celare il suo stupore. Forse era vegano e non gliel’aveva detto. Per questo si stupì quando lui rispose: «La mangio e basta».

Adesso Jackie era confusa: di solito riusciva a inquadrare le persone con uno sguardo, e a capirle meglio di quanto credevano loro stesse. Invece con Sean aveva compreso poco o niente. Dalle loro conversazioni sui social si era fatta un’impressione totalmente diversa dalla realtà. E ciò la confondeva, per questo si sentì in dovere di domandargli se era vegano. E il ragazzo rispose in tono ovvio, alzando un sopracciglio: «No, sono onnivoro. Perché, che c’è di strano?»

«Niente, è che qui tutti mangiano la carne a mensa.» Disse lei, un po’incerta, accennando al resto della gente e al proprio piatto ricolmo di bistecche ricoperte di ketchup. Sembravano ricoperte di sangue e molta gente stava cominciando a girarsi per fissarli. «Ascolta, se non vuoi passare per strano…» Cominciò sporgendosi verso il ragazzo, posandogli una mano sull’avambraccio, ma questi la bloccò dicendo: «Mangio le verdure ma non sono vegano e non me ne importa niente di quello che penserà la gente. Non sono tenuto a somigliare a nessuno se non a me stesso.» riprese a mangiare, sotto il suo sguardo allibito. Mattias lo guardò pieno di ammirazione e ridacchiò sottovoce. Poi si complimentò col suo nuovo conoscente e gli diede il cinque: nessuno era mai riuscito a zittire quello strazio di Jackie, nemmeno lui, che era il buffone della situazione.

«Grande amico.» si complimentò dandogli una lieve pacca sulla spalla più vicina. Jackie si riprese in fretta dallo sconcerto e nascose gli ultimi residui del suo sbigottimento dietro a una bella foto col telefono che scattò loro a tradimento. E poi si fece un selfie assieme a loro. E anche se Sean lo trovò un po’fastidioso, non riuscì a non farseli piacere entrambi. Poi la sua mente corse a Erol. Chissà dove era finito quello scapestrato?

 

***

 

Contrariamente a quanto Sean aveva creduto, Erol non aveva affatto bucato. Si era semplicemente appostato vicino agli alberi del parcheggio. Quando mattine prima era uscito per una commissione per conto della mamma, gli era parso d’aver visto delle persone interessanti. Gente un po’ poco di buono ma abbastanza boccaloni per non esserlo davvero: esattamente il tipo che piaceva a lui. Se fossero stati anche creduloni, sarebbe stato un colpaccio. E ora eccoli lì.

Erano tre ragazzi, uno basso, tarchiato con i capelli biondi tagliati cortissimi e gli occhi infossati cui era impossibile vederne il colore, un altro alto e magro come un insetto stecco i cui vestiti sembravano indossare lui, e il terzo di altezza media con la pancetta. Tutti e tre fumatori. Volsero la testa verso di lui. Il quale sciorinò un bel sorriso e li salutò: «Ciao».

«Ciao.» gli rispose un po’ incuriosito quello di altezza media. A giudicare da come lo stava squadrando, doveva essere lui il capo del gruppetto. Non erano granché, ma sicuramente, con il tempo, Erol si sarebbe trovato delle persone migliori. Per il momento, quelle lì erano perfette. 

«Mi chiamo Erol Lestrange, sono arrivato qualche giorno fa.» Si presentò tendendo una mano verso di lui.

«Ah, allora sei tu uno di quelli di cui si parla così tanto in città!» Esclamò con un lampo di riconoscimento negli occhi acchiappandola subito. A Erol dette fastidio quel tono pieno d’interiezioni, però non lo diede a vedere, e anzi, cominciò a usarle lui stesso: «Non mi aspettavo che avreste già cominciato a parlare di noi!» Fece sorpreso allargando gli occhi tra il grigio e l’azzurro. Un sorriso timido sulle labbra. «Bè che ci vuoi fare? Questo è un paesino. Tutti parlano di tutti. Comunque benvenuto, io sono Keith e questi sono Larson e Drew.» Fece presentando gli altri due che, una volta chiamati, chinarono le teste. «Molto lieto».

Bene, adesso doveva solo entrare a far parte del gruppo. Non sarebbe stato impossibile, a lui era difficile resistere.   

 

***

 

«Allora, com’è stato il vostro primo giorno di scuola?» Domandò Dean quella sera a cena.

E i due ragazzi risposero che era stato interessante. Poi i loro genitori, riportarono loro delle belle notizie: tempo pochi mesi che sarebbero potuti tornare alla loro nuova casa. E, cosa ancora più bella, erano arrivati i loro mobili e la moto di Sean. A quelle parole, suo figlio minore s’illuminò. E, a metà mese, con grande gioia di Dean, entrambi i suoi figli, cominciavano ad ambientarsi. Ma non aveva neanche idea di quanto avrebbero finito per abituarsi.

 

***

 

Sean stava cominciando ad abituarsi ad avere degli amici. Non aveva ancora raccontato niente di rilevante di sé ai due però sentiva che poteva fidarsi di loro. Essendo nuovo gli riusciva ancora difficile credere di aver già trovato un paio di amici. Aveva pensato che la sua amicizia con Jackie si sarebbe esaurita nello stesso momento in cui si sarebbero incontrati. Invece non era stato così e anzi, era ancora meglio che dal computer.  Stava imparando ad apprezzarne in particolar modo la compagnia, quando non sparava cazzate. E di invidiarlo con la moto con la quale veniva a scuola. Aveva preso l’abitudine di vestirsi pesante per sopperire alla mancanza di caldo e per schermarsi alle ventate che riceveva quando andava in moto che alla fine decise di riutilizzare soltanto nei mesi caldi. Aveva rischiato di prendersi un bel raffreddore e gli si erano pure screpolate le mani, ma mai e poi mai sarebbe entrato in un fast food. Al limite in una panineria.

La gente stava cominciando ad abituarsi a vederlo scorrazzare per la città, a volte in moto, o a piedi con l’album da disegno sottobraccio, la tracolla con tutto l’occorrente per disegnare e le cuffie o un libro. Invece lì era più facile vedere i ragazzi sfrecciare in macchina e fare confusione come se credessero di trovarsi in Grease.

Spesso si sedeva su una panchina a schizzare quello che vedeva. Lasciava vagare lo sguardo per un po’e poi si fissava su un dato particolare. Molti curiosi si erano messi a seguire la sua traiettoria e poi avevano spostato gli occhi sull’album; dove la mano veloce del ragazzo tratteggiava come accompagnando il lapis in una danza.

Alcuni coraggiosi si erano fermati a chiedere qualcosa di lui. Ricevendo rossori e timide risposte. Altri persino se potesse ritrarli e Sean, a differenza di come si aspettavano, aveva sorriso e li aveva accontentati. Senza quasi chiedere nulla in cambio a parte che lo tenessero caro. Era un comportamento molto anomalo per i loro standard. Cioè, in quel paese si conoscevano tutti da generazioni. Non succedeva niente di nuovo da eoni quindi il ritorno dei Lestrange aveva suscitato numerosi pettegolezzi, alcuni lusinghieri e altri proprio per niente. Questi ultimi soprattutto riferiti a Sean. Il cui comportamento inizialmente schivo poteva essere confuso con quello di uno psicopatico. E da quando era stato insinuato questo pettegolezzo, si erano aspettati di tutto tranne quel ragazzo così affabile, gentile, dalle mani d’oro e dallo sguardo di un cerbiatto spaventato. Sguardo che saltava fuori ogni volta che si accorgeva che qualche curioso lo fissava mentre disegnava.  E forse non lo avrebbe mai saputo se alcuni dei soggetti che ritraeva non avessero avuto il coraggio di dirglielo in faccia.

E agli occhi delle ragazze che stavano imparando a conoscerlo, quel taciturno vestito sempre di colori scuri che non aggiornava il suo profilo quasi mai se non con disegni, opere d’arte e simili, e mai selfie, ma solo foto, stava rivelando un lato di sé che le attirava. Era un richiamo silenzioso, una sorta di fascino di cui lui non era nemmeno consapevole. O forse erano solo gli estrogeni e le fantasie galoppanti della loro età. Ma non era così interessante da suscitare sentimenti amorosi nelle ragazze e, di conseguenza, l’invidia della popolazione scolastica maschile. Neanche i bulli lo trovavano attraente e si limitavano a lanciargli occhiate tra lo spaventato e l’astioso. E non solo perché era il figlio del Lestrange.

Per questo quella rivelazione lo lasciò sconcertato. A Miami era sempre passato inosservato, era abituato a stare sullo sfondo a farsi gli affari suoi. Così sullo sfondo che poteva anche non accorgersi se qualcuno lo fissava. Invece lì era tutto diverso e per una volta le parti si erano invertite. Adesso era Sean quello fuori dalle righe ed Erol perfettamente nella norma.

Aveva provato a evitare le strade ma confinarsi nel motel non era stata la soluzione. Così aveva ripreso a uscire dopo un po’e si era arreso. Ma al fatto che tutti lo chiamassero personaggio no.

Non capiva che cosa significasse. Perché lui era una persona.

Eppure lui non stava facendo niente di rilevante, se non esplorare e riprodurre su carta la città in cui era stato trapiantato e sopportare le prese di giro dei rudi locali. Persino le veneri della scuola erano dolci come la carta vetrata, anche se «Fidati, dopo un po’si sciolgono» gli assicurò Mattias, che parlava per esperienza. Bè, poca esperienza.

I ragazzi di Hay River c’erano avvezzi, ma a Sean, ricordavano dei domatori di motoseghe imbizzarrite. Aveva cercato di non formulare pregiudizi ma proprio non c’era riuscito. Si era limitato a modificarli ed esprimerli agli amici dopo aver avuto a che fare con alcuni esemplari.

Una volta una ragazza aveva voluto pomiciare con lui. Gli aveva lasciato un biglietto nell’armadietto e Sean l’aveva aspettata incuriosito. Ed era anche molto bella, però era maleducata e aveva l’aria di essere una mangiatrice di uomini. Inoltre il pittore l’aveva vista abbarbicata al tronco di un altro, e lui non era interessato a essere l’oggetto di un possibile tradimento e di un’eventuale vendetta, così aveva rifiutato. E lei ci era rimasta interdetta: «Sei gay, per caso?» Se ne era uscita cercando di dominare l’indignazione.

Sean aveva replicato con calma: «No, solo che non mi va».

La ragazza lo guardò con la bocca semi aperta prima di dargli uno schiaffo. Neanche troppo violento per paura di rovinarsi la manicure, però abbastanza forte da fargli sgranare gli occhi. L’impronta delle sue dita andava delineandosi sulla sua pelle dolorante. 

«Ma tu non sei mica normale sai? Guarda che non son mica una sgualdrina!» Se ne era uscita e se ne era andata stizzita dalle sue amiche a truccarsi in bagno ancor prima che Sean potesse replicare che nessuno aveva detto quello. Mattias che era appoggiato al suo armadietto e aveva assistito, fischiò, seguendola con lo sguardo: «Però».

«Ma da voi le ragazze sono tutte così?» Chiese Sean portandosi una mano alla guancia che frizzava ancora.
«Solo quelle che vorrebbero emulare le ragazze di città».
«Dalle mie parti erano più scostanti e con la puzza sotto il naso.» e lo sapeva perché lui non era il loro tipo. Loro sbavavano dietro di quelli fighi, possibilmente con una noce al posto del cervello, oppure ai musicisti. Mentre lui era solo un ragazzo normale con uno smisurato talento per la pittura.  

«Dovrai farci l’abitudine, Ragazzo - di - Città, questa è Hay River».

Stranamente, Jackie fu molto contenta di sapere che lui aveva rifiutato. Con Mattias condivideva l’odio per la scuola e gli sport e la sua passione per la velocità. Anche il suo nuovo amico aveva una moto, però da cross, e non era così bella come la sua Kawasaki nera. Invece con Jaqueline condivideva un interesse simmetrico per la fotografia. Solo che lui preferiva dipingere, e smaniava per andare nel bosco. La ragazza con i capelli a caschetto invece non era dello stesso parere. Era come se il bosco la terrorizzasse, ma questo semplicemente perché le metteva paura e non poteva soffrire il suo misterioso fascino. Entrambi però amavano da morire la moto nera del ragazzo.

«Bella moto.» si complimentarono con lui la prima volta che vennero a trovarlo a casa e lo trovarono in garage - ovvero l’ex stalla della casa - a pulirla. All’inizio non avevano creduto che vivesse davvero in quella villa in ristrutturazione.

«Grazie». Però non se ne sentiva affatto fiero, in quel paesino, sembrava ancora più superflua che utile.

«Ah, allora anche tu hai delle passioni umane.» fece Jackie ammirandola. «Credevo che tu non ne avessi».

«Ehi, mangerò lattuga, mi rifiuterò di andare a stronze e magari mi prenderanno tutti per il culo, però sono pur sempre un ragazzo; e adoro andare veloce.» si pulì le mani a uno straccio e poi li guidò in casa dove offrì loro qualcosa da mangiare e da bere.
Furono proprio loro due che lo invitarono a partecipare alla festa di Halloween. Sean non rifiutò, non gli avrebbe fatto male partecipare a una festa no? I suoi genitori furono più che entusiasti di accordargli il permesso. Sean era un po’ in difficoltà: era la prima volta che si vestiva per andare a una festa, quindi scelse una camicia bianca, jeans neri e scarpe da ginnastica. Non si dette nemmeno la briga di pettinarsi come avrebbe fatto Erol al suo posto. Anzi, sicuramente Erol non si era nemmeno preso quella briga; comunque si fosse conciato lui sarebbe stato attraente. Ma guai dire ai suoi che il fratello non avrebbe partecipato alla festa: faceva parte del loro tacito accordo.

 

***

 

Il drink che Erol si scolò quella sera, era color sangue ma non era un Bloody Mary. Bensì una specialità che gli avventori chiamavano Wolfblood. Si diceva che solo i veri uomini potessero reggerlo, perché, secondo la leggenda, era fatto con il sangue dei testicoli dei lupi. In realtà non era molto diverso da una banale Capiroska alla fragola, era solo più dolce e incendiario.   

Sapeva della festa della scuola, ma aveva preferito andare a divertirsi con i suoi nuovi amici. Era certo che esistessero delle discoteche anche lì, se lo sentiva dentro. Il suo infallibile istinto da playboy glielo diceva. E ora lì, in mezzo alla calca, seduto al bancone del bar, a provarci con la bella barista dai capelli rossi come il cocktail che aveva appena bevuto, mentre gli altri erano scomparsi da qualche parte nella sala o in bagno. Boh? Non sapeva nemmeno lui. Sapeva che tutti i colori erano più vividi, anche grazie alle luci al neon e ai led che sembravano scarti di vecchi film di fantascienza e del laser che danzavano sulle pareti del locale. Ok, in realtà era più un seminterrato che una discoteca, però Erol era contento dovunque avrebbe potuto fare un tiro di ecstasy e bere come un cammello. Non era la prima volta che si ubriacava e non sarebbe nemmeno stata l’ultima.

Con le droghe aveva deciso di andarci leggero: vivendo in casa con un poliziotto non si poteva mai sapere. Ed era quasi sicuro che suo padre ogni tanto frugasse nei suoi cassetti alla ricerca di prove di qualche reato. Ma lui era abbastanza furbo da non averne. Sforava la legge quel tanto che bastava affinché non potesse essere classificato come reato. E non era certo reato andarsene a bazzicare in locali come quelli con una maglietta a mezze maniche aderente e pantaloni di jeans neri, no? Magari non era rude e muscoloso o barbuto come la maggior parte degli avventori, però aveva la bellezza e la gioventù dalla sua, e lo sapeva che la barista dai capelli rossi come il cocktail che stava lentamente sorseggiando, lo guardava di sottecchi, mentre preparava un gin tonic per un altro cliente. Sentiva, in quell’aria di fumogeno vagamente odorante di chewing gum alla fragola, che si stava eccitando. E lui ne era più che contento.
Mise giù il bicchiere e sfoderò la sua migliore occhiata da seduttore e si sporse verso di lei per domandarle all’orecchio, sfiorandole il lobo con le labbra. «Allora, quando smonti, bellissima?»

«Non sono affari tuoi.» Rispose quella, ma il diciannovenne non si arrese. Anche se era un osso duro, sarebbe capitolata. Tutte capitolavano: «D’accordo, senti, nessuno di questi barbari, boscaioli, gretti e senza un briciolo di cervello qui presenti potrà mai farti toccare il cielo con un dito, io si. Se cambi idea, devi solo dirmelo, io sono qui».

Si rimise seduto. Lei lo fissò per un lungo istante infine gli domandò come si chiamasse e lui la accontentò: «Erol Lestrange».

«Smonto alle tre».

Erol sorrise trionfante.

 

***

 

La festa non era poi questo granché. Gli organizzatori avevano affittato le luci e riesumato le vecchie decorazioni polverose e sfilacciate dell’anno scorso facevano bella mostra di sé sulle pareti e sul soffitto. Persino l’impianto stereo antidiluviano e il dj trentacinquenne, che ora sparava delle canzoni commerciali passate e ripassate in quei sei mesi alla radio, sembravano ridondanti.

Ecco perché il pittore evitava queste ricorrenze come la peste. Era tutto così uguale, così… Così tutto uguale. Persino i costumi. Era come se gli studenti avessero avuto solo due scelte: ricalcare la moda o crearsi un costume in casa. A lui non avrebbe dato fastidio se non si fossero mascherati da pittore pazzoide: cioè con parrucche molto simili alla sua chioma, oppure, un secchio di vernice secca in testa portato a mo di elmetto. Alcuni addirittura avevano scelto di apportare modifiche al loro costume, come una dentiera da vampiro o sangue finto sulle braccia. Ricalcando una delle voci che perseguitavano Sean. Tutto perché si era tagliato un dito con la carta una volta ed era rimasto impassibile di fronte alle gocce.  
Ma chi glielo aveva fatto fare? Se non altro i suoi amici avevano avuto il buon gusto di cambiarsi: Mattias era venuto a prenderlo con la sua macchina, vestito da uomo delle caverne con tanto di clava di plastica e Jackie sembrava la versione adolescenziale della fata turchina. Indossava un assurdo vestito azzurro con la crinolina e le alucce di plastica trasparente non più grandi di un piatto di portata, parrucca bionda e capello a punta con stella di cartone colorata a tempera e il velo. Ma per il resto era sempre la solita logorroica. Si trattenne con gli amici per un po’. Fortuna che non era obbligatorio invitare nessuno, perché Sean non aveva pensato a nessuna, Jackie nemmeno se avesse avuto un coltello alla gola. La ragazza mostrò un po’di scontentezza di vederlo vestito normalmente: «Ma è una festa mascherata» si lagnò mettendo su un broncio infantile. Sean alzò le spalle e si giustificò, «Non avevo il costume».

«La prossima volta dimmelo, che ti aiuto a procurartene uno».

«Perché no? La prossima volta.» le fece eco senza troppa convinzione e in tono sempre più basso. Tanto l’avrebbe portato nello stesso centro commerciale poco fuori la cittadina della loro scuola, come quasi tutti i giovedì, del resto. E le sorrise, stanco: «Sicuro».

Poi i tre si avviarono al tavolo del rinfresco ove facevano bella mostra di sé il ponch e tutte le bottiglie di succhi di frutta, coca cola, pepsi e bicchieri di plastica. Ma a causa della presenza dei professori nessuno si era sognato di portare anche la birra. O almeno di esibire la fiaschetta di vodka davanti ai prof che si aggiravano per la sala come avvoltoi.

Sean non l’aveva mai bevuto prima, neanche alla festa delle medie, però gli piacque molto. E il suo apprezzamento suscitò le risate divertite di Jackie e Mattias.

Verso mezzanotte fu premiata la maschera migliore e furono passate le canzoni più belle, ma Sean, a differenza degli amici, non scese in pista. Questo comportamento attirò lo sguardo di molta gente. Alcuni studenti gli chiesero di unirsi a loro, ricevendo un educato rifiuto. Altri si limitarono a guardarlo, altri ancora a ignorarlo e basta. Persino alcuni prof si avvicinarono e gli chiesero se stesse bene, che da lontano sembrava triste. In realtà era solo annoiato da morire.

Alla fine, infastidito, se ne era andato a cercare un angolino tranquillo, lontano da coppiette che pomiciavano più o meno di nascosto dai prof, che si ubriacavano o si rollavano qualche sigaretta.  E l’aveva trovato su una sedia in un angolo del tavolo. Anche se all’inizio lo scambiarono per il ragazzo che distribuiva i bicchieri.  

Era seduto e stava lasciando vagare la mente a tempo di musica quando qualcuno si sedette sulla sedia di plastica vuota accanto alla sua.

«Ciao.» lo salutò una bella voce femminile. Lui si girò e si ritrovò a rimirare una ragazza caucasica, dalla corporatura slanciata con spalle e fianchi stretti sui quattordici anni. Era più bassa di lui. Aveva i capelli castani scuri, lisci e lunghi fin sotto le spalle, di un insolito riflesso rosso sangue. La falda scostata dietro le orecchie come un sipario e fermata da una piccola foglia di platano nord occidentale marroncina; meno una ciocca che le tagliava in due il viso. E altre sfuggitele da dietro le orecchie, la pelle compatta e candida come la sua camicia, con zone d’ombra ocra molto più intense sotto l’arcata sopraccigliare e sulle palpebre. Il naso piccolo e dritto e intelligenti occhi a mandorla verdi come germogli le labbra rosse come bacche e le lunghe ciglia scure. Era vestita con un semplice e aderente abito senza spalline verde sbiadito decorato di foglie variopinte di arancio, rosso e marrone con tocchi di giallo e rametti che sembravano parte di lei. Altri gioielli fatti di piante ornavano le braccia e il collo.

Profumava di piante, per essere precisi di autunno. Il ragazzo lo poteva sentire anche da lì.

Forse era mascherata da elfo de Le cronache di Spiderwick. E lui lo sapeva perché aveva letto il libro e ammirato le illustrazioni. Eppure non aveva le orecchie a punta. Forse non le aveva trovate e si era dovuta arrangiare. Nonostante il costume assolutamente impeccabile e verosimile, non poté fare a meno di contemplarla e si chiese come avesse fatto a non notarla prima, ma chissà quante cose non aveva notato, prima. «Ciao.» Rispose con un sorriso. E la sconosciuta propose, in tono gentile «Vuoi ballare?» e fu più il tono della proposta ad attirarlo che l’invito in sè. La mano sottile dalle unghie tinte di ocra dorata tesa verso di lui. Lui la prese nella sua, più grande, calda e acconsentì. Represse un brivido di freddo quando toccandola, scoprì che la sua pelle era gelata, ma lei parve non farci caso.

Nonostante l’emozione, il ragazzo non poté fare a meno di pensare che ci fosse qualcosa che non andava in lei. Solo che non capiva cosa fosse.  

In quel momento il dj dovette avere un lampo d’ispirazione perché mise su un lento con grande imbarazzo di entrambi. Però, insieme, si diressero in pista, tenendosi per le mani.

Sean si vergognò delle sue scarse doti di ballerino, eppure, mentre la faceva volteggiare il più dolcemente possibile, nonostante la goffaggine, si sentì il ragazzo più fortunato del mondo. Non sentì neanche il resto del mondo attorno a loro.

Avrebbe voluto dirle qualcosa, ma non le uscì niente, così si limitò a inchiodare i suoi occhi color cioccolato al latte in quelli verde prato intenso di lei. Lei non distolse mai lo sguardo per tutta la serata. Appena la canzone finì e tutti si fermarono per applaudire il dj, Sean si chinò su di lei e le domandò: «Come ti chiami?». Ma lei sorrise tra l’imbarazzato e il dispiaciuto e disse, chinando lievemente il capo in una parvenza di inchino: «Grazie per il ballo. Buonanotte.» E se ne andò.

«Buonanotte?» Domandò questi aggrottando le sopracciglia e poi la seguì «Ehi, aspetta, aspetta».

Si fece largo tra la folla che aveva ripreso a danzare, ricevendo pestoni, gomitate, manate e sventagliate di costumi e capelli sciolti in viso. Mattias lo acchiappò per le spalle e fece per dirgli qualcosa ma Sean si districò dalla presa e tornò a rincorrerla. Ma come diavolo faceva a non rimanere invischiata come una falena nelle trame di una ragnatela?

La ragazza si volse solo per un momento per dedicargli un sorriso malinconico. Quasi come fosse un addio, ma lui non lo recepì e continuò ad andarle dietro. Appena lei varcò le pesanti porte metalliche della palestra sparì come se non ci fosse mai stata. E ciò che lui stava per dirle, gli morì in gola. Dapprima Sean credette di essersi sognato tutto, ma quella ragazza era troppo reale per essere un sogno. Allora pensò che fosse un’allieva, probabilmente una delle primine mascherata da pianta? Elfa? Fata dei boschi?

Se lo stava ancora domandando quando rientrò e Jackie, tutta sudata e scarmigliata nel suo costume di fatina, crollò a sedere sulla sedia che poco prima aveva occupato lui: «Ehi, ti stai divertendo?» Gli domandò con un bel sorriso e il fiato corto mentre l’amico si sedeva sull’altra seggiola. «Sì, abbastanza.» Rispose continuando a guardare l’architrave della porta taglia fuoco.

«Senti, ti va di ballare?» Gli chiese sporgendosi verso di lui, con voce seducente, gli occhi ammiccanti e la sua mano sulla sua rotula, pronta a scivolare più in alto. Il ragazzo la guardò un po’intimorito e si scostò leggermente dicendo «No, grazie, sto a posto così.» La mano di Jackie perse la presa e se la portò in grembo emettendo solo un «Oh» un po’dispiaciuto e si ricompose facendo spallucce, mascherando il tutto dietro un sorriso di circostanza, che riuscì a far passare per uno allegro: «Va bè, non fa niente. Io torno in pista, se vuoi raggiungermi, sai dove trovarmi».
«Ok.» E lasciò che lei se ne andasse. Per tutto il tempo si disse che forse la ragazza misteriosa era solo andata alla sua macchina. Non era escluso: molti adolescenti conseguivano la patente a quindici anni o si facevano scarrozzare dagli amici. Anche se, considerò tra sé, lui aveva preferito l’ebbrezza della moto a quella del volante. Forse lei apparteneva aveva una macchina da qualche parte. Oppure era stata colpa sua. Anche se ripensando a quel ballo, non trovò niente di sbagliato. Che fosse di un’altra scuola e avesse avuto paura di essere beccata?

Non era possibile, non c’erano altre scuole oltre a quella nel raggio di chilometri. Se si escludevano le scuole medie ed elementari. Fu colto da un pensiero. Che fosse stata una ragazzina delle medie? Ci ripensò e scosse il capo. No, i genitori non avrebbero mai permesso che uscisse conciata a quel modo, tanto più per una stupida festa di liceali. No, quella aveva la sua età. Eppure qualcosa gli diceva che non poteva possedere una macchina o qualsiasi altro mezzo. Però non sapeva spiegarsi perché. Chissà, forse sarebbe tornata presto, dopotutto, chi sarebbe stata così folle da scomparire nella notte? Oltretutto, se ne rese conto solo in quel momento, senza aver recuperato un cappotto e le scarpe. E improvvisamente ebbe come un’illuminazione. Era scalza. Era quello il particolare che l’aveva lasciato perplesso per tutta la durata del loro ballo.

Incuriosito, andò dalla guardarobiera improvvisata e le domandò se avessero visto una ragazza vestita da elfa e coperta di foglie, dalla pelle bianchissima e gli occhi verdi. Le ragazze che erano lì scossero il capo: «Qui non è passato nessuno che corrisponde a questa descrizione, mi dispiace».

Il giovane annuì: «Ho capito, non fa nulla, grazie lo stesso».

La cercò in lungo e in largo chiedendo di lei persino al fotografo, ma ottenne la stessa risposta. Ma a causa della musica e dello scarso interesse delle persone ottenne ben pochi risultati. Era come cercare di rintracciare un fantasma. Ma lui non si dette per vinto. Tuttavia, non la rivide più e allora si convinse che quella ragazza non era normale. Cioè, se l’era svignata, forse a piedi e senza niente addosso, nel freddo della notte. Era ovvio che si stesse preoccupando.

Non poteva essere andata lontano. Allora perché non la trovava? Dove si era rifugiata? Fu la sete a condurlo al tavolo dove si servì un bicchiere di aranciata e bevve. Poi si sentì girare e urlare nell’orecchio: «Sorridi!» E la sua vista fu inondata dal flash della macchina fotografica.

Quando le foto della serata furono caricate sul profilo social della scuola, il giovane la cercò tra le foto ma non la trovò in nessuna di esse. Sbuffò e spense il computer ignorando bellamente il tag di Mattias alla loro foto che il social gli ricordò con una notifica.  

 

***

 

Terrence era riuscito a raggiungere il suo covo. Non era stato facile; si era dovuto liberare di quei fastidiosi poliziotti, passando per i torrenti freddi e quei fiumiciattoli che conosceva bene come le sue tasche. Non era riuscito a liberarsi completamente delle manette. Era riuscito a spezzarle con l’aiuto di un pesante sasso affilato, ma non si era ancora liberato di quei braccialetti metallici che tanto gli segavano i polsi fino a farglieli sanguinare. Sapeva che il sangue avrebbe potuto attirare le belve feroci che dimoravano in quei luoghi, per questo non si era mai quasi fermato, se non per nutrirsi di bacche e radici e per svuotarsi.  E ora, finalmente, proprio mentre cominciava a tuonare, era riuscito a tornare al suo covo. Un container abbandonato e rugginoso che aveva riarredato di modo che somigliasse a un grosso masso ricoperto di erba. Ci aveva messo più del previsto anche perché, in quegli anni di prigionia, la foresta era cambiata. I sentieri che conosceva non esistevano più. Ma ora era lì, di nuovo a casa. Sorrise.

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Capitolo 4
*** Novembre ***


Novembre

Occhi verdi, pelle candida, labbra rosse e capelli scuri decorati di foglie autunnali, semplicemente meravigliosa. Era sempre così che compariva nei suoi sogni. Era la nuova ossessione di Sean eppure non riusciva a rammentarsi con precisione i suoi tratti. Se si soffermava sui ricordi del ballo, gli tornavano alla mente sfumati come un sogno sbiadito. Una sensazione che nemmeno lui sapeva descrivere, ma che, se avesse potuto, avrebbe dipinto.

Era così bella che fosse quasi certo che lei non esistesse. Non esisteva nessuna così bella e misteriosa.

Profumava di foresta, le ricordava la boscaglia. Forse doveva vivere in una casa nella selva circostante, che sapeva che c’erano alcune case più esterne al paese. Si convinse che era così e si ripromise di andare a controllare. Anche solo per chiederle un ritratto. Le sarebbe bastato solo questo. Si sentì invadere dalla curiosità, perché adesso che ci pensava non aveva mai visto i boschi d’autunno. Chissà, avrebbe potuto trovare l’ispirazione che gli mancava. E forse, con un po’di fortuna, avrebbe potuto rivederla. 

Stava pensando a questo quando venne a sapere che era stato trovato il cadavere di uno studente qualche giorno fa nei pressi del parcheggio dell’autobus della scuola. Il corpo era stato trasportato via durante il ponte e solo Smoke, il figlio del custode, che portava fieramente il nome di Smoke on the water dei Deep Purple, ebbe il dispiacere e l’onore di identificarlo. Era Carine Money-Penny, la cugina di Eve Llewellyn, una diplomata dell’anno prima. In città ne parlavano tutti. E Sean si accorse per la prima volta che quella cittadina non era così tranquilla come sembrava. Il suo terrore pareva essere lo stesso che offuscava l’allegro vociare e lo sguardo di tutti gli studenti e dei professori. Conoscevano tutti quella ragazza, e anche se Sean era nuovo, si sentì profondamente turbato, dopotutto sarebbe potuto succedere a lui, che si sentiva quasi preso di striscio. Benché non riportasse ferite di alcun genere.

Quella fu la seconda volta che Jackie stette zitta e quieta tutto il tempo e solo i suoi occhi tradirono la sua inquietudine.

Il preside istituì un minuto di raccoglimento e la professoressa di ginnastica recitò due preghiere per la povera Carine e invitò gli studenti a recarsi al funerale. Cosa che sorprese Sean: nella sua vecchia scuola non si usava. Poi le lezioni iniziarono ufficialmente. Mattias gli sussurrò sotto voce chi fosse quella poveretta e poi, una volta nella classe di geografia ascoltarono la spiegazione del professor Clippert sul programma che avrebbero seguito e il motivo del ritardo del corso; gravi problemi di salute. Il giovane artista capì subito che i suoi problemi erano di altro tipo, a giudicare dalle fasciature che facevano capolino dalle maniche della camicia, ma per rispetto, decise di mantenere quel segreto.

Il professore quell’anno aveva deciso di integrare il suo corso con quello del professor Willard; l’insegnante di diritto ed economia. Il progetto aveva incontrato il favore del preside, che aveva dato il proprio benestare. Così avevano cominciato a studiare geografia umana. E questo aveva sorpreso non poco i loro allievi. Doveva essere una di quelle volte in cui i professori si ricordavano che non era questo il motivo per cui insegnavano, che non dovevano soltanto inculcare nozioni nelle loro teste. E che quei dannati voti non servivano per misurare il quoziente intellettivo dei ragazzi. O almeno, questa fu la voce che Sean & company raccolsero. Per Mattias avevano semplicemente dato di matto: «Evidentemente non sopportano più di dirsela e cantarsela da soli, ora hanno bisogno di un pubblico.» Sogghignò subito dopo. Sean curvò le labbra in un sorrisetto.

«Pensavo l’avessero già fatto da tempo.» Fece Jackie alzando le sopracciglia mentre si dirigevano agli armadietti.

«Non è la prima volta?» Domandò Sean, guardandoli, che aveva ancora il mal di testa.

«No, ogni anno quei due ne fanno una nuova». 

«Stavolta sembrano seri però.» Commentò poi Mattias, pensieroso.

«Ma va, avrai sicuramente preso un granchio.» Ribatté Jackie. Il moro sogghignò sotto i baffi.

Bastò la prima lezione per far capire agli studenti che non sarebbe stato un corso facile. Non solo per i contenuti e che, alla fine di ogni mese, i prof avrebbero istituito una sorta di dibattito ufficiale post test che avrebbe fatto media. Ciò fece impallidire il povero artista. Lui era una persona molto sensibile e timida, mettere insieme tante frasi per costruire un dialogo, non era esattamente il suo forte. Specialmente se si trattava di un argomento di cui sapeva così poco come l’ecologia. Se i prof si fossero accontentati del solito saggio sulla pena di morte, ci sarebbe riuscito senza problemi, ma quella era tutta un’altra storia. Il lato positivo era che avrebbero potuto usare Internet per le loro ricerche.

Come se non bastasse, i prof decisero di fare subito un dialogo di prova, e Willard scrisse sulla lavagna la parola ambiente a caratteri cubitali e disse loro di fare un brain storming. E subito i ragazzi cominciarono a tirare fuori le loro idee in merito. Il cervello di Sean si svuotò di colpo e li guardò tutti con lo sguardo del primitivo che ha appena scoperto una vena di splendidi diamanti e non ha la più pallida idea di cosa sia. Persino Mattias ebbe qualcosa di serio da dire sull’argomento. Ma nessuno si accorse che il cervello di Sean convertiva i loro discorsi in immagini. Quasi fosse una cinepresa interna alla sua testa che fece uno sgangherato filmato di quella prima lezione. Oh, se avessero potuto vedere ciò che stava accadendo nella sua testa in quel momento.

Quell’ora fu una tortura.

A fine lezione, quando lui sfilò dinanzi alla cattedra con tutti gli altri, i professori lo fermarono e lui li guardò con gli occhi completamente sgranati, come a giustificare una colpa. Il professor Clippert esordì dicendo: «Mi hanno detto che sei un ragazzo piuttosto intelligente, mi sbaglio?»

«Sì, credo.» fece il ragazzo, arrossendo. Era la prima volta che un professore gli faceva una domanda del genere. Di solito si limitavano a leggere i documenti di trasferimento e i loro fascicoli, per cui gli suonava strano sentirsi dire quelle parole. «Credi?» Domandò Clippert mentre l’altro prof inarcava un sopracciglio. Sean s’impappinò. Il professore gli disse di stare tranquillo, che lui non era uno dei suoi compagni. E gli spiegò che aveva sperato di poter sentire anche la sua opinione. Dopotutto, Sean aveva così tante domande sulla geografia e l’arte che era impossibile che non ne avesse anche per questa materia condivisa.

«E’che non ne so molto…» Si giustificò il ragazzo abbassando lo sguardo e Willard disse: «Bè, hai tutto un anno scolastico per riuscire a dire qualcosa, ti sembra?»

«Ma non so dove…»

«Buon Dio, ragazzo, sei giovane, con tutta questa tecnologia a disposizione se non lo sai tu».

Poi lo congedarono.

Quel pomeriggio dopo scuola si fermò alla libreria del paese. Gli erano sempre piaciute le librerie. Non solo a volte il profumo della carta e del legno di parquet gli ricordava quello delle tele, ma c’era altrettanta pace e silenzio come in una galleria d’arte. E al tempo stesso quell’allegro vociare di sottofondo che ti distraeva dal religioso silenzio contemplativo del luogo. Silenzio che nei musei era rotto dalla voce della guida vera e propria che illustrava le opere d’arte come se le avesse dipinte lei stessa. Come se, più che l’opera, presentasse dei vecchi amici. A quel pensiero alzò le sopracciglia e la sua bocca si curvò in un sorrisetto divertito: oddio, la maggior parte delle opere d’arte che conosceva e amava avevano un contenuto erotico. Ma solo perché sapeva che nelle epoche in cui erano stati dipinti, era l’unico modo per renderlo accettabile. «Una specie», aveva ironizzato, «di giornalino pornografico dell’epoca.» Per questo esistevano così tanti nudi nella storia dell’arte moderna.  

Una volta aveva pensato di fare la guida turistica nei musei e, se fossero rimasti a Miami, avrebbe fatto domanda di sicuro. Per un secondo pensò che magari avrebbe potuto fare la stessa cosa anche a Hay River. Ma Hay River non era Miami, non c’erano gallerie d’arte nel raggio di tre contee e il massimo grado d’arte cui si poteva aspirare erano i disegni nell’aula d’artistica delle scuole. Il ragazzo scosse il capo e tornò a concentrasi sulla libreria.

Sentiva di poterci quasi sparire e che nessuno se ne sarebbe mai accorto. Era passato davanti alla libreria di Hay River molte volte in quei mesi, ma non era mai entrato. La commessa alzò gli occhi dal libro nell’esatto momento in cui il ragazzo aprì la porta. «Buonasera.» Salutò cordiale da dietro le cornicette delle fotografie rivolte verso di lei. Lui ricambiò. E lei, un’allegra sessantenne in carne con i capelli tinti di castano scuro, si presentò: «Mi chiamo Roberta Prescott; spero di poter esserti utile.» Si strinsero la mano. Quando fu il turno del ragazzo a presentarsi, un lampo di riconoscimento passò nei piccoli occhi di quel viso che cominciava a mostrare i marcati segni del tempo, sotto il lieve strato di trucco: «Ah, i Lestrange, ho sentito parlare di voi e del vostro ritorno». Poi ritirò la mano e Sean la imitò inarcando le sopracciglia: «Pensavo che non lo sapessero proprio tutti.» Disse.

«Benvenuto a Hay River, ragazzo mio.» Fece a mo di risposta ma lui non l’ascoltò più. Era tutto intento a osservare il dipinto. Realizzato con colori molto luminosi, e vividi, raffigurava una ragazza dai capelli mossi e rossi come lamponi, lunghi dietro le spalle, terminanti in boccoli. Era abbigliata con un vestito del medesimo colore, decorato con delle foglie d’acero di varie sfumature vermiglie, dalla più carica alla porpora. Sulla varietà restò incerto tutto il tempo. La sua pelle bianca come il gesso assumeva delle lievi sfumature verdi nelle zone d’ombra, intensificandosi su labbra, guance, la zona sotto le sopracciglia e le palpebre. E anche i riflessi della sua chioma erano di quella sfumatura. Era seduta sul davanzale di una finestra e teneva in braccio una bambina di sei anni dai capelli legati in due trecce nere col fiocchetto. La piccola sembrava una bambola vestita di rosa dall’ampia gonna con le trine. I suoi occhi erano grandi e scuri e guardavano dritto verso l’osservatore mentre la ragazza che abbracciava la guardava sorridendole, quasi come una sorella maggiore. Alle loro spalle, oltre il vetro, si vedeva la foresta illuminata dai raggi dorati del sole. Si poteva quasi sentire lo stormire delle foglie nel vento e si aspettò che da un momento all’altro la ragazza dipinta alzasse il capo per guardarlo. Tanto era ben fatto. Roberta parve notarlo e disse, dopo essersi girata per un istante verso il quadro: «Oh, sì, davvero molto bello, non trovi?»

«Davvero... Le foglie, il vento, sembra quasi vivo. Il lavoro degno di un’impressionista.» Convenne Sean. Che poi era quello che voleva fare anche lui: dare suoni al paesaggio. Forse col tempo ci sarebbe riuscito. ‹‹Chi è l’artista?›› Domandò poi.

«Mia madre; lei era una vera artista dei pennelli.» Gli raccontò la signora con una punta d’orgoglio nella voce. Poi, dopo averci pensato su, tese un dito e indicò le due figure: «Queste siamo io e Vega.» Se lo studente fosse stato un ragazzo normale avrebbe ironizzato sul nome della seconda figura ritratta. Ma Sean non era come tutti gli altri, per cui non disse e non pensò niente. Si limitò a esaminare con gli occhi il dipinto. Nelle librerie che finora aveva visitato nella sua vita, non aveva mai visto niente del genere. Nemmeno le biblioteche erano così.

«Ti piace?» Domandò la signora sorridente. E, prima che ribattesse, aggiunse: «Perché non gli scatti una foto? Non guardarmi così, puoi farlo, non siamo mica in un museo. Non si rovina per una foto».

Il giovane restò un attimo interdetto e arrossì nell’ammettere: «E’che io non ho il cellulare, oggi». Infine riuscì a staccare gli occhi da quel quadro e disse che dava un’occhiata in giro. E s’inoltrò tra gli scaffali. Doveva leggere per scuola La lettera scarlatta di Hawtorne, e la trovò prima che il suo sguardo fosse attirato da un libro su una scansia adiacente. Era un libro di leggende da tutto il mondo. In realtà lui era andato avanti quasi senza leggere quei libri, perché riusciva sempre a trovarne i riassunti su Internet o a chiederli a prestito a chi l’aveva letto. Si era saltato persino quelli per le vacanze e nessuno se ne era mai accorto. Era la prima volta che si accingeva a comprare un libro per la scuola e uno per sé stesso. Controllò i soldi e scoprì che non bastavano. Quindi ripose il libro sulle leggende e si prese quello per scuola. «Oh, La lettera scarlatta, ottima scelta.» Fece Roberta quando lui pagò. Come se non avesse immaginato che fosse per la scuola.  

Il ragazzo la ringraziò, poi infilò la busta nello zaino, salutò e uscì.  

***

 

Dean Lestrange stava lavando i piatti quella mattina pensando alla conversazione da poco avuta con i figli. Li aveva accompagnati a scuola e, durante il tragitto, si era ricordato che erano andati alla festa. Perciò gli aveva chiesto se si fossero divertiti.

Erol inventò molti dettagli di sana pianta e Sean si limitò a infoltire quella versione, un po’di malavoglia. L’uomo si domandò che nuovo tipo di ricatto si fosse inventato il figlio per piegarlo, stavolta. Anche se smascherò la sua bugia senza darglielo a vedere, non comprese perché si ostinasse a mentirgli così. Cioè, in fondo era maggiorenne, e non era obbligatorio partecipare ai balli scolastici. Ma poi si disse che forse era solo una fase che sarebbe terminata con la fine delle tempeste ormonali. In ogni caso ringraziò il Cielo che il figlio maggiore badasse a quello sbadato del minore. Osservò Sean. Nonostante tutto era contento per lui. Da piccolo era sempre stato così introverso che l’avevano addirittura portato dall’analista, temendo che fosse autistico.  Ma la dottoressa li aveva rassicurati dicendo che era solo molto fantasioso e che la sua timidezza lo rendeva quasi vile, ma che col tempo, si sarebbe aperto. Aveva avuto ragione, per fortuna. E per sfortuna del piccolo, che era stato costretto a sorbirsi le partite di baseball della squadretta scolastica cui i genitori l’avevano iscritto nel tentativo di sbloccarlo.

E poi del lacrosse alle medie che aveva abbandonato a metà quadrimestre con gran dispiacere dei genitori. Loro credevano che fosse talentuoso, poiché quando si trattava di correre era piuttosto veloce. Ma non si erano mai accorti che quell’andatura somigliava più a una fuga che una corsa vera e propria. 

Ricordava ancora che all’inizio dell’adolescenza, notando che il figlio minore era tutto l’opposto del maggiore, come avevano pensato fosse gay. Non lo sentivano nemmeno masturbarsi quando si chiudeva in camera sua. Sempre lì a dipingere e dipingere. Ma sapere che adesso aveva un’amica con la quale usciva regolarmente li aveva fatti ricredere. Eppure era preoccupato, come se presentisse che di lì a poco sarebbe successa una disgrazia.

Sarah lo raggiunse in cucina: «Stai bene?» Gli chiese, cingendogli le spalle. Lui incrociò il suo sguardo e le sorrise: «Sì, amore». 

La moglie stava già molto meglio da quando erano tornati lì. L’aria fredda la rinvigoriva. Anche se era ancora un po’ debole, era felice, e si vedeva. «Sei sicuro?»
«Sì».

«Non me la racconti giusta; ormai lo capisco quando menti».

Lui si pose le mani sui fianchi, sospirò e distolse lo sguardo. Non voleva raccontarle niente: avrebbe potuto mandare all’aria le sue condizioni. Ma Sarah lo prese per le spalle e lo guidò verso la sedia e gli si sedette sulle ginocchia, cingendogli il collo con le braccia. «Avanti, racconta. Cosa c’è che non va?» Dean la guardò stupefatto: aveva dimenticato che sua moglie era più forte di quando non desse a vedere, e lo ricordò quando incrociò il suo sguardo serio, forte e deciso. E lei, per convincerlo ulteriormente gli disse: «Avanti, su. Non preoccuparti. Se fai così, starai solo male. Ed io sono tua moglie e voglio aiutarti in qualche modo».

Fu così che lui gli raccontò tutto. Lei lo ascoltò orripilata: aveva accettato il trasferimento solo per stare dietro a quel caso? Ma si rendeva conto dell’enorme pericolo in cui aveva cacciato la loro famiglia? La casa era vicina al bosco! E se Terrence Himelich si fosse avvicinato? E se avesse ammazzato i loro figli? Avrebbero dovuto tornarsene subito a Miami. Ma Dean si affrettò a rassicurarla dicendo che stavano già pattugliando la foresta alla ricerca del malvivente e che non avrebbe mai permesso ai ragazzi di andare per i boschi. Era troppo pericoloso. E poi i due ragazzi si erano ambientati, avevano stretto amicizia e Sean sembrava felice per la prima volta da tutta una vita. Non sarebbe stato giusto. Le promise che si sarebbe occupato di tutto e che avrebbe fatto in modo che i suoi figli sarebbero stati al sicuro. Ci vollero quattro ore per tranquillizzarla. E alla fine lei acconsentì a una condizione: «Se vuoi che io resti devi dirglielo».

 

***

Erol non si lamentava più della squallida cittadina in cui si erano trasferiti. Alla fin fine non era poi così squallida. Anche lì c’erano belle pupe, teppisti, turisti tiratardi, in un certo senso era come se non si fossero mai trasferiti. Bè, escluso il freddo e il ristretto ambiente circostante. Però non era vero che finite le stagioni turistiche quei posti chiudevano. Le persone lì ci vivevano comunque ed era interessante.

Inoltre la bella barteder dai capelli rossi aveva rimorchiato, della quale scordava puntualmente il nome, si era rivelata una dea del sesso. Erano solo i suoi nuovi amici a preoccuparlo: a volte, nel tentativo di emulare i “ragazzi di città” come lui, si facevano. E pure piuttosto frequentemente. Erol li guardava con occhi obliqui quando li vedeva farsi o fumare marijuana o canne. Lui non aveva questo eccessivo bisogno per sembrare figo. Quando succedeva, ai suoi occhi sembravano degli sfigati in piena regola, e Dio solo sapeva quanto gli facevano pena.

Intanto però, senza che se ne accorgessero, le dinamiche del gruppo erano cambiate. Adesso era lui il nuovo leader del gruppo. Keith - che aveva cominciato a farsi crescere la barba - sembrava addirittura felice di servirlo. Ovviamente se la spassavano, ma Erol non era stupido. Sapeva che niente gli avrebbe impedito di andare a giro per le strade come i Drughi di Arancia meccanica. Ma la verità era che finché sarebbe stato sotto l’egida di suo padre, non avrebbe mai avuto il coraggio di spingersi oltre le stupide marachelle adolescenziali che combinava. E non era poi così difficile trattenere i suoi compari. Eh, sì. Era proprio un leader nato. Niente lo terrorizzava. Eppure, quando quella sera a cena il padre annunciò che lui e la madre avevano una notizia da dargli, Erol si spaventò lo stesso. Oddio, che era successo? Non era colpa sua, vero? Ma il padre li avvertì soltanto che il bosco era pericoloso e che celava un assassino seriale. Sean alzò la testa di scatto, preoccupato, ma non disse niente. Ed Erol - un filino sollevato - ascoltò tutto: «Dovete stare attenti. Non avvicinatevi al bosco, potrebbe uccidervi.» Si raccomandò Dean. E i due promisero. Ma non lo fecero per lui, bensì per la loro povera fragile madre che stava dall’altra parte del tavolo. Anche se, Erol si accorse, Sean lo fece a malincuore.

 

***

 

Il tempo si stava raffreddando e Terrence lo sentiva. L’aveva visto così tante volte che adesso lo percepiva come se fosse stato lei. Si sedette su un masso a gambe incrociate e cominciò a liberare la mente con gli esercizi di respirazione. Poi si concentrò su ciò che i suoi sensi gli suggerivano.

L’udito gli portò i rumori e il tatto gli regalò il dolce bacio del freddo sulla pelle scoperta. L’olfatto invece si riempì degli odori portati dal vento. E la mente cominciò a viaggiare. La fauna andava diminuendo sempre di più. Pareva quasi un’estinzione, anche se gli animali sarebbero tornati al ritorno della primavera. Gli alberi andavano spogliandosi delle loro ultime foglie come pavoni che si spogliano dolcemente della loro bellissima coda. Solo che avrebbero finito per sembrare tante mani difformi dalle dita tese al cielo come elemosinieri. Mani che di notte assumevano i contorni di dita ghermitrici.

La brina cominciava ad attecchire e persino gli ultimi uccelli migratori avevano abbandonato quei luoghi in favore di paesi più caldi. Ormai le notti stavano diventando sempre più silenziose e cupe. E sicuramente lei aveva tanto sonno. Un sonno tremendo che avvolgeva completamente le sue membra e che sembrava trascinarla nelle tenebre dell’incoscienza più totale.  

Quasi se la vide davanti e sbadigliò per la centesima volta quasi per riflesso alla sua proiezione, mentre estraeva la freccia dall’occhio dello scoiattolo e lo cucinava.  Grazie alla sua capacità d’immedesimazione era capace di immaginarsi i dettagli più insignificanti di lei. Per esempio sapeva che lei avrebbe mangiato per l’ultima volta la carne che aveva cotto sul fuoco accompagnandola agli ultimi frutti di stagione cosciente che le forze la stavano gradatamente abbandonando. Come sapeva che lei aveva sempre odiato quel periodo dell’anno in cui i riflessi rallentavano e l’era sempre più difficile uscire dal sonno profondo nel quale sprofondava. Inoltre era sicuro che il suo battito stesse rallentando. Non stava morendo, era più come se fosse stata sveglia per troppo tempo e il corpo stesse cominciando a reclamare il suo meritato riposo.

Ma ancora di più odiava sentire il dolce sussurro del vento nella foresta che la esortava a coricarsi senza timore, come se dicesse che per quei mesi freddi se la sarebbe cavata anche senza di lei. Quando lei sapeva che non era così.

Sapeva che si rammaricava a lasciare quel cielo e quegli alberi che conosceva così bene per andare a dormire. Come conosceva il suo desiderio di vedere l’inverno, ma il suo corpo gliel’aveva sempre impedito.

Riposò per qualche minuto, lasciando che le braci si spegnessero completamente nella buca che aveva scavato per cuocere la carne.   

Poi si portò la mano alla bocca e notò che le sue unghie avevano cominciato a mutare colore. Come tutti gli anni si studiò e notò che anche le ultime foglie stavano staccandosi dal suo corpo. Non che non sapesse come fosse fatta: c’erano tanti specchi d’acqua in cui specchiarsi in quella foresta.

In un certo senso si sentiva più leggera. Poi si toccò le spalle e la testa, ma solo dopo si ricordò che aveva usato i suoi stessi rami morti e il suo arco per cuocere la carne e pensò: Ah, giusto. Questo era tutto ciò che vedeva e conosceva della fredda stagione. Ricordava ancora lo spavento della prima volta che si era sentita così. Erano passati tanti anni, ma a ripensare al terrore di suo padre e le rassicurazioni di sua madre trovava la situazione talmente comica che ogni volta scoppiava a ridere. Ma adesso non aveva più paura e, da Halloween, i suoi sentimenti erano pervasi da un serpeggiante senso di speranza che non sapeva spiegare neanche a sé stessa. Se avesse avuto un po’più d’energia avrebbe indagato, ma poiché era stanchissima non le importava.

Invece a lui sì e finora non aveva cavato un ragno dal buco, sapeva solo che doveva cancellare le sue tracce, onde evitare che i ranger o gli agenti le usassero per cercarlo. Per quanto riguardava l’odore, la cosa sarebbe stata un po’ più complicata.

In ogni caso si mise all’opera e dopo qualche ora si allontanò dal posto, completamente invisibile ai suoi cacciatori. E mentre camminava una parte del suo cervello riprese il suo lavoro di immedesimazione. Dove era rimasto? Ah, sì.

Era ora di dormire. Perciò si alzò e si avviò tranquillamente verso la grotta nel folto del bosco mentre una dolce brezza invernale le scompigliava i capelli sulla nuca. Una volta arrivata a destinazione, si guardò attorno per un’ultima volta. Scandagliò il luogo circostante con i suoi sensi alla ricerca di eventuali pericoli. Non essendocene, rinfrancata, entrò nella bocca buia mentre cadeva la prima vera neve della stagione. La stessa grotta dove ora si trovava lui. Che entrò usando una torcia per farsi luce. Anche se sapeva che non sarebbe bastata per mostrargliela, ammesso e non concesso che lei fosse già lì. Non sapeva proprio come faceva, ma ogni dannatissimo inverno lei riusciva a rifugiarsi lì ed essere contemporaneamente tanto vicina quanto lontana per lui. Chissà perché tornava sempre lì. Forse pensava che nessuno, neanche e soprattutto lui avesse scoperto quel posto. E non sempre lui riusciva a soggiornare in quella caverna. Poco importava, per lui sarebbe andato benissimo per la notte. 

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Capitolo 5
*** Dicembre ***


Dicembre

 

 

Le settimane erano passate, portando con sé il Giorno del Ringraziamento, che trascorse rapido come un battito di ciglia. E adesso si stavano avvicinando le vacanze di Natale a una velocità sbalorditiva. In quell’occasione i Lestrange avevano deciso di recarsi in Arizona per partecipare all’annuale riunione di famiglia natalizia. Per il giovane era stato spiacevole lasciare i suoi nuovi amici. Ma comunque sarebbero rimasti in contatto, quindi non si preoccupò troppo. Il giorno prima delle vacanze di Natale si sarebbe tenuto il Ballo d’Inverno. Pensò che sicuramente l’avrebbe rincontrata lì. Ma non avvenne. Per dimenticarsi della delusione cercò di divertirsi e lo fece fino a che, al ritorno a casa, aveva bell’e dimenticato il motivo della sua sofferenza. Sean aveva rivisto i suoi cugini e i suoi nonni. Aveva ricevuto un set da pittore con tanto di tempere e acquerelli e matite acquerellabili che avevano l’aria di essere parecchio costosi. Invece Erol un maglione nuovo e una nuovissima consolle con dei videogame. Eppure, tra una festa e un cenone e l’altro, i due ragazzi non presero nemmeno un chilo. Avevano un metabolismo molto veloce. E poi, tornarono a Hay River. La casa non era ancora pronta. La buona notizia era che era già abitabile, e che potevano usufruire dell’impianto elettrico e idraulico e del riscaldamento e molte assi marce erano state sostituite. Pure i topi e i vari abitatori erano stati sfrattati dalla ditta di disinfestazione che avevano chiamato mesi prima. In compenso lui e suo fratello avevano imparato ad amare il freddo, la neve e a giocarci. Sean approfittava della neve per stendersi finché non sentiva che il calore corporeo la scioglieva e impregnava di gocce d’acqua i capelli mossi che aveva un po’ accorciato in quei giorni. E ripensava a lei, e molto spesso, si ritrovava a sospirare. Finché poi non gli arrivava una palla di neve in faccia e si risvegliava dal suo incanto, per scagliarsi contro di colui che l’aveva centrato e placcarlo per coinvolgerlo in una gigantesca battaglia di palle di neve con grida, scoppi di risa e imprecazioni vari.  Ma una volta finita riprendeva a pensare a lei, e molto spesso, si ritrovava a sospirare. Finché poi non gli arrivava un’altra palla che lo risvegliava per ricominciare a giocare.  

 

***

 

I due coniugi erano contenti che i loro figli giocassero assieme. Era da molto tempo che non li vedevano così uniti. Era come se il tempo fosse tornato indietro e gli avesse restituito i loro bambini. Dean e Sarah li guardavano fuori della finestra. Un momento di gioia in mezzo a tanta disperazione. Gli assassinati potevano essere molti di più di quelli che avevano rinvenuto, data la sua propensione a lasciarli a marcire nella foresta. E non tutti avevano avuto la solita veloce morte. Non si poteva fare a meno di pensare a chissà quanti altri non erano stati ritrovati ed erano scomparsi per sempre. Chissà quanti cadaveri e quanto sangue celavano quei boschi che quei selvatici cittadini conoscevano bene quasi come le loro tasche. Aveva mietuto così tante vite che perfino i poliziotti avevano paura di lui.

 

***

 

Terrence affondò nel soffice manto nevoso. Sbuffò e vide il suo fiato elevarsi nell’aria fino a scomparire. I fiocchi cadevano leggeri come piume tutti attorno a lui e su di lui, come se non avessero avuto paura. Era una cosa degli elementi che aveva sempre amato: la capacità di infischiarsi se la cosa che toccavano fosse buona o cattiva. E adesso che i capelli e la barba erano ricresciuti si sentiva sempre più sé stesso. Lo aveva piacevolmente scoperto quella mattina, quando si era alzato e si era lavato la faccia nella bacinella che usava a mo’di bagno. Poi aveva alzato la faccia e i suoi occhi si erano posati sulla propria immagine riflessa, restituitagli da uno specchio rotto e scheggiato. «Bentornato, vecchio mio!» Si era detto sorridendo.  

Anche rivedere le proprie unghie di nuovo lunghe e sporche di terriccio e altra lordura lo faceva sentire a proprio agio. L’unica pecca era che a un certo punto dell’anno necessitava comunque di lavarsi per evitare di vomitarsi addosso.

Quella radura sembrava uscita da uno di quei triti film natalizi che fioccavano in quella stagione. Una parte di sé pensò che era molto tempo che non vedeva la TV. Ma non era che gli importasse tutto questo granché. Non facevano altro che ripetere i soliti programmi triti e ritriti da un trentennio a quella parte. Anche se arrivava a capire anche lui che erano cambiate molte cose dal 1976. Di solito s’imponeva di non pensarci perché farlo, gli procurava dolore. Anche lui alle volte sentiva il bisogno di un contatto umano. Ma ormai non poteva, pochi lo sapevano, ma a volte, se la sua vittima era un’avvenente ragazza o comunque era dotata di quel tipo di corpo che suscitava le sue voglie, prima di ucciderla la seviziava. Una volta raggiunto l’amplesso le ficcava una freccia nell’occhio che aveva preventivamente estratto dalla faretra e usato per minacciarla prima di passare al dunque. Di solito le prendeva da dietro, sempre che non avessero gli occhi verdi e lui particolare voglia di immergersi nelle proprie fantasie. Allora diceva alla donna di ripetere tutto quello che lui le comandava di dire. E alla fine, come da copione sussurrava comunque: «Non ti credo, brutta puttana!» E continuava fino a finire sempre nello stesso modo. Per giustificarsi a sé stesso diceva: «Meglio questo che farsela con gli animali. Sapendo le malattie che portano» E così si metteva l’animo in pace.

Ma quel giorno non sentiva la necessità di occuparsi delle proprie voglie. In quella stagione nessuna ragazza sarebbe passata. E lui doveva andare a cercare l’occorrente per fabbricarsi altre frecce.

Costruirsele gli dava una specie di senso di pace, anche se a volte risvegliava ricordi che avrebbe preferito lasciarsi alle spalle. Ricordi delle sue manine paffute di bambino impegnate in quella stessa operazione; manine che spesso finivano per ferirsi da sole e altre, esangui e sfumate di un verde percepibile soltanto se si guardava molto attentamente, accorrevano, pronte a medicarlo e asciugare le sue lacrime. Quelle mani dolci e delicate come neve che si scioglie al sole lo incantavano ancora adesso che ci pensava.

«Ma no, non così.» Lo consolava poi una sorridente voce femminile.

«Non ci riesco!» Aveva detto buttando via gli attrezzi e il bastone. Ma la forza era quella che era, perciò, anche perché li lanciò malissimo, la sua opera atterrò ai suoi piedi, rimbalzando sul terreno. Il bambino ci saltò sopra nella speranza che si spaccasse, ma il legno era troppo duro anche per quello. Così alla fine si arrendeva e tornava seduto da lei che finalmente diceva: «Non è vero, devi solo fare pratica».  

«Non è vero, sono un incapace».

Non sapeva neanche lui da dove lei trovasse tutta quell’infinita pazienza. Era persino più paziente di sua madre. Ma dopotutto era stata lei a dargli una ragione per lottare. «Soffiati il naso.» Diceva soltanto ma senza toni riprovevoli.

«Non so come si fa!» Aveva esclamato lui. Allora la donna si era spostata di fronte a lui, aveva recuperato un lembo del proprio abito e gliel’aveva soffiato e tamponatogli gli occhi con delicatezza. Infine si era allontanata alla fontanella per gli animali per sciacquarsi ed era tornata. Nel frattempo che lui aveva fatto di tutto per tirare su col naso e smettere di piangere.    

Ricordava ancora come a quel punto i suoi occhietti di bimbo s’inumidissero e di come lei si spostasse per abbracciarlo da dietro, inglobandolo quasi. Poi, senza dire una parola gli prendeva le manine e le usava per recuperare il coltellino e il bastone. E, guidandole con gesti esperti, riprendeva a lavorare, correggendone gli sbagli e lasciandogli andare la mano solo per pulirgli gli occhi dalle cispe. Il ragazzino smise di piangere mentre lei gli spiegava che costruire un arco era difficile. Bisognava trovare il legno giusto, armarsi di tanta pazienza. «E poi a volte buttare tutto via lo stesso».

«Quindi anche tu a volte sbagli?»

«Tutti sbagliano».

«A sentire i miei sembrerebbe di no.» La sentì aprire e richiudere bocca molte volte nel tentativo di dire qualcosa. Allora si chiese perché non dicesse niente. Adesso non aveva alcun problema a immaginare quello che gli avrebbe detto se fosse stata più insensibile. Ma allora si limitò a dire: «Allora cerca di imprimerti nella memoria i movimenti che stiamo compiendo, così un giorno sarai capace di costruirteli anche da solo».   

Era arrivato al posto che gli serviva. Non era stato facile ma ne era valsa la pena. Alla fine ne valeva sempre. Si guardò attorno circospetto. Quelle foreste innevate potevano essere pericolose persino per lui, che le conosceva a menadito. Non si poteva mai sapere se un puma l’avrebbe attaccato. Forse lo stava spiando proprio in quel momento. Colto da un sospetto, incoccò una delle ultime frecce e si volse di scatto. Ma senza trovare niente. Peccato. Se almeno fosse stato un animale, avrebbe rimediato la cena. Ormai era talmente abituato a mangiare quella roba da non sopportare neanche più il cibo normale. Che poi, pensandoci bene, ricordava a malapena. 

Rimise a posto la freccia. 

Si sentiva un po’deluso. Non solo dalla fauna ma anche dalla specie umana. Era tanto tempo che nessuno metteva piede nella foresta.

Ed evitare quegli idioti dei poliziotti era stato un gioco da ragazzi. I loro cani poi li aveva uccisi tutti. Gli era dispiaciuto, è vero, ma l’aveva fatto per necessità. Non voleva essere catturato. Non ancora. Prima voleva attuare la sua vendetta. Poi magari si sarebbe lasciato catturare, o magari sarebbe espatriato in Alaska. Boh? Una cosa alla volta. Non era capace di elaborare più strategie insieme. Le sue strategie e capacità avevano un limite. Prima doveva trovare la sua vittima, vendicarsi nei modi più sadici possibili che conosceva e soddisfare tutte le sue voglie e domande represse fino a quel momento.

Finora aveva fatto tutte quelle stragi solo per attirarla. Ma non era servito a niente. Buttò a terra l’arco in un gesto di stizza. Possibile che fosse così insensibile? Emise un verso di stizza e lo raccolse, spolverandolo dalla neve. Poi si decise ad andarsene da lì, che stava cominciando a gelare.

 

***

 

Il ritorno per Erol fu una sofferenza a metà. A metà perché frequentava ancora la bella barista che aveva rimorchiato quella notte di Halloween e che non aveva ancora mollato, e i suoi nuovi amici servi. Però gli dette un gran fastidio che ricominciasse la scuola. E la prima cosa che fece appena rimise piede in paese, fu andare a cercare quei boccaloni per farsi una canna. Erol non era un tabagista vero e proprio, però gli piaceva fumare. E i suoi amichetti avevano le migliori canne che avesse mai provato. Davvero, le adorava. E la barista era ancora brava come ricordava. Era come se in tutti quegli anni non avesse fatto altro che darla, per essere così brava. Era per questo che non l’aveva ancora lasciata. Missy, ecco, forse era così che si chiamava.

Ma si ripromise di farlo se lei avesse mostrato segni di sentimento che l’avrebbero costretto a legarsi a lei. Fosse anche rimasta incinta di lui, Erol l’avrebbe costretta ad abortire. Non avrebbe usato le mani, chiariamoci, ma l’avrebbe convinta con le parole. Era un bravo oratore. Anche lei si sarebbe piegata a lui. Ma quell’eventualità, fortunatamente, non si era ancora presentata.

Era a questo che pensava mentre ascoltava l’mp3 accomodato sul sedile posteriore accanto al fratello minore e godendosi il calduccio dell’auto riscaldata, quel giorno che tornavano da scuola. Pensava che sarebbero tornati nello squallido motel dove avevano passato quei mesi e aveva dovuto dividere la stanza con suo fratello.

Era stata una vera seccatura ritrovarsi circondato dagli attrezzi da artista di Sean. Una volta aveva pestato per sbaglio un’appuntalapis di metallo. Non aveva avuto nemmeno un attimo per occuparsi di sé stesso - e non solo dal punto di vista estetico. Nemmeno per fumare un po’ alla finestra che quel rompicoglioni salutista avrebbe fatto la spia. Ma perché era nato in quella casa di pazzi? Tra suo padre poliziotto, sua madre dalla salute cagionevole e suo fratello artista non sapeva decidere chi fosse il più matto. Insomma, stava pensando a questo quando notò che non si erano fermati al motel. Ma che anzi, stavano andando avanti. Il diciannovenne aggrottò le sopracciglia con aria perplessa. Pure Sean se ne accorse.

Erol si rivolse al padre che guidava: «Papà, ma il motel è qua».
«Lo so, ma l’impresa di ristrutturazione ci ha informati che una parte della villa è tornata ad essere abitabile. Quindi da adesso andremo a stare là, contenti?»

«Avremo di nuovo due stanze?» Domandò trepidante.

«Sì.» Erol esultò e Sean sorrise. 

 

***

 

Tornarono alla villa. Adesso era quasi pronta. Non c’era più traccia di nessun ratto e parassita. Ma le fastidiose ringhiere decorative persistevano ancora. Questo perché la mamma aveva voluto che fossero sostituite con alcune nuove. «Per nulla togliere alla villa», aveva detto. Anche se la sostituzione andò ad assommarsi ai costi della ristrutturazione e il signor Lestrange fu costretto a firmare un bel quantitativo di cambiali.  

Anche la disinfestazione aveva voluto farsi pagare profumatamente. Se non altro avrebbero potuto avere delle stanze separate. E il bello era che avrebbero potuto scegliersi le proprie. Sarah fece entrare i figli che andarono subito alle rispettive stanze mentre il loro padre tornava al motel a recuperare le loro cose; o almeno la maggior parte di esse. Se mancava qualcosa - e sicuramente sarebbe stato così - sarebbe tornato a prenderla.

Erol volò su per le scale e si appropriò della stanza al secondo piano, la più grande, che aveva già adocchiato qualche mese prima. Sean invece salì nuovamente fino al terzo e ritrovò la sua porticina. Aprì e fu lieto di tornare nella torretta che si era scelto come camera. Rimase a bocca aperta mentre prendeva nuovamente confidenza con il paesaggio circostante dalle ampie finestre. Gli aspri monti dai profili ora aguzzi ora smussati, colorati dai raggi del sole, erano semplicemente magnifici, sembravano spuntare come denti dalle gengive bianche, verdi e marroni che erano le colline. Chissà come doveva essere in primavera. Si avvicinò alla finestra, estatico e cancellò con la mano il fiato sul vetro. Ancora una volta si ritrovò a pensare che anche se Erol si era accaparrato la stanza più grande, lui si era preso quella ideale. Sorrise pensando alla moltitudine di opere che quel magnifico paesaggio avrebbe potuto ispirargli. E il suo sorriso si trasformò in un ghigno al pensiero della sua faccia verde di gelosia, quando gli avrebbe detto della sua nuova camera. E la soddisfazione raggrinzì il suo volto in un sorriso quando gliela mostrò. Il fratello maggiore gli chiese di fare cambio stanza ma Sean ribatté: «Troppo tardi, Erol, quella me la tengo io».

 

***

 

Dean era appena tornato da un giorno, e già avevano preso ad assalirlo al lavoro. Fortunatamente non era successo niente di che durante la sua assenza. Persino Terrence sembrava andato in vacanza. Era bello starsene in panciolle in ufficio senza che accadesse niente di niente, a gustarsi il caffè e le ciambelle che gli facevano alzare il colesterolo, morso per morso. Ma sapeva che quella tregua sarebbe durata poco. Presto avrebbero ripreso le ricerche. E presto avrebbe dovuto infilarsi in quella labirintica tormenta gelata che era la foresta.

 

***

 

Quand’è che Jackie si era accorta di essersi infatuata del taciturno, esotico e misterioso Sean Lestrange? Forse il primo giorno di scuola. Si era accorta a malapena che non faceva altro che fissarlo e che, a mano a mano che lo conosceva, si rendeva conto che era un tipo interessante.

Cioè, nessuno si sarebbe mai messo in testa di rifiutare di pomiciare con Haley Wilson. E si stupiva del suo enorme sollievo. Cioè, ok che non c’era nessuno d’interessante da quelle parti ma Sean non era il suo tipo. A lei piacevano i ragazzi alti, muscolosi, con bei capelli biondi come raggi di sole e gli occhi azzurri fiordalisi. I classici bellocci attorniati da uno stuolo di amici e ammiratrici che si vedevano in TV. Non quei ragazzi che non avrebbero chiesto niente di meglio che scomparire tre metri sotto terra, sfuggenti, evanescenti, mori e con gli occhi scuri. E poi quella G strascicata che pareva una J, che contribuiva di molto ad addolcirne la pronuncia. Ma anche per quell’aria sempre pensierosa e intelligente. A volte pure un po’imbronciata che le facevano pena. Nessuna ragazza si era interessata a lui e questo l’aveva fatta felice, anche se aveva suscitato in lui una grande pena. Sembrava quel tipo di persona che per qualche strano intrinseco motivo sarebbe rimasta sempre a fare da tappezzeria e osservare. Domandandosi forse se un giorno sarebbe mai stato felice anche lui.  Mentre lei era al centro dell’attenzione e della vita e questa domanda neanche se la poneva. A volte, più di altre, avrebbe voluto fargli provare tutto quello che si stava perdendo. Un’altra cosa che le piaceva di lui era che non pendeva dalle sue labbra. Si infischiava di quello che avrebbe detto la gente solo perché mangiava verdura a mensa, rischiando di prendersi i vermi. Se ne andava a giro su una meravigliosa Kawasaki nera e lucente. E poi era intelligente e timido in quel modo che scatenava un’immediata simpatia. Ed era un artista. Non aveva mai conosciuto un artista prima d’ora.

A differenza di quella gentaglia, lui aveva qualcosa da dire. Li aveva sempre visti strani per definizione, con tutta quella storia del dolore alla base della loro arte. Quindi lei s’immaginava gli artisti, in questo caso i pittori, come tanti Van Gogh o Frida Kalo o quello che tagliava le tele. Adesso che conosceva Sean si rendeva conto che era quello che l’avevano abituata a credere. Sua madre aveva fatto una faccia strana appena gliene aveva parlato. Ma era perché nei paesini come quello i forestieri non erano ben visti. Anche se erano figli di figli di Hay River. Diciamo che c’era una specie di campanilismo. E se i bravi cittadini potevano soprassedere su molte cose, non potevano passare sopra questo. Perciò, almeno in casa sua, l’argomento Sean & parenti, era diventato tabù. Era stata proprio Jackie a supplicare i parenti, noti pettegoli, di non parlarne più. I quali avevano acconsentito un po’preoccupati per quella richiesta.

Anche se finora Sean non aveva manifestato nessun comportamento anomalo o stravagante.  Era contenta di essere amica sua ma come sarebbe stato come fidanzato? Non era la prima volta che si scopriva a pensare a lui a quel modo. Era da un po’ che la loro amicizia non le bastava più. Da dopo Halloween per la precisione. Da quando l’aveva intenerita con la sua goffaggine. Da allora aspettava con impazienza un suo sms o telefonata e si rileggeva ogni messaggio che si erano mandati, ogni conversazione, ogni microscopico dettaglio alla ricerca di un segno che indicasse lo stesso sentimento che provava lei.

Per questo fu felice di ricevere il suo messaggino di auguri di buon Capodanno. Rispose all’sms e poi andò a festeggiare con gli altri, adesso sì che il nuovo anno cominciava bene. E ricevere qualcosa da Sean, che fosse solo un’occhiata o un banale, innocente sms di auguri, per lei valse più di una scopata da ultimo dell’anno. Anche se dovette fare una faccia strana perché la sorellina si svegliò a causa della luce del telefono e cominciò a prenderla in giro.

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