Agents of Inquisition

di StregattaLunatica
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In sella ***
Capitolo 2: *** La sopravvissuta ***
Capitolo 3: *** Shemlen ***
Capitolo 4: *** Mors tua vita mea ***



Capitolo 1
*** In sella ***


Lafka alzò gli occhi verso il cielo, trovandosi costretta a socchiuderli per via dei raggi del sole nascente.
Abbassò il capo, tornando a finire di sistemarsi lo spallaccio destro, stringendo le cinghie di cuoio per far si che fosse correttamente assicurato.
Lafka era una donna alta, dal fisico allenato e scolpito come quello di ogni guerriero a due mani che si rispetti. I capelli lunghi e biondi legati in una spartana coda di cavallo, con alcune ciocche ribelli che se ne andavano da tutte le parti. Sul volto spiccavano due grandi occhi dal colore particolare, a prima vista castano scuro, ma quando vi si rifletteva la luce spiccavano delle sfumature vermiglie. Sulla tempia sinistra aveva il tatuaggio argenteo di un drago, che partiva appena sopra il sopracciglio, per poi terminare all'altezza dello zigomo. Sotto agli occhi due lunghe lacrime cremisi, che le sfioravano la mascella.  
L'alba era sorta da poco, e lei ed i suoi compagni di viaggio stavano smontando velocemente il campo, improvvisato per la notte.
«Non ci hanno seguiti.» disse Hall, sbucando praticamente dal nulla, grazie al suo passo felpato. Lafka non voltò nemmeno il capo per guardarlo nel rispondergli «Probabilmente hanno capito che non siamo pane per i loro denti.» commentò in risposta. Il giorno prima erano stati seguiti dal alcuni banditi, che avevano poi cercato di attaccarli...con scarsi risultati e parecchio sangue non previsto.
Hall andò a controllare i cavalli, aveva un buon ascendente sugli animali, probabilmente qualche trucchetto che gli avevano insegnato gli elfi Dalish con i quali era cresciuto.
Lui invece era un uomo dal fisico asciutto, ma tonico e scattante per via dell'addestramento al quale era stato sottoposto sin da giovane. Una zazzera di capelli castani gli solleticavano le spalle, il volto perfettamente glabro.
Le sue orecchie presentavano una singolare mutilazione. Esse erano state tagliate in modo che il padiglione, anziché essere ovale, risultasse triangolare.
Uno sguardo pungente ed attento, coronato dalle iridi color nocciola con svariate venature verde chiaro. Indossava abiti semplici, un armatura leggera ma che dava una buona protezione. Sulla schiena una faretra, ed a tracolla il suo arco lungo. Esso era all'apparenza di fattura semplice, con l'impugnatura rinforzata da alcune placche ossee sia per decorazione sia per permettere alle frecce d'esser posate e garantire più precisione. In realtà, l'arco era fatto di legnoferro, un tipo di legno raro e molto resistente che solo gli artigiani Dalish sanno modellare in modo che ne venga un arco sublime.
Ma per quanto la sua influenza fosse positiva sulle bestie, quella della loro terza compagna spesso vanificava i suoi sforzi.
La maga si fece avanti, andando a sistemare le coperte avvolte su loro stesse dietro alla sella del proprio cavallo. La bestia nitrì nervosa per la sua sola vicinanza, raspando a terra con lo zoccolo destro per mostrare il suo disappunto.
Lei aveva una carnagione pallida, il fisico morbido di chi ha passato più tempo sui libri che non sul campo di battaglia. I lunghi capelli neri e lisci le ricadevano ordinatamente dietro la schiena, mentre alcune ciocche messe ad arte ne sfioravano le guance e la punta del naso. L'azzurro dei sui occhi era tanto chiaro da farli sembrare vitrei. Le labbra carnose spiccavano sul volto, decorate con un colore molto scuro.
Lafka finì di sistemarsi l'armatura, per poi rimetter lo spadone a due mani nel fodero dietro alla sua schiena. L'arma era di mirabile fattura, opera di fabbri nanici. La lama era di silverlite, un materiale molto prezioso e pericoloso, leggermente ricurva, con alcune rune incise nel metallo che risplendevano durante la battaglia. L'elsa ed il manico color bronzo, impreziosita con alcune pietre grezze di un intenso color rosso fuoco. «Forza, proseguiamo.» disse con decisione ad entrambi, salendo sul dorso del suo destriero dal manto color miele.
L'arciere montò in sella con un fluido ed agile movimento, mentre la maga salì con più calma, avendo l'accortezza di scostare la gonna della lunga veste per accomodarsi. Ella diede un colpo deciso ai fianchi del cavallo coi talloni, per poi stringerne le briglie e portarlo in testa al gruppo.
Erano stati mandati a compiere una missione per conto dell'Inquisizione a Nevarra, ed essendo la maga natia proprio di quel luogo, faceva loro da guida per la regione.
Lafka osservò le colline stagliarsi di fronte a loro, pensando al fatto che le tecniche che avevano imparato lei e gli altri cultisti di Heaven per combattere, erano proprio nate li, a Nevarra.
Strinse le briglie del cavallo, incentivandolo a muoversi per accostarsi agli altri due. Abbassò lo sguardo vermiglio sull'arma della maga, fissata saldamente alla sua sella.
La staffa era composta da un lungo ramo lavorato di sambuco, avvolta con delle cinghie di cuoio sulla quale erano incise alcune rune. Su di un estremità vi era una gemma di quarzo ametrino grezzo, che emanava inquietanti riflessi neri. Nell'estremità opposta, invece, era fissata un affilata lama seghettata da entrambe i lati.
«Veeta» la chiamò, distogliendo lo sguardo dalla sua arma. La maga si limitò a voltare il capo verso la guerriera, mentre Hall seguiva lo scambio di parole fra le due donne in silenzio, giocherellando con l'impennaggio di una delle sue frecce. «Quanto manca ancora per raggiungere Hunter Fell?» Veeta allungò il braccio destro, indicando un punto preciso a nord ovest. «Abbiamo la città di Trevis alle nostre spalle, perciò entro il tardo pomeriggio dovremmo essere a Hunter Fell. Se non incontriamo problemi...» lasciò la frase in sospeso, ed i tre si guardarono per un attimo. Hall scoppiò a ridere, dandosi una pacca sulla gamba e piegandosi in avanti fin quasi a toccare con la fronte il collo del cavallo.
Lafka e Veeta si limitarono ad un mezzo sorriso invece, il loro compagno era decisamente più espansivo e solare.
Quando mai non si incontrano problemi?
L'inquisizione li aveva spediti tutti e tre a Nevarra,  per investigare riguardo delle voci preoccupanti.
Un mago del Tevinter di nome Virellius, era stato recentemente notato in compagnia del Re Markus, ed alcune voci fecero notare quanto fosse strano che si parlasse così tanto di un nuovo consigliere.
C'erano delle prove che indicavano Virellius come un membro dei Venatori.
Avendo i Venatori il Re del Nevarra sotto la loro influenza, egli donò al loro culto un grande potere, impedendo all'Inquisizione di esercitare al Nord di Nevarra per investigare al riguardo.
Ma loro tre, non portavano alto il vessillo dell'Inquisizione, agivano in incognito.
Era la prima volta che compivano una missione assieme, e di conseguenza ancora non si conoscevano.
Si erano visti per la prima volta a Skyhold, la fortezza principale dell'Inquisizione, nella Sala di Guerra. Erano stati convocati lì da Leliana, la donna a capo delle spie e degli assassini che regolava alcune missioni, quelle che dovevano svolgersi nel modo più rapido e discreto. E l'Inquisitore, aveva scelto quest'opzione per risolvere la cosa.

«Allora.» disse Hall, mentre tagliava a spicchi una mela gialla con un coltello, rompendo il silenzio che si era formato. «Sono in viaggio con due splendide donne...» fece loro un sorriso smagliante, gli occhi che brillavano nel tentativo d'ammaliarle col suo fascino da briccone, che spesso aveva portato molte donne fra le sue braccia.
«...delle quali però non so nulla, a parte il fatto che devono essere davvero facoltose, se si sono unite o sono state scelte dall'Inquisizione. Oppure, davvero pericolose.» lui e Lafka si squadrarono, mentre la maga continuava imperterrita a leggere da un grosso tomo, per nulla infastidita dall'ondeggiare del cavallo.
«Vuoi dire che tu ti sei unito di tua volontà?»
«Tu no?» replicò l'uomo sollevando un sopracciglio con sguardo incuriosito.
La guerriera scosse il capo, sul volto le passò un ombra dovuta ai ricordi del passato. «Decisamente no.» Anche Veeta si fece più attenta, distogliendo l'attenzione dal libro.
Lafka sentì i loro sguardi puntati addosso e scrollò le spalle, come se potesse levarsi di torno la sensazione. «Non vorrete davvero sentire tutta la storia di come sono finita qui?» chiese con tono di voce ironico. Hall annuì energicamente, mentre il sorriso andava ad ampliarsi sul suo volto. Veeta, invece, si limitò ad alzare le spalle, nonostante nello sguardo vitreo vi fosse una stilla d'interesse.
Lafka li squadrò ancora un istante, per poi scuotere il capo con un sorriso rassegnato sulle labbra. «E va bene...»

 
Note d'autore:
Grazie per aver letto il primo capitolo!
Agents of Inquisitions è una FF che ho ripescato nella memoria esterna del mio computer dopo moltissimi anni.
La scrissi in uno slancio di ispirazione ancor prima che uscisse Dragon Age Inquisition, basandomi solamente su poche immagini ed indiscrezioni pubblicate nell'attesa.
Perciò probabilmente alcune cose non collimeranno con ciò che accade poi effettivamente nel gioco
(Come ad esempio i nomi della Distruttrice e la Necromante, personaggi di cui avevo solo visto le immagini dei "tarocchi")
Rileggendola ho avuto una botta di nostalgia, ed ho deciso di pubblicarla nonostante inizialmente l'avessi scritta solo per divertimento personale.
Spero il primo capitolo vi sia piaicuto! Non esitate a lasciare un commento con i vostri pensieri al riguardo, che siano positivi o meno!
 

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Capitolo 2
*** La sopravvissuta ***


Il colpo venne inflitto con violenza, ed il corpo della ragazzina avvertì all'istante il cieco dolore diramarsi lungo tutto  il suo corpo a partire dalla bocca dello stomaco.
Lasciò cadere a terra le armi d'allenamento, mentre si piegava in due cadendo in ginocchio. I gemiti di dolore venivano interrotti dai suoi forti colpi di tosse, e dal rumore secco e raspante del respiro che tentava di tornare nei suoi polmoni.
«Non sei abbastanza concentrata.» disse una voce profonda e perentoria, mentre l'ombra di un uomo andava a stagliarsi su di lei.
La piccola sollevò lo sguardo, mentre riprendeva a respirare sempre più regolarmente. L'uomo di fronte a lei aveva un fisico massiccio e scolpito. Nonostante fossero circondati dal freddo e dalla neve, lui indossava una casacca leggera, come se il freddo non riuscisse a toccarlo. Capelli corti castano scuro, una barba curata che però veniva tagliata in due alla guancia destra, per via di un ampia cicatrice che attraversava il suo volto. Gli occhi mandavano riflessi cremisi, sopratutto quando l'ira deformava i suoi tratti.
Si chinò, protendendo la mano destra per porgerla alla ragazzina. «Devi sempre, essere concentrata.» le disse mentre questa accettava l'aiuto per risollevarsi da terra. «Od i tuoi nemici approfitteranno della tua distrazione. E non saranno clementi con te.» la piccola annuì decisa, stringendo i piccoli pugni lungo i propri fianchi. «Si, padre.»
L'uomo sostituì il cipiglio severo con un sorriso bonario, mentre le scompigliava i capelli biondi della figlia, acconciati con due pratiche trecce. «Forza Lafka, torniamo a casa.» 
La famiglia di Lafka viveva ad Heaven, un piccola ed isolata cittadina montana nel regno del Ferelden. Quasi nessuno ne conosceva l'ubicazione, era solo uno dei tanti villaggi senza nome sulla mappa, nelle Montagne Gelide.
Ma Heaven, non era una cittadina qualsiasi.

Quando la sposa terrena del Creatore, Andraste, venne tradita e messa al rogo, uno dei suoi discepoli portò le sue sacre ceneri alle Montagne Gelide, mettendole al sicuro dall'Impero del Tevinter.
Con gli anni però, uno dei cittadini asserì che Andraste era rinata, al contrario di ciò che affermava la Chiesa. Quest'uomo accolse attorno a se molti discepoli che condividevano la sua opinione,  influenzando in fretta l'intero villaggio. Egli mostrò loro colei che riteneva la reincarnazione di Andraste, un imponente e magnifico Alto Drago.
Sicuri che gli altri non fossero degni di conoscere la verità, la cittadina negli anni si chiuse in se stessa, disprezzando i forestieri che cercavano di ficcanasare.
I Cultisti, questo era il nome che avevano scelto, si addestrarono nel combattimento non solo per proteggere il villaggio, ma anche per tentare di penetrare nel tempio delle Sacre Ceneri posto sulla Montagna. Un Guardiano immortale impediva loro l'accesso, sapendo che avevano intenzione di appropriarsi delle Sacre Ceneri per profanarle. Convinti che le ceneri impedissero alla reincarnazione di Andraste di riavere tutti i suoi poteri, volevano appropriarsene per versare al loro interno una fiala del suo sangue.
Difatti, i Cultisti, utilizzavano un singolare potere e stile di combattimento che nel Ferelden era conosciuto solo tramite l'apprendimento di tomi storici e leggende. Loro, erano dei Distruttori.
I primi Distruttori nacquero a Nevarra, uno stato più o meno al centro del Thedas, posto ad est dei Confini Liberi, ed a Sud del Tevinter. Erano cacciatori di draghi, che bevvero il sangue delle loro prede per sfruttare un potere che l'uomo, non immaginava potesse esistere.
I semplici guerrieri potevano anche cercare di controllare l'energia che scorreva attraverso il loro corpo, l'adrenalina, ma non era un percorso semplice. Ed i Distruttori, controllavano una forza ancora più grande. 
Imparando a sfruttare il proprio dolore e le loro ferite, cercavano costantemente l'equilibrio in un sacrificio personale che non annientasse totalmente il loro corpo. Inizialmente sembrava che facessero parte del lavoro dei loro nemici, danneggiandosi in maniera raccapricciante. Ma erano in grado di tramutare la loro essenza vitale in una vera e propria arma, per poi rubare l'essenza stessa dei loro avversari. La loro forza era anche la loro debolezza, una scommessa pericolosa che contava sul fatto che riuscissero ad annientare i loro nemici prima che rischiassero di annientarsi da soli. L'armonia che coronava il loro combattimento era brutale, più erano vicini alla loro morte, più erano efficienti.

Lafka si stava allenando al combattimento, proprio per vedere se da grande sarebbe riuscita ad ottenere l'onore di unirsi ai ranghi dei Cultisti che usufruivano dei poteri del sangue di drago.
Anche se proveniva da una famiglia i cui membri facevano già attivamente parte dei Cultisti, non era scontata l'ammissione.
Una volta che i ragazzini raggiungevano l'età di sedici anni, venivano riuniti dinanzi i membri del loro culto ed i guerrieri affermati, per un brutale torneo. Coloro che venivano ritenuti degni, venivano accolti fra i loro ranghi.
Lafka iniziò ad allenarsi quando aveva appena sette anni assieme al padre, un Cultista affermato della loro setta.
A sedici anni partecipò al torneo assieme a molti altri, e si fece notare per il suo sangue freddo e per aver steso un ragazzo che era circo il doppio di lei. Rese fiera la sua famiglia, ed anche con i brutali sistemi dei Distruttori si fece notare fra i loro ranghi come una delle migliori guerriere a due mani che avessero mai visto.
Anni dopo però, la loro tranquilla cittadina venne disturbata dalle domande di uno studioso della Chiesa, Fratello Genitivi. Egli conduceva una ricerca sulle Sacre Ceneri, con l'intento di riportarla alla luce e condividere il suo sacro potere con i fedeli della Chiesa.
I Cultisti, ovviamente, non gradirono il suo ficcanasare.
Lo imprigionarono, con l'intento di far si che di lui si perdesse ogni traccia, prodigandosi anche nel porre un suo falso assistente nella sua casa per depistare chiunque lo cercasse. Ma la situazione, era destinata solamente a peggiorare.
Un nobile del Ferelden, Arle Eamon, venne avvelenato, e la moglie inviò i cavalieri del loro castello alla ricerca delle ceneri. La leggenda, assolutamente vera, affermava che solamente un pizzico d'esse, potessero guarire ogni malattia.
I Cultisti si prodigarono per eliminarli uno ad uno, ma stava per giungere qualcuno con i quali non sapevano di non poter competere.
Uno straniero che in seguito venne conosciuto come l'Eroe del Ferelde, un Custode Grigio, riuscì a seguire la pista di Fratello Genitivi, sino a giungere alla città di Heaven. Arrivò con un manipolo di compagni, che riuscirono a farsi strada fra i Cultisti, liberare Fratello Genitivi e prendere un pizzico delle Sacre Ceneri.
Molti perirono sotto i loro colpi, incluso uno dei loro leader, Kolgrim. Come se non bastasse loro lo spregio fatto al loro culto, riuscirono ad abbattere anche l'Alto Drago.
I Cultisti caddero in preda allo sconforto ed alla disperazione. Lafka assistette al declino morale della sua gente, mentre si prodigavano nel conservare il corpo dell'Alto Drago pregando al miracolo perchè la sua anima facesse ritorno.
Dopo che venne pubblicata la ricerca di Fratello Genitivi, la Chiesa mandò i Templari ad Heaven per ripulire il villaggio dalla blasfemia dei Cultisti. Lafka guardò con orrore l'invasione da parte dei guerrieri della Chiesa.
«Prendeteli! In nome del Creatore!» urlava il comandante dei Templari mentre i soldati mettevano a ferro e fuoco il villaggio, trascinando gli abitanti fuori dalle loro case con violenza.
Lafka, assieme al padre ed agli altri Cultisti, tentava una disperata difesa. Ma non facevano altro che perdere terreno in ogni momento che passava. «Dovete resistere! O ci ammazzeranno tutti come cani!» urlava il padre della guerriera, mentre menava la spada contro gli uomini parando i loro attacchi con lo scudo. Feriti ed esausti, cercavano in ogni modo di sfoltire le file nemiche. «Lafka! Prendi i tuoi uomini e vai al tempio! Prendete i sacerdoti e scappate!» urlò verso la figlia mentre decapitava con un sol fendente l'uomo che gli si opponeva. Lafka respinse uno dei nemici spingendolo con forza sino a farlo cadere sulla lama di uno degli altri Cultisti «Padre, non potete farcela da soli! Sono in troppi, anche per voi!» l'uomo la prese per il pettorale dell'armatura, strattonandola verso di se ed urlandole in faccia «Lafka! Non sono solo tuo padre, ma sono anche il tuo superiore! Ora fai quello che ti dico e vattene! Sono stato chiaro!?» la spinse via, verso il sentiero che risaliva la collina verso il tempio. Un lampo di confusione passò nello sguardo della donna, mentre il padre la guardava in silenzio. «Vado...padre.» si scambiarono uno sguardo significativo, poi lui le annuì, e tornò alla battaglia. «Uomini! Con me!» urlò Lafka sollevando la spada a due mani per attirare l'attenzione dei suoi uomini su di se.
Quand'erano quasi in cima alla collina, sentirono il clamore della battaglia infuriare sotto di loro, e la guerriera si azzardò a voltarsi.
Vide i Templari distruggere le difese dei Cultisti, come un fiume in piena travolge gli argini. Vide il comandante Templare calare la sua spada verso suo padre, affondandola nel suo torace sino all'elsa. «Padre! No!» urlò Lafka mentre veniva colta dalla disperazione e dalla furia. Vide il corpo del genitore cadere esanime a terra, in una pozza di sangue. Imbracciò lo spadone con un urlo furente, ma si trattenne dal lanciarsi all'attacco, sapendo che non sarebbe servito a nulla. «Non cedete terreno!» urlò invece, mentre lacrime cocenti scendevano dai suoi occhi ripercorrendo i tatuaggi sul suo volto. 
Trattenne una strenua e ben misera resistenza alle porte del tempio, mentre alcuni dei suoi uomini entrati nel tempio cercavano di far fuggire i sacerdoti ed alcuni dei loro tomi da un passaggio segreto nel tempio.

I Templari riuscirono a rompere anche le loro ultime difese, ed anziché ucciderli tutti sul posto, decisero di catturarne alcuni per portarli via. Mentre veniva portata via con gli altri, riuscì a liberarsi e fuggire, rendendosi conto che anche se fosse stata armata, non avrebbe potuto fare un gran che contro di loro.
La sua fu una disperata fuga fra le montagne, ma riuscì a liberarsi dei suoi inseguitori solamente grazie alla conoscenza che aveva del territorio. Sapeva dove nascondersi, di che radici nutrirsi per sopravvivere, quali sentieri nascosti prendere e quali evitare.
I suoi inseguitori erano sempre ad un passo da lei, ma Lafka riusciva sempre a scappargli sotto il naso. Con fatica e pazienza riuscì ad organizzarsi, a recuperare equipaggiamento, continuando a vivere nel remoto territorio che la circondava. Trovò un vecchio capanno di caccia, che negli anni a seguire divenne la sua nuova casa.
Spesso i membri della chiesa andavano a bussare alla sua porta, costringendola a battersi per la sua sopravvivenza senza mai avere un attimo di pace.
Il sangue degli sconfitti portò i membri della chiesa a farsi più previdenti, muovendo un attacco decisivo contro di lei per metterla finalmente ai ceppi. Morirono quattro templari per catturarla, e solo quando si reggeva a malapena in piedi altrettanti poterono catturarla.
Mentre la riportavano a Heaven, a malapena riconosceva il villaggio nel quale era cresciuta. Dopo l'epurazione da parte dei Templari, il villaggio era stato bruciato e raso al suolo. Sulle sue ceneri, avevano poi ricostruito. Sulla cenere non solo delle case, ma anche dei morti. Sulle ceneri della sua famiglia. Mentre quelle della Divina Andraste venivano lasciate intatte nel suo Tempio.
L'alto drago non era risorto. Le loro preghiere non erano servite a nulla.
Venne imprigionata nei sotterranei della chiesa di Heaven, dove rimase reclusa per tanto tempo da smettere di tener conto dei giorni, ignara di cosa accadeva all'esterno.
Quando lo scoppio del Tempio delle Sacre Ceneri diede inizio alla nuova guerra, Lafka non potè assistervi. Il boato fu tale che perfino le fondamenta della chiesa tremarono, ma chiusa nei sotterranei non aveva modo di vedere cosa stesse accadendo.
Nella confusione per qualche giorno non scese nessuno nei sotterranei. Non ricevette cibo ne acqua, ma la mancanza non fece soffrire più di tanto il suo fisico temprato da anni di combattimento e disciplina. 
Quando finalmente giunse qualcuno, la guardarono come un animale esotico, stupiti ed ignari della sua presenza. Gli uomini che arrivarono alla sua cella erano volti sconosciuti, così come le divise che portavano. Al centro del pettorale vi era un occhio nel quale era impiantata una spada.
Passi pesanti preannunciavano l'arrivo di un uomo in armatura completa. La guerriera si alzò dalla branda cenciosa, accostandosi alle sbarre.
L'uomo aveva tutta l'aria di essere un generale od un capitano. Dal modo in cui si muoveva, tenendo una mano sull'elsa della spada al fodero, dava l'impressione di essere avvezzo al comando. L'armatura era adornata da pelliccia rossa sulle spalle, i capelli biondi ordinatamente tirati indietro, un ombra di barba incolta sulle guance e gli occhi color nocciola.
«E così lei è la Cultista che è scappata alla giustizia della Chiesa per tanti anni?» domandò verso uno degli esploratori al suo seguito, il quale teneva un rotolo di pergamena in mano che svolse, leggendo velocemente. «Si Capitano Cullen. Lei è...»
«Sono in grado di parlare per me stessa.» Lafka interruppe bruscamente l'uomo con voce rauca ed un mezzo sorriso per nulla amichevole. Questo si zittì, mentre Cullen si avvicinava alle sbarre per osservarla più da vicino.
«Abbiamo sentito parlare di voi Cultisti e dei vostri metodi di combattimento. Distruttori, come i Nevarriani. Avete dato parecchio filo da torcere persino ai Templari, e non è cosa da poco.» Lafka alzò appena le spalle fingendo indifferenza «Un Templare che mi fa i complimenti per come ho ammazzato i suoi compagni è una novità. Si, lo vedo chi sei, si capisce da come ti muovi. Tutto impettito con una scopa su per il culo.» commentò senza velare l'oscenità, alla fine della frase. Cullen non reagì mentre uno degli uomini alle sue spalle trattenne a stento una risata.
«A cosa devo questa visita in pompa magna? La Chiesa vi ha mandato qui come plotone di esecuzione?» Cullen scosse il capo «Non comanda più la chiesa qui.» allo sguardo interdetto della guerriera, lui le riassunse velocemente gli ultimi eventi. Lafka ascoltò in silenzio, sbiancando nel rendersi conto di quanto fosse grave la situazione.
«Cosa ha a che fare tutto questo come me?»
«Hai una scelta.» le rispose facendo un vago gesto all'angusto spazio che li circondava. «Puoi rimanere qui dentro, a marcire fra quattro mura. Oppure, puoi combattere.» la Distruttrice assottigliò lo sguardo «Combattere per l'Inquisizione?» domandò. Un tono di voce distratto, una domanda quasi rivolta più a se stessa che a lui.
«So riconoscere un bravo guerriero quando lo vedo. E noi ne abbiamo bisogno ora. Abbiamo bisogno che l'Inquisizione cresca per riportare l'ordine. Giura fedeltà all'Inquisizione, lavora per noi e ti restituiremo la tua vita.» Lafka si passò una mano fra i sporchi capelli biondi. «Puoi giurarmi che non avete niente a che fare con la Chiesa?»
«Hai la mia parola.» le rispose chinando appena il busto ponendosi la mano sul cuore. «Allora accetto.»

Lafka riprese fiato dopo il racconto, sebbene avesse risparmiato loro molti dettagli sulla sua vita. D'altronde, la domanda principale era come fosse entrata nell'Inquisizione. «Soddisfatto?» chiese ad Hall, per poi far scivolare lo sguardo sulla maga, che durante la storia aveva deciso di darle la sua attenzione. «Si lo sono!» disse energicamente l'uomo, dandosi una pacca sulla coscia destra enfatizzando la sua esclamazione. «Ed ora, mie care signore. Immagino che vorrete sapere come io, sono finito nell'Inquisizione...»
«Veramente no.» replicò la maga inarcando un sopracciglio, suscitando così l'ilarità della guerriera. 
L'arciere assunse un espressione ferita, arricciando all'esterno il labbro inferiore mimando la faccia di un infante piangente. «Mia cara, così mi ferisci.» Veeta fece un mezzo sorriso, un bagliore di vita passò nei suoi occhi vitrei. «Potrei farlo davvero.» replicò con tono talmente fermo, che Hall per un momento non capì se scherzasse o fosse seria. «Ma c'è una cosa che mi incuriosisce.» disse dopo una pausa di qualche secondo. «Visto che sei così attratto dal suono della tua voce da non riuscire a stare più di qualche minuto in silenzio...» per lo più parlava sempre lui «...potresti parlarci di cosa ti è capitato fra i Dalish. Hai accennato al fatto di esser stato allevato fra loro, no? Una cosa insolita.» 
Sul volto dell'uomo si dipinse un sorriso amaro, mentre annuiva alla donna. Lo sguardo di Veeta non potè fare a meno di sfiorare le orecchie mutilate dell'uomo, probabilmente una delle sue principali curiosità in merito.
Hall sospirò teatralmente, facendo poi un ampio gesto con la mano sinistra, come a voler accompagnare le sue prime parole. «Dobbiamo andare molti anni addietro quindi. Quand'ero solamente un bambino.»

Note d'autore:
Grazie per aver letto il secondo capitolo! Come anticipato, molte cose non sono accurate
(sebbene abbia apportato un paio di modifiche per delle inesattezze troppo grandi che mi infastidivano rileggendolo).
Spero vi sia piaciuto, se avete critiche, consigli o semplicemente volete dire la vostra non siate timidi! Qualsiasi tipo di recensione è sempre bene accetta!

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Capitolo 3
*** Shemlen ***


I due elfi si muovevano silenziosamente nel sottobosco, tanta era la loro bravura che a fatica i loro piedi scalzi smuovevano il terreno. I loro grandi ed attenti occhi sondavano la zona in cerca di prede, mentre imbracciavano i loro archi. La freccia incoccata, ma la corda tenuta morbida per non sprecare le forze. I cacciatori erano molto simili fra loro per via della stratta parentela che li legava, fratello e sorella. Entrambi avevano la pelle olivastra, ed i capelli lunghi color mogano acconciati in una stretta treccia, mentre i lati del capo erano rasati. Sul volto di tutti e due era presente il Vallaslin, letteralmente scritta col sangue, tatuaggi fatti seguendo un antica arte elfica. Come tutti i tatuaggi Dalish aveva un significato preciso. Il loro era dedicato ad Andruil, la loro dea della caccia. Ma mentre i grandi occhi di Farron erano verdi scuri, quelli di Fanora erano di un singolare color miele.
Poco distante da loro sentirono un ramo spezzarsi, ed i due bloccarono il loro avanzare. Rimasero in ascolto alcuni minuti, prima di scivolare dietro ad un folto cespuglio che li celava alla vista.
La giornata era calda, il vento caldo piacevole sulla pelle. Nell'aria quell'odore caratteristico di sempreverde e terra, misto ai fiori selvatici.
Fanora scostò delicatamente alcuni rami del cespuglio, assottigliando lo sguardo per trovare la fronte del rumore.
Nella radura, una splendida cerva brucava l'erba in tranquillità. Il suo vello ambrato pareva risplendere sotto ai raggi dorati del sole, che filtravano dalle fronde degli alberi sopra di loro. Non sembrava essersi accorta della loro presenza. I cacciatori Dalish sapevano muoversi nella natura come uno spettro farebbe fra le ombre.
I fratelli si guardarono, e bastò un semplice cenno del capo perchè si accordassero. Tesero silenziosamente le corde dei loro archi, mentre sussurravano una preghiera in elfico ad Andruil.
Ma la quiete del bosco venne improvvisamente interrotta da delle urla, accompagnate dal rumore assordante di zoccoli che pestano con forza sul terreno.
La cerva, spaventata da quella improvvisa confusione, scappò via lasciando i cacciatori a bocca asciutta. Farron non tentò nemmeno di tacere un imprecazione in elfico, mentre la sorella lo costringeva a terra per nascondersi.
«Che succede?» sibilò fra i denti, anch'ella irritata per l'esito infausto della caccia. «Non ne ho idea. La Guardiana aveva detto che questa zona non è frequentata. Non c'è nemmeno un sentiero!» i rumori si fecero sempre più assordanti, finchè la fonte d'essi non schizzò proprio di fronte ai loro occhi.
Prima passò davanti loro una donna a cavallo, i suoi vestiti erano umili, e stringeva un fagotto di stracci fra le braccia, alla sella vi erano agganciate altre borse.
Subito dopo, tre uomini sulle rispettive cavalcature che la inseguivano a tutta velocità, spronando i cavalli a dare il meglio di loro.
«Oh no!» esclamò di colpo Fanora sollevandosi di scatto «Si stanno dirigendo verso l'accampamento! Dobbiamo fermarli prima che lo trovino!» I fratelli partirono all'inseguimento, utilizzando scorciatoie che il bosco svela solo a coloro che ritiene degni. Ma per quante strade potessero conoscere, non sarebbero mai stati all'altezza della velocità raggiunta dai cavalli.
L'uomo intesta al gruppo, armato di balestra, sollevò l'arma per poi premerne il grilletto. Il dardo partì con brutale violenza, andando a conficcarsi nella schiena della donna che urlò di dolore, cadendo da cavallo.
Farron si fermò, ponendo un ginocchio a terra, mentre teneva l'altro sollevato. Tese la corda dell'arco, portandosi la mano destra all'altezza dell'orecchio. Non lo puntò dritto contro la schiena dell'uomo che cavalcava di fronte a lui, non ce l'avrebbe mai fatta. Ma puntò verso il cielo.
La freccia lasciò l'arco con un sibilo, fendendo l'aria lungo il suo percorso per poi scendere con letale precisione e trafiggere il collo dell'uomo. Questo urlò, per poi gorgogliare il suo dolore mentre il sangue schizzava copiosamente dalle sue labbra, facendo voltare gli altri due uomini. «Ma che succede!?» esclamò il primo, voltando il cavallo per vedere il compagno cadere rovinosamente a terra.
Assottigliò lo sguardo, sino a vedere Farron in lontananza, da solo. L'elfo si rimise in piedi, ed incoccò un altra freccia, tenendo però ancora la corda morbida e l'arma puntata verso il terreno. «In questo bosco risiedono i Dalish! Andatevene!» urlò in loro direzione, mentre i due si avvicinavano coi cavalli al trotto, sogghignando.
«Ma tu guarda un orecchie a punta!» esclamò il primo uomo, appellandosi a lui con spregio «Cosa pensi di fare con quell'arco? Mh?»
«Questo.» rispose per poi sollevare di scatto l'arco e puntarlo contro il torace del secondo uomo. Egli deviò la freccia con la lama della spada, per un colpo di fortuna. Farron ne incoccò un altra, ma i due uomini erano già partiti al galoppo verso di lui.
Un ombra sembrò scendere dal cielo per piombare diritta sul primo uomo. Fanora, si era arrampicata sulla cima di uno degli alberi, aveva riposto l'arco dietro alla sua schiena, per poi estrarre i pugnali che portava in vita. Non appena l'uomo era passato sotto al suo albero, era saltata giù come un falco sulla preda. Caddero entrambi a terra mentre l'elfa gli piantava un pugnale al fianco ed uno al collo. L'altro uomo frenò il cavallo per lo stupore, ma prima che potesse fare qualcosa, Farron riuscì a centrargli il petto con la freccia.
Guardarono l'erba macchiarsi del loro sangue, mentre riponevano le armi. «La caccia è andata male.» brontolò Fanora, mentre il fratello le sorrideva. «Ma no! Guarda, abbiamo preso tre maiali!» Farron la spinse amichevolmente, ridacchiando assieme a lei.
Iniziarono a levare le selle di dosso ai cavalli, per poi lasciarli liberi di andare dove volessero. Mentre Farron setacciava i corpi in cerca di qualcosa che potrebbe esser stato riutilizzato, Fanora si avvicinò al corpo della donna più in là. Vide un debole movimento, e con espressione dubbiosa si chinò su di lei. «Farron! Vieni qui!» scostò il mantello della donna, solo per scoprire che lei era effettivamente morta. Ma attaccato al suo corpo, c'era ancora il fagotto di stracci, dal quale sbucavano due piccole manine che stringevano la veste della donna. Sfasciò velocemente le logore coperte, e sgranò gli occhi. «Che c'è? È ancora viva?» domandò l'altro con voce insofferente, per poi bloccare i propri passi quando vide cosa stringeva fra le braccia Fanora.
Era un bambino di circa tre anni, capelli corti e castani, gli occhi pieni di lacrime. Guardava i due elfi spaventato, ma non stava piangendo, stringeva solamente i pugnetti; tremando.
I due fratelli si guardarono in silenzio, per poi fissare il bambino. «Lascialo lì.» disse improvvisamente Farron, facendo sgranare gli occhi a Fanora «Sei impazzito?! È soltanto un bambino!»
«Uno shemlen!» quasi sputò la parola Farron, arricciando il labbro con disgusto. «Un bambino! Questo è un bambino, Farron! Non possiamo lasciarlo qui così! Morirebbe di sicuro!»
«Pensi che gli shemlen accoglierebbero un bambino Elvhen se lo trovassero!? No! Perchè dovremmo farlo noi!?»
«Perchè noi siamo meglio di loro.» rispose Fanora lapidaria, fissando dritto negli occhi il fratello e stringendo a se il bambino in un istintivo gesto protettivo.
Si osservarono in silenzio, sfidandosi con lo sguardo per alcuni attimi che parvero eterni.
«Mamma?» la voce flebile del bambino ruppe quel silenzio senza preavviso, mentre guardava il corpo della madre. «Mamma?» chiese ancora, per poi guardare l'elfa che lo teneva in braccio. Fanora sospirò, scuotendo il capo. «Dobbiamo portarlo dalla Guardiana. Hai un nome piccolo?» rimase in silenzio un momento, prima di risponderle. «Hall»

«Hall! Torna subito qui!» urlò l'anziana elfa arrabbiata, mentre il ragazzino correva via ridendo ad alta voce. Stretto fra le mani il suo bottino di guerra. Del pane caldo, appena sfornato. Mentre l'elfa urlava alle sue spalle, lui scappava a zig zag fra l'accampamento, diretto verso i margini del bosco.
Rallentò solo quando le urla della donna divennero appena un eco, ed intravide delle figure piccole e snelle fra gli alberi. «C'è l'ho fatta!» esclamò trionfante sventolando il pane davanti al naso degli altri bambini elfici. «L'ho preso!» i bambini gli si avvicinarono, iniziando a passarsi il pane per spezzettarlo in modo da dividerlo fra loro. «La vecchia Ewen ti ha scoperto però. L'abbiamo sentita urlare fino a qui.» commentò abbastanza seccata una bambina elfica mora. «Però non mi ha preso!» esclamò il ragazzino, fiero di se stesso. Uno degli elfi rise, dandogli una lieve spinta alla spalla «Sei proprio uno shemlen!» Hall sorrise, ma poi abbassò gli occhi, sapendo che sotto sotto non era un complimento. Shemlen era la parola che gli elfi utilizzavano per indicare gli umani, letteralmente significava “figli veloci”.
Hall viveva con i Dalish già da sei anni ormai. Elfi nomadi divisi in vari e distinti clan, che avevano rifiutato di finire in schiavitù o servitù nelle città umane come molti dei loro fratelli e dimenticare la loro cultura. Viaggiavano fra le terre, in cerca degli antichi manufatti e conoscenze del loro passato, oramai dimenticato. Disprezzavano gli esseri umani, tutti i loro guai erano iniziati con loro, e con loro continuavano.
Quando Fanora e Farron lo avevano portato all'accampamento, la loro Guardiana e gli altri anziani si erano riuniti per decidere cosa farne del bambino. Dopo lunghe discussioni, avevano optato perchè rimanesse con loro, sinchè non avesse raggiunto la maggior età e fosse stato in grado di cavarsela da solo. Dopodichè, se ne sarebbe andato.
Hall venne così cresciuto con gli altri bambini. Gli vennero insegnate le tecniche di sopravvivenza e di caccia. Ma non gli era permesso di presenziare alle lezioni di storia e lingua elfica. Cosa che faceva puntualmente di nascosto.
Faceva di tutto per cercare d'integrarsi, ma persino i bambini talvolta erano diffidenti o schivi nei suoi confronti. Gli elfi più vecchi quasi lo evitavano, a meno che non fosse strettamente necessario.
Viveva assieme a Fanora, l'elfa che lo aveva salvato decidendo di portarlo al campo anziché abbandonarlo come le aveva suggerito il fratello. Fanora era buona con lui, lo trattava come trattava tutti gli altri bambini elfici, senza fare troppe distinzioni. Suo fratello Farron, invece, non lo sfiorava nemmeno con lo sguardo. Lo disprezzava profondamente, e talvolta faticava a parlare anche con la sorella, ritenendo che si fosse in qualche modo “sporcata”.
Era difficile per Hall, ma quando tornava alla sua tenda, sapeva che Fanora era sempre lì per lui, con una buona parola ed un sorriso dolce che faceva risplendere i suoi occhi color miele.
Ma più cresceva, più i problemi crescevano con lui. Quando iniziò a spuntagli la prima barba, dovette imparare a farsela da solo. Agli elfi non cresce,e lui faceva sempre attenzione ad essere sempre perfettamente glabro, nel tentativo di assomigliare di più agli altri. Alcuni dei suoi problemi venivano creati proprio dai suoi coetanei. Specialmente quando Hall, all'età di quattordici anni, mise gli occhi su Yllia. Lei aveva la sua età, erano cresciuti assieme, e lei non era fa quelli che lo disprezzavano. Aveva lunghi capelli color del sole, ed i suoi grandi occhi erano di un azzurro così chiaro che verteva al lilla. I suoi tentativi di parlarle erano sempre più impacciati e poco pratici, ma lei gli sorrideva sempre. Quel giorno le aveva portato un mazzo di fiori di campo, lei l'aveva accettato con un lieve rossore sulle gote, prima di tornare dai suoi genitori.

«Per i Numi, che schifo!» esclamò una voce alle spalle di Hall, facendolo girare di colpo. Era un altro dei ragazzini elfici, che lo stava guardando con le labbra arricciate per il disgusto. «Non penserai davvero che Yllia potrebbe anche solo pensare di guardarti, vero Shemlen
«Mi chiamo Hall» replicò stringendo i pugni in un impeto di rabbia repressa. Quell'elfo faceva sempre di tutto per provocarlo. Ma Hall aveva imparato a controllarsi. Anche perchè, in un modo o nell'altro, facevano sempre ricadere la colpa su di lui.
«Shemlen va più che bene.» replicò l'elfo avvicinandoglisi con aria di sfida negli occhi ed un sorriso strafottente sulle labbra. «Non sarai mai, alla sua altezza. Guardati, non sarai mai uno di noi, per quanto tu ti possa sforzare di provarci. E Yllia non si sporcherebbe mai con te.» Hall era paonazzo per la rabbia, e decise non non star più ad ascoltare le angherie del coetaneo. Lo superò dandogli una forte spallata facendolo barcollare, mentre andava a chiudersi nella sua tenda.
Si rannicchiò in un angolino, mentre affilava con una pietra da cote il pugnale che usava per radersi con gesti secchi ed irosi. Per la mente gli passarono tutte le occhiatacce che aveva sempre ricevuto, i dispregiativi che gli venivano detti in faccia o sussurrati alle spalle quando credevano non sentisse.
Sollevò lo sguardo, puntandolo nel piccolo specchio posato poco distante da lui. Lasciò perdere il coltello, allungando le mani per prenderlo, e portarlo a se specchiandosi.
Pelle olivastra per via di tutto il tempo passato all'esterno, i capelli castani tagliati spartanamente, gli occhi erano umani perciò non particolarmente grandi come quelli elfici. Era più alto degli altri elfi della sua età, e la sua costituzione lo rendeva più massiccio degli altri, anche se non all'eccesso.
Osservò scrupolosamente il proprio riflesso, la mascella che già iniziava a squadrarsi, il naso dalla forma ben decisa e delineata, le orecchie dal padiglione largo ed ovale. Sospirò pesantemente, soffermandosi con gli occhi proprio su quelle. Le orecchie degli elfi erano lunghe ed affusolate e terminavano in una punta sottile. Al confronto, le sue sembravano rozze.
Lui voleva essere più come loro. Voleva che non lo pensassero solo come uno shemlen. D'altronde, era cresciuto con loro...lo sguardo si abbasso, e gli occhi incontrarono il coltello che aveva lasciato poco prima. Lo guardò distrattamente, mentre un idea folle iniziava a farsi strada in lui. Assottigliò lo sguardo mentre esse prendeva forma nella sua mente, sino a che l'idea non divenne una decisione. Prese il coltello fra le mani, deglutendo sonoramente.

Fanora rientrò nella tenda canticchiando, com'era solita fare ogni volta che la caccia aveva dato buoni risultati. Nella destra infatti stringeva due grasse lepri per le orecchie. «Hall! Sei qui? Andruil ha favorito la nostra battuta di caccia! Guarda cos'ho...» s'interruppe quando lo vide accovacciato in terra, le mani ed il viso sporchi di sangue. «Hall!» urlò spaventata, lasciando cadere a terra la cacciagione per accorrere al suo fianco. Lo prese per le spalle, posandosi in grembo il suo capo. «Per i Numi cosa ti è successo!?» esclamò mentre lo osservava. Le si mozzò il fiato in gola quando vide le sue orecchie. Il padiglione era stato rudemente tagliato, ed ora le sue orecchie erano una tragica parodia delle orecchie elfiche. Stava per chiedergli chi fosse stato, quando si accorse che in mano stringeva ancora il suo pugnale sporco di sangue. «Oh Hall...perchè?» gli chiese con gli occhi lucidi. Il ragazzo, provato dal dolore, la guardò con tacite lacrime che gli rigavano le guance. «Perchè non voglio essere solamente uno shemlen
La Guardiana lo curò, facendolo rimettere in sesto. Ma la situazione per Hall non andò migliorando, a causa della sua automutilazione, invece, lo spregio di alcuni sembrava essere aumentato. I genitori di Yllia le impedirono definitivamente di stare sola con lui, quando l'elfo antipatico fece loro la spia riguardo i sentimenti di Hall per lei.
Hall infine si rassegnò, capendo che non avrebbe potuta fare nulla per persuadere i Dalish.
Infine, arrivò il giorno per il quale era stato preparato sin da quando era stato in grado di imbracciare un arco.
Lo accompagnarono al margine del bosco, ma a salutarlo andarono solo Fanora, la Guardiana, qualche elfo.
«Il momento è giunto.» gli disse la Guardiana, mentre gli dava una sacca con dentro alcune provviste. «Fa tesoro di ciò che hai appreso con noi.» Hall chinò il capo con rispetto e gratitudine «Ma'Serannas Guardiana. Per...tutto ciò che avete potuto darmi.» gli elfi lo salutarono con pacche sulle spalle e mezzi sorrisi, mentre Fanora lo guardava in disparte, torcendosi le dita. Lei e la Guardiana si scambiarono uno sguardo, e l'elfa anziana annuì comprensiva. «Immagino vorrete salutarvi. Vi lasciamo soli, dunque. Dareth shiral, Hall.»
« Dareth shiral, Guardiana.» la salutò, osservandola allontanarsi con gli altri mentre si metteva la sacca in spalla.
Quando rimasero soli, Fanora lasciò andare il suo contegno, per andare ad abbracciarlo. A stento reprimeva i singhiozzi, ed Hall poteva sentirla tremare impercettibilmente fra le sue braccia. Lui ricambiò il suo abbraccio, stringendola con un pesante sospiro. «Starò bene. Non avrei potuto avere insegnante migliore. Vedrai che starò bene.» cercò di rassicurarla, mentre lei faceva un paio di passi indietro. Dopo tutti quegli anni alcune rughe ne avevano iniziato a scavare il volto, ma la sua bellezza non ne aveva risentito. «Tu sei forte Hall. Lo so. I Numi lo sanno, e ti proteggeranno in tutta la loro infinita saggezza. Ecco, tieni.» si portò le mani al collo, e si sfilò dal capo uno splendido amuleto intagliato a mano nel legno. Hall sbarrò gli occhi mentre glielo porgeva, sapendo quanto fosse importante per lei. Lo aveva intagliato suo padre, l'ultimo regalo che le aveva fatto. «Fanora, non posso accettare. Non questo. Io non...» Fanora lo zittì, allungando le mani e mettendosi in punta di piedi per farglielo indossare. «Il simbolo di Mythal, protettrice e madre degli dei. Voglio che tu lo tenga, per non dimenticarmi.» Hall sorrise, scuotendo il capo. «Non potrei mai. Sei stata...» s'interruppe qualche istante, quasi temendo di pronunciare quelle parole «...sei stata una madre per me.» Fanora gli sorrise, nonostante le lacrime che ne rigavano il volto. Gli pose le mani sulle guance, guardandolo negli occhi. «Sei cresciuto così tanto. Io sono davvero fiera di te.» lo abbracciò ancora, stringendolo come quando lo cullava da bambino. «Addio, lethallin.» gli sussurrò all'orecchio, sentendolo per un attimo irrigidirsi per lo stupore. Era un termine che i Dalish usavano solamente per coloro che facevano parte del loro clan, o per chi si fosse conquistato il diritto di avere tanta fiducia da essere ritenuto tale. Ed in sedici anni, era la prima vota che si sentiva chiamare così. «Addio, lethallan.» le rispose a sua volta, per poi staccarsi da lei, e sorriderle per l'ultima volta.

«Non ho più incontrato il clan.» spiegò l'uomo alle due compagne di viaggio, mentre passava loro ciotole con dentro il pranzo. Lafka notò la cordicella che aveva al collo, sparire dentro alla sua armatura. «Poi, qualche anno dopo, quando ho visto gli squarci aperti nel cielo; ho deciso d'investigare. L'Inquisizione mi è sembrata la mia chance migliore, così mi sono unito a loro. Potrò fare qualcosa di buono qui, con le cose che ho imparato.» ci fu qualche istante di silenzio, mentre Hall iniziò a mangiare tranquillamente.
Si erano fermati a ridosso di un fiume per accamparsi, facendo una pausa dal lungo cavalcare.
«Beh, tocca a te ora.» disse la guerriera, rivolgendosi a Veeta. La maga parve quasi cadere dalle nuvole. Smise di contemplare il paesaggio per voltare il capo e guardare i due con un sopracciglio sollevato. «Come, prego?» Hall rise, sputacchiando inavvertitamente un po' di stufato. «Beh, tu sai la nostra storia, ma noi non sappiamo la tua..»
«Chi ti dice che abbia voglia di parlarne?» domandò elusiva, sbocconcellando un pezzo di pane. «Fammi indovinare. Questa è la parte dove scopriamo che sei una maga associale, gelida e che non ha mai avuto amici in vita sua?» domandò Lafka con tono di voce sarcastico. «Perchè? Perchè sono silenziosa? Io avevo compagni di studio, amicizie, un marito e...»
«Cosa!?» la interruppe quasi urlando Hall, mentre la guerriera per poco non si strozzava con lo stufato. «Tu sei sposata!?» Veeta assunse un espressione offesa, irrigidendo le spalle e la schiena. Sembrò diventare più alta di qualche centimetro mentre osservava il cacciatore dall'alto verso il basso, le narici leggermente dilatate. «Posso sapere cosa c'è di tanto sconvolgente?» il cacciatore ridacchiò imbarazzato, grattandosi il capo «Beh sai, non è che hai proprio l'aria di una...ehm...di una che...» era strano vederlo senza parole, contando che di solito dalla sua bocca ne uscivano anche troppe. «Di una che..? Che cosa?» lo incalzò con tono di voce rigido. Fortunatamente intervenne Lafka, salvando Hall per un pelo. «Non credo che Hall volesse offenderti. Solo che sei così introversa...non per giudicare. Siamo solo...curiosi.» Lo sguardo di Veeta si rabbuiò mentre abbassava appena il capo guardandoli di sottecchi «E la curiosità...fu proprio la mia rovina.»

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Capitolo 4
*** Mors tua vita mea ***


L'insistente bussare alla porta fece capire a Veeta d'essere più in ritardo del previsto. Sbuffò sonoramente, e mise giù la spazzola dal manico in avorio finemente lavorato. Osservò il proprio riflesso nello specchio posto al di sopra del mobiletto portacipria, mentre si dava un ultima occhiata. Aveva da poco raggiunto la maggior età, la pelle era rosea, le guance leggermente imporporate denotavano la sua salute. I vivaci occhi azzurri splendevano sotto i raggi solari mattutini che penetravano dalla finestra, i lunghi e lucidi capelli neri legati in una morbida treccia che le ricadeva davanti la spalla destra. Gli occhi erano messi in risalto dal trucco color ardesia, le labbra carnose erano state invece colorate con un acceso rosso cremisi.
Si alzò, prendendo la semplice staffa magica poggiata contro la parete. Indossava una veste dalla gonna lunga color cobalto che le nascondeva i piedi, stretta in vita da un corsetto di semplice cuoio con lacci neri. Le maniche lunghe e bianche le scivolavano morbidamente lungo le braccia, decorate con alcuni arabeschi dello stesso colore della gonna, che si ripetevano sulla parte della veste a sbuffo che le copriva il seno.
Andò ad aprire la porta, e si trovò davanti la faccia preoccupata del suo compagno di studi. «Questa volta, il mentore ci ammazzerà.» disse con tono greve, afferrandola per un braccio e trascinandola per i corridoi mentre lei sbuffava sollevando gli occhi verso il cielo. «Se le lezioni non iniziassero ad orari così assurdi, non saremmo mai in ritardo.»
«Non lo saremmo mai se tu non passassi quasi un ora ad imbellettarti davanti allo specchio!» la rimbeccò secco.
Mentre attraversavano di corsa i corridoi, Veeta fece scivolare lo sguardo sui templari disposti lungo i corridoi ad intervalli regolari,
Secoli prima, la profetessa Andraste disse “La magia esiste per servire gli uomini, non per governarli”, intendeva che essa doveva essere utilizzata per aiutare, anziché dominare. Ma la Chiesa distorse le sue parole nel Canto della Luce, il loro testo sacro, trasformando i maghi in dei mostri che la gente temeva; e trasformando il loro dono in una maledizione agli occhi di tutti.
Perciò non appena un bambino mostrava dei segni di magia, veniva condotto alla Torre del Circolo, dove rimaneva per sempre, a parte per rare eccezioni.
In ogni paese vi era una torre gestita dalla Chiesa, dove i maghi erano tenuti costantemente sotto controllo dai templari. Oltre ad essere il braccio armato della Chiesa erano incaricati di tenere sotto controllo i maghi. Potevano farlo per via del loro rigido addestramento che consentiva loro di imparare alcune abilità che permettevano di bloccare le abilità dei maghi. Oltretutto, alcuni erano incaricati di dare la caccia agli eretici.
Veeta e Fermin, il suo amico, entrarono nella stanza dedicata agli studi degli apprendisti già popolata dai loro compagni e dall'insegnante. Quest'ultimo si zittì nel bel mezzo della spiegazione, mentre i compagni si voltarono verso la porta non appena essa venne spalancata. «Ma bene.» disse l'uomo con voce severa «Vedo che infine avete deciso di onorarci con la vostra presenza.» alcuni compagni risero, altri fecero dei cenni di saluto. «Ci scu...»
«Risparmiatemi le vostre scuse, e sedetevi!» tagliò corto con un gesto secco della mano destra.
La vita del maghi all'interno del Circolo era abbastanza ripetitiva. Continuavi a studiare come apprendista, finchè nel bel mezzo della notte non ti trascinavano fuori dal tuo letto per sottoporti al Tormento. Il Tormento era la prova che veniva fatta ai maghi che dimostravano di essere abili e capaci dopo anni di studio. Esso consisteva nel far andare l'anima del mago nell'Oblio. Esso era il luogo dove umani ed elfi andavano quando sognavano. Ed era la dimora di terribili demoni e spiriti benevoli. Ma per un mago era terribilmente rischioso, in quanto le capacità arcane provenivano dal loro diretto legame con esso. Se il mago perdeva la concentrazione, o cedeva ai sussurri dei demoni veniva posseduto e diveniva un abominio. Un orribile mostro che avrebbe portato con se solo morte o distruzione. Durante la prova il mago avrebbe dovuto affrontare proprio un demone. Se veniva sconfitto, cedeva alle sue lusinghe o ci metteva troppo tempo, i templari erano autorizzati ad ucciderlo sul posto. Se lo superavano, venivano promossi ad Incantatori. Era una prova segreta quanto barbarica, della quale non sapevano nulla fino al giorno predestinato.
Veeta venne sottoposta al suo Tormento quella stessa notte. Riuscì a passarlo con successo e facilità, lasciando un segno indelebile nella memoria dei maghi e templari presenti. Fermin lo passò un paio d'anni dopo, ed i due amici poterono riunirsi nei livelli superiori della torre.
I loro progressi andavano a gonfie vele, e dopo tre anni, la loro monotona vita stava per avere una svolta.

Veeta stava leggendo in completa tranquillità nella biblioteca, quando un sonoro trambusto attirò la sua attenzione come quella di molti altri. Alzò il capo e vide l'amico correrle in contro rischiando di travolgere chi si trovasse sul suo cammino. «Veeta! Finalmente ti ho trovata!» Era paonazzo per la corsa, ed aveva il fiato corto. «Cosa c'è di così urgente?» gli chiese con uno sguardo divertito «Loro sono qui.» le disse mentre riprendeva fiato, facendola accigliare. «Chi?» Fermin le sorrise come chi la sa lunga. « I Mortalitasi.»
Veeta si alzò di scatto, mentre l'amico ridacchiava. Senza aggiungere altro, le fece strada portandola verso l'ingresso. Quand'erano a pochi metri da esso, Fermin la strattonò per un braccio facendola nascondere dietro ad una colonna.
Secondo le credenze Nevarriane, quando l'anima di un morto attraversa L'Oblio, diventava uno spirito. Basandosi su questo, i Mortalitasi credevano che mummificare i corpi provvedesse ad un passaggio sicuro per gli spiriti dal corpo all'Oblio. L'ordine studiava con interesse la morte, ed i suoi membri erano famosi per i loro esperimenti di negromanzia. Nonostante i Mortalitasi fossero rispettati all'interno del regno, i maghi al di fuori di Nevarra li temevano e credevano che loro in realtà seguissero un culto della morte e facessero macabri riti all'interno della Grand Necropolis; l'immensa città dove si ergevano i mausolei.
Il Primo Incantatore stava accogliendo alla torre un piccolo gruppo di cinque Mortalitasi, che indossavano preziosi vesti scure e portavano staffe di mirabile fattura. Quello che si stava rivolgendo direttamente al Primo incantatore era un anziano uomo di colore, il volto scavato da profonde rughe e la testa completamente calva.
Ma lo sguardo di Veeta venne catturato da uno dei suoi compagni in particolare. Un uomo di circa quarant'anni, la pelle ambrata con appena qualche segno del tempo, i tratti del volto scolpiti e decisi con la mascella scolpita. I suoi occhi sembravano due fredde perle grigie, i capelli legati in una bassa coda di cavallo erano castani, cosi come la barba che andava di circa un centimetro oltre il mento.
L'uomo parve quasi sentire il suo sguardo fisso su di se, e voltò il capo con espressione corrucciata. Ma quando si voltò, non vide nulla.
Lei e Fermin si erano allontanati appena in tempo. «Non posso crederci!» disse lei eccitata, mentre camminavano velocemente per non farsi beccare a spiare. «Cosa ci fanno qui? Credevo che fossero una gilda di...nobili! Perchè vengono al Circolo?» Fermin alzò le spalle con noncuranza, non condividendo il suo entusiasmo «C'è chi dice che a volte vengano al Circolo per vedere se ci siano dei validi apprendisti. Ma non li avevo mai visti prima.»
«Oh Fermin è incredibile! Sono così....così...»
«Morti.» replicò l'amico con tono di voce greve, mentre lei gli dava una spinta «Piantala di scherzare!»
«Sono serio! Li hai guardati bene? Avevano tutti gli occhi così spenti! Secondo me passare troppo tempo con i morti porta via loro un po' di vita. Non riesco a capire come tu possa ammirarli così tanto...» la maga sospirò sonoramente, alzando gli occhi al cielo. «Non dire scempiaggini. Dobbiamo scoprire cosa ci fanno qui.»
La notizia si sparse in fretta per la torre, e presto molti studenti iniziarono a fare capolino dalle loro stanze o dai corridoi, per riuscire almeno a vedere il famoso gruppo di maghi. I templari contenevano gli studenti, ma quasi non si avvicinavano ai Mortalitasi. La loro gilda aveva influenza anche a livello politico, e spesso alcuni nobili prendevano qualcuno di loro come consigliere personale.
Qualche giorno dopo, Veeta stava andando in biblioteca, stretti al petto tre libri che doveva rimettere al loro posto. Era quasi passata una settimana, ma i Mortalitasi sembravano non avere un obbiettivo preciso. O perlomeno, non lo avevano svelato. Mentre si aggirava fra gli scaffali, vide alcuni dei Mortalitasi riuniti attorno ad uno dei tavoli della biblioteca, parlottare a bassa voce. Lei si nascose dietro ad una delle librerie, assottigliando lo sguardo. Vi era l'uomo anziano dalla pelle scura, un'elfa dai capelli argentei ed un ragazzo dagli occhi verdi.
«Sono così interessanti?» domandò una voce bassa e leggermente roca alle sue spalle, facendola sobbalzare. Si voltò di scatto ad occhi sgranati, le guance rosse dalla vergogna per essersi fatta sorprendere a spiare. Era l'uomo che aveva notato il giorno del loro arrivo. La ragazza sentì il volto avvampare mentre si appoggiava con la schiena agli scaffali. «M-mi dispiace!» riuscì a dire dopo qualche secondo d'esitazione. «Non avevo intenzione di disturbare. Ero solamente...» lasciò la frase in sospeso «Curiosa?» le disse con sguardo serio, ma tono di voce divertito.
Dei passi pesanti preannunciarono l'arrivo di un templare, che fece capolino fra gli scaffali mentre controllava la zona. «C'è qualche problema?» chiese bruscamente l'uomo, guardando malamente Veeta. «Vi era stato espressamente detto di non disturbare i Mortalitasi!» la maga rizzò la schiena per ricomporsi, ma prima che potesse dire qualcosa, intervenne il mago. Le posò delicatamente una mano sulla spalla attirandola a se, facendo un mezzo sorriso al templare. «Non vi è alcuna ragione di allarmarsi. Non mi ha disturbato, stiamo conversando. Potete andare.» il templare si soffermò con lo sguardo su di loro qualche istante, per poi scrollare le spalle e riprendere la ronda. Veeta lo guardò allontanarsi stupita. Era la prima volta che vedeva un templare prendere ordini da un mago. Lui le lasciò la spalla, per poi porsi davanti a lei facendo un piccolo inchino «Il mio nome è Isaac.» le si presentò facendole un sorriso che per un attimo accese gli occhi grigi. «Posso sapere il vostro nome, curiosa Incantatrice?» Lei sorrise, sorprendendosi nel sentirsi un po' impacciata. «Veeta. Mi chiamo Veeta.»

Dopo circa una settimana dal loro incontro, lei ed una manciata dei più promettenti Incantatori furono convocati nell'ufficio del Primo Incantatore. Assieme a lui vi era il gruppo di Mortalitasi, il cui capo era al suo fianco, mentre gli altri si tenevano in disparte. Vedendo come fossero tutti molto seri, Veeta non fece nemmeno un cenno di saluto ad Isaac, lei sapeva come comportarsi. Fermin non era con lei, ed a sentire lui ne era davvero felice.
Venne detto loro che sarebbero rimasti sotto lo sguardo vigile dei membri della gilda, li avrebbero attentamente studiati per vedere se vi fosse qualcuno degno di unirsi ai loro ranghi.
Veeta venne smistata assieme ad un ragazzo più grande di lei con Isaac. Lei sentì torcersi lo stomaco mentre uscivano in sua compagnia dalla stanza, anche se non avrebbe davvero saputo dirne il perchè.
Cominciò a comprendere nelle settimane successive, quando ogni volta che lo vedeva o parlava con lui sentiva il suo battito cardiaco accelerare all'impazzata e le guance talvolta arrossire impercettibilmente. Eppure, anche se quand'erano soli tentava un approccio diverso, lui era sempre moderatamente distaccato ma costantemente gentile.
Veeta era frustata per questo. Sapeva di essere una bella ragazza, una donna. Altri spesso cedevano al battito delle sue ciglia od ai suoi ipnotici sorrisi. Ma lui non pareva venirne minimamente sfiorato. Eppure sembrava stare volentieri in compagnia della maga. Sia per lo studio sia per parlare di argomenti più mondani.
Veeta faceva costantemente progressi, e non mancava di notare un lampo di ammirazione o stupore negli occhi di Isaac, come in quelli di altri Mortalitasi che occasionalmente osservavano anche gli altri Incantatori, senza mai dire una parola al riguardo.
Ma quando i due mesi passarono, e vennero nuovamente riconvocati nell'ufficio del Primo Incantatore, la maga ebbe una brutta notizia. Solo due di loro vennero ritenuti idonei. Ma Veeta non mostrò alcuna emozione sul suo volto quando ebbe la notizia. Si limitò a star lì con gli altri, finchè non li congedarono. Si permise di perdere le staffe solo quando potè rientrare nella sua stanza.
«MALEDIZIONE!» urlò mentre il vaso si schiantava contro il muro finendo in un infinità di schegge che schizzarono per la stanza. Non era mai stata così furiosa e delusa in vita sua. Eppure doveva trattenersi per non fare troppa confusione, od i templari sarebbero arrivati di corsa ed avrebbero trovato una scusa come un altra per punirla.
S'irrigidì sul posto, stringendo le mani a pugno e chiudendo gli occhi. Mentre cercava di dominare la rabbia respirando regolarmente, sentì l'aria crepitare attorno a se. L'energia elettrica la avvolse come un pesante mantello, rendendole i capelli elettrostatici mentre cercava di dominare la sua rabbia. Persino un eccesso di emozioni era pericoloso per un mago, un demone avrebbe potuto approfittarne, come ad esempio un demone dell'ira.
Qualcuno bussò leggermente alla sua porta, facendole socchiudere gli occhi e guardando l'uscio con astio. Mai come allora avrebbe voluto buttare giù quella dannatissima porta e scappare dal Circolo. Ma sarebbe diventata un eretica, ed i templari le avrebbero dato la caccia per poi ucciderla. O peggio...
Lasciò che l'elettricità defluisse lentamente dal suo corpo, fino a sparire. Prese un respiro profondo mentre bussavano ancora, voltandosi verso lo specchio per sistemarsi velocemente i capelli.
Si voltò verso la porta, assunse una postura rigida e si portò le mani in grembo. «Avanti.» disse fermamente.
Ma quando la porta si aprì, non riuscì a nascondere la sorpresa nei suoi occhi.
Il mago richiuse la porta dietro di se senza fare rumore. Guardò accigliato i cocci sparsi sul pavimento, per poi passare a lei «Veeta...»
«Isaac.» rispose con voce più fredda di quanto avesse previsto, ma non si scompose. «Siete venuto a salutare?» domandò sollevando appena il mento. «Non partiremo che fra qualche giorno.»
«Allora perchè siete qui? Avete bisogno di qualcosa?» fece un sorriso caustico, mentre un lieve sbuffo le fuoriusciva dalle labbra. «Anche se proprio non posso immaginare cosa possiate volere dalla vostra...indegna allieva.» non riuscì a trattenere un tono di voce tagliente. Isaac le si avvicinò, parlandole con tono di voce calmo e misurato. «Lo so che sei amareggiata. Lo posso capire ma...»
«Ma, non sono di famiglia nobile.» concluse incrociando le braccia sotto al seno. Lui rimase in silenzio «Ma Jonhatan e Maia si. Lui si è bruciato i pantaloni alla prova, mentre lei a fatica evoca un famiglio.» sbuffò seccata, per poi dargli le spalle e dirigersi alla finestra. Guardò Nevarra stendersi all'orizzonte, ma la guardò con sdegno.
«Un mago dovrebbe essere testato per il suo talento, non per il suo lignaggio. È davvero vergognoso.» senti i passi di Isaac mentre le si avvicinava, poi le pose una mano sulla spalla, facendola voltare di scatto. «Che cosa vuoi che ti dica? Che sei più brava, però non hai il sangue blu, ma marrone come la fogna dalla quale provieni?» l'impatto della mano di Veeta contro la sua guancia fu così violento e fulmineo da fargli voltare di lato il capo, mentre lei rimase col braccio sollevato. La maga aveva perso la pazienza, gli parlò come se le sue parole potessero secernere veleno «Se pensate che far parte dei Mortalitasi vi dia il diritto di...» Veeta non potè finire la frase. Isaac la portò le mani al volto, spingendola contro la parete. Spinse le labbra sulle sue con foga, lei sentiva la sua barba pizzicarle piacevolmente le guance. Veeta al principio si bloccò, non aspettandosi una reazione simile. Ma poi lei l'afferrò per i fianchi attirandolo a se. Fu un bacio lungo, mosso da un ardente passione carnale che sbocciava nel centro del petto per poi diramarsi lungo l'intero corpo.
«Non ti lascerò qui.» le sussurrò più tardi, mentre le scostava una ciocca di capelli dal volto, avvolti fra le candide lenzuola con la luce morente del sole che a malapena illuminava la stanza. Veeta appoggiò il capo sul suo petto, sospirando pesantemente «Non puoi andare contro i tuoi superiori. E se io uscirò di qui...sarò un eretica. I templari mi daranno la caccia.» Isaac sorrise come non l'aveva mai visto far prima «Non potranno, senza il tuo filatterio.»
Il filatterio era una fiala di sangue che veniva prelevata dai maghi non appena entravano nel Circolo, per poi essere incantato. Essi venivano poi custoditi, più comunemente, in un magazzino sorvegliato all'interno della torre. Se fossero fuggiti, i templari l'avrebbero usato come se fosse una bussola che portava dritto dritto a loro.
Veeta si accigliò «Il mio...come pensi di fare?» gli chiese «Ti prenderò un po' di sangue, per rintracciare il tuo filatterio. Quando domani andremo a prendere quelli di Jonhatan e Maia, sottrarrò anche il tuo, e lo distruggerò.» lei era accigliata «E poi cosa?»
«E poi vivremo liberi.» aggiunse Isaac in un sussurro.
Negli anni a seguire, la sparizione di Veeta sollevò molti dubbi, specialmente perchè con lei sparì anche il suo filatterio. Qualcuno pensò che avesse ricevuto aiuto da un templare che aveva soggiogato, ma rimasero solo delle voci. Isaac le insegnò le capacità dei negromanti, nonostante fosse categoricamente vietato dal regolamento dei Mortalitasi divulgare i loro segreti. Dopo quasi due anni di vita clandestina assieme, si sposarono. Fu un matrimonio celebrato in gran segreto, nella cappella c'erano solamente loro e la sacerdotessa.
Ma i segreti non possono durare per sempre.
Isaac fu scoperto dalla gilda così come Veeta. Ma non contattarono i templari, decisero che si sarebbero fatti giustizia da soli per il doppio tradimento del loro compagno.

«Non ce la faremo mai.» disse Veeta ansante, mentre si nascondevano fra delle antiche rovine mezze sepolte dalla sabbia del deserto per sfuggire ai loro aguzzini. Isaac le strinse la mano per cercare di confortarla, il sorriso sbieco ed il volto rigato dal sangue per vie di una ferita alla testa. «Sempre positiva, eh tesoro?» lei sbuffò seccata mentre si azzardava a guardare oltre i mattoni sbeccati. I loro inseguitori alzavano un gran polverone mentre galoppavano in loro direzione «Siamo in inferiorità numerica di tre a uno! Dannazione!» vide Isaac estrarre qualcosa dalla cinta che aveva in vita, mettendo a fuoco riconobbe uno dei pugnali seghettati che venivano usati nei rituali della mummificazione. Se possibile, la donna sbiancò ancor più di quanto non fosse impallidita per via del contatto profondo che aveva sostenuto con la morte negli ultimi sei anni. «Cosa vuoi fare?» gli chiese con un filo di voce. «Non lascerò che ti prendano.»
«Isaac non puoi farlo! Se non possiamo fuggire, moriremo combattendo. Ma non lascerò che tu ti sacrifichi!» le sorrise dolcemente, posandole una mano insanguinata sulla guancia e carezzandole la gota con il pollice. «Sei sempre stata ostinata.» l'attirò a se baciandola, un contatto che significava tutto ciò che non avevano più tempo per dirsi. «Ti amo» le sussurrò all'orecchio prima di alzarsi «Isaac...» l'uomo uscì dal nascondiglio, ed iniziò a correre in campo aperto, frapponendosi fra i nemici sempre più vicini e le rovine dov'era nascosta sua moglie.
Brandendo il pugnale, con la forza della disperazione si aprì le vene ed una litania proibita usciva dalle sue labbra.
In un attimo fu circondato dal proprio sangue che gli vorticava attorno, mentre degli squarci si aprivano permettendo ad alcuni demoni di entrare nel loro mondo.
«Isaac!» urlò Veeta con la disperazione e l'orrore nella voce, mentre guardava l'uomo che amava darsi in pasto ai demoni pur di salvarla.

«Non potei fare altro che fuggire.» disse la maga, pensando a quanto fosse cambiata da allora, ed a quante cose fossero cambiate nel mondo circostante. «Dopo qualche mese sentii della ribellione a Kirkwall, e della rottura fra la Chiesa ed alcuni dei suoi organi, ed all'insorgere di antiche. Come l'Inquisizione, alla quale mi unii. Sotto un certo punto di vista, l'Inquisizione mi ha salvata. Mi ha tolto dal pericolo costante di venir riconosciuta come eretica.» sorrise tristemente, sollevando il capo per guardarli.
«Perciò...non sei proprio sposata.» disse Hall accigliato «Cioè, è morto. Più che altro, sei vedo...» si prese un potente pugno allo stomaco da Lafka, che aveva accostato il cavallo al suo, gli fece mancare il fiato costringendolo a piegarsi su se stesso nel tentativo di riprendere a respirare. Veeta non fece una piega, limitandosi a rigirarsi la fede attorno al dito. «Isaac non è sparito. Quando morirò, verrò mummificata assieme a lui, ed i nostri spiriti si riuniranno nell'Oblio.» l'ombra di un dubbio passò sugli occhi della guerriera «Avevo capito che fossero i Mortalitasi ad occuparsi della mummificazioni. Non credevo mummificassero anche i loro traditori.» Veeta abbassò lo sguardo, sospirando pesantemente. «Infatti, lo feci io.» i due rimasero in silenzio, e la maga capì di doversi spiegare «Non potevo lasciarlo lì, a marcire nel deserto. Tornai dopo qualche giorno, e lo portai a Grand Necropolis. Conosco ogni centimetro di quella città, e sapevo come non farmi sorprendere. Non potevo portarlo nella sua cripta di famiglia, così andai in uno di quei mausolei di famiglie il cui nome era stato perso negli anni. Solo una persona sa dov'è questo posto, e che quando morirò dovrò riposare accanto a mio marito.» Hall si massaggiava il ventre pensieroso «Qualcuno dell'inquisizione?» Veeta scosse il capo «Fermin.» concluse Lafka dopo un paio di secondi di riflessione. La maga annuì «Dopo la morte di Isaac siamo riusciti a tenerci in contatto, anche se all'inizio era pericoloso sia per lui che per me.»
«C'è una cosa che non ho capito.» iniziò Hall «Solo una?» lo rimbeccò la guerriera con tono di voce sarcastico, mentre lui la guardava di sottecchi «Se ci teneva tanto a te, perchè quel giorno ti ha detto una cosa del genere? Riguardo il colore dl tuo sangue intendo.» inaspettatamente, Veeta si portò la destra alle labbra, soffocando una lieve risata «Glielo chiesi anche io, lui mi disse che era per curiosità. Voleva vedere se alla fine avrei tenuto la testa bassa o se mi sarei ribellata a dispetto del suo rango.» Lafka le fece un sorriso malizioso «Deve essergli piaciuta molto la tua reazione, a giudicare da cos'è successo dopo...» Veeta arrossì impercettibilmente, scuotendo poi il capo con un sospiro trasognante «Già. Ma ora basta. Guardate.» sollevò il braccio, mostrando loro il profilo di una città che si stagliava all'orizzonte. «Siamo arrivati. Hunter Fell.»

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